martedì 20 settembre 2011

La giustizia non può più attendere

Ricordare spesso è più difficile che dimenticare, "scavare una fossa e seppellire il passato per guardare al futuro", risulta assai più conveniente ed indolore ed è una prassi consueta nel corso della storia, legittimata dal tacito consenso della comunità internazionale che ha reso la memoria storica l'umile ancella della retorica politica. E in questa storia fatta di "giustizia selettiva", che assolve i potenti e ignora i sofferenti, non ci sono né vincitori né vinti, ma solo "bastardi senza gloria".  Nessuno è scagionato solo perché protetto dalla "presunzione d'innocenza"; nemmeno chi della giustizia dovrebbe essere il regolatore.

Ed è così che l'avvocato difensore stesso finisce sul banco degli imputati: il Consiglio per i diritti umani dell'Onu, che avrebbe dovuto far luce sulle "gross violation" perpetuate durante il corso degli ultimi 30' anni, è finito nell'occhio del ciclone dopo le pesanti accuse mossegli da Human rigths watch e Amnesty International per l'immobilità dimostrata nella questione dei crimini di guerra e contro l'umanità commessi in Sri Lanka, nel ventennio tra il 1983 e il 2009. Un conflitto durato oltre un quarto di secolo che ha visto il gruppo separatista delle Tigri tamil combattere contro il governo di Colombo per dar vita ad uno stato indipendente nel nord e nell'est dell'isola. Una guerriglia che, sebbene non abbia mai trovato l'appoggio della popolazione si è conclusa con un bilancio di 100mila vittime, di cui - secondo i dati dell'Onu - 40mila soltanto nei mesi seguenti all'offensiva  governativa del novembre 2008. Allora un primo SOS fu lanciato dalle organizzazioni dei diritti umani dell'isola per ricadere immancabilmente nel vuoto. Soltanto nell'aprile 2010 l'esito di un'inchiesta portata avanti dall'Onu che accusava Colombo di aver ucciso decine di migliaia di civili, bombardando centri d'accoglienza, ospedali e operatori umanitari; di aver negato alle persone rimaste intrappolate nelle zone di conflitto qualsiasi tipo di aiuto umanitario. Quanto ai Tamil, risultarono responsabili dell'arruolamento coatto di bambini e dell'utilizzo della popolazione inerme come  scudo umano.

Ma nonostante la risonanza che questa carneficina ebbe in seno all'opinione pubblica, il segretario generale del Consiglio, Ban Ki-moon, dichiarò di non avere l'autorità per ordinare un'inchiesta internazionale. Un fascicolo archiviato sino a pochi giorni fa quando, a ridosso della riunione di Ginevra in agenda per il 13 di settembre, gli attivisti sono tornati alla carica, denunciando al Consiglio la totale impunità di cui continuano a godere gli artefici del massacro. Pronta è stata la reazione del presidente Sri Lankese, Mahinada Rajapaksa, che attraverso la revoca dello stato di emergenza, ha proceduto a sostituire lo stato di guerra con la legge marziale. Un provvedimento questo che di fatto gli attribuisce l'assoluto controllo del Paese e lo esime dal sottoporsi a qualsiasi inchiesta dell'Aja, rendendolo così immune da un possibile arresto per i crimini commessi durante la guerra civile. Secondo Peacereporter "non verranno nemmeno revocati i poteri emergenziali di esercito e polizia, né smilitarizzate le 'zone di sicurezza'. Tantomeno decadrà la messa al bando di tutte le organizzazioni politiche legate all'Ltte (Liberation Tiger of Tamil Eelam), come le Tigri del fronte popolare di liberazione (Pflt). Rimarranno in vigore anche tutte le norme che limitano la libertà di sciopero e di stampa, con il loro tragico corollario di violenze para-governative contro attivisti sindacali, difensori dei diritti umani e giornalisti critici".

Un esito presagito già da chi aveva temuto un intervento degli alleati asiatici di Rajapaksa - Cina in primis - volto ad influenzare le decisioni dell'Onu; un intervento che per il momento non è stato nemmeno necessario per mettere fine alle speranze di chi in una giustizia ancora ci credeva.

