lunedì 31 marzo 2014
La schiavitù del XXI secolo
Le leggi di Hong Kong sulla tratta di esseri umani sono del tutto inadeguate. Sopratutto considerando che l'isola costituisce uno dei principali hub in cui si riversa il traffico di tutto il quadrante asiatico. E' quanto emerge da un rapporto realizzato dal Justice Centre Hong Kong e Liberty Asia, ripreso dal 'South China Morning Post' la scorsa settimana. Il Governo della regione amministrativa speciale -avvertono le due associazioni- non può continuare a coprirsi dietro un dito, dichiarando guerra alla prostituzione ma ostinandosi ad ignorare il ben più ampio problema dei lavori forzati, che, secondo gli attivisti, ricorre nel 68% degli episodi riguardanti la tratta di essere umani.
A differenza di Taiwan e Macao, il Porto Profumato mancando di una legislazione organica contro il traffico di essere umani, si limita a gestire il problema con alcune disposizioni frammentarie. Che, tuttavia, secondo il Portavoce del Security Bureau, prevederebbero pene "sufficientemente stringenti", con un periodo di detenzione massimo che va dai dieci anni all'ergastolo. Lo scorso settembre il Dipartimento di Giustizia ha emendato il Prosecution Code per definire "i casi di sfruttamento umano", andando ad abbracciare le attività che sviliscono il valore della vita umana, compreso lo sfruttamento sessuale, il lavoro forzato, la servitù domestica, la servitù per debiti e il prelievo di organi. Eppure, come sottolinea il recente studio, l'assenza di una legislazione fa sì che, nonostante l'ultimo aggiornamento, la trattazione di questi casi all'interno di un tribunale rimanga cosa molto improbabile. (Segue su L'Indro)
giovedì 27 marzo 2014
Alibaba si dà alla finanza
"E' il nostro momento più difficile e allo stesso tempo il più glorioso." Così Jack Ma, fondatore e presidente del colosso dell'e-commerce cinese Alibaba, ha commentato la decisione delle 'big four' (Construction Bank of China, Commerce Bank of China, Agricultural Bank of China e Bank of China) di abbassare i limiti sull'ammontare delle singole transazioni che i depositanti possono effettuare attraverso veicoli di pagamento per terzi. Una mossa che sembra andare a contrastare la popolarità crescente di Alipay, la piattaforma di pagamento online lanciata da Alibaba nel 2004 che lo scorso anno ha gestito operazioni di mobile payment di oltre 100 milioni di utenti, per un totale di 900 miliardi di yuan (circa 104 miliardi di euro). Più di quanto totalizzato complessivamente dalle statunitensi PayPal e Square Inc.
Alcuni giorni fa la PBoC (People's Bank of China) aveva rilasciato una prima bozza di regolamento per limitare i singoli acquisti attraverso servizi di pagamento online non statali a 5000 yuan, fissando un tetto mensile massimo di 10.000 yuan, oltre a vietare alle società internet transazioni offline e limitare i trasferimenti da conti bancari a conti gestiti da società.
L'annuncio della banca centrale era stato anticipato da altre manovre volte a ridimensionare i pagamenti elettronici. Ufficialmente per 'motivi di sicurezza', PBoC aveva già provveduto a bloccare temporaneamente le transazioni online attraverso la scannerizzazione di codice a barre da dispositivi di telefonia cellulare. Oltre a vietare alle banche di creare conti correnti per piattaforme di pagamento che fanno capo a Alibaba e Tencent, terza società internet più grande al mondo dopo Google e Amazon. Il tutto giusto pochi giorni prima che la creatura di Jack Ma e China Citic Bank (link) procedessero all'emissione di circa un milione di nuove carte di credito con codice QR (link).
In Cina le transazioni mobile e online hanno registrato una crescita frenetica negli ultimi anni. Secondo dati di iReserach Consulting Group, nel 2013 il mercato dei pagamenti digitali si è espanso del 47%, raggiungendo quota 5,37 trilioni di yuan. Pare che soltanto nel mese di gennaio i money market fund gestiti da Alibaba, Tencent e Baidu abbiano 'sottratto' un trilione di yuan ai depositi bancari tradizionali. Le società internet forniscono questi servizi finanziari in partnership con società d'investimento; Alibaba per esempio ha fatto richiesta per investire in una quota del 51% di Tianhong Asset Management Ltd (link), oggi sulla buona strada per diventare il più grande gestore di fondi comuni d'investimento della Cina continentale.
Da qui la necessità di fare ordine. «Se le società internet vengono autorizzate a fare ciò che vogliono, le probabilità che qualcosa vada storto saranno molto alte e l'impatto sulla stabilità dei mercati finanziari maggiore» aveva affermato Yang Kaisheng, ex Presidente dell'Industrial and Commercial Bank of China. (Segue sull'L'Indro)
mercoledì 26 marzo 2014
I 'tre conflitti' di pechino
La Cina è già in guerra aperta contro gli Stati Uniti, me nessuno se ne è ancora accorto. E' quanto emerge da un report realizzato per Office of Net Assessment, think tank del Pentagono creato nel 1973 sotto la presidenza di Nixon, in cui si fa luce su 'tre conflitti' con i quali Pechino starebbe cercando di respingere l'avanzata statunitense nell'Asia Pacifico. Si tratterebbe di una "tecnologia militare asimmetrica", surrogato dei comuni conflitti con armi nucleari e convenzionali, condotta a livello psicologico, mediatico e legale.
