sabato 28 novembre 2015

La Cina verso Parigi


Mancano ormai poche ore al vertice sul cambiamento climatico di Parigi che (dal 30 novembre all'11 dicembre) riunirà quasi 200 Paesi con l'intento di delineare un nuovo accordo all'approssimarsi della scadenza del protocollo di Kyoto (1997-2020). Obiettivo: contenere l'aumento delle temperature medie mondiali entro i 2 gradi centigradi rispetto al periodo precedente alla Prima Rivoluzione Industriale.

Inevitabilmente, tutti gli occhi sono puntati verso la Cina, principale emettitore di gas serra al mondo e additato come vero responsabile del fallimento del summit di Copenaghen 2009, conclusosi senza il raggiungimento di un'intesa vincolante. Quell'anno Pechino rifiutò di includere nell'accordo finale un target massimo per le emissioni, avvalendosi di quanto stabilito nella Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, ovvero che tutti i Paesi hanno "comuni ma differenti responsabilità" a seconda del proprio livello di sviluppo: chi ha raggiunto un grado di industrializzazione superiore (e pertanto inquina da più tempo) è tenuto a rispondere di maggiori obblighi rispetto a chi è ancora in fase di crescita. Addirittura, un rapporto Onu rilasciato nel gennaio 2014, parla di "outsourcing delle emissioni" dalle economie mature attraverso dispositivi elettronici e manifatturiero tessile prodotti nelle Nazioni in via di sviluppo ma consumati negli Stati Uniti e in Europa.

Protetta dal protocollo di Kyoto, che impone target vincolanti solo alle nazioni industrializzate, la Cina, che si considera ancora un "Paese emergente", ha continuato a sostenere la propria espansione economica (trainata da export e investimenti) con licenza di inquinare, in barba agli appelli internazionali. Una posizione, questa, ribadita nel 2011 durante il vertice di Durban da Xie Zhenhua, rappresentate speciale per il Clima (Letteralmente: "Chi può dirci cosa dobbiamo fare?"), ma che ha subito un progressivo ammorbidimento nel corso del tempo.

Se, infatti, il principio della "responsabilità graduale" continua a caratterizzare la posizione cinese ai tavoli internazionali, si sta tuttavia facendo strada una tendenza verso il compromesso, primo sintomo di una nuova strategia estera più assertiva, sì, ma anche più responsabile. Quella uscita dal rimpasto politico del 2013 è una Cina più propensa a riconoscere il suo ruolo di potenza globale e i doveri ad esso declinati. Una prima svolta storica la si è avuta in occasione dell'Apec 2014 (Asia Pacific Economic Cooperation), quando il Presidente cinese Xi Jinping e Barack Obama si sono impegnati a combattere il riscaldamento globale annunciando un'ambiziosa roadmap: per parte sua, Pechino ha promesso 1) di raggiungere un picco massimo delle emissioni entro il 2030 - per poi andare progressivamente a scendere - ed entro questa stessa data di tagliare le emissioni inquinanti per unità di Pil del 60-65 per cento; 2) di ridurre l'utilizzo di combustibili fossili. Al momento la Cina produce due terzi dell'energia che consuma grazie al carbone, che è responsabile per l'80 per cento delle emissioni di CO2.

Più recente, invece, lo stanziamento di 3,1 miliardi di dollari da destinare ai Paesi maggiormente arretrati, per cui, come dicevamo, il Dragone ha un particolare occhio di riguardo. Anche in questo caso si tratta di un'iniziativa annunciata durante una bilaterale tra i leader delle due superpotenze e che sembra rispondere per le rime all'International Green Climate Fund istituito da Obama lo scorso anno con un budget, guarda caso, proprio di 3 miliardi di dollari.

