Cambia il nome ma non la sostanza. Le promesse di apertura e democrazia del governo “civile” birmano, che cinque mesi fa ha nominalmente messo fine ad un ventennio di dittatura militare, non convincono l'opposizione, né tanto meno la pancia del Paese. E sebbene le pareti degli uffici governativi della capitale siano state ripulite dalle onnipresenti effigi del generale-dittatore Than Shwe, voci indiscrete sostengono che nelle questioni più importanti sia ancora lui ad avere l'ultima parola. Costituiti per il 25% da militare e per il 73% da ex uomini in divisa o esponenti dello Uspd (Union solidarity and development Party, il partito di maggioranza e longa manus della giunta militare), Parlamento ed esecutivo sono ancora presieduti dai “soliti noti”; una situazione questa, come dichiarato da Maung Maung, segretario generale del National Council of the Union Burma, che di fatto “preclude la possibilità di emendare la Costituzione, precondizione per poter partecipare alle elezioni.” E se qualcuno ancora conservava in cuor suo qualche speranza, a togliere ogni dubbio ci ha pensato il nuovo presidente Thien Sein il quale, nel suo discorso inaugurale, annunciato di voler modernizzare e rafforzare le forze armate per una migliore difesa del Paese, ha poi “gentilmente” rispedito al mittente ogni richiesta di dialogo proposta dai leader della lega Nazionale per la Democrazia (Nld).
Maltrattamenti verso la popolazione, confische, abuso di potere, e tangenti sono ancora all'ordine del giorno. Il Myanmar si barcamena faticosamente tra spinte conservatrici e tentativi riformisti; e la rischiesta di rinnovamento arriva anche dall'esercito stesso. Negli ultimi tempi, salari troppo bassi e la mancanza di qualsiasi possibilità di dialogo hanno portato le truppe di Rangoon a fare la voce grossa, e la moltiplicazione di casi di ammutinamento ne è un chiaro segno.
E neppure la serie di incontri diplomatici svoltisi lo scorso mese tra l'entourage goverantivo e la dissidente dei democratici, Aung Saan Siu Kyi, liberata dagli arresti domiciliari lo scorso novembre, sembrano aver tranquillizato gli animi. Anzi, sono in molti a credere che l'inaspettata svolta in senso pacifista intrapresa da Thien Sein celi in realtà l'ennesimo tentativo di legittimazione agli occhi di Stati Uniti e Unione Europea, le quali mantengono sanzioni economiche e commerciali nei confronti del Myanmar. Ma non è tutto. La posta in gioco è ancora più alta se si pensa alla corsa per la presidenza dell'ASEAN (Association of South-East Asian Nations) alla quale il governo di Naypidaw è candiadato per il 2014. In quest'ottica, la premio nobel per la pace, Suu Kyi, rappresenta il miglior biglietto da visita verso l'esterno che il governo “civile” birmano possiede.
(Alessandra Colarizi)
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