mercoledì 28 novembre 2012

La 'guerra dei passaporti' e la 'nuova' politica estera di Pechino



E' stata soprannominata la 'guerra dei passaporti' e adesso rischia di esacerbare le tensioni tra la Cina e alcuni paesi asiatici. Con una mossa indisponente, alcuni giorni fa Pechino ha emesso nuovi passaporti in cui a pagina 8 compare una mappa della Repubblica popolare particolarmente estesa; comprensiva di una serie di zone contese al centro di dispute territoriale tra il Dragone e diversi vicini di casa. L'Arunachal Pradesh, l'Aksai Chin, Taiwan e tutte le isole del Mar Cinese Meridionale- comprese all'interno della 'linea dei nove trattini' che dal 1953 delimita l'estensione del Regno di Mezzo arrivando quasi a Singapore- vengono reclamate come territorio cinese in un puntare i piedi che ha già visibilmente irritato India, Taipei, Vietnam e Filippine.

E se Taiwan ha definito la manovra di Pechino 'inaccettabile', Manila 'una violazione del diritto internazionale' e Hanoi ha deciso di rilasciare nuovi visti a parte, rifiutandosi di timbrare i passaporti  'made in China' con le isole contese, Delhi ha preso provvedimenti più risoluti: l'ufficio che a Pechino gestisce le pratiche consolari per conto dell'ambasciata indiana ha cominciato ad emettere visti con una propria versione della mappa dove Arunachal Pradesh e Aksai Chin risultano a tutti gli effetti indiani.

Nella geografia dei passaporti cinesi non compaiono invece le famigerate Diaoyu (Senkaku in giapponese), isole contese del Mar Cinese Orientale responsabili di un deterioramento dei rapporti tra Sol Levante e Impero di Mezzo, precipitati nel mese di settembre ad un nuovo minimo storico dopo l'annuncio dell'acquisto da parte di Tokyo di tre degli atolli da un famiglia giapponese che ne deterrebbe formalmente la proprietà. Forse troppo piccole per essere visibili in filigrana o forse, semplicemente, ancora fuori dall'occhio del ciclone quando a maggio furono, inizialmente, emessi i passaporti 'incriminati'. Al tempo l'attenzione di Pechino era rivolta più a sud, nel Mar Cinese Meridionale, le cui acque continuano tutt'oggi ad essere agitate da dispute territoriali tra Cina, Vietnam, Filippine, Brunei, Malaysia e Taiwan, autoproclamatasi indipendente dalla Cina fin dal 1949.
Al culmine della tensione, nel mese di settembre, il governo aveva inasprito le sanzioni per le case editrici di mappe che non avessero incluso tutte le isole periferiche rivendicate dal Dragone. "L'attuale normativa, redatta nel 1995 -riportava l'agenzia di stampa statale Xinhua- consente una multa massima di 10.000 yuan (1.500 dollari), che potrebbe salire a 100mila yuan (16mila dollari) se la nuova legge passasse."

Adesso la nuova mappa rischia di "innescare un'escalation abbastanza seria perché la Cina sta rilasciando milioni di questi passaporti, che per gli adulti hanno validità di dieci anni. Così se in futuro cambierà idea dovrà ritirarli tutti" ha commentato un alto diplomatico di base a Pechino.
Ma il governo cinese ha già provveduto a rilassare i toni. "Non bisogna equivocare la storia delle mappe sui nuovi passaporti cinesi" ha affermato il portavoce del ministero degli Esteri Hong Lei "la Cina è disposta a rimanere in contatto con i paesi interessati e promuovere uno sviluppo sano degli scambi tra il popolo cinese e il resto del mondo". Una spiegazione che non ha tranquillizzato uno degli interlocutori più presenti nell'area, gli Stati Uniti, che per bocca della portavoce del Dipartimento di Stato, Victoria Nuland, si sono detti preoccupati per la 'tensione e l'ansia' che i nuovi passaporti potrebbero creare tra i paesi del Mar Cinese Meridionale.