Se sul versante esterno, la rivoluzione verde di Pechino ci suggerisce innanzitutto che -nonostante la querelle sulla cybersicurezza e le provocazione incrociate nel Mar Cinese- almeno nella lotta ai cambiamenti climatici,  Cina e Stati Uniti sono finalmente allineati (Washington non ha mai digerito le resistenze cinesi a Copenaghen), è all'interno della Muraglia che bisogna ricercare le vere motivazioni del cambiamento. Secondo stime ufficiali, ogni anno 350-500 mila persone muoiono prematuramente a causa della cappa di smog che attanaglia le metropoli cinesi; un problema che colpisce trasversalmente tutti i ceti sociali senza distinzione e che sta diventando uno dei principali fattori di malcontento popolare. La pancia del Paese di Mezzo non è più disposta a pagare il prezzo del miracolo economico dell'ultimo trentennio. Sopratutto ora che gli effetti inebrianti dell'iperbolica ascesa cinese stanno svanendo sulla scia del rallentamento economico ribattezzato dalla leadership "new normal". Dove per "nuovo normale" s'intende una crescita economica "medio-alta", attorno al 7 per cento, high-end e meno dipendente dall'industria pesante. In questo contesto l'affrancamento dal carbone risulta, quindi, funzionale ad una ristrutturazione sistemica che avrà come protagonisti le rinnovabili e il nucleare. Secondo la National Coal Association, nei primi dieci mesi dell'anno il consumo cinese del combustibile è sceso del 4,7 per cento su base annua, contro il -2,9 per cento del 2014. Al contempo, con 89 miliardi sborsati, lo scorso anno Pechino ha trainato gli investimenti nel settore dell'energia pulita, rivela il rapporto Climatescope 2015, che ha preso in esame 55 delle principali Nazioni in via di sviluppo.

Problema inquinamento risolto? Non esattamente. Tra il dire e il fare ci sono di mezzo 155 nuovi impianti a carbone (per una spesa di circa 7,3 miliardi di dollari), approvati quest'anno dopo che il governo centrale ha delegato alle autorità locali il potere di avvallare questo tipo di progetti. In teoria, lo scorso gennaio sono stati fissati obiettivi di riduzione del livello di particelle PM 2,5 per ognuna delle 31 province cinesi. Ma il diavolo si nasconde nei dettagli, dicono gli inglesi. E, infatti, l'ostacolo più insidioso sta proprio nel pericolo di un cortocircuito tra gli interessi del centro (limitare i fattori inquinanti e promuovere un nuovo paradigma di crescita) e quelli della periferia (spremere fino all'ultima goccia un settore in cui la corruzione è storicamente radicata).

(GUARDA L'INFOGRAFICA DI CHINESE DOODLES)















lunedì 23 novembre 2015

Pechino e il dilemma del non interventismo


Intervenire o non intervenire? Questo è il dubbio amletico che tormenta Pechino mentre si allunga la lista dei cittadini cinesi vittima del jihad. Lo scorso giovedì lo Stato Islamico (IS) ha reso nota l'esecuzione Fan Jinghui, il cinquantenne di Pechino ostaggio del Califfato "messo in vendita" lo scorso settembre assieme al norvegese Ole Johan Grimsgaard-Ofstad. Nemmeno 24 ore dopo tre dirigenti cinesi della statale China Railway Construction Corp. hanno perso la vita nell'attacco al Radisson Hotel di Bamako sulla cui paternità permangono diversi dubbi, fatta eccezione per l'assodata matrice islamica.

"La Cina si opporrà risolutamente a qualsiasi forma di terrorismo e risolutamente risponderà ad ogni attività criminale e violenta che sfida l'essenza della cultura umana", ha tuonato il Ministero degli Affari Esteri cinese alla notizia della morte di Fan. Mentre la recente escalation di violenza si è fatta strada in sedi inusuali quali i vertici economici di G20, Apec ed East Asia Summit, il gigante asiatico non ha mancato di rimarcare il proprio cordoglio per le perdite altrui all'indomani del massacro di Parigi, sottolineando tuttavia come il terrorismo sia un problema comune. Un problema che non tollera "doppi standard": "anche la Cina è una vittima". L'allusione -che trascende le uccisioni oltremare di cui sopra- batte sul nervo scoperto del Dragone.

Da alcuni anni lo Xinjiang, regione autonoma musulmana dell'estremo occidente cinese, fa da sfondo ad una "guerra a bassa intensità" in cui è difficile distinguere le semplici frizioni etniche dalle infiltrazioni jihadiste. Dagli anni '90 a oggi, attacchi con coltelli ed esplosivi sono stati registrati non soltanto nello Xinjiang ma anche in altre aree del Paese. Stando alle autorità della regione autonoma, nell'ultimo anno sono stati sgominati almeno "181 gruppi terroristici" (pari al 96,2% delle gang locali), ma la reticenza nel fornire informazioni su quanto avviene nel Far West cinese trattiene gli osservatori internazionali dal riconoscere formalmente una minaccia islamica in Cina. Così se Pechino punta il dito contro l'East Turkestan Islamic Movement (sigla oggi di dubbia esistenza ma un tempo prossima ad al-Qaida), le organizzazione per la difesa dei diritti umani tendono a leggere nelle violenze una risposta al presunto genocidio culturale perpetrato dalle autorità centrali ai danni delle minoranze etniche locali, per usi e costumi più vicine al quadrante centroasiatico di quanto non lo siano al resto della Cina. Lo stesso leader dell'IS, Abu Bakr Al-Baghdadi, all'inizio dell'anno aveva condannato le politiche repressive del governo cinese invitando i musulmani dello Xinjiang ad abbracciare la causa jihadista. Il rischio di un contagio da oltre Muraglia (Pakistan e Afghanistan sono alle porte) agita i sonni dell'establishment cinese: secondo Wu Sike, ex inviato speciale in Medio Oriente, sono circa 100 i cinesi assoldati dalle milizie dell'IS, un bilancio diffuso da fonti estere e non verificate indipendentemente dalle autorità di Pechino.

