La crisi finanziaria che ha colpito le economie mature ha acuito l'insoddisfazione e i dubbi verso i sistemi politici occidentali. Gli accadimenti susseguitisi tra la fine della Guerra Fredda e la morte di Gheddafi hanno evidenziato la fragilità dei totalitarismi e la superiorità dei regimi democratici, ma è possibile parlare di democrazia come di un valore universale? Un editoriale pubblicato il 21 ottobre sul Global Times, quotidiano ufficiale del Partito comunista cinese (Pcc), presenta la questione così come viene vista attraverso gli occhi a mandorla, sottolineando l'importanza di adattare e plasmare la democrazia in base alle caratteristiche proprie di ogni singolo Paese, al fine di massimizzare i benefici del sistema stesso. Questo è un po' il principio che sta alla base della "democrazia con caratteristiche cinesi," promossa dal governo cinese; una democrazia che non ha come obiettivo l'occidentalizzazione del sistema, non prevede una competizione elettorale multipartitica né una tripartizione dei poteri, ma che principalmente si basa sul rinnovamento dell'Assemblea nazionale del popolo attraverso l'introduzioni di elezioni dirette e competitive, tra più candidati scelti a livello locale.
L'editoriale del Global prende le mosse dal presupposto che le carenze emerse nel processo di democratizzazione del Medio Oriente rispecchiano i punti deboli del concetto di democrazia “made in Occidente”. Dalle proteste di Wall Street alla primavera araba, la pancia del Paese, un po' in tutto il mondo, sembra dare segni di insofferenza per quanto sta avvenendo tra le mura di casa propria; se non animata, ovunque, dalle stesse motivazioni, diciamo che se non altro presenta sfumature simili. I regimi di Gheddafi e Mubarak sembrano aver intrapreso la stessa direzione, ed ora che i “cattivi” sono stati eliminati sorge il sospetto che i movimenti democratici possano degenerare a loro volta in fondamentalismi. Adesso più che mai gli sviluppi futuri sono sospesi nell'incertezza.
Insomma, la crisi globale ha puntato i riflettori sulle crepe del sistema democratico che viene da Ovest e, per tale ragione, l'anonimo autore ritiene opportuno soffermarsi sul concetto stesso di democrazia: “La democrazia è l'opposto dell'autoritarismo individuale, ma tuttavia non si limita soltanto all'attuazione del sistema 'una persona, un voto', sebbene per molto tempo si è creduto fosse la sua unica caratteristica. In molti paesi questo format ha causato uno stato di caos non inferiore a quello suscitato da molti regimi autoritari. La democrazia è qualcosa che deve produrre effetti reali; non deve ostacolare le persone ma facilitare il progresso della società. Non ha nemmeno motivo di interrompere il suo sviluppo e la sua evoluzione in nome delle passate conquiste” Poi l'articolo giunge al nocciolo della questione: “La democrazia ha bisogno di adattarsi alle esigenze di ogni singolo paese, creando nuovi canali di interazione tra il popolo e il potere: le elezioni non sono l'unico mezzo che ci viene messo a disposizione. Un governo va valutato sulla base dei servizi che offre ai propri cittadini, in modo da ottenere la pubblica approvazione. In Medio Oriente, l'era degli uomini dal pugno di ferro è giunta al termine, e presto lo sarà in tutto il mondo.Ogni Paese svilupperà un suo sistema democratico il più possibile consono alle proprie caratteristiche (leggi: “democrazia con caratteristiche cinesi”). Tutto questo potrà introdurre un nuovo capitolo nella storia del genere umano”.
Se non fosse che le parole provengono dall'Impero Celeste, per mezzo di una delle voci più vicine al Ghota cinese, si potrebbe quasi cadere vittima della logica di un ragionamento che sicuramente un certo fascino ce l'ha: l'idea di una “democrazia altra” fa gola un po' a tutti gli “indignati”. Poi però balza agli occhi un'incongruenza. O meglio: nel puzzle di un mondo in protesta, ricostruito dalla penna del “profeta cinese”, manca un tassello; un tassello da 1,3 miliardi di abitanti. In altre parole, l'autore sembrerebbe essersi dimenticato di citare in causa proprio il suo stesso paese. Una svista che insospettisce non poco dato il fermento che, dal febbraio scorso sino ad oggi, sta crescendo a ritmi esponenziali un po' in tutto il Regno di Mezzo. E sebbene possa sembrare strano data la proverbiale mansuetudine del popolo cinese, gli “indignados”, a quanto pare, sono sbarcati anche entro i confini della Grande Muraglia. Il 28 ottobre il South China Morning Post utilizzava proprio il termine “indignati” nel descrivere i riots di Huzhou, città dello Zhejiang e capitale dell'abbigliamento per l'infanzia, che la scorsa settimana hanno visto piccoli lavoratori e imprenditori protestare a braccetto contro l'aumento delle tasse. Un'alleanza dei ceti produttivi contro le autorità che è degenerata in caos e distruzione di strutture pubbliche e simboli del potere politico.
Dal Guandong, al Xingjiang, dal Jiangsu alla Mongolia Interna e poi ancora in Tibet, sino alle metropoli di Pechino e Shanghai; ormai in ogni parte della Cina proteste e movimenti di rivolta si spandono a macchia di leopardo, catalizzate dal malcontento per i bassi salari, per l'inflazione galoppante, per le condizioni di lavoro insostenibili, alimentate dall'indignazione verso la corruzione dilagante, dai sentimenti indipendentistici e dal progressivi allargamento della forbice tra ricchi e poveri. Questi e molti altri fattori hanno trasformato il Paese di Mezzo in una gigantesca polveriera che, secondo molti, non tarderà ad esplodere.
E se i regimi del mondo arabo sono stati sconfitti, nel Celeste Impero, a tenere salde le redini del potere è ancora la dittatura monopartitica, caratterizzata dal monolitismo delle strutture di governo, le quali non lasciano la minima possibilità di dialogo.
Eppure di tutto ciò il giornalista del Global Times non fa parola; preferendo glissare su quanto accade a casa propria, tratta la questione democrazia da una prospettiva super partes, “dimenticando”, forse, che dalle proteste di piazza Tiananmen del 1989, la parola democrazia, proprio in Cina, è diventata ormai un tabù inviolabile.
(A.C)
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