giovedì 4 gennaio 2018

Pechino scommette sulla ricostruzione siriana


Mentre la guerra in Siria è lungi dall'essere conclusa, la conclamata sconfitta dello Stato Islamico "su tutto il territorio" siriano ha già incoraggiato il governo di Damasco a vagheggiare il processo di ricostruzione nazionale. Ed è soprattutto a Est che guarda il regime di Bashar al Assad nella sua speranzosa ricerca di capitali esteri. Lo ha dichiarato senza mezzi termini l'ambasciatore siriano a Pechino Imad Moustapha, che in una recente intervista rilasciata al quotidiano hongkonghese South China Morning Post ha spiegato come Damasco sia pronto non soltanto a barattare petrolio in cambio di prestiti ma persino a utilizzare lo yuan negli scambi commerciali tra le due parti, venendo incontro alle ambizioni internazionali della valuta cinese determinata ad arginare la supremazia del dollaro nelle transazioni internazionali. "Vogliamo siano paesi come la Russia, la Cina, l'India e l'Iran e prendere parte alla ricostruzione", non quelli che hanno partecipato alla guerra (leggi: Stati Uniti e Turchia), ha spiegato Moustapha decantando l'arrivo di delegazioni cinesi "quasi giornalmente": "alcune di loro hanno già firmato diversi contratti mentre altre sono in procinto di firmarli".

Secondo la Banca mondiale, i costi della ricostruzione nazionale ammontano a circa 200 miliardi di dollari, una somma onerosa persino per la seconda economia mondiale, ormai stabilizzata su indici di crescita più contenuti rispetto alle due cifre macinate fino a qualche anno fa. Ma gli interessi in gioco potrebbero facilmente dare "sapore" ad un'area del mondo in passato considerata poco appetibile. Mentre fino al 2009 il commercio bilaterale ammontava ad appena 2 miliardi di dollari - con l'export siriano a coprire solo l'1% del totale - secondo quanto affermato tempo fa da Moustapha alla stampa russa, ormai il gigante asiatico conta per l'80% degli scambi tra la Siria e l’estero. Proprio come un tempo, il flusso commerciale si conferma prevalentemente "unilaterale" perché, se il paese mediorientale continua a rifornirsi di "Made in China" in tutte le sue declinazioni (dai generatori elettrici al materiale da costruzione fino ai macchinari industriali), la guerra ha fatto precipitare verticalmente la produzione dell'asset più apprezzato da Pechino: il petrolio. Sebbene la statale National Petroleum Corporation conservi ancora importanti quote di partecipazione nelle due maggiori compagnie petrolifere locali la Syrian Petroleum Company e la Al-Furat Petroleum Company, la portata modesta dell'output siriano (pari allo 0,2% dell'industria petrolifera globale anche in tempi più prosperi) ha già dirottato le aspirazioni cinesi verso l'Iran e lidi più sicuri.

Si tratta di briciole al cospetto dei progetti a nove zeri vagheggiati nei palazzi del potere in piazza Tian'anmen. Secondo una prospettiva macro, infatti, il tassello siriano si incastra perfettamente nel ciclopico progetto della One Belt One Road, che traendo ispirazione dall'antica Via della Seta, fin dall'autunno 2013, si propone di rilanciare gli scambi economici attraverso l'Eurasia grazie alla costruzione di infrastrutture energetiche, reti elettriche, ferrovie, strade e rapporti "people-to-people". Come secoli fa Palmira e Aleppo controllavano le rotte carovaniere dall'Estremo Oriente verso il Levante, così tutt'oggi la Siria si ritrova catapultata nel grande disegno cinese che lo scorso anno ha permesso a Pechino di diventare l'investitore numero uno nel mondo arabo con 29,5 miliardi di dollari spesi. L’anello di congiunzione tra il Regno di Mezzo e il vicino Occidente sorge 250 chilometri da Shanghai, nella cittadina di Yiwu, nota alle cronache nostrane per la produzione di addobbi natalizi ma ugualmente meritevole di menzione per la sua natura cosmopolita e gli oltre 4.000 permessi di residenza temporanea rilasciati nel 2016 a commercianti e imprenditori provenienti da teatri di guerra mediorientali come Iraq, Yemen e Siria.

Si dice che con "una cintura una via" il gigante asiatico punti ad esportare la sua sovraccapacità industriale. Ebbene, c'è chi, come Damasco, è ben contento di ospitarne una parte incurante delle gravose ricadute della formula “oil-for-loans”, già dolorosamente testata dal Venezuela. E' il premio per aver perseguito la pacificazione del paese arabo trincerandosi dietro il principio della “non interferenza negli affari degli altri paesi”. Memore dei danni provocati dall'interventismo occidentale in Iraq e Libia, Pechino ha sempre sostenuto la necessità di perseguire la risoluzione della crisi siriana con “mezzi politici”. Non a caso, la Cina è stata l'unica nazione asiatica - insieme a Indonesia e Malaysia - a non aver chiuso le proprie rappresentanze diplomatiche nel paese, nonostante la guerra. Anzi. Nel 2016 ha persino nominato un inviato speciale con l’incarico di oliare il processo di pace con un po’ di “saggezza cinese”. Intervistato dall’emittente Phoenix TV, la scorsa primavera Assad ha definito il potere di veto esercitato da Cina e Russia in sede Onu per bloccare l’imposizione di nuove sanzioni economiche contro il governo siriano un fattore stabilizzante e un “bilanciamento politico” contro l’Occidente.

Eppure, anche la prudenza cinese comincia a vacillare davanti alla minaccia del terrorismo islamico. In barba alle tradizionali remore, nell’aprile del 2016 il gigante asiatico ha spedito a Damasco circa 300 consulenti militari per addestrare e fornire assistenza all’esercito siriano, mentre secondo fonti del quotidiano saudita New Khaleej il ministero della Difesa cinese sarebbe in procinto di dispiegare nel paese due unità speciali (Tigers of Siberia e Night Tigers) appositamente per combattere i jihadisti. A preoccupare Pechino è la presenza in territorio siriano di circa 5000 militanti di etnia uigura, la minoranza islamica e turcofona che vive prevalentemente nella regione autonoma dello Xinjiang, nel Far West cinese, e che dall’inizio del secolo scorso avanza richieste indipendentiste in virtù delle sue tipicità linguistiche e culturale ma che Pechino tenta forzatamente di sinizzare. Voci di un’adesione uigura (attraverso la Turchia) ai vari movimenti jihadisti – da al-Qaeda e al-Nusra fino all’Isis – si rincorrono ormai da tempo. Lo scorso gennaio, il Pentagono ha annunciato di aver ucciso un centinaio di combattenti di al-Qaeda durante un attacco aereo sulla Siria. Tra loro ci sarebbe Abu Omar al-Turkistani, uno dei quattro leader più importanti del Turkistan Islamic Movement, la sigla dietro cui si cela il movimento etnonazionalista uiguro inserita nella lista delle organizzazioni terroristiche dal Regno Unito nel 2016. Chissà che prima o poi Pechino non decida di fare fuori gli altri tre


(Pubblicato su Left)

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