mercoledì 30 novembre 2016

La stretta sui migranti minaccia il riciclo oltre la Muraglia


«I pechinesi non sarebbero in grado di sopravvivere neanche un solo giorno senza di noi», spiega alla Reuters Yin Xueqiang mentre maneggia mucchi di plastica in una discarica di Pechino. «Chi raccoglierà tutti i rifiuti? Chi si occuperà di riciclare tutto? Pensi che la gente di Pechino sarebbe disposta a fare questo tipo di lavoro?», si lamenta commentando l'ultimatum con cui la pubblica sicurezza ha intimato ai «collezionisti di rifiuti» di abbandonare l'area entro dieci giorni.

Yin ha lasciato la sua città natale nello Henan per cercare un impiego nella capitale una decina di anni fa; da tre lavora in discarica come molti altri migranti (mingong). Una professione che fin'oggi gli ha fruttato tra i 3.000 e i 5.000 yuan al mese, circa 400-600 euro. Ma i tempi stanno cambiando, la metropoli cinese diventa ogni giorno più cara e inospitale nei confronti dei forestieri, considerati un ostacolo al raggiungimento del limite di 23 milioni di abitanti stabilito dalla municipalità di Pechino per il 2020. Un obiettivo che le autorità stanno cercando di inseguire spostando mercati all'ingrosso e scuole professionali per i figli dei mingong nell'hinterland. Il tutto risulta declinato alla Jing-Jin-Ji, la nuova megalopoli che la leadership cinese sta plasmando attraverso l'incorporazione delle municipalità di [Bei]Jing e [Tian]Jin alla provincia circostante dello Hebei (spesso chiamata Ji) con lo scopo di decongestionare il traffico della capitale e ad allentare la pressione esercitata su Pechino dall'arrivo di orde di lavoratori migranti a fronte di risorse insufficienti e strutture d'accoglienza ormai sature.

A distanza di circa tre anni dal suo avvio, il processo tuttavia sembra procede a singhiozzi: secondo recenti dati della Commissione municipale per lo Sviluppo e le Riforme, nei primi nove mesi dell'anno il numero dei residenti nei sei principali distretti della capitale è sceso soltanto di 96mila unità, appena un quarto rispetto al target annuale prefissato dal governo. Ecco che, nei piani di Pechino, la chiusura e la delocalizzazione delle discariche in periferia dovrebbe facilitare il deflusso dei mingong verso aree del Paese meno allettanti ma anche meno affollate. Quel che le autorità sembrano tuttavia sottovalutare è l'apporto imprescindibile della popolazione mobile nello svolgimento di tutte quelle professioni che - come ricordava Yin- i pechinesi non farebbero mai. Lo smistamento della differenziata è certamente tra queste.

Secondo statistiche della World Bank, nel 2004 la Cina è diventata il primo produttore di rifiuti al mondo, affermandosi col tempo anche come una delle mete principali per il trattamento degli scarti americani spediti sull'altra sponda del Pacifico per ottimizzare i costi del viaggio di ritorno delle navi cargo attraccate nei porti statunitensi colme di Made in China. Nell'ex Celeste Impero gran parte della raccolta differenziata viene di fatto affidata agli immigrati delle province più povere e ai pensionati, che separano i rifiuti riciclabili (carta, plastica e metello) dal resto dell'immondizia per rivenderli a società incaricate di riconvertirli. Si tratta di un'industria che oltre la Muraglia impiega più personale di qualsiasi altro settore esclusa l'agricoltura, ovvero tra i 3 e i 5,5 milioni di lavoratori, di cui 200mila nella sola Pechino. Li si vede attraversare la città in bicicletta con rimorchi improvvisati, rovistare nella spazzatura o persino fermare i passanti per prelevare semplicemente una bottiglietta d'acqua.

Negli anni del boom economico, questo esercito di riciclatori informali si è comodamente sistemato in una zona grigia ai margini della legalità (che permette di guadagnare senza pagare tasse), sino a oggi considerata favorevolmente anche dalle autorità come una toppa a costo zero con cui coprire il vuoto lasciato dai servizi pubblici inefficienti e dalla disattenzione dei nuovi consumatori cinesi, nati nella società del benessere e sprovvisti di quell'allergia agli sprechi delle vecchie generazioni vissute prima delle riforme anni '80. Ma spesso i laboratori semi-abusivi (600 nella sola Pechino) finiscono per causare all'ambiente più danni di quelli che dovrebbero evitare: stando ai media di Stato, delle circa 20 tonnellate di bottiglie di plastica destinate al riciclo nella capitale cinese, soltanto il 20 per cento risulta riutilizzato in maniera appropriata. Il resto finisce in stabilimenti sprovvisti dei macchinari adatti, che riversano gli scarti nel più vicino corso d'acqua, andando ad aggravare la contaminazione delle falde acquifere.

Secondo il People's Daily, «nel periodo 2014-2015 l'industria del riciclo ha registrato un calo del 20,1 per cento su base annua», assetandosi sui 514,9 miliardi di yuan (circa 70 miliardi di euro). Il quotidiano ufficiale del Partito comunista spiega che «a causa delle sfavorevoli condizioni economiche e alla limitata vigilanza del governo, il settore sta soffrendo una recessione su larga scala, con ingenti perdite per le aziende coinvolte, mentre molte attività medio-piccole hanno già dovuto chiudere». Nel 2015 le compagnie sopravvissute erano 150mila, 7000 in meno rispetto all'anno prima, mentre Nanqijia, la principale comunità pechinese del riciclo a 45 minuti da piazza Tian'anmen, ha cominciato a sfaldarsi nei mesi successivi alla bolla speculativa sui mercati azionari. Insieme alla mancanza di innovazione, «l'inadeguatezza degli standard industriali sarebbe all'origine della crisi incontrata dal comparto, con esplicito riferimento al coinvolgimento di «lavoratori migranti e disabili, gente con un basso livello di istruzione».

Ma per Joshua Goldstein, docente della University of Southern California nonché studioso dell'industria informale del riciclo fin dagli anni '90, «l'inquinamento è più una scusa di convenienza che la ragione principale dietro alla repressione dei migranti. Così come la decisione di chiudere i mercati per la rivendita del materiale smistato non è soltanto motivata dalla volontà di allontanare i migranti da Pechino», ci spiega. «E' anche un modo per massimizzare gli affitti degli immobili urbani; per assumere il controllo del settore e deviare i profitti verso le imprese a conduzione statale. Non è detto che il giro di vite funzioni. Tentativi analoghi sono stati messi in campo precedentemente senza successo. Ma se questa è la volta buona, non si tratterà solo di lasciare centinaia di migliaia di migranti senza lavoro».

Infatti considerando che entro il 2025 la Cina produrrà circa 1,4 milioni di tonnellate di rifiuti al giorno, l'esclusione dei mingong dal settore - volontaria a causa del rincaro della vita cittadina o indotta sotto il pungolo delle autorità - inevitabilmente spingerà il governo verso l'utilizzo massiccio di altri espedienti meno «verdi» e più invisi alla popolazione, come l'interramento o la combustione dei rifiuti.

«Assisteremo così al proseguimento di un corso insostenibile, mirato a sfruttare l'industria dell'incenerimento nella quale Pechino ha iniettato ingenti investimenti - conclude Goldstein - ma per tenere gli inceneritori accesi occorrerà mantenere massicci flussi di rifiuti urbani, andando quindi in direzione opposta rispetto alla promozione di una riduzione dei rifiuti sbandierata dalle autorità».