Il Mar Cinese Meridionale
Negli ultimi mesi è stato teatro di accese dispute territoriali tra Cina, Vietnam, Filippine, Brunei, Malaysia e Taiwan, tutte impegnate a mettere le mani sulle isole Spratly (Cina, Vietnam, Malaysia, Brunei, Filippine e Taiwan), Paracel (Vietnam, Taiwan e Cina) e lo Scarborough Shoal (Cina e Filippine). Oltre ad alcune tra le rotte commerciali più lucrose al mondo, a fare gola ai paesi della regione è soprattutto la ricchezza delle sue acque che, oltre ad essere molto pescose, secondo le stime dell'Energy Information Administration, potrebbero ospitare fino a 16 miliardi di metri cubi di gas e 213 miliardi di barili di petrolio. Da parte sua Pechino considera la propria sovranità sugli atolli 'indiscutibile' - e garantita da alcuni documenti storici- così come su quasi tutto il Mar Cinese Meridionale, per un'area complessiva di circa 1,7 milioni di chilometri. Periodicamente le ostilità tra i vari cugini asiatici si riaccendono, in un tendere i muscoli che, sino ad oggi, ha dato vita 'soltanto' ad un via vai di navi da guerra, minacce e ritorsioni commerciali.

Quanto pesano le schermaglie nell'area lo dimostra il vertice che quest'estate ha riunito i ministri degli Esteri dell'Asean (l'Associazione delle nazioni del Sud Est asiatico) conclusosi, per la prima volta in 45 anni, senza un accordo né un comunicato di chiusura dei lavori. Manila avrebbe voluto un testo che menzionasse esplicitamente la situazione pendente sulla secca di Scarborough, ma la Cambogia, ospite del summit e tra i principali alleati della Rpc, si è opposta. Di fatto, l'esito del vertice diplomatico di Phom Penh è stato letto come una vittoria diplomatica del Dragone. Nella stessa occasione, infatti, sarebbe dovuto essere redatta una bozza del Codice di condotta tra i paesi membri e la Cina, legalmente vincolante per il Mar Cinese Meridionale.

Esito insoddisfacente anche per l'ultimo East Asia Summit (Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico più le loro controparti statunitense, cinese, giapponese e australiana), tenutosi sempre nella capitale cambogiana a metà novembre, durante il quale il presidente filippino Benigno Aquino ha smentito un raggiunto consenso per non 'internazionalizzare' le dispute territoriali. Da sempre il Dragone si ostina a trattare i contenziosi su base bilaterale con i vari paesi implicati, evitando un' internazionalizzazione delle questioni che comporterebbe il coinvolgimento degli Stati Uniti, sempre più propensi a rivendicarsi il ruolo di gendarme della regione. Se “Per gli Stati Uniti il Ventunesimo Secolo sarà il secolo del Pacifico” -come dichiarato dal Segretario di Stato Usa Hillary Clinton alla fine del 2011 all’apertura del vertice APEC (Asia- Pacific Economic Cooperation) che riunisce 21 Paesi dell’Asia-Pacifico-  al suo secondo mandato da presidente, Barack Obama ha ribadito il concetto ponendo il Sud-Est asiatico in cima alla propria agenda estera.

Di pari passo con il progressivo allontanamento dai teatri di guerra del Medio Oriente, il rinnovato dinamismo americano in Estremo Oriente viene avvertito da Pechino, non del tutto a torto, come una manovra di containment politico, economico, e militare ai propri danni. Il progetto di una task force marittima Usa in Australia da 2.500 soldati è uno dei campanelli che hanno fatto scattare l'allarme oltre la Muraglia. Ma se da una parte Washington non vuole lasciare soli i propri alleati asiatici (Giappone, Filippine, Taiwan, Corea del Sud e adesso anche Vietnam) ai quali è legato da vincoli storici, dall'altra manca di credibilità richiedendo alla Cina di attenersi al diritto internazionale, quando proprio gli Stati Uniti non hanno ratificato la Convenzione dell'Onu sul diritto del mare, il documento legale più rilevante in materia.

