mercoledì 30 luglio 2014

Se Pechino perde Kyaukphyu


La linea Kyaukphyu-Kunming si farà. Anzi no. Le sorti del progetto ferroviario che dovrebbe collegare la Birmania occidentale alla provincia cinese dello Yunnan sono appese a un filo. La scorsa settimana le autorità birmane hanno annunciato la sospensione delle trattative avviate nel 2011 con la firma di un memorandum d'intesa (ormai scaduto) tra il Governo di Naypyidaw e la compagnia statale CREC (China Railways Engineering Corporation). Secondo Pechino, la tratta darebbe nuovo impulso allo sviluppo dell'economia birmana regalando slancio sopratutto alle aree meno evolute del Paese, quelle ad ovest. Ma l'impatto ambientale e sociale, sommato ai costi -non sufficientemente coperti dai 20 miliardi di dollari stanziati in prima battuta- avrebbe indotto il Governo birmano ad accantonare il progetto. Le smentite di Pechino sono rimbalzate contro un muro di gomma. «Abbiamo soltanto siglato un memorandum d'intesa, ma nessun accordo è stato mai raggiunto per cominciare la costruzione, per cui l'unica cosa che posso dire è che non stiamo lavorando al progetto», ha dichiarato all''Irrawaddy' un funzionario locale.

Per lungo tempo il gigante asiatico è stato il principale benefattore del Paese dei pavoni, ma da quando la giunta militare ha lasciato il posto al Governo 'civile' guidato dal riformista Thein Sein, il flusso di capitali da oltre la Muraglia ha registrato un netto arresto, precipitando dai quasi 13 miliardi di dollari del 2011 agli appena 407 milioni del 2012. Il Dragone porta ancora legata al dito la retromarcia con la quale Naypyidaw, quattro anni fa, sospese i lavori per la diga di Myitsone, piano multimiliardario finanziato in larga parte dalla Cina e andato in fumo a causa dell'impopolarità riscossa tra i residenti. Stando alle denunce della società civile locale, la nuova ferrovia rientrerebbe tra le 10 grandi opere infrastrutturali alle quali il Governo birmano ha concesso il semaforo verde senza ottenere l'approvazione della popolazione direttamente coinvolta. Proprio come avvenuto con altri controversi progetti avvertiti come un tributo energetico troppo oneroso per un Paese costretto tutt'oggi a centellinare la propria corrente elettrica. (Segue su L'Indro)

sabato 26 luglio 2014

Diaosi pride


Si fanno chiamare diaosi e sono i 'perdenti' della Nuovissima Cina. Di origini umili, con un salario misero, senza una casa di proprietà, in continua ricerca di una donna ma sempre inchiodati davanti al pc, i diaosi hanno un'età tra i 20 e i 40 anni e si propongono come antagonisti dei gaofushuai, termine con il quale i cinesi chiamano quelli belli, alti e ricchi. E' stato proprio il desiderio di rivalsa rispetto a quanti si sono affermati socialmente -e a quanti lo hanno fatto con mezzi discutibili- a istillare nei giovani cinesi marginalizzati il bisogno di sentirsi parte di un gruppo. Anche a costo di riconoscere la propria natura nerd.

La parola ha appena tre anni di vita e ha raggiunto la notorietà soltanto nel 2012 sulla scia del successo di Weibo, il Twitter 'in salsa di soia', perdendo progressivamente l'accezione negativa degli esordi. Il sito CivilChina traccia la storia del meme attraverso 'micro eventi', partendo dal San Valentino del 2011, quando il termine diaosi comparve sul web mantenendo nell'84% dei risultati il suo significato dispregiativo, fino ad arrivare all'uscita nelle sale di Titanic in 3D. Era l'aprile 2012 e il personaggio di Jack Dowson, un artista squattrinato che si trasforma in un eroico protagonista interpretato da Di Caprio, viene ripreso dai netizen cinesi come esempio positivo di diaosi.

Dal grande al piccolo schermo, il nuovo nome ha finito per ispirare un programma grottesco trasmesso sul portale internet Sohu.com. Uno show a puntate sui fallimenti lavorativi/amorosi dei diaosi che dal 2012 è stato mandato in streaming 1,5 miliardi di volte, salvo poi finire vittima della censura nell'ambito di un giro di vite scatenato recentemente dalla State Administration of Press, Publication, Radio, Film and Television (SAPPRFT) per ripulire il web dai contenuti disdicevoli.

La portata virale del fenomeno viene associata dal 'People's Daily' alle caratteristiche proprie del mezzo di internet. La rete è uno spazio virtuale in cui si'copia' e rielabora' del materiale, scrive il quotidiano del Partito. I giovani finiscono per partecipare passivamente allo sviluppo di una cultura popolare che si riproduce attraverso un processo di emulazione a catena. Complice la voglia di seguire una moda, di mettersi in mostra e riconoscersi in una categoria sociale ora che il tessuto connettivo comincia a scricchiolare: si dice spesso che il rapido 'arricchimento glorioso' innescato dalle riforme anni '80 - e affiancato da un processo di urbanizzazione confuso- abbia dato vita ad una generazione smarrita, priva di ideali e schiava del dio denaro. (Segue su L'Indro)

giovedì 24 luglio 2014

Un Piano Marshall 'con caratteristiche cinesi'


Lo scorso anno, pochi giorni prima che il neo-Presidente Xi Jinping incontrasse Barack Obama nella tenuta californiana di Sunnylands, l'aereo presidenziale cinese sorvolò i cieli dell'America Latina mandando un chiaro messaggio di sfida alla prima potenza mondiale. A circa un anno di distanza il numero uno di Pechino ritorna negli storici poderi di Washington. L'agenda e i Paesi ospitanti sono diversi, ma il messaggio conserva i toni di una sfida.  Tanto più che tra i temi caldi della trasferta sudamericana svetta l'istituzione della Banca di sviluppo dei BRICS a Fortaleza (Brasile), nata come concorrente dei grandi enti internazionali dominati da Stati Uniti e Unione Europea con l'ottica di difendere gli interessi dei Paesi emergenti riuniti sotto l'acronimo (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica).