(Pubblicato su China Files)


lunedì 28 novembre 2016

Weekly News Roundup: Dispatches from the Silk Road Economic Belt


Xinjiang sets up local committees to better serve religious activities
The requirement for residents to report religious activities to local residential committees in some places in Northwest China's Xinjiang Uyghur Autonomous Region is aimed at assisting with the residents' religious practices, and will be expanded to the whole region, expert said. Xinjiang has established religious committees and residential communities to manage religious practices since September, requiring local residents to report their religious activities or activities attended by religious people, including circumcision, weddings and funerals, La Disheng, a professor at the Party School of the Communist Party of China Xinjiang regional committee, told the Global Times on the 22 November. (GlobalTimes)

Xinjiang officials deny holding ordinary citizens’ passports
Sources from Xinjiang police denied that the government is holding ordinary citizens' passports, noting that the government only holds passports of those who are suspected of having links to terrorism.  A source from Urumqi, capital of Northwest China's Xinjiang Uyghur Autonomous Region, told the Global Times that local police are not holding residents' passports except for those with suspicious connections. (Global Times)

In China’s Xinjiang, Some Uyghurs are Forced Into a Sharecropper’s Life
Some Uyghurs living in China’s Xinjiang are compelled into a type of sharecropper’s existence as they are forced to abandon their children and travel hundreds of miles to find work in the cotton fields as there are no jobs near their homes, RFA’s Uyghur Service has learned. An auxiliary police officer in Guma (Pishan, in Chinese) county, called the shortage of agricultural water and farmland the “biggest problem in our county.” “The local labor force is forced to move other regions such as Aksu (Akesu, in Chinese) and Korla (Kuerle, in Chinese) and even to the bingtuan’s cotton fields in the northern part of Xinjiang because the local farmers have no other income aside from being able sell their physical labor,” said the police officer who spoke on condition of anonymity. (RFA)

Cooperation between SCO, UN of great significance, says SCO Secretary-General 
Deepening cooperation between the Shanghai Cooperation Organization (SCO) and the United Nations is of great significance in countering global terrorism and tackling challenges and threats, SCO chief said on the 22 of November. "Fighting global terrorism is a work without an end," SCO Secretary-General Rashid Alimov told Xinhua in an exclusive interview at the UN headquarters after attending a high-level special event on "the United Nations and the Shanghai Cooperation Organization: Jointly Countering Challenges and Threats" . It is of great significance to deepen cooperative relations between the Regional Anti-terrorism Structure of the SCO and related anti-terrorism agencies within the UN system, he said, noting that "it is also the direction of our future work." (GlobalTimes)

The Countries Building The New Silk Road -- And What They're Winning In The Process
When the Soviet Union fell the political and economic landscape of central Eurasia shattered into a melee of disconnected, dysfunctional shards as 14 new countries suddenly emerged in tandem with a pronounced political and economic vacuum. However, almost as soon as the Soviet Union disintegrated, the countries of Central Asia and the Caucasus began looking for ways to reconnect again. Inspiration for the future was soon taken straight from the pages of history. (Forbes)

China About to Start $35 Billion of Silk Road Plan in Pakistan
More than three quarters of $46 billion of planned Chinese-led investment in Pakistan will be implemented by next year as part of the world’s second-largest economy’s flagship Silk Road plan. “Out of this $46 billion, we have been so far able to energize about $35 billion,” Pakistan’s Planning, Development and Reforms Minister Ahsan Iqbal said in an interview in London. “By energizing I mean these are projects either in advanced implementation or in a stage of financially closing.” (Bloomberg)

China and Russia: Gaming the West

In September 2016, Russia held joint naval manoeuvres in the South China Sea with China, bringing some of its best ships to the party. Two weeks later, China shied away from joining Russia in a veto of yet another Western resolution on Syria at the UN. The discrepancy sums up the extent and the limits of the strategic convergence between both countries. (Ecfr)

Chinese Emb Bishkek is not issuing visas leading to protests damage after terror attack earlier in the year blamed. Domestic drivers-carriers gathered at the Chinese Embassy in Bishkek. Currently, there are about 30 people. They demand issue of visas to China to continue their work.(24Kg)

China-Kazakhstan trade center sees surge in visitors
A China-Kazakhstan trade center received 4.24 million visits from January to October, up 44 percent year-on-year, according to local border inspection authorities. Hu Ruifeng with Horgos City border checkpoint in northwest China's Xinjiang Uygur Autonomous Region, said the China-Kazakhstan International Border Cooperation Center in Horgos saw 23,000 visitors a day during peak time, forcing the staff to offer faster customs clearance. (China.org)

China's Economic and Military Expansion in Tajikistan
Following its economic expansion in Central Asia, China unexpectedly took a step to expand its military dominance in the region. In September 2016, Beijing offered to build 11 new border checkpoints and a new military facility along the Tajikistan-Afghanistan border, which raised some concerns in Russia. Although these moves could position China as a security player in Central Asia, Russian experts seemingly are doubtful about the future of any China-Central Asia military alliance. Notably, Russia has an entrenched presence in the region and its largest foreign military base is located outside the Tajik capital. (The Diplomat)

Kazakhstan university may offer scholarships to Hong Kong students under ‘One Belt, One Road’ The president from a Kazakhstan university has said her institution is considering offering scholarships to Hong Kong students in a bid to strengthen connections with the city under China’s “One Belt, One Road” initiative. Professor Loretta O’Donnell, vice-provost of Kazakhstan’s Nazarbayev University, was speaking at a forum organised by Polytechnic University yesterday on the belt and road policy. (SCMP)

China’s ‘new Silk Road’ could expand Asia’s deserts
China’s massive Asian infrastructure network of proposed new roads and railways, new ports and airports, linking 65 countries to itself must grapple with the same problem as the ancient Silk Road it has been named after. Sand. Deserts present as big a problem along the “Silk Road Economic Belt” and the shores of the “21st Century Marine Silk Road” as when camel caravans ambled across Central Asia in the Tang Dynasty. At a June event in Beijing to mark World Day to Combat Desertification, Yong Liqiang, deputy head of the State Forestry Administration, highlighted the scale of existing desertification, soil degradation and drought in more than 60 of the 65 countries covered by the One Belt, One Road (OBOR) strategy. (China Dialogue

sabato 26 novembre 2016

Facebook torna in Cina "armonizzato"?


«Rendere il mondo più aperto e connesso» può costare un piccolo compromesso. Lo sa bene Facebook che - secondo alcune indiscrezioni rivelate dal New York Times - avrebbe silenziosamente sviluppato un software in grado di far capitolare le resistenze dimostrate dal gigante asiatico con il pallino per la censura. Si tratta di un sistema che permette a parti terze (per esempio, società cinesi) di cancellare i post dai news feed degli utenti in base alla collocazione geografica. Al momento l'azienda americana collabora con diversi governi - quali Mosca, Islamabad e Ankara - per limitare la circolazione di informazioni sensibili sul proprio portale, rilasciando annualmente un resoconto dettagliato sul numero e la natura dei post rimossi; tra il luglio e il dicembre 2015, per esempio, i contenuti censurati sono stati 55mila in circa 20 Paesi. Il nuovo software tuttavia dà pieno potere a soggetti estranei al team di Facebook di evitare che determinati post finiscano nei news feed degli utenti cinesi.

Il prodotto, sulla cui futura implementazione non vi è certezza, non sarebbe stato ancora offerto al regime comunista e rientrerebbe soltanto tra le varie proposte ideate dal colosso di Mark Zuckerberg per facilitare un ritorno oltre la Muraglia. Facebook è stato bandito dal Paese di Mezzo nel 2009 dopo gli scontri etnici andati in scena a Urumqi, capitale della regione autonoma uigura dello Xinjiang. Da allora - come Youtube, Twitter e altri siti ritenuti «pericolosi»- il social network risulta accessibile soltanto con virtual private network (vpn), che permettono di navigare in libertà coprendo la reale identità e localizzazione del computer. Ma Zuckerberg non ha mai nascosto le sue mire cinesi, motivate dalla costante espansione del mercato locale, oggi intorno ai 700 milioni di user.

Oltre ad aver intrapreso numerose viste aldilà della Muraglia - culminate lo scorso marzo nell'incontro con il capo della propaganda Liu Yunshan -, il giovane imprenditore ha in più occasione sfoggiato la sua (migliorabile) conoscenza del mandarino e un'attenta comprensione della sensibilità cinese. Non è passata inosservata l'accortezza con cui, nel ricevere l'ex zar di internet Lu Wei un paio di anni fa, Zuckerberg abbia esposto sulla propria scrivania una copia di The Governance of China, opera edita dal Partito comunista che raccoglie discorsi e pensieri del presidente Xi Jinping. Più di recente, dirigenti del gigante della Silicon Valley hanno presenziato all'ultima World Internet Conference di Wuzhen, occasione utilizzata dalla leadership cinese per promuovere una propria visione di «cybersovranità» volta a contenere «le forze occidentali ostili», che poco si accorda ai principi di apertura e connettività professati da Facebook.