Il rapporto di 565 pagine sottolinea come Washington manchi di strumenti efficaci per contrastare una guerra non-cinetica. Sopratutto data l'assenza di corsi, presso le accademie, volti ad istruire i futuri leader militari sulle modalità di una guerra non convenzionale. Secondo lo studio, la Cina avrebbe già fatto uso dei 'tre conflitti' in diverse occasioni, come nella sventata collisione tra una nave della marina americana e un'imbarcazione cinese; nell'incidente che nel 2001 ha visto coinvolti un aereo di sorveglianza Usa EP-3E e un jet cinese; così come nella crescente aggressività di Pechino nel Mar Cinese Meridionale e Orientale.
La nuova strategia si basa sull'idea che nell'era dell'informazione moderna le armi nucleari si rivelano inutilizzabili, mentre una guerra convenzionale sarebbe troppo problematica per raggiungere obiettivi politici. Il Pentagono considera che, nell'ottica cinese, il principale deterrente alla presenza americana nella regione sia costituito dal possesso di armi ad alta tecnologia quali missili anti-satelliti e altri dispositivi utilizzabili in una guerra cibernetica. Pressione psicologica, uso dei media e attacchi legali hanno lo scopo di mettere in discussione la legittimità della presenza di Washington nell'area.
(Fonte: Free Beacon -che per la cronaca, è sito americano di taglio conservatore)
Proteste e democrazia
«Questa non è la democrazia che vogliamo in Cina». Weibo, il Twitter cinese, tituba davanti al movimento 'occupy il Parlamento' promosso dagli studenti taiwanesi per bloccare l'approvazione di un discusso accordo commerciale tra Pechino e Taipei. Le immagini delle proteste rimbalzate sull'internet cinese hanno spinto certuni ad accostare i fatti taiwanesi agli anni bui, quando nella Repubblica popolare imperversavano le Guardie Rosse. E' bastato vedere alcuni ragazzi vandalizzare la targa sul Parlamento per riportare alla mente le barbarie della Rivoluzione Culturale, di recente parzialmente 'riabilitata' dal lungo oblio è sempre più spesso argomento di discussione tra i cinesi giovani e meno giovani.
Ma prima brevemente i fatti: nella serata di martedì alcune centinaia di studenti ha preso d'assedio l'edifico in cui si riunisce lo Yuan Legislativo, l'organo legislativo di cui il Partito nazionalista (Guomindang) detiene la maggioranza relativa dei seggi. Il casus belli risiede in un patto sui servizi, follow-up dell'Accordo di cooperazione economica siglato dai due Paesi nel 2010, che stabilisce l'apertura agli investimenti taiwanesi di oltre 80 comparti del settore terziario, mentre la Repubblica di Cina dovrebbe facilitare l'ingresso di capitali taiwanesi in 64 ambiti, tra i quali il commercio, le telecomunicazioni, la sanità, la finanza e i trasporti. Ma che -stando a quanto lamenta l'opposizione taiwanese- finirebbe per penalizzare le piccole aziende e strangolare l'economia dell'isola, legata a doppio filo alla mainland da quando la presidenza è stata assunta dal nazionalista Ma Ying-jeou nel 2008. Per il Guomindang l'accordo favorirà la creazione di 12mila posti di lavoro e costituirebbe, tra le altre cose, una precondizione necessaria affinché Taiwan possa entrare a far parte della controversa Trans-Pacific Partnership, il progetto di liberalizzazione degli scambi commerciali tra Paesi aderenti sponsorizzato da Barack Obama. (Segue su L'Indro)
lunedì 24 marzo 2014
Donne e università in Cina
Moglie, sorella, madre. La figura della donna in Cina è stata per secoli adombrata da una presenza maschile che, incombendo al suo fianco, ne ha limitato il ruolo nella società. E' stato così almeno da quando il Confucianesimo è diventato 'religione di Stato', sotto la dinastia Han (206 a.C.- 220 d.C.). Tuttavia, sebbene il ritratto dominante sia quello di una donna succube e oppressa, il mondo femminile cinese si è allo stesso tempo distinto grazie ad alcune eccezioni. Donne di potere che si sono affermate in svariati settori, dalle guerriere Mu Lan e Liang Hongyu, alle scrittrici e studiose Ban Zhao, Xie Daoyu, Li Qingzhao e Ding Ling. Ciò che le accomuna è l'aver sfidato il sistema vigente imposto dalla società patriarcale tradizionale, rimasta in piedi fino alla metà del Ventesimo secolo, quando per far fronte all'imperialismo Occidentale la classe dirigente socialista decise di aggregare tutte le forze del Paese. Anche quelle 'rosa'. Ragione per la quale in Cina le donne hanno maggiori possibilità rispetto che in altri paesi asiatici, come Taiwan, Corea del Sud o addirittura Giappone, posto dall'Economist in coda alla lista quanto ad apertura.