Il vertice ha fatto da sfondo al primo faccia a faccia tra Xi e il nuovo Premier indiano Narendra Modi, la cui politica estera è oggetto di accese speculazioni tra chi vi individua i segni di una distensione, chi i semi di un futuro inasprimento tra le due Nazioni più popolose al mondo. In attesa di ulteriori svolgimenti, Pechino e Delhi si spartiscono oneri ed onori nella gestione della nuova Banca, con Shanghai prescelta come sede dell'istituto e l'India incaricata di dirigere i lavori per i primi sei anni.

Se il summit di Fortaleza ha fornito a Xi un pretesto ufficiale per raggiungere nuovamente l'altra sponda del Pacifico, il coinvolgimento cinese nell'area non necessita giustificazioni, bastano i numeri. Gli scambi commerciali tra Cina e America Latina sono lievitati dai 12,6 miliardi di dollari del 2000 ai 261,1 miliardi dello scorso anno. Le tappe del tour presidenziale rispecchiano la natura caleidoscopica degli interessi cinesi nella regione. Tra il 18 e il 23 luglio, Xi Jinping ha fatto visita al terzo esportatore al mondo di soia (Argentina), ha rinnovato il proprio supporto a un importante fornitore energetico (Venezuela) e non ha mancato di omaggiare un alleato di vecchia data (Cuba). Secondo Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, il Sud America sta diventando un mercato strategico per i prodotti cinesi, mentre «le importazioni dalla Cina hanno generato un vento di coda favorevole alla crescita regionale. La presenza statunitense è declinata, quella cinese è aumentata più volte».

Pechino, che si sente la nuova vittima della strategia di 'selective engagement' americana, sta tentando di controbilanciare il 'pivot to Asia' firmato Obama, la politica con la quale Washington punta a spostare il proprio baricentro diplomatico dai teatri di guerra mediorientali al Pacifico. La reazione immediata è un riposizionamento cinese nei buchi lasciati scoperti dagli Stati Uniti attraverso mezzi diplomatici e commerciali. Il Sud America attira sempre più le mire cinesi, proprio mentre Washington sta perdendo terreno in quello che è sempre stato il suo cortile di casa. Come fa notare su 'Want China Times' Antonio C. Hsiang, Direttore del Center for Latin America Economy and Trade Studies, se la TPP (Trans-Pacific Partnership) è la pietra angolare dell'assertività americana nell'Asia-Pacifico, le resistenze avanzate al progetto dal Giappone potrebbero instillare qualche dubbio tra i partner sudamericani circa la solidità della leadership statunitense nella regione. Non a caso Messico e Perù, pur partecipando alle negoziazione per la TPP, non hanno rinunciato a prendere la parola in occasione della conferenza annuale del Boao Forum for Asia 2013, il Davos d'Oriente. (Segue su L'Indro)

sabato 19 luglio 2014

Il Dragone va al mssimo


Una mappa nel quartier generale del Chengdu Logistics Office illustra come le ferrovie stanno cambiando il volto della Cina occidentale e le tempistiche del trasporto merci tra l'Asia e l'Europa. Il 'made in China', che prima doveva viaggiare fino a Shanghai per poi proseguire verso il Vecchio Continente, adesso corre su una strada ferrata che attraversa il Kazakistan, passa per la Russia e la Bielorussia fino ad arrivare in Polonia dove viene smistato e rispedito verso le varie destinazioni.

Entro la fine del 2013, il gigante asiatico aveva già realizzato 10mila chilometri di linee ferroviarie ad alta velocità (AV): più di qualsiasi altro Paese al mondo e dell'intera Unione Europea. Il prossimo obiettivo sarà raddoppiare il tracciato entro il 2020. A pochi anni dalla loro nascita, i treni ad alta velocità cinesi trasportano già il doppio dei passeggeri che scelgono l'aereo per spostarsi entro i confini nazionali. E secondo quanto riportava lo scorso settembre il 'New York Times', quest'anno il traffico dovrebbe superare addirittura i 54 milioni di viaggiatori mensili totalizzati dai voli domestici negli Stati Uniti.

Pechino è alle prese con un ambizioso piano d'urbanizzazione che implicherà ulteriori massicci investimenti nel settore dei trasporti, considerato il comparto chiave per uno sviluppo qualitativo e 'a misura d'uomo'. Stando a un paper rilasciato nel 2013 dalla Banca Mondiale, le città cinesi servite dall'alta velocità (oltre 100) stanno vivendo una notevole crescita della produttività del lavoro. Si hanno vantaggi nella produttività quando le aziende operano a massimo due ore di viaggio di treno da decine di milioni di potenziali clienti, dipendenti e rivali, scriveva il quotidiano della Grande Mela. «Quello che possiamo vedere molto chiaramente è un cambiamento nel modo in cui le aziende stanno facendo affari», ha spiegato Gerald Ollivier specialista nei trasporti della Banca Mondiale per la Cina. A ciò si aggiungono un risparmio dei tempi e un minor inquinamento ambientale, la rivalutazione delle aree in prossimità delle stazioni con la costruzione di nuovi distretti residenziali e commerciali. (Segue su L'Indro)

mercoledì 16 luglio 2014

Pechino, un player discreto in Afghanistan


Lo scorso 10 luglio, Pechino ha ospitato le prove generali del quarto incontro ministeriale dell'Istanbul Process, piattaforma regionale nata nel 2011 per incoraggiare la cooperazione tra l'Afghanistan e alcuni vicini tra i quali Cina, Russia, Kazakistan, India, Pakistan, Iran e Turchia. Ma che prevede la partecipazione di Paesi extra-regionali (pesi massimi come Stati Uniti e Gran Bretagna) e organismi internazionali in qualità di 'partner di sostegno'.