Pechino, d'altronde, non è rimasto a guardare, rispondendo all'assertività Usa con un budget per la Difesa che, secondo le dichiarazioni ufficiali del governo cinese, nel 2012 ha raggiunto i 670,7 miliardi di yuan (circa 106 miliardi di dollari), ma che stando alle stime del SIPRI (Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma) potrebbe superare del 50% le cifre rese note. E anche se con un distacco consistente, nel 2011 il Dragone è stato secondo soltanto all'Aquila quanto a spese per il riarmo. Proprio alcuni giorni fa la Xinhua ha comunicato che alcuni caccia della marina militare cinese hanno completato le fasi di decollo e atterraggio sulla Liaoning, prima portaerei del Regno di Mezzo, mentre sui media ufficiali sono comparse immagini di esercitazioni nella regione militare di Nanchino, che si affaccia sullo stretto di Taiwan, l'isola democratica alla quale Washington ha venduto armi per 6,4 miliardi di dollari.

Ma quella tra Cina e Stati Uniti è una competizione che trascende le manie di grandezza dei rispettivi eserciti e assume sempre più nettamente le caratteristiche di una sfida a colpi di zone economiche speciali: nessuno, di fatto, auspica un conflitto a fuoco. La Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep), in cantiere da circa un anno, prevede la creazione di una partnership commerciale tra i 10 paesi Asean (Brunei, Cambogia, Indonesia, Laos, Malesia, Myanmar, Filippine, Singapore, Thailandia e Vietnam) e sei partner regionali Cina, Giappone, Corea del Sud, India, Australia e Nuova Zelanda. Un progetto fortemente voluto da Pechino che, se concluso con successo, porterà alla creazione dell'accordo commerciale più ampio mai siglato prima, rispondendo al modello concorrente proposto da Washington, la Trans Pacific Partnership (TPP), dalla quale il Dragone è stato escluso.

L'Arunachal Pradesh e l'Aksai Chin
L'Arunachal Pradesh, stato settentrionale dell'India, per Pechino non è altro che il 'Tibet Meridionale' (Zangnan) e pertanto farebbe parte della Repubblica popolare. Solo un mese fa i due paesi avevano ricordato il 50esimo della guerra sino-indiana, scoppiata nel 1962 proprio per problemi con la linea MacMahon, adottata unilateralmente dall'India nel 1950 come proprio confine. I rapporti tutt'altro che idilliaci si sono ulteriormente raffreddati a partire dal 2009, anno in cui Pechino cominciò a rilasciare visti su 'pezzi di carta volanti' ai residenti del Jammu Kashmir, stato nord-occidentale del subcontinente indiano, bypassando le istituzioni locali. Una regione, quest'ultima, rivendicata anche dal Pakistan e teatro di insurrezioni separatiste da più di due decenni, che per Delhi rappresenta un nervo sensibile quanto il Tibet per Pechino. Al contrario l'Aksai Chin è, insieme alla valle Shaksgam, una delle due aree del Kashmir amministrata dalla Cina il cui possesso viene rivendicato allo stesso tempo dall'India.
Sul fronte marittimo le cose non vanno molto meglio, con il crescendo dei sospetti che Delhi stia cercando di ostacolare la sovranità reclamata da Pechino su quasi tutto il Mar Cinese Meridionale;  secondo l'Economist, un campo di battaglia più probabile di quanto non lo siano le regioni Himalayane. Nell'ottobre 2011, l'India ha accettato l'invito del Vietnam per intraprendere esplorazioni congiunte nelle acque contese, ricche di gas e risorse naturali. E nonostante le minacce di Pechino, il cugino asiatico non sembra essersi fatto intimorire. Durante il Forum Regionale dell’Asean tenutosi a Phnom Penh lo scorso luglio, Delhi ha presentato forti argomentazioni per sostenere non solo la libertà di navigazione ma anche l’accesso alle risorse, in accordo con i principi del diritto internazionale.