In passato in Cina insegnare era sempre stata una prerogativa maschile, ricollegata alla figura del maestro per eccellenza Confucio, ideatore di quel sistema gerarchico che ha relegato la donna dietro le mura di casa. Soltanto all'inizio del 1900 gli istituti hanno aperto le loro porte ad educatrici femmine. Un processo velocizzatosi dopo il 1949 con il coinvolgimento del gentil sesso nel processo di ricostruzione nazionale lanciato da Mao Zedong. Una ricostruzione socialista, così come eminentemente socialista è la vittoria raggiunta nel percorso di emancipazione con la nascita della Nuova Cina.
Di pari passo con l'avanzata di quote rose negli atenei cinesi, le donne si sono ritrovate invischiate in una rete di sfide sociali, esacerbate dal processo di internazionalizzazione e di rapido, ma ineguale, sviluppo economico che ha portato la Cina in prima linea nello scacchiere globale. A partire dal 1999 il settore educativo del Regno di Mezzo ha visto una crescita senza precedenti, sia in termini di iscrizioni, che di espansione di strutture universitarie. L'aumento del personale accademico si è tradotto inevitabilmente in una maggiore partecipazione femminile, ma allo stesso tempo nella richiesta di credenziali superiori e di una formazione migliore.
Come sottolinea Kathleen Weiler, studiosa ed educatrice femminista, in questo contesto le insegnanti donne non si sono limitate ad opere all'interno di un sistema, ma hanno cercato di "negoziare, combattere e dare un loro senso" alla professione.
Eppure il mondo universitario cinese continua a mantenere una struttura gerarchica che penalizza fortemente il ruolo femminile. Tanto più che gli stereotipi tradizionali -che assimilano la donna virtuosa a una brava moglie- continuano a godere di una certa popolarità anche tra i giovani. Quante desiderano proseguire una carriera accademica si trovano a dover conciliare la loro posizione professionale con il proprio ruolo all'interno della famiglia. D'altronde, la donna cinese si può avvalere di un aiuto in più grazie alla struttura capillare della famiglia allargata; una caratteristica che distingue la società tradizionale cinese, ma che tutt'oggi permette alle giovani coppie di godere di una maggiore libertà rispetto a quanto avviene in Occidente. Secondo una ricerca condotta su 40 paesi, soltanto in Turchia le donne che scelgono la carriera universitaria possono contare sul sostegno della famiglia estesa similarmente a quanto avviene in Cina.
Nonostante anche nell'ex Impero Celeste, come in altre parti del mondo, più donne che uomini accedano all'università, tuttavia scegliere la facoltà non è cosa facile. E' opinione diffusa nel Regno di Mezzo che alcuni mestieri non siano sufficientemente femminili. La China Mining and Technology University, nella provincia del Jiangsu, offre un allettante corso per ingeneri minerari che assicura un impiego alla fine del percorso di laurea. Peccato che il programma sia aperto soltanto agli studenti maschi.
"Il diritto del lavoro cinese suggerisce che il settore minerario non sia adatto alle donne, per questo chiediamo alle studentesse di astenersi dal fare domanda" spiega alla BBC Shu Jisen, professore del dipartimento. Le donne sono troppo deboli per portare l'attrezzatura da lavoro e in caso di pericolo non sono in grado di corre veloci quanto gli uomini. Per tutelare la sicurezza delle donne il Ministero dell'Istruzione cinese vieta alle ragazze di studiare alcune materie, dall'ingegneria dei tunnel a quella della navigazione, come stabilito da un'università di Dalian, città portuale del Nord-Est. Mesi di navigazione sono duri da sopportare per una donna, scandisce un funzionario addetto alle ammissioni universitarie.
Anche la Beijing's People's Police University sconsiglia l'ingresso alle ragazze, limitando le quote rosa al 10-15% del totale degli studenti. La maggior parte della gente in Cina si aspetta di trovare un poliziotto maschio, quindi è inutile permettere loro di accedere alla facoltà, dato che tanto una volta laureate non troverebbero lavoro. Si tratta di professioni che comporterebbero un dispendio di energie inutile; meglio utilizzarle per altro, chiosa Shu.
Per molti si tratta di discriminazione bella e buona. Così alcune attiviste hanno deciso di protestare contro le restrizioni, rasandosi la testa in occasione di alcune manifestazioni andate in scena nel 2012 in varie parti del paese. " Se siamo in grado di sopportare le condizioni di lavoro ci deve venire permesso di farlo" spiega una studentessa.
Non è la prima volta che il mondo universitario 'rosa' insorge. Negli ultimi anni molti atenei per cercare di mantenere un equilibrio di genere all'interno dei corsi hanno abbassato il punteggio di ammissione per i maschi, lasciando fuori studentesse con votazioni più alte. Anche se in teoria, come scrive Xinhua, il Ministero dell'Istruzione (sulla carta) non permette un rapporto fisso tra i sessi per le iscrizioni universitarie, eccetto che per "le accademie militari e gli istituti per la difesa nazionale e la sicurezza pubblica".