Nell'attesa che il vertice vada in scena nella città portuale cinese di Tianjin il prossimo mese, a dominare la sessione di giovedì è stata la difficile transizione politica dello Stato centroasiatico, che dopo le elezioni di aprile, il ballottaggio di giugno e le accuse di brogli, dovrà aspettare un'ulteriore revisione dei voti per conoscere il suo nuovo Presidente. Il tutto mentre il 2014, l'ultimo anno segnato dalla presenza massiccia di truppe americane, ha già scavallato la sua prima metà. Entro la fine di dicembre le forze armate statunitensi dovrebbero ridursi a meno di 15mila unità. Una prospettiva che impensierisce non poco Pechino, per il quale la stabilità in Asia Centrale è di primaria importanza tanto per fattori di business che di sicurezza nazionale. Il nuovo Grande Gioco ha sempre meno le caratteristiche di un risiko energetico e sempre più quelle di una comunione d'intenti tra potenze per evitare che la regione sprofondi nel caos.

Quanto la questione afgana stia a cuore al Dragone lo dimostra la decisione dell'agenzia statale cinese 'Xinhua' di lanciare un portale interamente dedicato allo Stato centroasiatico e il susseguirsi a stretto giro di meeting di alto profilo: il leader uscente Hamid Karzai e il Presidente cinese Xi Jinping si erano incontrati in occasione del CICA (Confidence Building Measure in Asia) summit dedicato alla pace in Asia, ospitato a maggio da una Pechino sempre più crocevia di interessi globali. Appena tre mesi prima il Ministro degli Esteri cinese Wang Yi era stato a Kabul durante la sua maratona mediorientale. In entrambe le occasione la stabilità del Paese aveva dominato i colloqui, con il Governo cinese che si era detto disposto ad «esercitare un ruolo costruttivo» per favorire la riconciliazione politica in Afghanistan, pur precisando che la stabilità del Paese dovrà essere mantenuta dagli afgani con i loro propri mezzi. Tradotto dal linguaggio felpato della diplomazia: il Dragone non vestirà i panni di gendarme della regione come fatto finora da Washington. Piuttosto sembra strizzare l'occhio ad una cauta collaborazione.

Secondo gli esperti, laddove il Pacifico continua ad essere motivo di fratture tra Cina e Stati Uniti, il 'cuore dell'Asia' sta diventando teatro di un allineamento delle posizioni cinese e americane nella regione. «I cinesi sono molto consapevoli del fatto che ora ci troviamo sullo stesso spartito in Afghanistan» spiegava un diplomatico statunitense al 'Guardian' a margine di un incontro tra funzionari cinesi ed esperti Afpak, tenutosi a Pechino nel mese di marzo. (Segue su L'Indro)

martedì 15 luglio 2014

China and South Korea: ‘Like Mouth and Tongue’


(Published on Asia Sentinel)

Beijing is losing patience with its troublesome client state North Korea, demonstrated by Xi Jinping’s visit to Seoul at the start of this month before ever stepping on North Korean soil so far in his presidency or extending an invitation to Pyongyang’s leader Kim Jong-un to visit Beijing.

In a telling exchange, Tian Guoli, chairman of the Bank of China, who was along for the trip, described China and Korea as “close neighbors like a mouth and tongue.” That is almost a blasphemous reworking of Mao Zedong’s famed words defining the partnership with the North Korean ally – as like “lips and teeth.”

That doesn’t mean Beijing is going to give up on a client state that has served as a useful buffer blocking US influence for more than five decades. During the Korean War (1950-1953), China sided with the North, losing 114,000 soldiers in action with another 70,000 dying of wounds. Some 25,000 remain missing, a total loss of more than 200,000 of China’s young men.

Nonetheless, the Chinese leader was obviously courting a potential ally and isolating the US, renewing and empowering bilateral exchanges and launching a public attack on the rebellious North. Without bothering with the traditional flattery doled out to Pyongyang by past Chinese leaders, Xi met his counterpart Park Geun-hye without ever acknowledging the North.

Moreover, it was the second meeting by Park and Xi since the Korean head of state visited China the previous summer. Kim Jong-un, who took over the country at his father's death two years ago, has yet to receive an official invitation from Beijing. a potent snub, given the longstanding relationships between the two countries.

Today Pyongyang is deeply connected to Beijing for 90 percent of its economy, but the reopening of nuclear programs and the latest North Korean missile provocations right before Xi's visit to the south definitely cooled Beijing towards its protégé. Therefore although diplomatic relations with Seoul date back only to the 1990s, the ROK and the PRC are getting closer to the eventual pursuit of a common objective: denuclearization of the Korean peninsula.

Still, if the objective is clear, agreement on the methods is not, with China impatient for a reopening of the six-party talks in limbo since 2009, while South Korea and the US demand serious signs of the north’s goodwill in dropping any atomic ambition. Around mid-June, Liu Jianchao, an aide to the Chinese Foreign Affairs Minister, pointed out that there is no military alliance between China and North Korea.

However, there is deep concern that a stricter attitude towards the fragile and impoverished Kim regime might cause it to implode, with a subsequent massive wave of refugees crossing the border into China. The Chinese dragon is committed maintaining the trading relations that keep the North afloat. Sanctions aside, Beijing has promised three high-speed railway lines connecting northeastern Chinese cities to the “last iron curtain,” with millions of dollars allocated to border-area bridges and street projects, along with the first cross-border power lines.