La crescente volatilità dei territori occidentali arriva in un momento in cui la Cina sta cercando di promuovere una cintura economica afro-eurasiatica direttamente ispirata all'antica via della seta. Il progetto (di natura prevalentemente commerciale ma che non disdegna, per ovvie ragioni, la cooperazione sul versante sicurezza) vedrà una massiccia presenza di investimenti e forza lavoro cinesi all'estero, di cui buona parte dislocati in regioni turbolente tra Asia, Africa ed Europa. Le stime attuali parlano di 5 milioni di cinesi oltre Muraglia, tra i quali circa 2 milioni concentrati nel Continente Nero. Tutelare la sicurezza dei propri capitali e cittadini oltreconfine è diventata una priorità per il gigante asiatico. Nel marzo 2015, navi da guerra cinesi hanno evacuato 629 cinesi e altri 279 stranieri dallo Yemen. Nel solo 2011, la Cina ha salvato più cinesi all'estero (oltre 47.000, di cui circa 35.000 in Libia) che nei decenni a partire dalla fondazione della Repubblica popolare (1949).

Stando a fonti del People's Daily, le operazioni di salvataggio di Fan Jinghui erano a buon punto prima che la controffensiva franco-russa contro l'IS facesse deragliare i colloqui tra Pechino e i rapitori. Ma, per molti, l'approccio adottato dal governo cinese davanti al pericolo estremismo (oltreconfine) sarebbe ancora troppo soft. "l'IS ci sta oltraggiando con l'uccisione dell'ostaggio cinese. E' tempo che la Cina si alzi in piedi e agisca da grande potenza", commenta demi_miao sulla piattaforma di microblogging Weibo. Parecchi i commenti favorevoli ad un maggior protagonismo cinese nella guerra contro il terrorismo; altrettanti quelli che invitano alla cautela. "Un'azione militare? Dopodiché possiamo anche dire addio alla pace nei cieli e nel centro di Pechino e Shanghai", scrive Tao Ye sul forum Zhihu.com, mentre Hercule_Holmes_Star avverte: "La Francia ha dichiarato guerra all'IS e cosa ha ottenuto? Se la Cina si schierasse apertamente contro l'IS credete che ora stareste qui a chiacchierare a gambe incrociate?"

A frenare la neo-superpotenza non sembra essere tanto il rischio di una ritorsione islamica quanto piuttosto la necessità di attenersi al principio cardine della propria politica estera, in auge fin dai tempi di Mao: quello della non ingerenza negli affari degli altri Paesi. Con la speranze che lo stesso valga di rimbalzo quando si parla di questioni delicate che interessano direttamente la Repubblica popolare: guai a chi critica la condizione dei diritti umani in Cina o mette in dubbio la sovranità di Pechino su Xinjiang, Tibet e Mar Cinese Meridionale/Orientale. E questo spiega anche la diffidenza cinese nei confronti delle varie rivoluzioni colorate e primavere arabe, finanziate dall'esterno e considerate miccia scatenante dell'emergenza migranti in Europa.

Nel dicembre 2014, il Financial Times aveva ventilato l'ipotesi di raid aerei cinesi in Iraq, citando niente meno che Ibrahim Jafari, ministro degli esteri iracheno. La notizia si sarebbe poi rivelata infondata, almeno quanto i più recenti rumors sull'attracco della portaerei Liaoning lungo le coste siriane. Ma questo non vuol dire che il Dragone stia fermo a guardare. Oltre a contribuire all'addestramento della polizia afghana, nel 2013 la Cina ha rimpolpato la missione Onu di peacekeeping in Mali inviando 170 soldati, mossa storica dopo circa due decenni di supporto esclusivamente medico e logistico. E se tutt'oggi, la massiccia presenza economica del Dragone in Africa risulta accompagnata da un modesto contributo in materia di sicurezza, tuttavia, stiamo assistendo a un rafforzamento della posizione cinese all'interno del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e a un maggior coinvolgimento nella gestione di situazioni di crisi. Proprio recentemente Pechino ha schierato un battaglione da combattimento sotto l’egida della missione di pace dell’Onu in Sud Sudan, Paese in cui il gigante asiatico ha ingenti interessi petroliferi. In futuro, però, tutto questo potrebbe non bastare.