(Scritto per Uno sguardo al femminile)
venerdì 21 marzo 2014
Pingtan, una Patria comune per le 'due Cine'
E' ciò che più si avvicina all'idea di una Cina unificata. L'isola di Pingtan, sorge lungo la costa della provincia cinese del Fujian, appena un centinaio di chilometri da Hsinchu, città nel nord di Taiwan; la propaggine della Repubblica popolare più vicina all'ex Formosa. Nel 2009 Pechino decise di renderla una 'terra comune', nell'ambito di un progetto sperimentale volto ad incoraggiare la cooperazione economica con i cugini di Taipei. La prima 'joint venture' su suolo cinese da quando, nel 1949, Taiwan divenne la sede del governo nazionalista in fuga dopo la sconfitta inferta dalle truppe comuniste di Mao Zedong. I simbolismi non mancano. Il piano, non a caso, è stato inaugurato formalmente in occasione del Ventesimo anniversario del celebre viaggio a Sud compiuto da Deng Xiaoping nel 1992, che decretò una svolta nel processo di modernizzazione economica della Cina post-Tian'anmen.
Lo scopo conclamato è quello di attrarre investimenti e know how da oltre lo Stretto, permettendo ai taiwanesi di servire il governo locale (in cambio di stipendi ben più generosi rispetto agli standard cinesi), guidare automobili con targa taiwanese, e fare acquisti tanto in Renminbi (la valuta cinese) quanto in dollari di Taiwan, rendendo Pingtan un'area duty free con un sistema di tassazione agevolata. Pechino non bada a spese: come stabilito nell'ambito del Dodicesimo Piano Quinquennale (2011-2015), l'isola beneficerà di un budget di 250 miliardi di yuan (40 miliardi di dollari). Nei primi tre anni il nuovo parco industriale aveva attratto 1 miliardo di dollari da parte di investitori cinesi e stranieri. All'inizio di febbraio 2013 Chunghwa Telecom, la principale società di telecomunicazione taiwanese, ha confermato di volervi investire l'equivalente di 4,82 miliardi di dollari. Nei primi sei mesi dello scorso anno l'economia locale è cresciuta del 16% e allo scorso novembre erano già 129 le attività di business finanziate da Taiwan. Hotel, appartamenti, ospedali e uffici affollano l'isola, mentre il bagliore dei cantieri illumina la notte. E' soltanto l'inizio. Il litorale verrà presto ricoperto di nuovi grattacieli, alberghi pluristellati, campi da golf e ogni genere di confort nella speranza di duplicare il successo riscosso da Hainan, l'isola tropicale cinese, meta prediletta dei ricchi turisti della mainland, che galleggia davanti alla costa vietnamita. (Segue su L'Indro)
lunedì 17 marzo 2014
La fragilità cosmopolita di Singapore
Per quarant'anni Singapore ha ballato sull'oro di un precipizio, covando al suo interno un equilibrio sociale precario, una labile armonia con stridenti stonature etniche. Lo scorso dicembre un'insolita manifestazione nel quartiere orientale di Little India ha messo a nudo le debolezze endemiche della città-stato. Tutto è cominciato con la morte di un operaio indiano, travolto da un autobus guidato da un singaporiano. Un semplice incidenti degenerato in violenza. Alcune macchine sono state date alle fiamme e 39 persone sono rimaste ferite nei tafferugli con le forze dell'ordine. Il rancore della comunità immigrata ala fine è esploso. “L’ineguaglianza che ha messo radici a Singapore avrà conseguenze disastrose, di cui vediamo già i primi segni,” scriveva sul suo blog l'attivista Roy Ngerng "Forse c’era da aspettarselo, visto che paghiamo una miseria a questa gente, nonostante ci abbia aiutato a costruire il nostro Paese, le nostre strade, le nostre case, pretendendo che riescano a sopravvivere in condizioni terribili."
Da diverse settimane le tensioni tra locali e migranti si erano inasprite. Agli scontri tra indiani e bangladesi è seguita un'ondata xenofoba che ha travolto i social media, indignando gran parte degli internauti. Iniziative indipendenti, come la pagine Facebook Shut Racism UP SG, sono nate con l'intento di sensibilizzare i cittadini verso una tematica a lungo ignorata. Singapore ha un problema di razzismo, che lo si voglia ammettere o meno. (Segue su L'Indro)
venerdì 14 marzo 2014
Cina violenta
(Aggiornamento del 16 marzo - Come volevasi dimostrare: knife fight in China sparks rumours)
La Cina torna a tingersi di rosso. Questa mattina un assalitore armato di coltello ha ucciso cinque persone creando il panico in un mercato rionale, a Changsha, nello Hunan. La polizia ha freddato uno dei colpevoli e ha preso in custodia almeno uno dei sospetti. Secondo la ricostruzione dei media locali, tutto sarebbe nato semplicemente da una disputa tra due venditori. I dettagli non sono chiari ma, il New York Times riporta che due dei sospetti erano dello Xinjiang; un particolare che dopo il massacro di Kunming ha proiettato un'ombra fosca sull'episodio. Nonostante le autorità abbiano subito specificato NON si è trattato un attentato terroristico, la notizia è stata ripresa da tutti i principali quotidiani internazionali. Permane il dubbio che vi possano essere state motivazioni etniche, ok, ma si tratta comunque di una semplice lite da strada, come ne avvengono in continuazione in qualsiasi parte del mondo. In un altro momento storico, magari, l'episodio sarebbe stato relegato alla stampa locale. Ma questa è la Cina del dopo Kunming, la Cina che si interroga sull'incomprensibile sorte del Boeing della Malysia Airlines. Il peso che è stato dato alla notizia, la ricerca morbosa di immagini crude sull'internet cinese, riflettono lo stato di inquietudine in cui verte il Paese. Dove un fatto di cronaca diventa miccia scatenante di inquietudini più profonde. In Cina c'è qualcosa che non va.