The state-owned Chinese press agency Xinhua commented recently on events: “The crucial point of the current situation in the Korean peninsula depends on mutual mistrust and hatred between the US and the DPRK. The counterproductive obsession of Washington for sanctions and intimidation, and the understandable feeling of insecurity in Pyongyang, as well as the pointless violations to the UN's resolutions, only managed to aggravate the hostilities.”

Washington thus seems to have been the real “stone guest” in Xi's two-day visit to Seoul as Beijing seeks to reorganize the system of alliances that the Unites States has built in the region. The circumstances look excellent, given the increased understanding with South Korea – which still hosts about 30,000 US troops.

There is also common impatience about Washington's most important Asia-Pacific ally, Japan, and its growing militarism. There is continuing anger over Japanese WWII atrocities. Added to that, Japan is revising its pacifist constitution, stirring concern in both Beijing and Seoul. Aside from that there is the rapprochement between Japan and North Korea over the ancient issue of kidnaped Japanese citizens. The Japanese government relaxed some sanctions inflicted on Pyongyang after the third nuclear test in exchange for a re-examination of the case.

Luckily for Beijing, relations between Seoul and Tokyo continue rocky, sometimes taking unforeseen turns as in 2010, when 37 members of the South Korean parliament created a forum to promote territorial claims on the Japanese island of Tsushima (Daema-do in Korean). Seoul also has issues with Tokyo over the Dokdo/Takeshima islands, militarily occupied by Seoul in 1952. Japan claims them as part of the district of Oki, belonging to the town of Okinoshima.

Still, even after decades of American reminders, Seoul's defense expenses are still only 2.5-3 percent of GDP, basically making South Korea a “vassal depending upon the US” according to author Edward Luttwak. The great hostility of the South Korean left wing towards an increased military budget rules out any short-run reinvigoration of the army.

This doesn't mean relations between Beijing and Seoul are obstacle- free. Although there are no particularly urgent loose ends, the proximity of South Korea to the troubled waters of the South China Sea could easily lead to incidents. In 2011 aSouth Korean Coast Guardsman was killed and another seriously injured in a fight with Chinese fishermen over illegal activities in South Korean waters.

More recently, China announced without previous notice an Air Defense Identification Zone that overlaps ones from Seoul and Tokyo, triggering irritation from South Korea, which promptly expanded its own ADIZ to reach the disputed waters around the submerged rock known as Ieodo in Korean and Suyan in Mandarin. The timing was crucial since Beijing’s the unilateral move came just months after the first meeting between Xi and Park, greeted by experts as a “significant step forward in bilateral relations.”

Even if the Japanese historical revisionism ended up bringing South Korea and China closer, some schoolbooks still upset relations. These are frictions dating back to the beginning of the last century when China claimed some Korean dynasties were mere offshoots of their own Chinese ones.

Recently Beijing expressed its displeasure at Washington's proposal to provide South Korea with a new advanced missilistic defense system, officially conceived to contrast possible attacks from the North, but by implication meant to respond to China’s growing military aggressiveness. Seoul announced it would decide once the official proposal has been received from the US.

Even against these disagreements, the popular perception is that bilateral relations are progressing well. According to a survey published last week by Korea’s Joongang Daily, only 34.89 percent of South Korean adults believe the People's Republic of China would take North Korea’s side if a second Korean War broke out. In 2012, during Lee Myung-bak’s administration, 75.9 percent of Koreans surveyed believed China would back Pyongyang.

As in every partnership, what keeps parts together is business. In a July 4 speech at the Seoul National University, Xi invited the ROK to “forge together a new community of shared interests.” Bilateral exchanges reached US$270 billion last year, more than the combined South Korea total with the US and Japan.

The ROK is thus growing more dependent on Beijing, its first commercial partner for human resources and exports. Samsung's recent decision to invest US$7 billion to build a research center in Xi'an signifies South Korea's interest in China’s growing middle class, deeply interested in quality brands.

Jin Bosong, researcher of the Ministry of Economy, pointed at the potential of a “marriage” between South Korean electronics and Chinese e-commerce and e-business, of which Alibaba and Baidu are by now world leaders. Xi travelled with Alibaba’s Jack Ma and Baidu’s Li Yanhong. He was also accompanied by the presidents of China Telecom, China Unicom and the Bank of China, in what was defined as the most impressive business forum ever held between the two Asian nations, with 500 officials and representatives of the main societies from both countries.

Of 12 cooperative agreements, the most valuable was direct trading between the two local currencies, a great step forward towards internationalization of the yuan, with the promise of closing of negotiations for a free trade agreement, a first step towards an FTA expanded with Japan’s participation.

sabato 12 luglio 2014

La Cina corteggia Berlino per conquistare Bruxelles


Quanto la Cina conti per Berlino ce lo suggerisce il numero di visite effettuate da Angela Merkel oltre la Muraglia: ben sette. Quello di questa settimana è stato il secondo meeting di alto profilo tra il Presidente cinese Xi Jinping e la Cancelliera nel giro di tre mesi. Lo scorso marzo, di ritorno da Belgio, Francia e Olanda, il Presidente cinese si era fermato in Germania durante il suo tour europeo, primo Capo di Stato della Repubblica popolare a volare a Berlino negli ultimi otto anni. In primavera era toccato a Frank-Walter Steinmeier e Sigmar Gabriel, rispettivamente Ministro degli Esteri e dell'Economia contraccambiare, mentre il Premier cinese Li Keqiang è atteso a Berlino per la fine dell'anno.