(Pubblicato su Gli Italiani)

sabato 14 novembre 2015

Xi goes global


Rassicurare il mondo sulla tenuta dell'economia cinese e riaffermare l'ascesa pacifica del Dragone sullo scacchiere internazionale. E' con questo messaggio che il presidente cinese, Xi Jinping, continua la sua fitta tournee estera. Alla fine di novembre, ammonteranno a 24 i giorni trascorsi da Xi oltreconfine negli ultimi quattro mesi. Giunto sabato ad Antalya per presenziare alla decima edizione del forum che dal 2008 riunisce i leader dei paesi membri del G20, il 17 novembre il presidente cinese si rimetterà in volo per partecipare al summit Apec (Asia-Pacific Economic Cooperation Forum) ospitato quest'anno dalle Filippine, e poi ancora alla volta di Parigi per il decisivo vertice sul clima, facendo tappa in Sud Africa dove a inizio dicembre si terrà il China-Africa Cooperation Summit. Si tratta di un attivismo internazionale "insolito" per un leader cinese, commenta l'agenzia di stampa governativa Xinhua.

Stando a quanto evidenziato da Jin Canrong, consulente del governo cinese nonché docente della Renmin University di Pechino, le impellenti sfide sul fronte internazionale giustificano le frequenti trasferte di Xi, appena rientrato dalla sua prima visita di Stato in Vietnam e a Singapore, entrambi Paesi bagnati dalle agitate acque del mar Cinese Meridionale, teatro di frequenti battibecchi tra il Dragone -che si arroga il diritto di sovranità su oltre l'80% della sua superficie- e i vicini rivieraschi. "Davanti a problemi interni, come la situazione economica, [Xi] non è in grado di trovare soluzione immediate e si trova ad affrontare molte più sfide in politica estera, come per quanto riguarda il Mar Cinese Meridionale", spiega Jin al South China Morning Post.

Nonostante la recente missione del Presidente cinese negli States, le relazioni tra Pechino e Washington (già tese per via delle reciproche accuse di cyberspionaggio) hanno subito una nuova battuta d'arresto in seguito alle recenti incursioni navali e aree americane in prossimità delle isole artificiali costruite dalla Cina nell'arcipelago delle Spratly. E' altamente probabile che tali frizioni marittime, sebbene non ufficialmente in agenda, faranno da sfondo al vertice Apec di Manila. Tanto più che Pechino è in attesa di ricevere il responso del tribunale internazionale dell'Aja a cui le Filippine si sono rivolte nel 2013 per dirimere le controversie territoriali con l'incombente vicino- arbitrato, tuttavia, non riconosciuto dalla Repubblica popolare che continua a preferire il confronto bilaterale con i vari attori regionali.

Salvo l'aspra condanna contro il massacro di Parigi, l'intervento di Xi ad Antalya ha avuto invece un taglio prettamente economico. "Siamo ancora un importante motore per la crescita mondiale. Dobbiamo portare avanti la transizione del G20 da meccanismo di risposta in caso di crisi a governance di lungo termine", ha dichiarato il presidente nella giornata di domenica, "dobbiamo costruire un'economia globale aperta, opporci al protezionismo, spingere per l'assunzione di politiche macroeconomiche responsabili da parte di tutti i paesi del G20, e insieme espandere la domanda globale". La Cina, da parte sua, "ha ancora l'intenzione e la capacità di sostenere una crescita medio alta e creare opportunità di sviluppo per gli altri paesi". Un punto ribadito in occasione del meeting con i leader dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), tenutosi a margine del vertice. Letteralmente: "L'oro puro non teme il fuoco. Finché manteniamo la fiducia e rafforziamo il coordinamento, i paesi BRICS riusciranno sicuramente a navigare anche con onde e vento".

