venerdì 9 settembre 2011

Lo Xingjiang e gli attacchi made in Islam

I timori di Pechino hanno trovato conferma: un gruppo islamico poco noto ha rivendicato la paternità degli attacchi violenti che nel mese di luglio causarono decine di feriti nella provincia autonoma dello Xingjiang. La Site Intelligence Group, organizzazione americana che tiene traccia delle attività dei gruppi terroristici, mercoledì ha postato sul suo sito web un video che reca la firma del Partito islamico del Turkestan. “Gli attacchi di Hotan e Kashgar sono stati guidati dal desiderio di vendicare la repressione attuata dal governo cinese ai danni della popolazione a minoranza uigura che abita la regione”, afferma nel filmato il leader del gruppo, Abdul Shakoor Damla. Ma il Partito islamico non è nuovo a questo tipo di dichiarazioni; già nel 2008 le minacce avanzate a ridosso delle Olimpiadi di Pechino avevano indotto Zhongnanhai a prendere misure antiterrorismo avveniristiche.

Intanto mentre ieri sera il New York Times pubblicava un articolo attribuendo i fatti dello Xingjiang ad Al Qaeda, la notizia rimbalzando da un quotidiano all'altro, è stata progressivamente ridimensionata.
Zhao Guojun, analista presso l'Accademia di Scienze Sociali di Shanghai, invita alla cautela: “La rivendicazione degli attacchi di Hotan e Kashgar ha lo scopo di richiamare l'attenzione della comunità internazionale su di loro” ha affermato Zhao in un'intervista telefonica, sottolinenado che il gruppo terroristico in questione si ritiene conti non più di un centinaio di iscritti, la maggior parte dei quali di etnia uigura.

Ma la situazione nella provincia occidentale dello Xingjiang, negli ultimi anni, è diventata la spada di Damocle di Pechino. Nel luglio 2009 una marcia di protesta della minoranza uigura sfociò in scontri armati, terminando con un bilancio di 184 vittime, in buona parte di etnia Han. E sebbene da quel momento i controlli governativi siano stati intensificati, la zona continua ad essere soggetta a sporadici focolai.

Restrizioni sulla pratica dell'Islam, molestie per mano della polizia cinese, discriminazioni sul lavoro; sono queste alcune delle gocce che hanno fatto trabboccare il vaso della popolazione turcofona dello Xingjiang, mentre Pechino continua a puntare il dito oltre i confini del Regno di Mezzo. Secondo le autorità cinesi gli autori degli attacchi terroristici avrebbero pianificato le loro mosse in un campo di addestramento situato nel Pakistan, ma nonostante gli addetti ai lavori siano propensi a confermare la natura programmatica degli attacchi di fine luglio, tuttavia hanno anche messo in risalto la scarsa sofisticatezza degli autori. ( armati di coltelli e alla guida di automobili killer ad Hotan, di ordigni primitivi a Kashgar).

Da tempo il governo cinese attribuisce le violenze nello Xingjiang ad un gruppo chiamato Movimento Islamico del Turkestan orientale il cui leader Abdul Haq al-Turkistani, divenuto nel 2005 membro del consiglio esecutivo di Al Qaeda, è rimasto ucciso durante un attacco in Pakistan lo scorso anno. Il nucleo terroristico del Turkestan avrebbe anche ammesso la responsabilità per l'esplosione di un autobus a Shanghai che nel 2008 costò la vita a tre persone, nonché per una serie di episodi di violenza che hanno colpito le città di Canton e Wenzhou. Voci queste che Pechino non  ha confermato né smentito.

E' da quel lontano 11 settembre, quando l'attacco alle Torri Gemelle mise in ginocchio gli Stati Uniti, che il pericolo terrorismo perseguita il Dragone. E secondo un recente sondaggio, con oltre 7000 condanne, la Cina ha conquistato la medaglia d'argento nella “caccia al terrorista”, preceduta soltanto dalla Turchia. Ma considerando che nel Regno di Mezzo il termine “terrorista” viene sottoposto ad una dilatazione semantica che finisce per abbracciare anche i seguaci del Dalai Lama e della Fulan Gong, non sono in pochi a ritenere che l'allarme Al Qaeda sia stato spesso utilizzato per colpire le scomode voci del dissenso.

(Alessandra Colarizi)

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