Già di per sé, il via vai tra i due Paesi basterebbe a confermare una relazione particolarmente affiatata. L'ammontare degli scambi bilaterali (193 miliardi di dollari nel 2013) certifica il reciproco interesse. L'Asia, nel suo insieme, costituisce il primo mercato per l'installazione di macchinari tedeschi e, al di fuori dell'Europa, la Cina si attesta come principale partner commerciale di Berlino. Viceversa, quando si tratta di fare affari nel Vecchio Continente, la Germania è l'interlocutore favorito di Pechino e il sesto a livello mondiale. Una delegazione in rappresentanza del cuore dell'industria teutonica ha affiancato la Cancelliera nel portare a termine quanto abbozzato durante i precedenti incontri. Spiccano, sopratutto, la concessione alla Germania di una quota di investimento nelle Borse cinesi di 80 miliardi di yuan (circa 9,5 miliardi di euro), l'acquisto di 123 elicotteri Airbus, l'intesa tra Lufthansa e Air China per la creazione di una Joint-Venture sino-tedesca e la costruzione di nuovi impianti Volkswagen a Tianjin e Qingdao.

La scelta di partire dal Sichuan, una provincia del sud-ovest da 80 milioni di abitanti, invece che dalla capitale, ha generato diverse illazioni sulla stampa cinese. Per Cui Hongjian, Direttore del Dipartimento di studi europei del China Insititute of International Studies, dopo numerosi viaggi istituzionali, la Merkel starebbe cercando di capire più a fondo il Paese. Anche attraverso la sua gastronomia. La Cancelliera è stata, infatti, immortalata in un ristorante locale mentre cercava di apprendere la ricetta di un piatto regionale, e se ne è tornata a casa con accordi commerciali a nove zeri e una confezione di pasta di fagioli di soia al peperoncino da 5 yuan.

Per circa dieci anni Chengdu, capitale provinciale del Sichuan, è stata la sede del Consolato Generale tedesco in funzione della sua posizione, sfruttabile come trampolino di lancio verso l'arretrato -ma in rapido sviluppo- Far West cinese. Quello che, seppur con netto ritardo, sta cercando di fare anche l'Italia attraverso la promozione di diverse iniziative. D'altra parte, la Germania ha dalla sua una profonda conoscenza del Paese dovuta alla lunga tradizione di scambi risalenti ai primi contatti tra la Prussia e l'Impero Qing, l'ultima dinastia del Regno di Mezzo.

Da alcuni anni, Pechino riconosce in Berlino il principale interlocutore europeo, ripartendo i propri partner su un podio che vede la Germania in cima e a seguire Francia e Gran Bretagna. Secondo quanto scrive Shannon Tiezzi su 'The Diplomat', il Dragone starebbe cercando di espandere la sua partnership con la prima economia dell'Eurozona nella speranza di consolidare le sue relazioni con le Nazioni europee, comprese quelle esterne all'UE; obiettivo declinato alla visione cinese di un mondo multipolare (la Cina ha più volte rigettato l'ipotesi di un G2 con gli Stati Uniti). L'Unione Europea si è confermata per il decimo anno di fila il principale mercato di sbocco per le merci cinesi, mentre la Repubblica popolare è ancora la seconda destinazione per le esportazioni dai 28 Paesi membri, dopo gli Stati Uniti. Negli ultimi mesi il gigante asiatico ha siglato diversi accordi di currency swap con la Banca centrale europea e altri Paesi del Vecchio Continente per incentivare l'uso della propria moneta nei marcati globali. Dopo Islanda, Gran Bretagna, Francia e Lussemburgo, anche Francoforte è diventato un hub per lo yuan offshore con Bank of China nominata istituto responsabile delle transazioni nella valuta cinese in Germania. (Segue su L'Indro)

mercoledì 9 luglio 2014

Cina e Corea del Sud come 'labbra e lingua'


Corteggiare un prezioso alleato americano, dare ulteriore smalto agli scambi bilaterali e sferrare uno schiaffo in pieno viso all'indisciplinato regime nordcoreano. In proporzioni variabili, sono questi i propositi che hanno dominato la visita di Xi Jinping a Seul, la prima da Presidente della Repubblica popolare cinese.

Incurante della tradizionale precedenza con la quale i passati leader cinesi hanno adulato Pyongyang, la scorsa settimana Xi è volato in Corea del Sud per incontrare il suo omologo Park Geun-hye, pur non essendo ancora mai stato a nord del 38° parallelo. Park e Xi sono già al loro secondo meeting, la 'lady di ferro' era stata in Cina l'estate passata, mentre l'uomo forte di Pyongyang Kim Jong-un, assunta la leadership alla morte del padre due anni or sono, non ha ancora ricevuto alcun invito ufficiale da parte di Pechino.

Il ritardo protratto può essere facilmente avvertito come uno sgarbo, date le relazioni di vecchia data che legano il Dragone al Regno eremita. Durante la Guerra di Corea (1950-1953), la Cina si schierò con il Nord, a cui confermò il suo sostegno nel 1961 siglando un trattato d'amicizia in cui prometteva di intervenire al suo fianco nell'eventualità di un attacco dall'esterno. Tutt'oggi Pyongyang è legato a Pechino per il 90% della propria economia, ma la ripresa del programma nucleare e le ultime provocazioni missilistiche nordcoreane alla vigilia della trasferta a Sud di Xi hanno inevitabilmente indisposto il vecchio alleato. Così sebbene le relazioni diplomatiche con Seul risalgano appena agli anni '90, la Repubblica di Corea e il Dragone si trovano sempre più vicini nel perseguimento di un obiettivo comune: quello di una penisola coreana denuclearizzata. Ma se l'obiettivo è chiaro le modalità per raggiungerlo non sembrano mettere tutti d'accordo, con la Cina impaziente di ripristinare i colloqui a sei interrotti nel 2009, mentre Corea del Sud e Stati Uniti pretendono prima i segni tangibili della rinuncia del Nord a qualsiasi velleità atomica.