Cerniera tra le economie mature e i paesi in via di sviluppo, la Repubblica popolare ha il potere, nel bene e nel male, di influire pesantemente sul'assetto mondiale, contando per un terzo della crescita globale. E' stato, pertanto, compito di Xi illustrare al mondo le linee guida tracciate nell'ambito del quinto plenum del Partito comunista, appuntamento chiave della politica cinese tenutosi lo scorso mese a Pechino. Come sintesi del consesso rosso, è al Tredicesimo Piano Quinquennale (2016-2020) -summa del pacchetto di riforme preannunciato nel novembre del 2013- che bisogna guardare per avere anticipazioni sul cammino intrapreso dal gigante asiatico. Quella di Xi sarà una Cina a crescita "medio-alta" (lontana dai tassi di crescita iperbolici dell'ultimo decennio), "ecofriendly" e "high-end". Scordiamoci la fabbrica del mondo, la paccottiglia a basso costo e il fake. Pechino ora punta alla produzione di beni ad alto valore aggiunto e ad una distribuzione più equa delle ricchezze accumulate negli anni del miracolo cinese. Si parla di raddoppiare il Pil e il reddito pro capite del 2010 entro il 2020, obiettivo che -stando alla leadership cinese- potrà essere raggiunto anche con una crescita del 6,5 per cento (contro il 6,9 per cento registrato nei primi tre trimestri del 2015 e un 7 per cento stimato da Xi per la fine di quest'anno). Non solo. 70 milioni di persone usciranno dallo stato di povertà in 5 anni, promette il Tredicesimo Piano Quinquennale.

Sarà in grado Pechino di passare dalle parole ai fatti? La domanda è pertinente dal momento che il rallentamento dell'economia cinese ha coinciso con alcuni bruschi incidenti di percorso, come nel caso del tonfo della Borsa di Shanghai sprofondata dell'8,48 per cento lo scorso 24 agosto. Da oltre Muraglia replicano ostentando la solidità dei fondamentali e la crescita del settore dei servizi e dei consumi interni, ma secondo voci di corridoio la performance sottotono dell'economia nazionale starebbe ritardando l'implementazione delle riforme volte a dare "un ruolo decisivo al mercato nell'allocazione delle risorse". Condizione fondamentale per facilitare l'arrivo di nuovi investimenti esteri in Cina.

(Pubblicato su Gli Italiani)

sabato 7 novembre 2015

La lunga stetta di mano tra Pechino e Taipei



(Update: Taiwan proverà a ripresentare domanda per entrare nell'Asia Infrastructure Investment Bank con il nome di "Chinese Taipei". Lo scorso aprile, Pechino aveva rifiutato la richiesta lasciando aperta l'ipotesi di un'ingresso nel nuovo soggetto bancario "in futuro", ma soltanto dopo aver raggiunto un'intesa su un "nome appropriato". Appena pochi giorni fa, durante lo storico incontro con Ma, Xi Jinping si era detto favorevole all'inclusione di Taiwan nella membership "in presenza di condizioni appropriate".

A distanza di 66 anni, ricominciano con una lunga stretta di mano (durata oltre 1 minuto!) i rapporti tra la Repubblica popolare e Taiwan. Il presidente cinese Xi Jinping e il suo omologo taiwanese Ma Ying-jeou si sono incontrati sabato a Singapore, primo faccia a faccia tra i vertici dei rispettivi Paesi da quando nel 1949 la fine della guerra civile tra i comunisti di Mao e i nazionalisti (del Guomindang) di Chiang Kai-shek vide questi ultimi riparare, da perdenti, sull'isola oltre lo Stretto di Formosa. Da quel momento le due leadership hanno governato sotto regime antitetici (di tipo democratico a Taiwan, monopartitico in Cina) raggiungendo nel 1992 un'intesa non priva di criticità: quell'anno Pechino e Taipei si accordarono sul riconoscimento dell'esistenza di "una sola Cina" continuando tuttavia, ognun per sè, a interpretare la formula a proprio piacimento.

Entrambi i governi si definiscono i legittimi rappresentanti di quella "sola Cina", con la differenza sostanziale che la maggior parte della comunità internazionale oggi riconosce Pechino come proprio interlocutore. Questo comporta per Taipei un isolamento diplomatico di cui -stando al comunicato stampa rilasciato da Ma Ying-jeou- i due leader hanno avuto modo di discutere a porte chiuse.
Per il Dragone, Taiwan è una "provincia ribelle" da riannettere alla madrepatria anche a costo di passare alle maniere forti (nel 2005 Pechino ha varato una legge anti-secessione che autorizza l’uso delle forze armate qualora l’isola si dovesse dichiarare formalmente indipendente. Concetto costantemente ribadito dai 1500 missili balistici tutt'oggi rivolti verso l'ex Formosa).