Taiwan
La mappa 'estesa' emessa da Pechino non è andata giù nemmeno a Taipei, per il Dragone provincia ribelle in attesa di essere riannessa alla madrepatria, che avanza una sovranità territoriale nella regione quasi identica a quella cinese. Sui nuovi passaporti compaiono, infatti, anche il Sun Moon Lake e le scogliere Chingshui, note attrazioni turistiche dell'isola. Ma se la mossa del gigante asiatico è stata avvertita come un fallo gamba tesa dalla Repubblica di Cina (ROC), d'altra parte, la posizione di quest'ultima è più complessa rispetto a quella degli altri attori della regione, inferociti per l'ennesima alzata di testa di Pechino. Mentre le controversie con Vietnam, Filippine, India , Brunei e Malaysia riguardano solo sovrapposizioni territoriali, nel caso dell'ex isola di Formosa la Cina avanza la propria sovranità su tutto il territorio nazionale. Rispondendo lunedì alla reazione stizzita di Taipei, l'Ufficio per gli Affari di Taiwan del Consiglio di Stato ha ribadito che c'è 'una sola Cina' e che le proteste hanno lo scopo di 'suscitare polemiche', rischiando di compromettere le relazioni tra le due sponde. Se Hanoi e Delhi saranno libere di stampare una propria cartina, a Taiwan ci penseranno due volte, sotto l'amministrazione dell'attuale presidente Ma Ying-jeou, in carica dal 2008 e artefice di un netto miglioramento delle relazioni con Pechino. Secondo i pronostici del Diplomat, la ROC accetterà il nuovo passaporto per la pace dello Stretto, una mossa che Pechino potrebbe interpretare a proprio favore come un tacito riconoscimento di 'una sola Cina'.

Il futuro della politica estera cinese
E' un governo di transizione quello delineato dal Diciottesimo Congresso del Partito, tenutosi tra l'8 e il 14 novembre nella Grande Sala del Popolo, a Pechino. Almeno quattro dei sette uomini del Comitato permanente del Politburo, il massimo organo decisionale cinese, lasceranno probabilmente il proprio incarico tra cinque anni per sopraggiunti limiti di età. Per Xi Jinping e Li Keqiang, dal marzo 2013 rispettivamente presidente e premier della Repubblica popolare, la strada si presenta quantomai tortuosa. La lenta ripresa della macchina economica, non più trainata da una crescita a due cifre, l'allargamento della forbice tra ricchi e poveri e la corruzione rampante sono alcune delle sfide alle quali dovrà far fronte la nuova dirigenza del Dragone.
Quanto alla politica estera, saranno necessari uno o due anni di assestamento prima che i nuovi 'imperatori' possano lanciare iniziative proprie. Le condizioni attuali difficilmente permetteranno una virata rispetto alle politiche prudenti portate avanti dal leader uscente Hu Jintao.

Proprio Hu, in apertura del Congresso, nel suo ultimo discorso da segretario generale del Partito ha tracciato le linee guida alle quali si dovrà, presumibilmente, attenere Xi Jinping durante il proprio mandato. Hu ha chiesto alla Cina di diventare una 'potenza marittima' sottolineando che la modernizzazione globale delle forze armate cinesi continuerà anche in futuro. Il rapporto prosegue auspicando uno sviluppo militare "commisurato alla posizione internazionale dell Cina" per affrontare " i problemi che ne minano la sopravvivenza e la sicurezza dello sviluppo, così come le minacce alla sicurezza tradizionali e non tradizionali". D'altra parte The Diplomat fa notare come nella relazione del discorso del presidente- la cui redazione è stata certamente supervisionata dal suo futuro successore- un 'nuovo pensiero' proietti barbagli di luce sulla politica estera del gigante asiatico. In particolare risalta la frase: "stringere nuove relazioni di stabilità a lungo termine e determinare una sana crescita con gli altri paesi principali". Un riferimento a quanto già espresso da Hu Jintao durante il quarto dialogo strategico ed economico Cina-Usa, proprio mentre il caso del dissidente cieco Chen Guangcheng metteva a dura prova la diplomazia delle due superpotenze.
La svolta sostanziale sta, dunque, nel riconoscimento della necessità di evitare conflitti tipicamente associati alle transizioni di potere sullo scacchiere globale. Ma -secondo M. Taylor Fravel, professore associato di Scienze politiche al Massachusetts Institute of Technology- ciò che si evince dal discorso di Hu è, piuttosto, la netta predominanza della politica interna. Solo il 10% del rapporto ha affrontato questioni di respiro internazionale, quali i rapporti con Taiwan o la politica estera e di difesa, mentre le sfide sociali ed economiche sembrano essere il vero chiodo fisso del Partito.