Intorno alla metà di giugno, Liu Jianchao, assistente del Ministro degli Esteri cinese, si era affrettato a puntualizzare che tra Cina e Corea del Nord «non vi è alcuna alleanza militare». D'altra parte, l'ipotesi che un atteggiamento troppo duro nei confronti del regime dei Kim possa gettare il Paese nel caos, con conseguente ondata di sfollati nordcoreani oltre la Muraglia, spinge Pechino a mantenere un atteggiamento meno intransigente. E a non tralasciare le relazioni commerciali che permettono al Regno eremita di rimanere a galla: sanzioni a parte, il gigante asiatico si è impegnato nella realizzazione di tre linee ferroviarie ad alta velocità per collegare le città cinesi del nord-est all'ultima cortina di ferro, a cui si aggiungono i milioni di dollari stanziati per la costruzione di strade e ponti nelle zone di confine, nonché del primo cavo di alimentazione transfrontaliera.

Nei giorni scorsi, l'agenzia di stampa cinese 'Xinhua', organo semi-ufficiale del Partito, commentava gli eventi, astenendosi dal condannare Pyongyang e infilando un dito nell'occhio agli Stati Uniti: «Il punto cruciale della situazione difficile in cui verte la penisola coreana dipende dalla reciproca diffidenza e dall'astio che intercorre tra la Repubblica Democratica di Corea (DPRK) e gli Stati Uniti. La controproducente ossessione di Washington per le sanzioni e le intimidazioni, e il comprensibile senso di insicurezza di Pyongyang, nonché le inutili violazioni delle risoluzioni ONU, hanno soltanto esacerbato le ostilità».

Proprio Washington parrebbe essere stato il vero convitato di pietra della due-giorni di Xi a Seul. Attirando a sé la Corea del Sud, il Dragone starebbe cercando di scompigliare il sistema di alleanze che la prima economia del mondo ha messo in piedi nella regione in funzione del proprio 'Pivot to Asia'. Le circostanze sono ottime data la crescente intesa con la Corea del Sud -che ospita ancora circa 30mila soldati americani-, e la comune insofferenza per lo sfoggio muscolare del Giappone, alleato numero uno di Washington nel Pacifico. Due gli eventi che, sommati alle accuse di negazionismo riguardo le atrocità commesse durante il secondo conflitto mondiale, sono valsi a Tokyo nuove critiche da parte di Pechino e Seul: innanzitutto, la revisione della Costituzione pacifista in base alla quale le forze armate nipponiche possono ora difendere gli alleati sotto attacco nella forma di 'autodifesa collettiva'. In secondo luogo, il riavvicinamento del Sol Levante alla Corea del Nord -i due non hanno relazioni diplomatiche- nell'ambito dell'annosa faccenda dei cittadini nipponici rapiti al tempo della Guerra Fredda. Il Governo giapponese ha allentato parte delle sanzioni comminate personalmente a Pyongyang all'indomani del terzo test nucleare in cambio di un riesame del caso; un provvedimento che non dovrebbe portare sostanziali giovamenti all'economia nordcoreana, ma che non è ugualmente piaciuto né oltre la Muraglia, né a Sud della zona demilitarizzata. (Segue su L'Indro)

venerdì 4 luglio 2014

AIIB, una banca per l'Asia a dimensione cinese

100 miliardi di dollari. La Cina raddoppia lo stanziamento iniziale per l'AIIB (Asian Infrastructure Investment Bank), la 'Super Banca' con la quale Pechino punta ad arginare l'influenza di WB (World Bank), FMI (Fondo Monetario Internazionale) e ADB (Asian Development Bank), enti ritenuti appannaggio di una fetta di mondo che il Dragone avverte come ostile all''ascesa pacifica' cinese. Tanto nei mercati quanto sullo scacchiere geopolitico.

Il Presidente Xi Jinping aveva preannunciato la nascita dell'istituto alla viglia del summit APEC (Asia Pacific Cooperation) tenutosi a Bali nell'ottobre 2013. Negli ultimi mesi si era parlato di un capitale sociale di 'soli' 50 miliardi di dollari, una cifra che -secondo fonti del 'Financial Times'- il Governo cinese ora vorrebbe portare a 100 miliardi in aperta competizione con l'ADB (165 miliardi), nella quale a fare la parte del leone sono Stati Uniti e Giappone, rispettivamente con il 15,7 e 15,6% del capitale sociale contro il 5,5% detenuto dalla Repubblica popolare. Con base a Manila, l'ADB sta al Sol Levante come la Banca Mondiale sta agli States e il Fondo Monetario Internazionale all'Unione Europea; tant'è che usanza vuole sia Tokyo a nominarne il Governatore.

Da tempo Pechino lamenta l'inadeguatezza delle istituzioni internazionali dalle quali non si sente adeguatamente rappresentato, e ambisce a ribaltare i criteri di concessione del credito sulla base dei propri principi diplomatici. Prestiti a 'interessi zero' per i vicini asiatici, senza esercitare alcuna leva politica: nessuna pressione interna, richiesta di riforme, garanzie a lungo termine o critiche in materia di diritti umani. Tutti fattori dei quale le organizzazioni finanziarie occidentali si servono spesso per dettare le proprie condizioni. «E' evidente che la Cina non assoggetterà la concessione dei prestiti a fattori non-economici», dichiarano fonti diplomatiche a 'The Hindu'.