"Niente può separarci. Siamo un'unica famiglia", ha dichiarato Xi Jinping, invitando i popoli su entrambi le sponde dello Stretto a non lesinare gli sforzi per "la grande rinascita della nazione cinese", "siamo come due fratelli tenuti ancora insieme dalle nostre carni mentre le nostre ossa sono rotte". Un'unica famiglia in cui, tuttavia, "entrambe le parti debbono rispettare reciprocamente i valori e lo stile di vita dell'altro", ha risposto Ma Ying-jeou alludendo al sistema liberale in vigore sull'isola, fonte di non pochi grattacapi per il regime a Partito unico di Pechino.

Sebbene i rapporti tra i due cugini asiatici siano nettamente migliorati a partire dal 2008, anno in cui la leadership è passata nelle mani di Ma e del Guomindang, lo scorso anno l'opinione pubblica ha puntato i piedi all'annuncio di un nuovo accordo bilaterale sui servizi che, secondo molti, rischia di penalizzare le piccole e medie imprese taiwanesi. Le proteste, sfociate nell'occupazione studentesca del parlamento di Taipei (la Rivoluzione dei Gelsomini), sono riuscite a posticipare la ratifica del trattato, ma hanno finito per innalzare il livello di guardia a Pechino, particolarmente occhiuto quando a levare gli scudi sono le periferie dell"Impero" (leggi: Taiwan, Hong Kong, Tibet e Xinjiang).

Come preannunciato alla vigilia del meeting, l'incontro di sabato non ha portato alla firma di nuove intese commerciali. Né ha visto un reale upgrade qualitativo nei rapporti diplomatici: sebbene Xi e Ma si siano accordati per l'istituzione di una hotline tra le due agenzie semigovernative fin'oggi incaricate di gestire le relazioni nello Stretto (il Consiglio per gli Affari Continentali e l’Ufficio per gli Affari di Taiwan del Consiglio di Stato), i due leader si sono rivolti l'un l'altro con il generico termine di "mister" al fine di evitare quello ufficiale di "presidente". Da escludere, quindi, un ammorbidimento cinese per quanto riguarda il riconoscimento formale di Taiwan come entità statale autonoma (ben indottrinati in proposito i media governativi cinesi non hanno esitato a pixellare la spilletta con i colori di Taiwan appuntata sulla giacca di Ma e a tagliare il suo intervento in conferenza stampa). Inoltre, secondo il quotidiano hongkonghese South China Morning Post, Taipei avrebbe gradito che lo storico faccia a faccia venisse ospitato dalle Filippine nel contesto più formale del summit Apec (Asia Pacific Economic Cooperation) in agenda nei prossimi giorni a Manila. Richiesta respinta dai compagni di Pechino, che hanno optato per Singapore, location neutra già sede, nel 1993, di un primo inedito incontro tra il Consiglio per gli Affari Continentali e l’Ufficio per gli Affari di Taiwan.

Decisamente più indicativo il tempismo scelto per il meeting, di poco successivo al passaggio di una nave militare americana a 12 miglia nautiche da alcune isole artificiali del Mar Cinese Meridionale che Pechino considera entro i suoi confini territoriali, e a un paio di mesi dalle elezioni presidenziali taiwanesi. Da una prospettiva macro, il vertice (del tutto inatteso) avrebbe avuto quindi due funzioni principali: innanzitutto quella di rassicurare uno dei vicini regionali sulle intenzioni pacifiche del Dragone nelle acque contese (Pechino e Taipei avanzano rivendicazioni incrociate su alcuni degli atolli del Mar Cinese). Rassicurazione da leggersi, nondimeno, come un messaggio subliminale diretto a Washington, dal momento che gli Stati Uniti sono ancora blindati a Taipei dal Taiwan Relation Act, un lascito della Guerra Fredda. In secundis, l'incontro serve a riaffermare la fiducia del gigante asiatico al Partito nazionalista e assicurare il mantenimento dello status quo in un momento in cui la politica interna dell'ex Formosa si fa via via più magmatica. Se infatti il candidato del Democratic Progressive Party (DPP), Partito di orientamento filo-indipendentista e "amico" dei Gelsomini, viene dato in testa ai sondaggi, il Guomindang si è trovato a dover sostituire in extremis il proprio con l'attuale capo del partito, Eric Chu, a causa dell'impopolarità ottenuta dalla sua prima scelta. In questo contesto, pertanto, l'incontro al vertice -mal digerito dal DPP- avrebbe lo scopo di cementare l'elettorato taiwanese intorno al presidente uscente e ai suoi uomini. Seppure la scarsa simpatia nutrita da una consistente fetta della popolazione verso l'ingombrante vicino rischi di innescare un effetto boomerang. Secondo un sondaggio della Cross Strait Policy Association rilasciato all'indomani dello storico meeting, il 48,6 per cento dei 1.014 intervistati si è detto a favore della candidata del DPP, Tsai Ing-wen, solo il 21,4 per cento sostiene Chu.