Pubblicato in forma ridotta su Ghigliottina.it
(Articoli correlati: La 'strategia del filo di perle' e la gemma cingalese
Pechino VS Manila: quella complicata storia del Mar cinese meridionale)








domenica 25 novembre 2012

iSun Affairs: dal 'decennio d'oro' all'età del ferro

Un'epoca si chiude un'altra inizia. L'agguerrito settimanale di Hong Kong, iSun Affairs, riassume i punti chiave del governo Hu Jintao-Wen Jiabao attraverso l'opinione di alcuni blogger e giornalisti. Così, nell'immaginario del suo capo redattore, 'il decennio d'oro' della leadership uscente si trasforma nell''età del ferro', caratterizzata dal degrado etico e morale. Sarà in grado di fare di meglio il futuro presidente cinese Xi Jinping? Le aspettative sono molte, forse troppe

Segue una traduzione libera più testo il originale.

(Il capo redattore)*
Le aspettative che dieci anni fa l'opinione pubblica riponeva  sulle nuove politiche di Hu e Wen, sono ancora vivide. Oggi quelle stesse speranze e quelle stesse lodi hanno cambiato soltanto nome e sono state spostate automaticamente sulle nuove politiche di Xi Jinping e Li Keqiang.

(Storie in copertina)
Non intraprendere le riforme può portare da una sconfitta ad un'altra. Testo di Dan Dun
All'interno del sistema del Pcc non esiste una fazione riformista ed è irrealistico trasferire queste speranze sulle spalle dei nuovi leader. Ma tutti dovrebbero capire che il decennio di Hu e Wen ha condotto il Paese in una situazione molto pericolosa

Il decennio Hu-Wen. Politica- funzionari di spicco hanno provocato danni alla nazione: la strumentalizzazione del potere da parte del Partito porta ad uno shock delle riforme politiche. Testo di Chen Ziming
L'ideologia tende verso il conservatorismo, verso il rafforzamento del potere in nome della stabilità e verso un'amministrazione del Paese attuata dalle forze di polizia. In questi dieci anni di governo Hu-Wen la politica cinese non è giunta in una fase di stagnazione, piuttosto è regredita.

Il decennio Hu-Wen. Economia- uccidere la gallina dalle uova d'oro: questo gioco dà potere soltanto ai funzionari influenti. Testo di Luo Xiaopeng
La double-deficit policy (雙逆差政策) di Hu Jintao è ingiusta nei confronti del popolo cinese -che è l'artefice della ricchezza del Paese- e danneggia anche l'ordine economico mondiale, mentre i veri vincitori sono i patrimoni dei funzionari.

Il decennio Hu-Wen. Società- il decadimento morale. Il mantenimento della stabilità genera una falsa armonia. Testo di Zhou Keshang
Il mantenimento della stabilità è la logica inesorabile del Partito comunista cinese. La stabilità prevale su tutto, ma spesso, in realtà, essa è causa di maggiore instabilità.

Il decennio Hu-Wen. La giustizia- il Partito è al di sopra della legge: bisogna considerare prima la politica e dopo lo stato di diritto. Testo di Wang Jianxun.
La supremazia della causa del Partito e la giustizia socialista aumentano il potere e l'ingerenza della leadership sul lavoro degli avvocati. Da 10 anni il sistema giudiziario cinese sta sperimentando un processo di cambiamento non pacifico.

Il decennio Hu-Wen. Le etnie- l'intensificazione delle contraddizioni. Perché il Pcc è in un dilemma circa le zone di confine? Testo di Yao Xinyong
Il gap tra ricchi e poveri è grande, i rapporti tra le etnie sono sempre più tesi, il grado di identità nazionale è sceso ulteriormente e le contraddizioni etniche sono in aumento. Durante la permanenza al potere di Hu e Wen, il problema dei contrasti etnici è scivolato in una situazione pericolosa.

Il decennio d'oro Hu-Wen. La questione di Taiwan- con i soldi hanno tentato di promuovere l'unificazione: in questo modo riusciranno a conquistarci? Testo di Kang Yilun
Il decennio Hu -Wen ha coperto i mandati di Chen Shui-bian e Ma Ying-jeou. In questa decade di governo, la strategia dell'intimidazione per ostacolare l'indipendenza e delle promesse di guadagni per raggiungere l'unificazione è sicuramente riuscita con successo. I rapporti tra le due sponde, da quando è salito al potere Ma Ying-jeou, sono entrati in una fase idilliaca mai vista prima.