giovedì 13 marzo 2014
Pechino chiede acqua
Il Dragone è assetato. Secondo un recente rapporto della CIA (Central Intelligence Agency), la crescente scarsità d'acqua a livello globale costituirà una delle possibili cause di guerra nei decenni a venire. La Repubblica popolare, che conta per il 20% della popolazione mondiale, accede soltanto al 7% delle risorse di acqua dolce del pianeta. Circa 300 milioni di cinesi, quasi un quarto della popolazione nazionale, ogni giorno bevono acqua contaminata. La produzione di carbone, che fornisce grossomodo tre quarti delle risorse energetiche del Dragone, assorbe un sesto del prelievo idrico totale del Paese. 11 provincie su 22 vengono considerate gravemente soggette a scarsità di acqua; vale a dire che i residenti in quelle aree non raggiungono i 1000 metri cubi d'acqua per persona all'anno. E stando ad un rapporto congiunto di HSBC e China Water Risk, circa il 45% del Pil cinese proviene proprio da quelle province maggiormente affette da carenze idriche.
Negli ultimi trent'anni il Fiume Giallo, culla della civiltà cinese, si è ritirato di anno in anno. Lo Hebei, la regione settentrionale che circonda Pechino, ha già visto 969 dei suoi 1052 laghi prosciugarsi, tanto che parte della popolazione rurale si trova costretta ad irrigare i campi con liquami. Di questo passo tra 15 anni le falde acquifere saranno totalmente prosciugate, avverte l'ex Ministro delle Risorse Idriche, Wang Shucheng. (Segue su L'Indro)
mercoledì 12 marzo 2014
La Cina ferita a Kunming
La tragedia di
Kunming è stata riportata da molti media occidentali come un
episodio di «violenza insensata»,
dando spostando l'accento dall'accezione terrorista dell'accaduto.
Nelle ore successive agli eventi del 1 marzo, le fonti governative cinesi
hanno immediatamente individuato i colpevoli nel terrorismo islamico
dei separatisti della regione dello Xinjiang.
L'uso delle
virgolette sulla parola terrorismo da parte dei media occidentali ha
indispettito Pechino, che ha formalmente protestato contro l'uso di
doppi standard nell'interpretazione della minaccia terrorista. «Forse
la simpatia che l'occidente ha dimostrato verso il separatismo dello
Xinjiang può spiegare questo atteggiamento», scrive un editoriale
del 'South China Morning Post'.
Quando
accadono episodi che scatenano il terrore tra la popolazione, non
dovrebbe essere difficile chiamarli 'terroristi', vista l'azione
irregolare, improvvisa, ma organizzata. Un manipolo di persone
vestite di nero che accoltella i passanti in una stazione
molto trafficata non può essere una coincidenza. La portavoce del
Dipartimento di Stato USA, Jen Psaki ha ceduto alla
fine di una lunga conferenza stampa, affermando che «sì, si
tratta di terrorismo, anche se mancano fonti di informazione
indipendente per confermarlo». La
titubanza della diplomazia americana nel pronunciare la parola-tabù
del ventunesimo secolo segnala l'interesse a preservare le relazioni
ostili che Washington intrattiene con Pechino sulla questione dei
movimenti separatisti interni alla Cina. (Segue su L'Indro)
lunedì 10 marzo 2014
Il nodo gordiano dei salari
Che i frutti del capitalismo vengano condivisi equamente tra chi li ha seminati e chi li ha raccolti. E' il nocciolo del discorso tenuto dal Presidente, Ma Ying-jeou, davanti alla platea di businessmen taiwanesi in occasione di una recente visita a Honduras. «Il governo continuerà a lavorare per migliorare l'ambiente d'investimento nazionale, ma si spera che le aziende condivideranno parte dei profitti con i lavoratori» ha avvertito.
La Repubblica di Cina, che da alcuni anni si trova a dover far fronte a 'i tre alti e un basso' (alto tasso di disoccupazione, alti prezzi delle commodities e delle case, bassi salari), guida la classifica nera dei 'quattro piccoli draghi asiatici' (Corea del Sud, Hong Kong, Singapore e Taiwan). Tra gennaio e dicembre 2013 il salario reale medio è sceso a 1.507 dollari al mese (45.112 TWD), il valore più basso da quindici anni a questa parte a causa della crescente inflazione. Come lamenta Wai Ho Leong, economista di Barclays Capital a Singapore, sostanzialmente gli stipendi reali sono rimasti invariati dalla crisi finanziaria asiatica del 1997-98. Hau Lung-bin, Sindaco di Taipei, si è spinto oltre: «I salari troppo bassi sono la disgrazia del Paese». Nonostante l'affermazione abbia scatenato una valanga di critiche un po' da ogni parte del governo, il primo cittadino è andato per la sua strada, annunciando unilateralmente un aumento di salario per i lavoratori precari del governo locale. Lo stesso aveva fatto lo scorso anno Eric Chu, amministratore di Nuova Taipei, anche lui incurante di quanto stabilito dalle autorità centrali. (Segue su L'Indro)
mercoledì 5 marzo 2014
Crisi ucraina: Pechino sta con Mosca? Ni
Dalla Primavera Araba alle proteste di piazza Maidan; ogni qualvolta una parte di mondo sfida i potenti per affermare i propri diritti, qualcuno in Cina si chiede quando a ribollire saranno le strade del Regno di Mezzo. La verità è che l'opinione pubblica cinese sembra essere più interessata ad alzare la voce quando si tratta di far chiudere una fabbrica inquinante che appesta il proprio cortile di casa, piuttosto che a battersi per la democrazia.