Sforzi, questi, che sinora non hanno addolcito la posizione di Pechino su un eventuale approdo del social network nella Repubblica popolare. Per il momento la cooperazione tra la compagnia americana e la seconda economia mondiale è limitata allo sfruttamento da parte delle aziende cinesi (anche statali) dei servizi pubblicitari messi a disposizione per facilitarne un'espansione all'estero. Un servizio che Facebook offre dai suoi uffici di Hong Kong; quelli presi in affitto a Pechino nel 2014 sono ancora vuoti in mancanza della licenza necessaria all'inizio delle attività. Secondo Bloomberg, anche una volta superate le resistenze delle autorità comuniste, il ritorno di Facebook richiederebbe comunque diversi anni a causa dei regolamenti volti a favorire le società locali.

Da tempo gli analisti puntano il dito contro le sfumature protezionistiche dietro alle manie censoree di Pechino, e grazie alle quali WeChat - che offre servizi analoghi a Facebook- ha raggiunto ormai gli oltre 800 milioni di utenti attivi. L'unica possibilità di successo per l'azienda statunitense consisterebbe dunque nel trovare un partner locale, a cui potenzialmente cedere il controllo delle operazioni in Cina, ipotizzano alcuni analisti interpellati dal New York Times. Sempre che i netizen cinesi abbiano davvero bisogno del social.

D'altronde, nel 2008 quando Facebook provò a lanciare una versione in caratteri riuscì ad attrarre appena 285.000 membri - su una popolazione Internet complessiva di oltre 225 milioni - mentre già allora piattaforme concorrenti, come QQ, totalizzavano decine di milioni di adepti. L'arrivo di WeChat nel 2011 ha definitivamente rivoluzionato lo scenario locale, scavalcando persino Sina Weibo (il Twitter "in salsa di soia") e trasformandosi progressivamente in una piattaforma che offre una variegata gamma di funzioni dalle videochat alle prenotazione taxi passando per i pagamenti online. Difficilmente Facebook riuscirebbe ad accontentare le aspettative dei cinesi senza passare per un massiccio restayling.

Secondo quanto raccontato al quotidiano della Grande Mela da alcuni dipendenti dell'azienda, il software, sviluppato da un team capitanato dal vicepresidente Vaughn Smith, è stato al centro di una riunione interna dello scorso luglio. Al tempo, interrogato sul futuro del social network oltre la Muraglia, Zuckerberg avrebbe risposto pragmaticamente che «per Facebook è meglio partecipare alla conversazione, anche se non si tratta ancora di una conversazione completa». Evitando di confermare le voci di corridoio, dalla società hanno fatto sapere che «stiamo cercando di capire e imparare di più del Paese. Ad ogni modo, non abbiamo ancora stabilito quale sarà il nostro approccio alla Cina. Per il momento la nostra attenzione è concentrata nell'aiutare le imprese e gli sviluppatori cinesi ad espandersi in nuovi mercati esteri tramite la nostra piattaforma ad».

Lo scoop arriva in un periodo particolarmente delicato per la creature di Zuckerberg, accusata recentemente di aver influito sul risultato finale delle presidenziali americane, permettendo la libera circolazione di rumor e notizie infondate.


(Pubblicato su China Files)

lunedì 21 novembre 2016

Weekly News Roundup: Dispatches from the Silk Road Economic Belt


Chinese Ship Opens New Trade Route Via Pakistani Port

Pakistan's top civilian and military leaders traveled to the country's southwest on Sunday to open a new international trade route by seeing off a Chinese ship that's exporting goods to the Middle East and Africa from the newly built Gwadar port. The first convoy of Chinese trucks carrying goods for sale abroad has arrived in Pakistan amid tight security using a road linking Gwadar to China's northwestern Xinjiang region, the government said in a statement. (Bloomberg)

CPEC takes a step forward as violence surges in Balochistan

The China-Pakistan Economic Corridor (CPEC) project reached an important milestone onNovember 13 when cargo from China that was trucked down via the corridor was loaded on to ships at Gwadar port. The ships have since headed off to markets in West Asia and AfricaThis is the first time that trade activity has taken place through CPEC. On Saturday, even as three convoys of trucks converged at the Baloch capital of Quetta en route to Gwadar port, a powerful bomb blast ripped through a Sufi shrine in Balochistan’s Khuzdar district, killing at least 52 people and injuring 102 others. The explosion at the Shah Noorani shrine is believed to be the handiwork of the Islamic State (IS) group, which has claimed responsibility for the attack.(Asia Times)

What Does China’s One Belt, One Road Project Mean For Central Asia?
China’s massive One Belt, One Road (OBOR) project aims to connect the world like never before, using land and sea routes to form trade links across Asia and Europe and down to Africa. It’s an extremely ambitious project that will take many years to realize but already OBOR has many people excited about the economic possibilities to come. Among the billions of people who could benefit immensely from OBOR are the roughly 65 million residents of Central Asia. But being part of OBOR is not necessarily a guarantee for a better future. In February this year, the first cargo train from China arrived in Iran after passing through Kazakhstan and Turkmenistan along new railways in the latter two countries. In September, the first train from China to Afghanistan arrived after crossing through Kazakhstan and Uzbekistan.(Rfl)

Iran inks China military pact while mulling $10 billion Russian arms deal
In another move to bolster the Islamic Republic's military apparatus on Monday, Iran and China signed a deal to enhance cooperation between the two nations. The military agreement between Tehran and Beijing entails increased bilateral training coordination and closer alignment on what the Iranian regime sees as regional security issues. The move represents an “upgrade in long-term military and defense cooperation with China,” Iran's Tasnim New quoted Defense Minister Hossein Dehqan as saying in Tehran alongside his Chinese counterpart, General Chang Wanquan. (The Jerusalem Post)

China shifts gears on building ties with international bodies
Chinese Premier Li Keqiang on 15 November concluded its week-long Eurasian trip with a series of proposals to promote regional cooperation between China and the Central and Eastern European (CEE) countries as well as among members of the Shanghai Cooperation Organization (SCO). Li's proposals mark China's efforts to inject new impetus into regional cooperation, showing the importance China attaches to the role of regional mechanisms as well as its determination to enhance cooperation and safeguard regional peace and stability. Xinhua

The great bargain between Russia and China for Central Asia
With growing domestic economic stagnation in Russia, in the long-term China could still challenge Moscow’s monopoly as a main security guarantor and may gradually increase direct engagement with Central Asian states in military and security spheres. Consequently, this could lead towards a more assertive Chinese policy, where Beijing will frame its own security agenda in the region, rather than following Moscow’s steps. This is particularly important as Chinese investment and capital in the region increases, indicating that China will need to protect its interests.(China in Eurasia)

Chinese language school opens in Kyrgyz capital
A Chinese language school named "Bilim Export" founded by Kyrgyz people who were educated in China has opened here in Kyrgyzstan's capital, one of the founders and the director of the school Daniar Abdykadyrov told Xinhua on 16 November. "I studied in China for two years to receive my master's degree and after graduation, for three years I worked at the same university," Abdykadyrov said. "Therefore I always wanted to open a local Chinese school in which Kyrgyz students can receive quality education like in China," he said. Xinhua

China and CEE Countries Push for Broader Economic Cooperation in Riga
Chinese Prime Minister Li Keqiang’s historic visit to Riga, Latvia, on November 4, marked the opening of a new chapter in relations between Central and Eastern Europe (CEE) and the People’s Republic of China (PRC). During his three-day visit, Li met together with the heads of governments of 16 CEE countries. The summit resulted in a string of far-reaching economic agreements. Notably, officials signed a memorandum of understanding (MoU) on cooperation in the Silk Road economic zone and the 21stCentury Maritime Silk Road initiative. MoUs were also signed regarding cooperation between Chinese and CEE think tanks, on the promotion of cooperation in the field of tourism, as well as cooperation between small- and medium-sized enterprises (Lsm.lv, November 5). (Jamestown Foundation)

Fed up with EU, Erdogan says Turkey could join Shanghai bloc
President Tayyip Erdogan was quoted on Sunday as saying that Turkey did not need to join the European Union "at all costs" and could instead become part of a security bloc dominated by China, Russia and Central Asian nations. NATO member Turkey's prospects of joining the EU look more remote than ever after 11 years of negotiations. European leaders have been critical of its record on democratic freedoms, while Ankara has grown increasingly exasperated by what it sees as Western condescension. (Reuters)