La composizione dell'azionariato potrebbe essere annunciata proprio in occasione del prossimo meeting APEC, che si terrà tra il 10 e l'11 novembre a Pechino, mentre il Governo cinese prevede un taglio del nastro entro la fine dell'anno. 22 sono i Paesi ad aver mostrato interesse per il progetto, 10 quelli con i quali il Dragone ha già firmato protocolli d'intesa. Si tratta sopratutto di Nazioni asiatiche in via di sviluppo (Cambogia, Vietnam, Birmania e Corea), ma secondo la stampa internazionale il progetto farebbe gola perfino ad «alcune monarchie petrolifere del Medio Oriente». L'invito è stato esteso anche a Giappone, Stati Uniti e India, nonostante fonti a conoscenza degli eventi assicurano che Pechino farà di tutto per ridurre al minimo la loro influenza all'interno dell'istituto. La maggior parte dei fondi proverrà da oltre Muraglia. (Segue su L'Indro)

mercoledì 2 luglio 2014

Jing-Jin-Ji: una metropoli da 100 milioni di abitanti



Si chiama Jing-Jin-Ji, copre una superficie superiore a quella dell'Uruguay, ospita oltre 110 milioni di abitanti e ha chiuso il 2013 con un Prodotto interno lordo di 1 trilione di dollari, grossomodo quanto totalizzato dalla Corea del Sud. E' la nuova megalopoli che il Governo cinese si appresta a plasmare incorporando le municipalità di [Bei]Jing, e [Tian]Jin alla Provincia dello Hebei (spesso chiamata Ji) che le circonda. Il conto è salato: secondo il Viceministro delle Finanze Wang Baoan, la realizzazione della nuova metropoli nel corso degli anni preleverà ai forzieri di Zhongnanhai circa 42 trilioni di yuan (quasi 5 trilioni di euro).

Il progetto è legato a doppio nodo ad alcuni dei cavalli di battaglia dell'Amministrazione Xi Jinping-Li Keqiang: innanzitutto, lotta all'inquinamento e urbanizzazione sostenibile. Ma l'idea circola nei palazzi del potere dagli anni '80; la NDRC (National Development and Reform Commission) cominciò la stesura del progetto nel 2004, senza, tuttavia, compiere sostanziali passi avanti. Nel 2010 Pechino e la Provincia dello Hebei hanno firmato un primo Accordo quadro di cooperazione, che copre nove aspetti dai trasporti all'energia, passando per le risorse idriche e l'ambiente. Negli ultimi mesi il piano è scivolato sulla scrivania del Presidente cinese non per puro caso, ora che il gigante asiatico si accinge a rivedere il proprio modello di crescita. Il programma «richiede misure volte a promuovere una riforma strutturale su tutti i fronti», ha scandito Jianguang Shen, Capo economista per la Cina di Mizuho Securities, «crediamo che serva a promuovere una ristrutturazione dell'economia cinese e una crescita sostenibile basata sui consumi».

Nei piani della dirigenza cinese, l'integrazione dei tre poli dovrebbe servire a decongestionare il traffico della capitale e ad allentare la pressione esercitata su Pechino dall'arrivo di orde di lavoratori migranti a fronte di risorse insufficienti e strutture d'accoglienza ormai sature. Baoding e Langfang, entrambe città dello Hebei, sono le principali candidate a ospitare parte degli ospedali, delle istituzioni educative e degli uffici amministrativi della capitale, oggi a quota 22 milioni di abitanti.

Ben otto città della macroregione compaiono nella top ten dei luoghi più inquinati del Paese e, stando ai dati rilasciati dalle autorità ambientali di Pechino, il 25% dell'inquinamento respirato dalla capitale proviene, in realtà, dalle aree limitrofe, in particolare da Baoding, Langfang e Tangshan. La Repubblica popolare starebbe cercando di orientare la propria economia verso i servizi dopo decenni d'industria pesante, considerata tra i principali responsabili della contaminazione del suolo e dell'aria. Sforzi coordinati attraverso la regione hanno già portato alla riduzione del particolato sottile (PM2,5) del 9,5% rispetto allo scorso anno in 13 centri urbani. Il programma comprende il trasferimento degli impianti più inquinanti e labor-intensive nelle aree vicine alla capitale, si parla di 1.200 fabbriche da delocalizzare nei prossimi tre anni. Allo stesso tempo, l'obiettivo è quello di promuovere l'industrializzazione della Cina orientale, rimasta indietro dopo che a partire dagli anni '90 la leadership ha varato una serie di iniziative volte a rilanciare lo sviluppo dell'Ovest e delle provincie centrali, nonché a «ringiovanire la cintura della ruggine del Nord-Est». Secondo quanto reso noto dall'NDRC , lo scorso anno l'economia dell'Est è cresciuta del 9,1%, contro il 9,7% delle regioni interne e il 10,7% della Cina occidentale. Mentre il Nord-Est continua a procedere ad un ritmo più lento dell'8,4%.

Sono in molti a credere che il programma di integrazione regionale si presenti come il lascito di Xi ai posteri, nell'ambito di una tradizione di grandi opere che risale all'epoca imperiale: il primo imperatore Qin Shi Huangdi fece erigere la Grande Muraglia nel II secolo a.C., mentre a Sui Yang (VII secolo d.C.) si deve il Gran Canale che collega il Sud del Paese a Pechino. In tempi meno remoti, i 'nuovi imperatori' hanno cercato di legittimare il proprio potere attraverso progetti economici ambiziosi a partire dalla promozione di Shenzhen e Zhuhai a Zone economiche speciali nell'ambito del piano di riforme a apertura lanciato da Deng Xiaoping sul finire degli anni '70. Un decennio più tardi, l'Amministrazione Jiang Zemin-Zhu Rongji designò l'area di Pudong, nel centro di Shanghai, hub finanziario del gigante asiatico. Come ricorda il 'China Daily', è proprio grazie alla sinergia tra il Delta del Fiume delle Perle e l'area del Delta dello Yangtze che il boom economico di Canton e Shanghai è stato reso possibile. Proseguendo sul cammino aperto dai primi esperimenti regionali, la Cina è poi divenuta 'fabbrica del mondo' e, nel 2001, membro della WTO (World Trade Organization).

All'Ovest e alle Province centrali del Paese, invece, ha rivolto l'attenzione la quarta generazione di leader, uscita di scena con il rimpasto del novembre 2012. Ma le campagne del 'Go West' e del 'Develop Central China' non sono riuscite a colmare le carenze strutturali dell'economia nazionale, lasciando in eredità alla nuova amministrazione intricati nodi da sbrogliare. In futuro la megalopoli Jing-Jin-Ji potrebbe servire a dare lustro alla baia di Bohai, ancora poco aperta al mondo (nel 2012 le esportazioni hanno contato per il 15% del Pil locale, contro il 60% del Delta dello Yangtze e il 63% del Delta del Fiume delle Perle).