«Congratulazioni al popolo ucraino per la sua battaglia per la libertà» recitava uno striscione esposto da alcuni attivisti nella provincia dello Hunan. Eppure, buona parte dei cittadini cinesi sembra condividere le posizioni del governo, secondo il quale la Cina non ha bisogno di una rivoluzione violenta, perché la democrazia (come la intendiamo alle nostre latitudini) non può fungere da panacea per tutti i mali. Sopratutto non per tutti i Paesi, caratterizzati da trascorsi storici e background culturali differenti. La crisi ucraina non fa che aggiungere un'altra freccia alla faretra della realpolitik cinese.
Negli ultimi tempi il messaggio veicolato dai media governativi è stato sostanzialmente sempre lo stesso: il rovesciamento dello status quo non è necessariamente garanzia di un futuro migliore, come insegnano i casi di Siria, Libia, Egitto e Venezuela. "Il copione si ripete ogni volta che c'è un conflitto civile oltremare", racconta a 'L'Indro' Gang Guo, professore associato di Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso l'Università del Mississipi "e sembra, tra l'altro, che il messaggio sia indirizzato prevalentemente alla beneducata classe media, ovvero 'gli elettori indecisi' della Cina di oggi".
Pechino sospetta che le 'rivoluzioni colorate', compresa quella ucraina del 2004, siano state alimentate dall'Occidente per scacciare regimi considerati ostili. Una lunga marcia verso la democrazia guidata in principio dagli Stati Uniti sotto le amministrazioni Clinton e Bush, poi passata all'Unione Europea quando, con l'arrivo di Obama alla Casa Bianca, Washington cominciò a mostrare maggior interesse per altre regioni. Quello che di fatto sta cercando di fare l'Ue, secondo la vulgata semi-ufficiale del tabloid nazionalista cinese 'Global Times', è attrarre Kiev all'interno del suo sistema politico-economico, entrando a gamba tesa negli interessi geopolitici che Mosca detiene storicamente nell'area. Il quotidiano-bulldozer di Pechino sottolinea come «Nazioni dell'Europa dell'Est, quali Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, abbiano intrapreso una transizione morbida, mentre altri Paesi rimangono lacerati al loro interno, preda di perenni tumulti. Altri Stati, come il Kazakistan e il Turkmenistan, sono rinati grazie alle ricche risorse e a uomini politici forti. Eppure l'Occidente rifiuta di riconoscerle come democrazie (...) I Paesi occidentali non investiranno molto nella transizione pacifica dell'Ucraina semplicemente perché non trarrebbero alcun vantaggio dal mantenimento della stabilità. Le vicissitudini del mondo esterno ci dicono che la Cina deve avviarsi lungo il sentiero della democrazia, traendo insegnamento dagli errori altrui (...) La rinascita cinese è destinata ad essere un processo di sforzi e riforme, e l'unica scelta che abbiamo è costruire un Paese democratico e liberale con caratteristiche cinesi».
Come spiega il 'Quotidiano del Popolo', megafono del Partito, prima di collassare nel 1991, l'Unione sovietica era stata in grado di silenziare le tensioni che scorrono tra la parte orientale e occidentale dell'Ucraina; «l'indipendenza ha scoperchiato un vaso di Pandora di attriti etnici e religiosi, risultante nella stagnazione economica del Paese e nell'allontanamento degli investimenti esteri». Oggi l'Ucraina ha un reddito pro capite che equivale al 60% di quello cinese. Spesso nazioni popolose, come l'Ucraina (che conta 46 milioni di abitanti), non riescono a risolvere le complesse divisioni etnico-religiose quando vengono travolte da cambiamenti politici repentini (la Jugoslavia insegna).
Quello dei conflitti etnici è un problema contro il quale Pechino si scontra da anni. Dopo le proteste sanguinose nelle regioni autonome occidentali di Tibet e Xinjiang, negli ultimi mesi il Gigante asiatico ha assistito inerme ad un 'attentato' in piazza Tian'anmen e a un massacro a Kunming, nello Yunnan, provincia ad alta concentrazione di musulmani. Entrambi 'attacchi terroristici', che stando alle autorità cinesi, porterebbero la firma di un gruppo di estremisti appartenenti all'etnia minoritaria turcofona uigura, che abita lo Xinjiang. Per il Partito, un processo di democratizzazione di tipo nostrano certamente condurrebbe il Far West cinese in uno stato di caos ancora maggiore.