China says would consider Turkey membership of security bloc
China is willing to consider any application from NATO-member Turkey to join a Russian and Chinese-led security bloc, China's Foreign Ministry said on Monday, after Turkish President Tayyip Erdogan said his country could join. (Reuters)

Russia, China Would Like to See Turkey in SCO if It Freezes Links With NATO
President Recep Tayyip Erdogan has suggested that Turkey could become a full member of the Shanghai Cooperation Organization (SCO), a Eurasian security and economic bloc led by Russia and China, but Dr. Emre Ersen told Radio Sputnik that Ankara will firstly have to minimize its relations with NATO to be considered. (Sputnik)

Tianjin FTZ launches China-Europe freight train
A freight train departed a pilot economic zone in the northern coastal city of Tianjin for the first time Monday morning. Loaded with 104 containers of construction materials, it is the first China-Europe freight train to leave the Tianjin Pilot Free Trade Zone (FTZ), and is set to arrive in Minsk, capital of Belarus, around December 4. (Xinhua)












domenica 20 novembre 2016

Il Singles Day, un disastro per il paineta?


Il Singles Day «è un disastro per il pianeta». La condanna arriva da uno studio pubblicato sul Journal of Environmental & Analytical Toxicology e ripreso dalla Cnn, secondo il quale la giornata dello shopping online lanciata da Alibaba – che quest’anno ha raggiunto un nuovo record d’incassi con oltre 17 miliardi di dollari – ha costi ambientali altissimi. Il problema sta nella circolazione forsennata di scatole, nastri da imballaggio e altri materiali difficilmente smaltibili. Soltanto durante la celebrazione dell’11/11 – altro nome con cui è nota la «festa dei single» che cade proprio l’11 novembre – i corrieri cinesi hanno trasportato oltre un miliardo di pacchi, il 35 per cento in più rispetto allo scorso anno; circa 657 milioni quelli processati da Cainiao, l’azienda del gruppo Alibaba specializzata nella logistica.

Considerando che la produzione di un miliardo di scatole di cartone richiede l’abbattimento di quasi due milioni di alberi, l’unico modo per attutire gli effetti dannosi di tale circolo vizioso consiste nel riutilizzare o riciclare le montagne di scarti, almeno quando possibile (le scatole che presentano sulla superficie dello scotch non possono essere riciclate e il nastro da imballaggio contiene materiali plastici che impiegano fino a 100 anni per essere completamente rimossi). I dati tuttavia dimostrano che in Cina il più delle volte i pacchi, una volta scartati, finiscono direttamente nella spazzatura.

Secondo Greenpeace, nel gigante asiatico soltanto il 20 per cento degli imballaggi viene recuperato, contro il 60 per cento rilevato negli Stati Uniti dalla Environmental Protection Agency. La gravità del problema è direttamente proporzionale alle dimensioni del Paese. Dal 2013 la Cina è il primo mercato dell’e-commerce a livello globale. Nel 2014, la Repubblica popolare ha contato per il 34 per cento delle vendite al dettaglio online, con un totale di 14 miliardi di pacchi spediti entro la Grande Muraglia, un 52 per cento in più su base annua. Secondo Greenpeace, il Singles Day – che ormai macina numeri superiori al Black Friday e al Cyber Monday – non fa che incoraggiare le persone «a comprare in maniera irrazionale», a discapito della salute ambientale.



Ritorna il dilemma tra sviluppo economico e rispetto dell’ecosistema, vero cruccio della leadership di Xi Jinping intenta a rivedere quel paradigma di crescita che in trent’anni ha permesso alla Cina di diventare la seconda economia globale in cambio di costi ambientali altissimi. Apparentemente l’e-commerce appaga i requisiti avanzati dal «nuovo normale», il compromesso con cui Pechino si appresta a tollerare una crescita più contenuta a fronte di una maggiore sostenibilità: fa aumentare la domanda interna, rilancia i consumi e crea posti di lavoro. Non sembra, tuttavia, risolvere il problema inquinamento, né va considerato un’alternativa ecofriendly allo shopping tradizionale. Anzi, secondo una ricerca apparsa sull’International Journal of Physical Distribution & Logistics Management svolta su 77 paesi nel periodo 2000-2013, mentre le emissioni di anidride carbonica causate dalle vendite internet nei paesi sviluppati presentano un trend decrescente, nei Paesi emergenti continuano a lievitare.

Da alcuni anni il mondo della ricerca sta tentando di calcolare i pro e i contro degli acquisti in rete, giungendo a conclusioni spesso contrastanti. Se infatti il libro bianco pubblicato lo scorso marzo da Simon Property Group, leader americano del real estate, spezza una lancia in favore del classico shopping buste alla mano, appena tre anni fa un rapporto del MIT Center for Transportation & Logistics sosteneva che le emissioni prodotte dai cybernauti sono quasi due volte inferiori rispetto a quelle attribuibili agli shopper tradizionali. Uno scarto dovuto sopratutto all’ottimizzazione dei processi di consegna da parte di spedizionieri e operatori logistici. Per intenderci, in genere l’acquisto dalla tastiera di un computer o di uno smartphone implica meno spostamenti fisici, veri catalizzatori delle emissioni.

Mentre il dibattito è ancora aperto, paradossalmente c’è chi riscontra un vincolo di causa-effetto «al contrario” tra l’entusiasmo per l’e-commerce e il problema inquinamento, che affligge il paese asiatico con costi pari al 60 per cento del Pil nazionale, ovvero 720 miliardi di dollari nel solo 2016. Secondo uno studio condotto dall’Università della Georgia, è proprio durante le giornate in cui la cappa di smog avvolge le metropoli dell’ex Celeste Impero che i cinesi, costretti a rimanere barricati tra le mura di casa, si danno alle spese pazze semplicemente con un clic.

(Pubblicato su Il Fatto quotidiano/China Files)

mercoledì 16 novembre 2016

Cybersovranità "con caratteristiche cinesi"


Può il paese con l'apparato censoreo più sofisticato al mondo assurgersi a promotore di un "internet più giusto ed equo"? Sì se il paese in questione è la seconda economia mondiale. Mercoledì per il terzo anno di fila la città cinese di Wuzhen (provincia del Zhanjiang) ha ospitato la World Internet Conference, iniziativa promossa da Pechino per sponsorizzare la propria visione di una governance globale. In apertura ai lavori, il presidente Xi Jinping ha rispolverato - in videoconferenza- il concetto lanciato lo scorso anno di "cybersovranità", vale a dire il potere di controllo assoluto che uno Stato ha sulla rete entro i propri confini nazionali.

L'evento, organizzato dalla Cyberspace Administration of China, l'organismo preposto alla censura online, ha attirato anche stavolta colossi tecnologici da tutto il mondo. Tra i presenti si annoverano dirigenti di Facebook, Microsoft, International Business Machines e Tesla Motors, sebbene l'affluenza sia stata inferiore rispetto alla scorsa edizione. Segno che all'estero la tolleranza per le politiche restrittive messe in atto dal regime comunista sta diminuendo, nonostante il paese asiatico -con i suoi 700 milioni di netizen- suggerisca prospettive di lucrosi guadagni.

Il fatto è che mentre Xi Jinping dichiarava che la Cina è intenzionata a lavorare con la comunità internazionale per "realizzare un cyberspazio aperto, inclusivo e sicuro" con "sviluppo ordinato", sulla stampa internazionale rimbalzava l'ultimo rapporto di Freedom House in cui il gigante asiatico compare per la seconda volta di fila nei gironi di bassi della libertà di internet. Per l'esattezza, la Repubblica popolare ha totalizzato un punteggio pari a 88 (su una scala da 1 a 100), ovvero sotto nazioni quali Siria, Uzbekistan, Etiopia, Iraq e Cuba. L'ong americana spiega che "decine di procedimenti relativi alla espressione online e le restrizioni legali introdotte nel 2015 hanno incrementato l'autocensura. Una legge di modifica penale aggiunto sanzioni detentive di sette anni per la diffusione di rumor sui social media (un'accusa spesso utilizzata contro chi critica le autorità), mentre alcuni utenti appartenenti a gruppi religiosi minoritari sono stati imprigionati semplicemente per aver guardato video religiosi sui loro telefoni cellulari."