"Il Guomindang ha una più lunga tradizione di rapporti con i funzionari cinesi. Si avvale di tutta una serie di canali privilegiati e viene visto come il Partito di Taiwan in grado di evitare una guerra nello Stretto e rafforzare contatti amichevoli tra le due sponde", spiega al Guardian Michael Cole, senior officer presso il think tank Thinking Taiwan Foundation. Da quando Ma Ying-jeou ha assunto il suo incarico, Pechino e Taipei hanno siglato 23 accordi di cooperazione, mentre il volume dei commerci tra le due Cine ha superato i 170 miliardi di dollari annui. Ecco che scongiurare un'inversione a U nella politica di buon vicinato coltivata dai nazionalisti risulta di importanza primaria per il Dragone.

Alla fine come ha dichiarato Ma Ying-jeou in conferenza stampa: "A me restano soltanto sei mesi [di governo], ma Xi ha ancora davanti a sé almeno altri sette anni".

(Pubblicato su Gli Italiani)

martedì 3 novembre 2015

Vertice commerciale tra Cina, Giappone e Corea del Sud per ricucire gli antichi strappi. Ma gli Usa sorvegliano


Cina, Giappone e Corea del Sud si impegnano a rafforzare gli scambi commerciali e a ricucire gli strappi provocati dalle storiche incomprensioni, nonché dalle più recenti dispute territoriali. E’ quanto emerso dal vertice trilaterale andato in scena nella giornata di domenica a Seul, che ha visto il premier cinese Li Keqiang incontrare la presidente sudcoreana Park Geun-hye e il primo ministro giapponese Shinzo Abe.

 I leader dei tre giganti regionali hanno regolarmente condotto incontri annuali dal 2008 al 2012, anno in cui le relazioni bilaterali tra il Dragone e il Sol Levante sono precipitate ai minimi storici in seguito alla nazionalizzazione da parte di Tokyo delle Diaoyu/Senkaku, un pugno di scogli del Mar Cinese Orientale rivendicati da entrambi i Paesi per via delle risorse naturali nascoste nei fondali ad essi circostanti. Non da meno, quello stesso anno veniva marcato da un ricambio al vertice che avrebbe visto affermarsi alla guida dei due vicini asiatici leadership animate da una forte spinta muscolare in politica estera.

 Da quanto dichiarato in conferenza stampa, i tre parrebbero aver trovato un accordo per la ripresa del summit con scadenza annuale (nel 2016 sarà ospitato da Tokyo), al fine di dare nuovo smalto alla cooperazione commerciale.

Cina, Giappone e Corea del Sud rappresentano le tre principali economie dell’Asia Orientale con un volume di scambi da 690 miliardi di dollari. Nel 2012, sono stati avviati i negoziati per un accordo di libero commercio (FTA), ma l’andamento ondivago dei rapporti diplomatici ha finora ritardato i lavori.

 Mentre la Repubblica popolare continua a rappresentare per Seul il partner commerciale di punta e la principale fonte d’importazione con un giro di affari che quest’anno dovrebbe raggiungere i 300 miliardi di dollari, la reticenza del governo di Abe nel riconoscere le violenze inflitte dal Giappone nell’abito della seconda guerra mondiale ha portato ad un calo dell’8 per cento nei commerci con la Corea del Sud rispetto ai valori del ’91, quando il Sol Levante contava per il 22 per cento delle transazioni sudcoreane con l’estero. In particolare, la questione delle “comfort women”, le donne asiatiche (in maggioranza coreane) costrette alla prostituzione durante l’occupazione nipponica tra il 1910 e il 1945, continua ad essere la principale fonte di frizioni tra Tokyo e Seul. Così come lo è per la Cina il ricordo del “Massacro di Nanchino”, termine con cui sono passati ai posteri i crimini di guerra perpetrati dal Giappone nel Regno di Mezzo tra il 1937 e il 1938. Se per Shinzo Abe le scuse ufficiali rilasciate nell’ambito della Dichiarazione Kono (1993) sarebbero più che sufficienti a buttarsi alle spalle il passato una volta per sempre, per Seul un mea culpa trasparente è precondizione necessaria a dare nuovo vigore alla partnership.