Negli ultimi dieci anni, tra i circoli accademici del Dragone si è fatta strada la convinzione che la causa della disgregazione dell'Urss sia da imputare all'incapacità di fare ordine nel brodo primordiale dei disordini etnici. Come ricorda Evan Osnos sul 'New Yorker', quando nel 1986 i manifestanti kazaki scesero in piazza, l'allora Segretario generale del Partito comunista dell'Urss, Mikhail Gorbaciov, oltre a reagire militarmente, nominò un apparatcik kazako e attenuò alcune leggi sulla lingua particolarmente impopolari. La manovra, tuttavia, finì per innescare una levata di scudi da parte degli altri gruppi etnici.
Memore delle sorti toccate al blocco sovietico, la Cina non farà la stessa fine. E' quanto sembra aver voluto assicurare il Presidente cinese, Xi Jinping, fin dai primi mesi del suo mandato, promettendo riforme, ma rigettando il modello Gorbaciov. Nel dicembre 2012, durante un meeting interno al Partito, Xi ha esortato la Cina a interrogarsi sulle ragioni del collasso dell'Unione Sovietica e del suo Partito comunista. «Una motivazione importante è che i loro ideali e le loro opinioni hanno vacillato», avrebbe dichiarato Xi, stando ad alcuni stralci del discorso rimbalzati sulla stampa straniera.
Se infatti le rivolte etniche sono la spina conficcata nel fianco del Dragone, la corruzione è il male che affligge la sua testa autoritaria: il Partito. Stando a quanto lamentato da alcuni netizen cinesi, dopo che la tv di Stato 'Central China Television' ha coperto ampiamente le proteste di Kiev, la vittoria del popolo, il colpo militare e la fuga del Presidente Yanukovich, «l'attenzione è stata spostata sul revival militarista giapponese». Il governo «non ha osato raccontare l'odio dell'Ucraina nei confronti della corruzione dei funzionari», scrive l'internauta Xiao Li. (Segue su L'Indro)
lunedì 3 marzo 2014
Il porto della discordia
Un pugno in un occhio. Così gli abitanti di Hong Kong giudicano il progetto che prevede la costruzione di una darsena militare cinese nel cuore della regione amministrativa speciale, deturpando la vista mozzafiato su Victoria Harbour che accompagna quotidianamente le loro passeggiate.
Fieramente osteggiato dalla popolazione locale, il piano ha ottenuto l'approvazione unanime da parte del Consiglio per la Pianificazione urbanistica a metà di febbraio, ed per il momento in attesa della conferma da parte del Consiglio esecutivo della città, l'organismo che dal 1997 -anno del ritorno dell'ex colonia britannica alla Cina- detiene il potere locale sotto il motto 'un paese, due sistemi'. Si tratterebbe soltanto di un'area di 0,3 ettari (2.970 metri quadrati) proprio difronte alla guarnigione murata che il PLA (Esercito di liberazione popolare) detiene a Central, il quartiere finanziario della città. Una porzione ridicola rispetto ai 9,87 ettari di spazio continuo di cui è composto il lungomare, sottolineano i fautori del progetto. Stando a quanto riferito dal consiglio di pianificazione, lo sviluppo in verticale sarebbe limitato a 5,8 metri di altezza: la zona sarà destinata alla costruzione di edifici di piccole dimensioni come uffici, spogliatoi e strutture per la distribuzione di energia elettrica. Il tutto verrebbe, inoltre, occultato da cancelli elettronici pieghevoli, poi nascosti all'interno degli edifici secondari, quando non in uso.
Sì, perché, come rassicura il Segretario per lo Sviluppo Paul Chan Mo-po, la banchina sarebbe «a volte utilizzata dal PLA, ma più spesso destinata ad uso pubblico». In altre parole, l'Esercito potrà utilizzare l'area quando ne ha bisogno, ma per il resto del tempo continuerà a rimanere sotto il controllo del governo locale, anche se diversi legali interpellati dal South China Morning Post hanno fatto notare che non è ben chiaro in che misura i cittadini potranno usufruire dello spazio. «Sarà ancora possibile sedersi e protestare? Potremmo radunarci lì o esercitare il diritto alla ricreazione?» Paul Zimmer, fondatore della Ong Designing Hong Kong dà voce ad alcune delle domande che in questo periodo ronzano per la testa a molti in città.
"Dopo il massacro di piazza Tina'anmen, a Hong Kong parecchie persone vedono ancora il PLA con sospetto", racconta all'Indro John Carroll esperto del periodo coloniale e professore di storia moderna della Cina presso l'Università di Hong Kong, "alcuni hanno espresso la preoccupazione che il molo possa essere utilizzato per portare nuove truppe al fine di reprimere i disordini civili (anche se vale la pena notare che, in realtà, ci sono già milizie a sufficienza sull'isola). L'aspetto simbolico della manovra è determinante. L'Esercito fin'oggi a continuato a mantenere un basso profilo a Hong Kong, ma la nuova banchina cambierà certamente la situazione nel Central District, che il centro finanziario della città".