Appena pochi giorni fa l'Assemblea nazionale del popolo, il parlamento cinese, ha approvato una legge sulla cybersicurezza che fornisce al governo accesso a informazioni in grado di mettere le aziende tecnologiche straniere operanti nella Repubblica popolare in posizione di svantaggio, richiedendo loro di registrare i dati su server in Cina. Lo scopo - spiega Pechino - è quello di proteggere il Paese dal pericolo terrorismo de dai crescenti attacchi hacker. Ma governi d'oltremare e organizzazioni per la difesa dei diritti umani ci vedono una svolta protezionistica, nonché un'ulteriore stretta sulla società civile attraverso un controllo sempre più capillare di internet. Sopratutto a causa della vaghezza delle disposizioni "oggetto di interpretazione estensiva da parte delle autorità regolatrici".

Un ulteriore indizio scoraggiante arriva proprio da Wuzhen dove stavolta nemmeno agli ospiti più illustri sono state concesse deroghe al Great Firwell, il sistema cinese di sorveglianza e censura; lo scorso anno gli executive straniere avevano avuto codici speciali per potere accedere a Facebook e Google, entrambi bloccati oltre la Muraglia.


(Pubblicato su Gli Italiani)

sabato 12 novembre 2016

Confessioni in diretta delle "tigri" domate



«La vita è come una diretta tv, non c’è il tasto repeat. Accetterò la punizione scelta dal partito e dalla legge». Li Chuncheng, si lascia andare alle lacrime mentre la telecamera indugia sul volto contrito dell’ex vice capo del Partito della provincia sudoccidentale del Sichuan. Li – condannato lo scorso anno a 13 anni di reclusione- viene considerato la prima delle cosiddette «tigri», i funzionari di alto livello finiti nelle maglie della campagna anticorruzione lanciata da Xi Jinping appena assunto l’incarico di Segretario generale del Partito nell’autunno 2012.

Secondo un sondaggio lanciato dall’ufficiale People’s Daily, il suo mea culpa è stato designato a furor di popolo (oltre 3mila voti) come «migliore confessione» tra le 77 trasmesse nell’ambito del programma in otto puntate andato in onda dal 17 al 25 ottobre sul canale 1 della televisione di Stato CCTV. Always on the Road, questo il nome della serie coprodotta dalla Commissione centrale per l’ispezione della disciplina (CCDI), che offre uno squarcio inedito sulla viziosa condotta degli «eredi» di Mao Zedong, compresi 16 funzionari di livello provinciale o superiore.

Oltrea Li Chuncheng, spiccano i casi di Bai Enpai, ex delegato dell’Assembela nazionale del popolo nonché capo del Partito dello Yunnan, e Zhou Benshun, il deposto segretario del Partito dello Hebei accusato di aver speso – a fronte di uno stipendio ufficiale di 100 mila yuan all’anno – 1 milione di yuan per assumere due cuochi specializzati nella cucina dello Hunan (la sua regione d’origine) e due domestici incaricati di accudire i suoi animali domestici.

«Sono come impazzito, ho perso la testa e i miei ideali», ammette davanti all’obiettivo Bai Enpei, condannato alla pena di morte sospesa (equivalente a un ergastolo) per aver accettato mazzette pari a 38 milioni di dollari.
Se infatti la prima puntata si apre con l’invettiva caustica pronunciata da Xi Jinping nel discorso di fine anno (letteralmente: «dobbiamo continuare a governare con disciplina impugnando la spada dell’anti-corruzione»), in realtà a dare valore aggiunto al programma sono i particolari dei costosi capricci dei protagonisti (cene lussuose a base di coda di coccodrillo e Maotai) e le sfumature di umanità con cui viene pennellata la corruzione.

I funzionari appaiono davanti all’obiettivo in tutta la loro fragilità: i capelli non più neri corvino ma ingrigiti per il mancato uso della tinta; la voce è rotta, lo sguardo mesto. Di contro, il presidente Xi viene celebrato per la sua condotta moderata e le abitudini frugali da prendere ad esempio. Non è ben chiaro se i mea culpa siano effettivamente spontanei o meno. Le confessioni sono state a lungo parte fondamentale del sistema giuridico cinese, con frequenti autocritiche da parte di piccoli criminali davanti alle telecamere; una «repressione visiva» che attinge ad un repertorio di proverbi locali dal «colpirne uno per educarne cento» (copyright Mao Zedong) ad «ammazzare i polli per spaventare le scimmie».

«In Cina riscontriamo l’uso di autocritiche al di fuori del processo penale (ad esempio nell’ambito di un procedimento disciplinare di Partito) e autocritiche che invece servono come confessioni in effettive accuse di carattere penale» ci spiegava tempo fa Margaret Lewis della Seton Hall Law School, «anche se non è scritto nel codice di procedura penale, la Cina ha avuto per lungo tempo una politica informale di clemenza per chi confessa, severità invece per chi fa resistenza».

L’intento «pedagogico»- che distingue Always on the Road da un House of Cardsqualunque – lo si intuisce non soltanto dalla solerzia con cui, in molte aree del Paese, la visione del documentario è stata forzosamente somministrata ai quadri locali, ma anche dal tempismo con cui il programma è stato inserito nel palinsesto ad appena pochi giorni dall’inizio del sesto Plenum del Comitato centrale del Partito, che quest’anno si è sviluppato intorno al tema della disciplina e della supervisione intrapartitica.

Investito del prestigioso riconoscimento di «core leader», Xi Jinping ha dichiarato guerra al nepotismo e alla formazione di cricche politiche, incoraggiando i membri del Comitato centrale, del Politburo e del suo Comitato permanente (il gotha del potere cinese) a dare il buon esempio. Secondo una sintesi del meeting apparsa sul Quotidiano del Popolo, il presidente non ha mancato di citare espressamente gli epurati più eccellenti dall’ex segretario di Chongqing Bo Xilai, allo zar della Sicurezza Zhou Yongkang passando per i corrotti in divisa Guo Boxiong e Xu Caihou.

La loro presenza in Always on the Road è ridotta ad un fugace cameo; quanto basta per ricordare la trasversalità del malcostume attraverso tutta la gerarchia comunista, evitando tuttavia di indugiare eccessivamente sui mali che si annidano al vertice, dove la campagna anticorruzione sconfina in controverse lotte di potere.

Non ci scordiamo, infatti, che la trasmissione non era diretta esclusivamente a un pubblico di addetti ai lavori. 15,6 milioni di persone hanno guardato la prima puntata attraverso la piattaforma streaming gestita da Tencent. E sebbene gli account Weibo dei media ufficiali abbiano disattivato la funzione per rilasciare commenti relativi al programma – presumibilmente al fine di ridurre il rischio di critiche -, stando a quanto dichiarato sul sito web della CCDI, i telespettatori hanno accolto l’iniziativa con «entusiasmo».

Ecco che a un livello più mainstream la serie aggiunge una freccia alla faretra della propaganda autocelebrativa di Pechino. D’altronde, va riconosciuta la notevole popolarità ottenuta dall’opera di pulizia avviata da Xi. Secondo un recente sondaggio del Pew Research Center, mentre l’83% della popolazione avverte la corruzione come il problema più grave che la Cina si trova ad affrontare, il 64% confida in un possibile miglioramento nei prossimi cinque anni di governo Xi Jinping. D’altronde i numeri ufficiali parlano chiaro: dal 2013 a oggi un milione di quadri è stato punito per corruzione, sotto la precedente amministrazione, nel periodo 2007-2012, i sanzionati erano stati «soltanto» 668mila.