Affinché questo avvenga, rimangono da appianare le discrepanze che dividono le tre regioni. Pechino e Tianjin sono classificate come Municipalità e pertanto vengono controllate direttamente dal Governo centrale, fattore che le pone un gradino sopra il normale status di Provincia. A sua volta la capitale, oltre ad essere sede degli uffici governativi, ospita anche le principali istituzioni educative del Paese, fornendo ai suoi cittadini servizi migliori rispetto allo Hebei e a Tianjin. Porre tutte e tre sotto lo stesso cappello faciliterebbe una spartizione più equa delle risorse, evitando sprechi e ridondanze a livello amministrativo. L'operazione non è di facile realizzazione, ma il potere accumulato da Xi Jinping nell'ultimo anno sarà di aiuto nel mettere a tacere gli interessi costituiti.

L'integrazione regionale dovrebbe avvenire grazie alla realizzazione di imponenti opere infrastrutturali, inclusi un secondo aeroporto a Sud della capitale e un settimo anello autostradale (Pechino ne ha già sei), un'arteria di 940 chilometri che servirà a inglobare la nuova area urbanizzata. Saranno infatti i trasporti a costituire la spina dorsale della nuova metropoli attraverso la diramazione di un complesso network tra i centri urbani delle tre regioni, che -secondo proiezioni della rivista economica 'Caijing'- sarà ultimato entro il 2020.

Lo scorso marzo, il Governo cinese ha rilasciato i dettagli di un colossale piano di urbanizzazione che mira a sviluppare le città di seconda e terza fascia, nonché a rivalutare le periferie cittadine attraverso la costruzione di una rete di ferrovie ad alta velocità per tutti i nuclei urbani con più di 500mila anime. Stime ufficiali parlano della delocalizzazione del 60% della popolazione nei centri urbani entro il 2020; numeri alla mano, nei prossimi cinque anni 100 milioni di persone dovrebbero lasciare le aree rurali per le città. Affinché questo avvenga senza contraccolpi la leadership punta a facilitare l'ottenimento da parte dei migranti dell'hukou, il permesso di residenza che aggancia ogni persona al luogo di origine, limitandone l'accesso ai servizi in caso di trasferimento. Tale sistema dovrebbe diventare più elastico sopratutto nelle città di minore grandezza, in modo da ampliare il bacino di consumatori in grado di sostenere la tanto agognata transizione da un'economia sostanzialmente export-oriented a un modello di sviluppo incentrato sui consumi interni.

In una recente intervista condotta da 'China Files', Klaus Rohland, Direttore della Banca Mondiale per Cina e Asia Orientale, ha espresso diversi dubbi riguardo il piano di urbanizzazione del Dragone: «C’è ancora molto da fare con le città già esistenti. Uno dei problemi arrecati dalle città satellite è che destabilizzano la città vecchia, perché molte funzioni vengono sottratte al suo nucleo centrale. Ma se si vuole avere una 'urbanizzazione incentrata sull'uomo' bisogna conservare intatto il centro storico, il che è anche questione di patrimonio culturale. Si può immaginare una serie di città satellite attorno a Roma che sottraggano al centro la sua ragione d’essere?» Sullo stesso spartito Jan Wampler, docente del Massachusetts Institute of Technology con maturata esperienza da architetto in Cina e fortemente critico verso il modello di sviluppo urbano perseguito dalla capitale cinese: «Non puoi continuare a costruire anelli. Prima o poi ti dovrai fermare, e io penso che quel momento sia arrivato», ha spiegato al 'Wall Street Journal'.

Ma c'è dell'altro. Dietro alle grandi opere del Dragone rimane sempre in agguato il pericolo di un ulteriore surriscaldamento dell'immobiliare, alimentato negli ultimi anni dal credito facile e a basso costo e attenuatosi soltanto di recente grazie a una politica monetaria più restrittiva. La nuova megalopoli è parsa subito un grande affare agli investitori che, giocando d'anticipo, si sono affrettati a fare incetta di appartamenti. Risultato: ancora prima che il piano per la Jing-Jin-Ji venisse ufficializzato, nel mese di marzo i prezzi delle case a Langfang sono saliti di 1200 yuan a 8500 yuan per metro quadro, mentre secondo il sito NetEase, a Baoding il rincaro è stato ancora più netto nell'arco di pochi giorni, da 5000 a 7000 yuan a metro quadro.

Nel 2002 il distretto Baodi di Tianjin e Hopson Development, società immobiliare quotata a Hong Kong, hanno iniziato la costruzione di una città 'ecofriendly' pensata come centro satellite proprio in prossimità di Pechino e Tianjin. Jing Jin, questo il suo nome, oggi si presenta come un agglomerato urbano di 53 chilometri quadrati costituito da hotel a cinque stelle, musei, teatri, campi da golf e almeno 3000 villette. Quasi tutte completamente vuote. Proprio come accaduto nelle 'cattedrali nel deserto' di Ordos (Mongolia Interna) e Shenmu (Shaanxi), a Jing Jin lo sviluppo di infrastrutture e opportunità economiche procede con un passo più lento rispetto al real estate, fattore che rende molto difficile attrarre residenti e riempire le nuove costruzioni. Il problema sta sopratutto nell'arretratezza dello Hebei, una provincia la cui economia si regge ancora sulla produzione delle acciaierie e che gli esperti dubitano possa costituire una meta abbastanza appetibile da invogliare i lavoratori ad abbandonare la caotica ma vivace capitale. (Scritto per L'Indro)

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