 “Spero che questo summit possa guarire le ferite provocate dalla storia in maniera più completa e che possa dimostrarsi un’importante opportunità per lo sviluppo delle relazioni tra i due Paesi,” ha scandito Park lunedì all’apertura del suo primo faccia a faccia con Abe da quando la “Lady di ferro” si è insediata alla Blue House.

 La trilaterale è stata, infatti, preceduta e seguita da meeting “two-way” tra i rispettivi leader. Nella giornata di sabato, Park e Li hanno siglato 17 accordi di cooperazione bilaterale, dal commercio alla protezione ambientale, passando per gli scambi people-to-people e l’IT. Ciliegina sulla torta dopo l’annuncio, lo scorso luglio, della raggiunta intesa per un FTA Cina-Sud Corea e, sopratutto, dopo l’ingresso di Seul nell’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), la superbanca lanciata da Pechino per sopperire al deficit infrastrutturale del continente Asia. Il nuovo istituto, additato sull’altra sponda del Pacifico come concorrente ufficioso di World Bank e Fondo Monetario Internazionale, risulta ancora “incompleto” a causa dell’assenza di Stati Uniti e Giappone.

 Nonostante un tiepido disgelo avviato con l’incontro tra il presidente cinese Xi Jinping e Abe a margine del summit Apec dello scorso novembre, i rapporti tra Pechino e Tokyo continuano ad essere percorsi da tensioni alimentate in buona parte dalla storica alleanza che lega il Sol Levante agli Stati Uniti e che non di rado è arrivata a intaccare questioni che il Dragone considera di propria esclusiva pertinenza. Un esempio: le inedite esercitazioni congiunte tra Washington e Tokyo nel Mar Cinese Meridionale, tratto di mare in cui Pechino è ai ferri corti con un’altra manciata di Paesi limitrofi.

 “La Cina continuerà a procedere fermamente sul sentiero dello sviluppo pacifico e spera che il Giappone faccia lo stesso”, ha dichiarato Li, stando al resoconto del meeting bilaterale con Abe diramato alla stampa. Un’ennesima velata condanna alla controversa revisione della costituzione pacifista adottata dal Giappone al termine della seconda guerra mondiale (revisione, tuttavia, auspicata da Washington fautore di una politica estera più responsabile e proattiva tra i propri sodali). Le due parti si sono impegnate a implementare i meccanismi di comunicazione tra le rispettive forze armate e a riavviare i colloqui sullo sviluppo dei giacimenti di gas e petrolio in prossimità delle aree contese nel Mar Cinese Orientale. Ma è improbabile che questo basti a scongiurare definitivamente l’intrusione a stelle e strisce nell’area, che la si voglia chiamare “pivot” o “rebalance to Asia”.

 Sono circa 80 mila i soldati americani ancora ripartiti tra Corea del Sud e Giappone, con l’intento conclamato di mantenere la stabilità nel quadrante minacciato dalle ricorrenti provocazioni nordcoreane, e quello meno strombazzato di contenere lo slancio assertivo del Dragone sullo scacchiere Asia-Pacifico. Proprio domenica, il Segretario alla Difesa Usa, Ashton Carter, in visita nella zona demilitarizzata tra le due Coree, ha rinnovato l’impegno americano a difendere Seul dalle imprevedibili mosse di Pyongyang, lo “Stato canaglia” di cui la Cina è principale alleato e benefattore. Carter non ha mancato di far notare come i toni rodomonteschi utilizzati da Pechino per difendere la propria sovranità a discapito dei vicini asiatici stiano progressivamente spingendo i Paesi più indifesi sotto l’ombrello statunitense. Un’eventualità che il Dragone spera di schivare giocando la carta commerciale. Non a caso, durante il summit di domenica, Li Keqiang ha spronato Giappone e Corea del Sud a velocizzare le trattative per l’istituzione della Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), mega accordo di libero scambio regionale in cui molti intravedono una risposta cinese alla Trans-Pacific Partnership (TPP) a trazione americana.

(Pubblicato su Gli Italiani)

Hukou e controllo sociale

Quando nel 2012 mi trasferii a Pechino per lavoro, il più apprezzabile tra i tanti privilegi di expat non era quello di avere l’ufficio ad...