(Pubblicato su il manifesto/ China Files)

martedì 8 novembre 2016

Hong Kong: Il ritorno degli Ombrelli


«Ogni parola o azione che contravviene deliberatamente ai requisiti prescritti, sfidano le procedure di giuramento, o che persino sfrutta la possibilità di insultare il Paese e il popolo cinese, deve essere fermata in conformità con la legge». Il responso dell'Assemblea nazionale del popolo (Anp) non lascia adito a dubbi: Pechino non darà una seconda chance a Yau Wai-ching, 25, e Baggio Leung, 30, i deputati della formazione politica indipendentista Youngspiration che lo scorso 12 ottobre avevano sfidato il governo cinese storpiando in maniera provocatoria il pronunciamento necessario a ufficializzare il loro ingresso nel Consiglio Legislativo di Hong Kong (LegCo). Da allora i due sono stati banditi dalle sedute parlamentari del mercoledì, mentre l'Alta Corte di Hong Kong ha avviato una revisione giudiziaria per decidere se dare o meno un'altra possibilità ai due giovani, eletti lo scorso settembre insieme ad altri quattro esponenti appartenenti alle nuove forze politiche generate dal ventre di Occupy Central.

Mentre il responso del tribunale locale è ancora di là da venire, la scorsa settimana la questione del giuramento è scivolata sulla scrivania dell'Anp (sorta di parlamento d'oltre Muraglia), in quello che è senza dubbio l'intervento cinese più invasivo sul sistema politico e legale dell'ex colonia britannica dall'handover del 1997. Seppure nei limiti consentiti dalla legge. L'Articolo 158 della Basic Law, la minicostituzione locale, infatti garantisce all'organo legislativo cinese un potere interpretativo superiore a quello dell'Alta Corte di Hong Kong se si presentano tre condizioni precise. Pechino si è già avvalso - piuttosto arbitrariamente - di tale diritto in altre quattro circostanze, anche senza richiesta di intervento da parte del governo locale; mai tuttavia il giudizio del parlamento cinese aveva osato mettere bocca su un caso ancora al vaglio dei tribunali della regione amministrativa speciale - che teoricamente gode di una notevole autonomia sotto il motto «un paese due sistemi».

Secondo il presidente del LegCo Andrew Leung, la conferma della squalifica di Yau Wai-ching e Baggio Leung avverrà soltanto una volta conclusa la revisione giudiziaria ancora in corso. Ma il Chief Executive Leung Chun-ying ha affermato che «implementerà pienamente» quanto deciso dal parlamento cinese, arrivando persino a ventilare la possibilità di rispolverare la draconiana legge antisommossa - una proposta aggiuntiva all'articolo 23 della Legge Fondamentale di Hong Kong introdotto in seguito alle manifestazioni in sostegno delle vittime di piazza Tian'anmen - a cui il governo hongkonghese ha dovuto rinunciare nel 2003 dopo accese proteste da parte della popolazione.

Commentando l'episodio, Joshua Wong, il fulcro del movimento studentesco del 2014, ha dichiarato alla Reuters che «l'incidente mostra come la Basic Law sia un documento legale limitato e soggetto al controllo e alle modifiche del Partito comunista cinese». Secondo il South China Morning Post, non è nemmeno escluso che il verdetto - che ha efficacia retroattiva - possa essere impugnato per invalidare i giuramenti poco solenni di altri due giovani deputati democratici, tra cui Nathan Law, presidente di Demosisto, il partito di Wong. «Temo che assisteremo ad altre interpretazioni e tentativi da parte dell'Anp di rimpolpare le leggi locali come contromisura per fermare i separatisti», avverte Simon Young, docente della Hong Kong University, rimarcando l'apprensione di Pechino davanti alle crescenti spinte secessioniste, che godono del sostegno delle nuove generazioni. A scanso di equivoci il portavoce dell'ufficio del Consiglio di Stato per gli affari di Hong Kong e Macao ha salutato la decisione dell'Anp dichiarando che «l'interpretazione dimostra la determinazione irremovibile del governo centrale nell'opporsi all'indipendenza di Hong Kong»; una questione ritenuta tabù alla stregua delle spinte separatiste in Tibet e Xinjiang. Tanto per prendere il polso degli umori cinesi si consideri che, secondo David Badurski di China Media Project, dal 1946 a oggi il People's Daily (quotidiano di punta del regime comunista) ha parlato di «indipendenza di Hong Kong» solo 14 volte in tutto, di cui 13 a partire dall'ottobre 2014 e 11 proprio quest'anno.

I timori sono reciproci. Fino dalle prime ore della mattina di domenica migliaia di manifestanti (13.000 secondo gli organizzatori di Civil Human Rights Front; 8.000 stando alla polizia) hanno contestato l'ingerenza cinese marciando per le strade della regione amministrativa speciale, vestiti di nero e armati di bandiere coloniali. Il corteo, che inizialmente si era posto come traguardo la sede della Corte finale d'Appello, ha dimenticato la sua natura pacifica quando alcuni dimostranti hanno deviato verso il Liaison Office, forzando le transenne posizionate dalle forze dell'ordine e dando inizio agli scontri. Come in un dejavu, la polizia ha reagito al lancio di sampietrini e cocci di bottiglia adoperando manganelli e spray al peperoncino, mentre i manifestanti si sono fatti scudo con gli ombrelli, già protagonisti delle proteste del 2014. I disordini si sono conclusi con quattro arresti (commutati in libertà provvisoria in attesa di ulteriori indagini) e due agenti lievemente feriti. La città è tornata alla normalità intorno alle 3 del mattino, ma il pericolo di un'escalation ha spinto le autorità locali a disporre il dispiegamento preventivo di 2.000 funzionari della polizia, secondo fonti del South China Morning Post.

Intanto, l'Occidente invita alla calma. Per la portavoce del Consolato generale degli Stati Uniti a Hong Kong e Macao «è un vero peccato che questa situazione particolare non sia stata risolta all'interno del Consiglio Legislativo o dei rispettati tribunali», mentre il Foreign Office britannico ha espresso «preoccupazione per i recenti sviluppi»: «invitiamo il governo cinese e quello di Hong Kong, e tutti i politici eletti, a evitare di compiere qualsiasi azione che possa aumentare le ansietà o minare la fiducia in 'un paese due sistemi'. La prosperità e la stabilità di Hong Kong dipendono dalla sua implementazione».

(Pubblicato su China Files)

sabato 5 novembre 2016

Weekly News Roundup: Dispatches from the Silk Road Economic Belt


Partner Post – A New Great Game in Russia’s Backyard
As opposed to China’s Silk Road Economic Belt (SREB) project, the EEU is an institutionalized organization with an established legal framework and supranational governing body—the Eurasian Economic Commission. The major obstacle to cooperation between the two projects in Central Asia is the lack of common perspective between the EEU member states. First, Moscow is not used to working in multilateral formats in Asia (for example, Putin tends to skip the East Asia Summit, unlike his counterparts from the U.S., Australia and elsewhere). Second, Moscow tends to see the other EEU member states as passive junior partners: The statement on the connection of the two projects was signed by Russia on behalf of the whole union. China perceives a deep disunity in the organization and actively promotes bilateral cooperation with the EEU member states as well as the rest of Central Asia. Kazakhstan is the most impressive example, with a new “Nurly Zhol” economic program intended to become a part of SREB, as well as 129 economic agreements signed between Kazakhstan and China in 2015 alone, with a total value of $65 billion. (Young China Watchers)

China-Europe freight train to open new Moscow route byend of 2016
A new route of the China-Europe freight train, from Chengdu, Sichuan province to Moscow, Russia, is expected to open by the end of 2016. Tao Xun, the general manager of Chengdu Industry Investment Corporation, disclosed the plan at a promotional event on Nov. 2. For routes starting from Chengdu, nodes in Poland, as well as terminals in Germany and Netherland, have been established. The lines will expand to 10 more terminals, including Paris, Madrid and Milan. Meanwhile, overseas warehouses and affiliated agencies will setup in interior cities along the lines. Tao stated that future China-Europe freight routes will cover the economiccircles of the Yangtze River Delta, Pearl River Delta and Bohai Sea Rim, connecting withHong Kong, Macau, South Korea, Japan and other ASEAN nations. (People's Daily)


Latvia greets first trans-Eurasia cargo train from China
The first trans-Eurasia container train linking China and Latvia arrived here on Saturday afternoon, marking a milestone in the history of the two countries' cooperation in transport and logistics sectors.
The train departed on Oct. 20 from Yiwu, a vibrant manufacturing hub in east China, and finished a journey of over 11,000 km following the China-Russia-Latvia route. The containers were packed with small commodities made in Yiwu, mainly decorative items and souvenirs. "Riga is the destination of the train, but not of these commodities. After the arrival, they will be distributed to different eastern European or Scandinavian countries within one to three days". Latvia is the first Baltic nation to have established a direct rail freight route with China under the unified brand China Railway Express which refers to all rail routes connecting China and Europe, thanks to the country's position as a major transport and logistics transit in the region. (Chian Daily)