Ma a gettare ulteriori ombre sull'operato del Consiglio dei diritti umani, il riaffiorare di un'altra dolorosa cicatrice della storia del 900", ancora una volta inferta all'Indocina, e a distanza di anni mai guarita del tutto.  La rivoluzione ultracomunista cambogiana che tra il 17 aprile 1975 e il 7 gennaio 1979 ha messo fine a un milione e 700 mila vite, ma che in realtà ha avuto degli strascichi sino alla dissoluzione dei khmer rossi nel 99". Crimini di guerra, crimini contro l'umanità e genocidio: sono queste le accuse alle quali dovranno rispondere gli ultimi quattro superstiti del vertice del regime davanti alle Corti straordinarie, il tribunale di Phnom Penh, composto da magistrati locali e internazionali, sotto l'egida dell'Onu.

Ancora una storia di giustizia ritardataria, alla quale piace farsi desiderare. Cominciate le trattative nel 1999, governo cambogiano e Onu giunsero ad un accordo nel giugno del 2003, quando furono stanziati 56 milioni di dollari per le spese processuali, di cui 13 milioni messi a disposizione dalla Cambogia, e 43 milioni dalla comunità internazionale. A quali condizioni? Il tribunale potrà giudicare solo quanto accaduto tra il 17 aprile 1975 - giorno dell'ingresso dei Khmer rossi nella capitale - e il 6 gennaio 1978, vigilia dell'ingresso delle truppe vietnamite e della successiva caduta del regime di Pol Pot. In altre parole il tribunale non potrà occuparsi di quanto avvenuto prima e dopo quel periodo. Dovrà tacere sulle ripercussioni causate dalla guerra tra Vietnam e Usa ( dal 69' al 73'), quando il presidente Nixon, senza il consenso del Congresso, autorizzò il bombardamento della Cambogia causando oltre 150 mila vittime; dovrà tacere sul sostegno prestato dalla Cina al regime filo-maoista cambogiano che, attraverso elargizioni di 100 milioni di dollari l'anno, ha continuato a finanziare i Khmer Rossi fino agli anni 80', anche dopo la caduta di Pol Pot. E sarà silenzio anche sull'invasione vietnamita protrattasi sino al crollo del muro di Berlino, nonché sulle trame geopolitiche che hanno coinvolto la Cambogia nella Guerra Fredda.

Ma il processo, previsto all'inizio per lo scorso settembre, è prima slittato ad agosto, e proprio quando sembrava essere giunti ad un passo dalla tanto agognata "Norimberga cambogiana", i giudici hanno ordinato, pochi giorni fa, la perizia psichiatrica per uno degli imputati, l'ex ministro degli Affari sociali Leng Thirith. Un provvedimento che di fatto ha archiviato nuovamente la pratica almeno fino al gennaio 2012. Un nuovo esito imbarazzante per l'Onu che, ormai messo alla gogna dalle principali associazioni per i diritti umani, dovrà rispondere anche di questo. Mentre una buona dose di responsabilità incombe su Usa e Cina - le quali animate dall'obiettivo di arginare i movimenti di un Vietnam filosovietico, fecero di tutto per ritardare la nascita della Corte - anche l'attuale Tribunale finisce per essere l'esito di una serie di compromessi, sotto la regia di una magistratura "comprata a caro prezzo". Ancora troppi gli interessi e le persone coinvolte.

Un copione noto anche nel Myanmar dove, gli atti repressivi imputati all'esercito birmano vengono tacitamente tollerati da Pechino, alleato numero uno del regime di Yangon cui forniscono armi, prestiti, investimenti e sostegno politico. Un legame sancito dalla protezione diplomatica prestata dalla Cina in seno all'Onu, attraverso l'esercizio del proprio diritto di veto all'interno del Consiglio di Sicurezza su qualsiasi decisione riguardi il Myanmar. E secondo l'usuale rituale del "do ut des", il Dragone riceve in cambio la possibilità di attingere alle ingenti risorse naturali del Paese, scongiurando tra l'altro il pericolo che una Birmania democratica possa seguire la stessa strada percorsa dal Vietnam, uscendo dalla sua orbita per passare sotto l'influenza statunitense. D'altra parte, l'esercito birmano mantiene stabile una situazione che potrebbe facilmente degenerare in una nuova guerra civile, con possibili strascichi anche nell'intera regione e in Cina.

E così, mentre la "politica dell'interesse" continua ad avere la meglio, il Consiglio per i diritti umani dell'Onu perde sempre di più credibilità, dando conferma alle critiche di chi, commentando l'ingresso nel 2006 di Cina, Arabia Saudita, Pakistan, Cuba e Russia, aveva gridato alla beffa.

di Alessandra Colarizi

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