Una rondine non fa primavera, nemmeno se la rondine in questione si chiama Zarganar ed è uno dei prigionieri politici più importanti del Myanmar. Il noto comico birmano, finito agli arresti nel 2008 dopo aver aspramente criticato la gestione del governo birmano al tempo del ciclone Nargis (che spazzò via 140.000 vite), da mercoledì è di nuovo libero, graziato dall'amnistia concessa dal nuovo presidente Thein Sein al potere dallo scorso novembre. Oltre a Zarganar, sono 6.300 i detenuti che hanno beneficiato della clemenza del leader del governo "civile", il quale, alla ricerca di una nuova immagine agli occhi della comunità internazionale, centellina pillole di democrazia.
Una settimana dopo aver assunto la guida del governo, il generale aveva provveduto a scarcerare Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la Pace e leader dell'opposizione democratica, che ha trascorso agli arresti domiciliari 18 degli ultimi 21 anni; una mossa ben posta che, tuttavia, non ha ammaliato le democrazie occidentali ancora sospettose verso il regime di Thein, definito sulla carta "civile", ma nei fatti ancora caratterizzato dal pugno di ferro.
Secondo le stime di Amnesty International ammontano a circa 2.000 i detenuti politici ancora dietro le sbarre; tra questi, probabilmente, Min Ko Naig e Ko Ko Gyi, che nel 1988 avevano guidato una fallimentare rivolta studentesca e U Gambira, uno dei monaci più importanti coinvolti nelle proteste di piazza del 2007. "Se si sperava che il governo avrebbe dato la libertà ad un buon numero di prigionieri, sicuramente la realtà dei fatti è piuttosto deludente", ha dichiarato David Mathieson di Human Rights Watch. Parole di rimpianto ed amarezza anche quelle di Zarganar il quale, subito dopo aver lasciato la prigione di Myitkyina, aveva detto al settimanale locale Weekly Eleven: "Il mio cuore è pesante, sapendo che molte altre persone sono ancora sotto detenzione. Sulla base delle mie esperienze personali, non so dire se finalmente sia in atto un qualche cambiamento, ma di certo le recenti scarcerazione sono state al di sotto delle aspettative". L'Associazione d'assistenza per i prigionieri politici (AAPP), gruppo birmano con sede in Thailandia, ha fatto sapere che i detenuti effettivamente rilasciati sono solo 207, un numero irrisorio rispetto ai 2.000 ancora dietro le sbarre.
D'altra parte, seppur a piccoli passi, il governo civile del Myanmar sta cercando di venire incontro alle richieste del popolo, o almeno così vuole dare a vedere. Proprio alla fine di settembre è stata resa nota la sospensione dei lavori per la diga di Miytsone, un progetto avviato nel 2005 dal presidente birmano e dal suo omologo cinese Hu Jintao sulla base del quale si sarebbero dovuti allargare 766 chilometri quadrati di terre fertili, con conseguente spostamento coatto di migliaia di cittadini residenti. L'opera, che rientrava in un piano generale per la realizzazione di sette dighe "generosamente" finanziate da Pechino, aveva suscitato comprensibili polemiche tra la popolazione, ragione per la quale lo stop ai lavori ha ricevuto il plauso tanto di Aung San Suu Kyi che della comunità internazionale.
Ora, però, il passo falso di mercoledì sembra aver cambiato le carte in tavola. "L'esiguo numero di scarcerazioni in qualche modo dimostra un rilassamento nel processo di riforma politica" - aveva affermato ieri Benjamin Zawacki, researcher di Amnesty International per la Birmania - "non c'è dubbio che nei mesi scorsi si sia riscontrata una certa apertura, ma ciò che è accaduto oggi rappresenta un brusco arresto."
(A.C.)
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