Rail cargo service extends from Chengdu to Rotterdam.
A rail cargo line departing from Chengdu, capital of southwest China's Sichuan Province, has been extended to Rotterdam in the Netherlands. The service was extended from an existing line which connects Chengdu with the Dutch city of Tilburg, said Cheng Jie, vice manager of Chengdu International Railway Services Company. Trains depart from Chengdu to export mechanical and electric parts to Rotterdam, Europe's largest port. A single trip takes 13 days. China's.(Xinhua)

China launches US$11 billion fund for Central, Eastern Europe
China has set up a 10 billion euro (US$11.15 billion)investment fund to finance projects in Central and Eastern Europe, Industrial and Commercial Bank of China said in a statement issued on Sunday.
The China-Central Eastern Europe fund, , announced by Premier Li Keqiang during his visit to Riga on Saturday, will be run by Sino-CEE Financial Holdings Ltd, a company established by the bank earlier this year. The fund is aiming to raise 50 billion euros in project finance for sectors such as infrastructure, high-tech manufacturing and consumer goods, the bank said. Vice Commerce Minister Gao Yan said last year that Chinese companies have already invested more than US$5 billion in CEE countries. (Channel New Asia)

China Figures Reveal Cheapness of Turkmenistan Gas
Intriguing figures on China’s natural gas purchases reported by Russian state news agency TASS and relayed by website Eurasia Daily has shed some light on Turkmenistan’s current economic woes.
In the first nine months of 2016, China reportedly increased its overall imports of gas by 26.5 percent on the previous year, up to 71.6 billion cubic meters. The average price it paid for the fuel was $228 per 1,000 cubic meters, according to data reportedly collated by China’s General Administration of Customs. That was apparently $100 less than Beijing was paying last year. The cheapest gas of all, however, is coming from Turkmenistan, which reportedly sells its exports to China at a giveaway rate of $185 per 1,000 cubic meters. Turkmenistan sold China 23 billion cubic meters of gas over the reported period, accounting for 13 percent of what Beijing imported. (Eurasianet)

China's CITIC Bank will acquire controlling stake in Kazakhstan's Altyn Bank, according to MOU signed on Thur
CITIC Bank and the People's Bank of Kazakhstan signed a Memorandum of Understanding on the sale of shares in Kazakhstan's Prime Minister's Office Wednesday. According to the memorandum, the Chinese investor, led by CITIC Bank, intends to buy a 60% stake in its wholly-owned Altyn Bank from the People's Bank of Kazakhstan, the first Chinese joint-stock commercial bank to buy a bank in Kazakhstan. (Xinhua)

China vows better alignment of development strategies with Kazakhstan. 
Chinese Premier Li Keqiang on Thursday pledged to better align its Silk Road EconomicBelt initiative with Kazakhstan's new economic policy of the Bright Road to usher in a newphase of bilateral cooperation. (People's Daily)

Chinese PM Visits Bishkek as Embassy Bombing Remains Unsolved
China's prime minister, on a visit to Bishkek, called the security situation in Central Asia "complicated and severe" and promised to deepen security cooperation with Kyrgyzstan. Li expressed his hope that Kyrgyzstan will speed up the investigation and handling of the incident, provide support and assistance, and take necessary measures to ensure the safety of Chinese staff posted in Kyrgyzstan, the Chinese news agency Xinhua reported. Li also visited the embassy to check on the reconstruction. Kyrgyzstan Prime Minister Sooronbay Jeenbekov in turn promised that Bishkek would "take all necessary measures to ensure the safety of the Chinese embassy and its staff" and "enhance cooperation with China in security law enforcement, fight the "three evil forces" of terrorism, separatism and extremism, and safeguard security and stability of the two countries and the region as a whole. This year China has been markedly stepping up its security activities in Central Asia, setting up a counterterror organization with Afghanistan, Pakistan, and Tajikistan; building border posts for Tajikistan; and carrying out its first-ever joint exercises in Tajikistan. Credible reports emerged this week of Chinese military forces operating in Afghanistan's remote Wakhan corridor, which borders China and Tajikistan. (Eurasia.net)

Xinhua: In Kyrgyzstan, Chinese direct investment soared more than seven-fold in the first half of this year, China's foreign trade with Turkmenistan grew from 7 billion U.S. dollars to 9.5 billion U.S. dollars during 2012-2015, and China has become the country's largest trade partner (Xinhua)

Li calls for stronger SCO security cooperation
Chinese Premier Li Keqiang on Thursday asked members of the Shanghai Cooperation Organization (SCO) to further strengthen their cooperation and coordination on security and boost the construction of regional anti-terrorism institutions and mechanisms. Li made the remarks at the 15th SCO prime ministers' meeting in Bishkek. During the meeting, the prime ministers signed over 10 cooperation documents coveringeconomy, technology, energy, finance, culture and other fields. (Xinhua)

China Suggests Free Trade Zone For the SCO. Russia says it would be “complicated.”
Premiers from across Eurasia were in Bishkek this week for the Shanghai Cooperation Organization heads of government meeting. Chinese Premier Li Keqiang reportedly said China was ready to discuss a free trade zone among the members. But Medvedev’s statement at the heads of government meeting highlighted the difficulty "given that any preferential regime always requires renunciation of internal decisions of one kind or another" (The Diplomat)

Spotlight: Li makes six-pronged proposal, charting course for SCO's future development

The 15th prime ministers' meeting of the Shanghai Cooperation Organization (SCO) concluded here Thursday with a six-pronged proposal by Chinese Premier Li Keqiang and a joint communique calling on its members to enhance practical cooperation in a wide range of fields including security, economic development and production capacity. (CCTV)

Shanghai Electric scores a transformative deal with its purchase of Pakistan power plant. 
Shanghai Electric Power’s US$1.77 billion acquisition of a majority stake in Pakistan’s K-Electric is another example of Chinese power firms seeking overseas opportunities amid dimming prospect in the domestic market undergoing rapid deregulation, analysts say. Shanghai Electric Power said in its shareholders circular on the acquisition that it aims to double its operating scale in the five years to 2020, with the focus being nations along the One Belt, One Road. (SCMP)

MoU signed to boost Nepal-China trade

Nov 3, 2016- Nepal-China Executives Council, a non-profit organisation based in Nepal, and the Chinese government on Wednesday signed an agreement to work in collaboration to promote bilateral trade and investment. The Memorandum of Understanding signed with the Department of Commerce (DoC) of the Chinese province of Yunnan is expected to help both the countries to share information on trade, tourism and investment, and explore investment opportunities in both the countries. (Kathmandu Post)

giovedì 3 novembre 2016

L'ombra di Pechino sul parlamento di Hong Kong


Terza settimana di paralisi e tafferugli presso il Consiglio Legislativo (LegCo), il parlamento di Hong Kong che mercoledì si è riunito per la consueta seduta settimanale in un clima da assedio. Il casus belli è sempre lo stesso: il giuramento «farlocco» dei giovani membri di Youngspiration, una delle forze politiche pro-indipendenza nate sulla scia delle proteste democratiche degli Ombrelli.

Tutto è cominciato quando lo scorso 12 ottobre Yau Wai-ching, 25, e Baggio Leung, 30, hanno alterato la formulazione standard necessaria a formalizzare il loro insediamento nell'organo legislativo - dopo la vittoria alle elezioni di settembre insieme ad altri quattro localisti, definendo Hong Kong «Nazione» e storpiando la pronuncia di Cina in «Chee-na» in modo da rievocare il termine offensivo «Shina» coniato dagli invasori giapponesi negli anni '30. Da allora i due sono stati banditi dalla Camera, nell'attesa che giovedì una revisione giudiziaria dell'Alta Corte di Hong Kong decida se dar loro una seconda possibilità. Una misura a cui Leung e Yau hanno risposto tentando per due settimane di seguito di interrompere i lavori del LegCo, facendo irruzione nell'aula spalleggiati da alcuni nomi noti del fronte democratico, tra cui Nathan Law (il più giovane parlamentare mai eletto), Eddie Chu e lo storico attivista Leung Kwok-hung (meglio noto come «Long Hair»).