Il piano era nell'aria fin dal 1994 -ben tre anni prima del ritiro inglese dall'isola- quando un accordo tra Pechino e Londra stabilì che l'amministrazione locale avrebbe dovuto concedere alla Cina 150 metri di lungomare per la costruzione di un molo destinato a scopi militari. La questione era poi rimasta sotto traccia fino a quando, nel febbraio dello scorso anno, il governo locale ha deciso di chiedere 'democraticamente' il parere dell'opinione pubblica. Il sondaggio lanciato dal Consiglio si è concluso il 28 maggio con 19.000 commenti a sfavore e soli 20 sì. Pare che i residenti del Porto Profumato non vedano proprio per quale ragione «un luogo che appartiene alla gente di Hong Kong» debba finire nelle mani dei soldati cinesi. Anche se la Basic Law, documento costitutivo assicura (almeno sulla carta) un alto grado di autonomia in svariati settori, fuorché -espressamente- per quanto riguarda la politica estera e la difesa.
Il fatto è che, come spiega alla rivista 'Time Out' Chu Hoi-dick, fondatore di Land Justice League, il PLA sull'isola detiene già 2000 ettari di terra, ereditata dall'esercito inglese al passaggio dei poteri e tutt'oggi sottoutilizzata. Molti a Hong Kong vorrebbero che quel suolo venisse restituito e destinato allo sviluppo urbanistico della città, una delle più densamente popolate del mondo. «(I soldati cinesi)
hanno accumulato tanta terra inutilizzata e ne vogliono ancora?!» si chiede Chu. (Segue su L'Indro)
domenica 2 marzo 2014
L'11 settembre cinese
Nella serata di sabato, una decina di uomini vestiti di nero, con il volto coperto e armati di coltelli hanno aggredito diversi passanti presso la stazione ferroviaria di Kunming, capitale dello Yunnan. L'attacco si è concluso con un bagno di sangue: almeno 33 i morti e 130 i feriti. Nella mattinata di domenica le autorità della città meridionale hanno fatto sapere che "le prove dimostrano che e' stata opera di forze separatiste dello Xinjiang", ovvero di quella regione del Far West cinese, in cui nel luglio 2009 una rivolta coinvolse almeno mille uiguri, minoranza etnica turcofona e di religione islamica. Iniziata come una protesta, ma degenerata in violenti attacchi contro gli Han con 197 morti, secondo le stime del governo.
Negli ultimi 12 mesi sono stati almeno 200 gli episodi violenti nello Xinjiang, bollati dalle autorità come 'attacchi terroristici'. Non voglio entrare nel merito di quali siano le motivazioni a spingere i 'terroristi uiguri' al massacro; accuse di repressione da parte de governo comunista nella provincia occidentale sono ormai note, sopratutto per quanto concerne le pratiche religiose islamiche. Ma mi sembra opportuno sottolineare alcuni elementi che differenziano notevolmente le violenze avvenute nello Xingjiang dal massacro di Kunming. Tanto per cominciare, i disordini del 2009 sono stati innescati da una disputa tra un uiguro e un Han; un episodio circoscritto di natura preminentemente 'etnica', poi degenerato in proteste e violenze di massa, ma sempre riguardante la difficile convivenza tra i due gruppi etnici. Gli attacchi alle stazioni di polizia susseguitisi nell'ultimo anno sono stati ugualmente imputati all'insofferenza per le politiche repressive adottate dai funzionari locali nei confronti degli usi e costumi xinjianesi, e quindi finalizzati a colpire un obiettivo ben preciso. Una specie di resa dei conti.
Quello di Kunming è piuttosto un episodio di violenza gratuita, un tentativo di seminare il panico andando a colpire alla cieca persone innocenti. Rilevante la meta prescelta, per l'appunto una città che dista oltre 2900 chilometri da Kashgar (una delle principali città dello Xinjiang), sebbene è il caso di ricordare che lo Yunnan, melting pot di gruppi etnici, ospita 1 milione di musulmani. Lo scorso autunno anche la lontana Pechino aveva fatto da sfondo a un episodio simile scala minore, quando un SUV si era schiantato in piazza Tian'anmen proprio sotto il ritratto di Mao Zedong. In entrambi gli episodi, la mancanza di una motivazione precisa, farebbe pensare ad un atto dimostrativo svincolato da cause contingenti: un vero e proprio 'attentato terroristico'. Nel luglio 2008, poco prima delle Olimpiadi ospitate dalla capitale cinese, il Turkestan Islamic Party (lo stesso gruppo terroristico che Pechino ha accusato dell'ultima dimostrazione di Kunming e di piazza Tian'anmen) rilasciò un video nel quale affermava di aver compiuto attentati dinamitardi sugli autobus di Kunming, rivendicando inoltre la paternità di un episodio simile avvenuto a Shanghai due mesi prima. Le autorità cinesi smentirono tutto, negando un collegamento tra le esplosioni nello Yunnan e il terrorismo islamico.
Osservazione finale: gli ultimi attacchi al di fuori fuori della regione occidentale sono stati sferrati in concomitanza con alcuni appuntamenti dell'agenda politica cinese particolarmente sensibili. L'incidente di Tian'anmen è avvenuto a pochi giorni dal Terzo Plenum del Partito, il massacro di Kunming alla vigilia dei lavori dell'Assemblea nazionale del popolo, il parlamento cinese. Forse non del tutto a torto, l'agenzia di stampa Xinhua si è spinta a definire la strage di sabato sera 'l'11 settembre della Cina'.
Cronologia degli episodi violenti correlati allo Xinjiang dal 2009 a oggi
(Leggi anche Terroristi disperati)
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