giovedì 20 ottobre 2011
I monaci del Dalai Lama: per i fedeli martiri, per Pechino "terroristi"
"Terrorismo mascherato", così il governo cinese ha definito le autoimmolazioni dei monaci tibetani che si sono succedute negli scorsi mesi. E automaticamente, secondo un copione già scritto, la responsabilità è ricaduta sul Dalai Lama, il leader spirituale che con le sue preghiere in favore dei martiri buddhisti continuerebbe- secondo Pechino- ad incitare il popolo tibetano al suicidio come segno di rivolta.
Dal 16 marzo sino ad oggi, sono ben nove i bonzi tibetani che si sono dati alle fiamme in segno di protesta, ma in realtà il totale di coloro che hanno scelto la morte per un Tibet libero è senza dubbio un numero ben più consistente. Proprio ieri Tenzin Wangmo, prima martire donna, ha marciato per otto minuti avviluppata tra le lingue di fuoco, recitando slogan anticinesi e invocando il nome del Dalai Lama. E la risposta di Pechino non si è fatta attendere: nella giornata di ieri il portavoce del ministero degli Affari Esteri, Jiang Yu, ha apertamente puntato il dito contro la "cricca del Dalai Lama" per la moltiplicazione di insurrezioni che nelle ultime settimane hanno investito il sud-ovest del Paese. "Invece che denunciare e criticare le autoimmolazioni, gli indipendentisti tibetani e il loro capo religioso hanno tratto vantaggio da questi episodi per incitare altre persone a seguire lo stesso esempio. Sono in tutto è per tutto atti violenti di natura terroristica", ha affermato Jiang.
Da qualche mese a questa parte il monastero di Kirti, nella provincia del Sichuan, continua ad essere teatro di numerose rivolte; diverse foto mostrano i monaci manifestare contro le autorità e opporsi alle forze dell'ordine. Una situazione disperata che il primo ministro del governo tibetano in esilio non ha dubbi sia da attribuire alla linea dura utilizzata per decenni dal governo comunista cinese: "La propaganda di Pechino maschera bene ciò che nei fatti non è altro che una campagna di distruzione nei confronti del nostro popolo e della nostra cultura, spinta da ambizioni coloniali". Un genocidio al quale il popolo tibetano ha cercato di reagire attraverso dimostrazioni pacifiche, senza tuttavia sortire alcun effetto.
Il 10 settembre scorso l'ufficio di pubblica sicurezza della prefettura di Ngaba ha condannato tre monaci a scontare 3 anni di lavori forzati nei famigerati lager cinesi. La tradizione vuole che ogni anno all'inizio di settembre la comunità religiosa di Kirti celebri 15 giorni di festività, ma fino ad oggi solo pochi membri hanno fatto ritorno al monastero, mentre Pechino ha sguinzagliato nella zona un vasto numero di agenti per procedere con la "campagna di rieducazione patriottica". Ma le autorità cinesi non si fermano davanti a nulla, e non hanno esitato nemmeno a sfoderare l'arma della corruzione: 20mila yuan e un prestito di 50mila è il compenso per coloro che si allontaneranno volontariamente dal monastero per "cominciare una nuova vita".
La questione tibetana rappresenta una ferita ancora aperta per la leadership del Regno di Mezzo dagli accadimenti del 1959, data della grande rivolta anticinese nonché dell'inizio dell'esilio indiano di Tenzin Gyatso. In seguito gli attriti tra Pechino e il popolo del Tibet sono degenerati in un'escalation di eventi culminata nei sanguinosi scontri dell'aprile 2008.
(A.C)
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