Durante l'incursione di mercoledì sei agenti della sicurezza sono rimasti feriti mentre cercavano di sbarrare l'ingresso della Camera. «Si tratta di un assalto violento premeditato ed è per questo che in futuro lasceremo che se ne occupi la polizia», ha commentato il presidente del Consiglio Legislativo, Andrew Leung Kwan-yuen, sottolineando le difficoltà incontrate dalle guardie giurate nell'assicurare il mantenimento dell'ordine.

Tranquilla invece la situazione fuori dal Legislative Council Complex, dove il 26 ottobre oltre 10mila manifestanti filocinesi si erano riuniti per protestare contro l'inclusione nell'organo legislativo dei due giovani ribelli. «No all'indipendenza di Hong Kong», «Via i legislatori indipendentisti» e «Hong Kong appartiene alla Cina» quanto richiesto dai dimostranti, mentre un editoriale pubblicato dal tabloid Global Times ha invitato a squalificare i parlamentari favorevoli a una scissione dell'ex colonia britannica dalla mainland. Letteralmente: chiunque metterà in discussione l'autorità di Pechino su Hong Kong «pagherà un prezzo molto alto».

Stando ad alcune fonti del governo locale, la querelle sul giuramento avrebbe persino trovato spazio nel corso del Sesto Plenum del Comitato Centrale del Partito, andato in scena la scorsa settimana. In barba all'ordine del giorno - che ha avuto come tema centrale la disciplina interna alla leadership comunista - la dirigenza cinese avrebbe espresso la propria indignazione per quanto in corso nel Consiglio Legislativo, auspicando «azioni efficaci» per scongiurare l'indipendenza di Hong Kong e la violazione del motto «un paese due sistemi».

Proprio alla vigilia dell'ultimo «colpo di mano» inscenato dalle nuove forze politiche, diverse voci hanno avvalorato l'ipotesi di una risoluzione dell'impasse attraverso il coinvolgimento del regime cinese. Nella giornata di martedì il leader locale Leung Chun-ying - proteso verso un secondo mandato quinquennale alle elezioni del prossimo anno - ha lasciato intendere che la situazione potrebbe richiedere l'intervento di Pechino. Secondo fonti del South China Morning Post, proprio mercoledì sulla terraferma, l'Assemblea Nazionale del Popolo (il parlamento cinese che si riunisce con cadenza bimestrale) avrebbe aggiunto alla sua agenda l'ipotesi inattesa di una reinterpretazione della Basic Law, la minicostituzione di stampo britannico che regola la regione amministrativa speciale. Un diritto di cui il Comitato permanente dell'Anp si può effettivamente avvalere in virtù dell'Articolo 158, ma che in passato ha già creato un certo scompiglio tra gli addetti ai lavori in altre quattro circostanze.

In questo caso, peraltro, l'organo legislativo cinese si troverebbe per la prima volta a esprimere il proprio giudizio su una questione ancora in attesa di passare il vaglio delle autorità hongkonghesi. Il portale Bastille Post ritiene che «una reintepretazione definirebbe in maniera più specifica in quali situazioni un giuramento può essere respinto», in modo da proteggere la sovranità cinese sulla regione amministrativa autonoma. Ma, secondo gli esperti, è un'eventualità che implicherebbe un'ingerenza diametralmente contraria all'autonomia giudiziaria assicurata (sulla carta) dallo slogan «un paese due sistemi» almeno fino al 2047, ovvero a 50 anni dal ritorno dell'ex colonia britannica alla Cina.

È proprio questa autonomia che fino a oggi ha reso il Porto Profumato la meta privilegiata delle multinazionali interessate al mercato asiatico. Insomma, la posta in gioco non ha soltanto valenza politica, ma anche economica.

(Pubblicato su China Files)

mercoledì 2 novembre 2016

Spaghetti istantaneo test HIV?


Oltre a bibite e snack, dallo scorso luglio i distributori automatici della Southwest Petroleum University hanno cominciato ad offrire anche test per l'HIV del costo di meno di 5 dollari.

Siamo a Chengdu, capoluogo della provincia sudoccidentale del Sichuan, che insieme a Yunnan e Guangxi domina la classifica delle 12 regioni con oltre 10mila casi di HIV/AIDS, contando per quasi la metà del mezzo milione di casi rilevati nel 2014.È la prima volta che un'università cinese prende un'iniziativa del genere. Grazie alle sovvenzioni elargite da un'organizzazione benefica il prezzo del kit acquistabile dal distributore è nettamente inferiore a quello dei test circolanti sulla piattaforma di e-commerce Taobao (300 yuan ovvero 45 dollari). Secondo quanto dichiarato dal centro medico scolastico, il set comprende un contenitore delle urine depositabile in un raccoglitore campioni. Il tutto avviene nel rispetto della privacy grazie alla possibilità di svolgere le varie procedure nell'anonimato e di consultare i risultati online.

Lo scorso maggio la Commissione nazionale per la salute e la pianificazione famigliare aveva richiesto alle scuole di stabilire un sistema di monitoraggio in modo da segnalare nuovi casi di contagio ogni sei mesi, oltre a fornire agli alunni servizi di testing e consulenza gratuiti.

Come spiegava tempo fa al Wall Street Journal Bernhard Schwartländer, rappresentante in Cina della World Health Organization, «mentre il test HIV è ampiamente disponibile, sappiamo che molte persone sono riluttanti ad eseguirlo per timore di risultare positive, per lo stress di aspettare i risultati, per la seccatura di dover andare negli appositi centri ... e per la paura di diventare vittime di stigmatizzazione e discriminazioni».

Il progetto pilota - oggetto di apprezzamenti pressoché unanimi sul Twitter cinese Weibo- arriva in risposta all'impennata del contagio tra i giovani tra i 15 e i 24 anni, in salita del 35 per cento nel periodo 2011-2015. Secondo il Centro nazionale per il controllo e la prevenzione dell'AIDS e delle malattie sessualmente trasmissibili, lo scorso anno si sono registrati 2.200 nuovi casi tra giovani di età superiore ai 15 anni, contro i 1.772 del 2014. Una tendenza che gli esperti attribuiscono alla scarsa educazione sessuale tra i ragazzi. Come evidenzia un sondaggio condotto dalla Jiaotong University di Xi'an, oltre il 31 per cento dei 12mila rispondenti ha dichiarato di aver avuto già rapporti, ma appena il 21,8 per cento sarebbe in grado di utilizzare correttamente un profilattico, mentre due studenti su dieci hanno affermato di considerare l'aborto un metodo contraccettivo.

Sebbene il numero degli studenti affetti dall'HIV rappresenti meno del 3 per cento del totale, la diffusione del virus tra gli iscritti alla scuola secondaria aumenta più velocemente che in qualsiasi altro segmento della popolazione cinese. Questo è vero sopratutto tra gli studenti maschi, dal momento che - stando alle statistiche del Centro - circa l'80 per cento dei nuovi casi tracciati a partire dal 2008 riguarda rapporti sessuali tra uomini. Un trend che attesta una stretta correlazione tra le modalità del contagio e gli sviluppi della società cinese.Il gigante asiatico ha «scoperto» l'AIDS con l'epidemia che alla metà degli anni '90 ha travolto la provincia dello Henan sulla scia della vendita illegale di sangue da parte dei contadini ai centri di raccolta.

Fino agli anni '80 Pechino ha continuato a considerare la sieropositività come un male tipicamente occidentale, sintomo della dissolutezza del modello capitalistico, mentre solo nel 2001 ha provveduto a rimuovere l'omosessualità dal novero delle malattie mentali. Tuttavia, alla liberalizzazione dei costumi non è seguita un'accurata indagine delle problematiche legate alla sessualità.
Lo dimostra il fatto che fino a dieci anni fa i casi di trasmissione dell'HIV attraverso rapporti omosessuali si aggiravano soltanto attorno all'1 per cento. Nel 2015 erano già saliti al 25 per cento del totale.



(Pubblicato su China Files)


Hukou e controllo sociale

Quando nel 2012 mi trasferii a Pechino per lavoro, il più apprezzabile tra i tanti privilegi di expat non era quello di avere l’ufficio ad...