Sebbene cieco dalla nascita, in un Paese in cui la popolazione brancola nel buio sottoposta al bendaggio delle autorità, Chen sembra vederci meglio di tanti altri e, una volta riassaporata la libertà nel settembre 2010, non ha rinunciato a portare avanti la sua battaglia. Sottoposto agli arresti domiciliari insieme alla moglie e alla figlia (il primogenito è stato strappato ai genitori e affidato ai nonni per ordine del giudice tutelare), la famiglia Chen è riuscita a gabbare i controlli governativi e a comunicare con il mondo esterno attraverso un "video-denuncia", diffuso in seguito da China Aid.
La risposta del Partito non si è fatta attendere: lo scorso febbraio dieci funzionari locali, fatta irruzione nella residenza del dissidente, hanno pestato a sangue i due coniugi per due ore di seguito; la donna è svenuta a causa delle percosse subite. Ma non solo. La famiglia Chen è stata in seguito privata dei beni di prima necessità e dei medicinali di cui Guangcheng necessita a causa di alcuni disturbi cronici, mentre l'abitazione è stata trasformata in una prigione: sigillate le finestre, sequestrati oggetti tra i quali computer, televisione, il bastone per ciechi dell'uomo e i giocattoli della figlia. Un impianto di telecamere monitorizza ogni movimento all'interno della casa-prigione per scongiurare ogni pericolo di fuga.
Chen Guangcheng, che nel 2005 aveva denunciato i metodi poco ortodossi per il controllo delle nascite adottati dalle autorità di Linyi - che vanno dalle percosse agli aborti coatti - ha messo in luce un bilancio agghiacciante: nella provincia dello Shandong, in un solo anno, sarebbero state imposte oltre 7mila sterilizzazioni forzate. Oggi, con un totale di 130mila denunce per aborti coatti, il nome del dissidente appare nella classifica dei "100 uomini che hanno dato forma al mondo", stilata dal Time.
Entro i confini della Grande Muraglia, la rete ha dimostrato la sua solidarietà nei confronti dell'attivista, pubblicando online oltre 210 fotoritratti in venti giorni, contraddistinti tutti dagli occhi coperti a simboleggiare quella menomazione fisica che non ha, tuttavia, impedito a Chen di vedere le ingiustizie che lacerano il suo Paese. "Supportiamo Guangcheng, aiutiamo Guangcheng" è il nome della campagna lanciata su internet e che sta diventando il leitmotiv dei microblog in salsa di soia, mentre il polverone mediatico si sposta dal web alla carta stampata, innescando una querelle che vede quotidiani dalle inclinazione più liberali opporsi agli organi di stampa governativi (leggi: Oriental Morning Post VS Global Times).
Anche la comunità internazionale è in grande apprensione per la sorte dell'attivista cinese, da alcuni dato già per morto. Al tam tam degli ultimi tempi, che ha dato vita a quello che viene chiamato sarcasticamente dai netizen " turismo di avventura nello Shandong", ha fatto seguito un'ulteriore stretta della polizia locale: diversi amici e giornalisti stranieri sono stati arrestati o hanno subito minacce per aver tentato di avvicinarsi all'abitazione del dissidente cinese, e chiunque cerchi di entrare nel villaggio di Dongshigu fa inesorabilmente ritorno a casa con una buona dose di lividi.
Intanto la voce del dissenso arriva al grande pubblico proprio grazie alla mediazione dell'Occidente: Women's Right Without Frontiers, in collaborazione con il CNN e China Aid, ha realizzato un video nel quale è lo stesso Chen Guangcheng ha rilasciare una breve, sebbene pungente, dichiarazione d'intenti: “La cosa che possiamo fare è dominare il terrore e denunciare la loro sfacciataggine che è disumana e priva di coscienza. Dobbiamo esporre ogni loro misfatto nascosto. Per la realizzazione di questo video sono perfettamente pronto, so che possono torturarmi come fecero con Gao Zhisheng (altro dissidente cinese) ma non ho paura”.
Ora, gettato il sasso, non resta che attendere la risposta di Pechino; e dovrà essere una risposta ben ponderata se si vuole evitare che Chen Guangcheng diventi un secondo Liu Xiaobo.
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