Il decennio Hu-Wen. Cultura- il ritorno a Yan'an. Un'epoca armoniosa (和諧 hexie) ha dato vita alla cultura di Hexie (河蟹 hexie). Testo di Wu Zuolai 
Si è verificato un ingabbiamento della cultura, degenerato in detenzioni forzate. Ci sono opere che elogiano i meriti di Hu Jintao, altre, invece, che sono scritte dal popolo per raccontare la verità. Questi dieci anni sono stati i peggiori e, allo stesso tempo, i migliori.

L'arroganza del ferro*

Il Quotidiano del Popolo e la Xinhua hanno definito i 10 anni di governo di Hu e Wen "la decade d'oro", un termine che ci fa pensare all''età del ferro'. Questo metodo di suddivisione delle generazioni umane è mutuato dalla tradizione greca. Nell'età dell'oro uomini e dei vivevano insieme, in pace e gioia. Sebbene la terra fosse in grado di generare da sé il raccolto, gli uomini non erano pigri né avidi, ma nobili e generosi d'animo. L'età del ferro è invece buia e decadente; è un'epoca di degenerazione etica, in cui gli amici infrangono le promesse, gli innamorati litigano, le regole vengono danneggiate, mentre prevalgono le falsità, le persone non hanno il senso del pudore e vengono abbandonate dagli dei. Se ci basassimo su tali criteri, certamente, il secondo scenario rispecchierebbe meglio i veri sentimenti nutriti dal popolo cinese negli ultimi dieci anni. Forse i media del Partito non sono stati così rigorosi e hanno semplicemente scelto il significato letterale di 'oro' nella sua accezione di 'ricco' e 'fiorente'. Allora tocca a noi aggiungere che 'il ferro' rispecchia la nostra impressione su questi dieci anni di governo. Dall'espressione rigida del capo di stato Hu Jintao, fino ai numerosi scandali innescati dalle lotte di potere al vertice, alla politica martellante della stabilità attraverso la violenza, e alla perpetuazione di ogni tipo di oltraggio, come l'imposizione di tasse esorbitanti, e le restrizioni su internet che impedisce la comunicazione tra le persone, tutto questo ci riporta alla memoria il terrore e il gelo dell''età del ferro'.

In un rapporto celebrativo sullo Shibada (il XVIII Congresso ndr) pubblicato dalla Xinhua, vengono citati i commenti dei media stranieri, secondo i quali 'il decennio d'oro' ha dato grande fiducia al Paese e il miracolo cinese continuerà anche in futuro.

Certamente, il più grande cambiamento avvenuto in questi dieci anni consiste nell'aver raggiunto la consapevolezza di essere una grande nazione, richiamando l'attenzione globale. (La Cina) si è asciugata il volto dalla modestia dimostrata nei confronti della civiltà mondiale all'inizio del processo di riforme e apertura. Ora manifestazioni di sentimenti nazionalisti estremi si susseguono con irrequietezza. Dietro a questa sicurezza di sé vi è la pressione esercitata dopo il massacro di Tiananmen, l''educazione patriottica' promossa dalla politica della seduzione; vi è il blocco dell'informazione sul web e il controllo dell'opinione pubblica messo in atto dal 'partito dei 50 centesimi' in ogni angolo della rete; vi è la volgarità e la brutalità del non riconoscere i successi della civiltà umana, la soddisfazione degli ignoranti e degli intrepidi e la stupida arroganza di credere di poter comprare qualsiasi cosa con il denaro. Questa sicurezza di sé certamente spaventa il mondo, la cui paura viene descritta dal Partito come ostilità e utilizzata per alimentare ulteriormente l'arroganza del popolo nei confronti degli altri paesi e l'astio verso la civiltà.

Questo rapporto della Xinhua trae sostegno da quanto riferito dai media d'oltremare, i quali sottolineano come (la Cina) dalla sesta posizione sia riuscita a raggiungere il podio, diventando la seconda economia mondiale, con un Pil più che triplicato. "Ma secondo Hu Jintao questo non è il successo maggiore ottenuto nei suoi dieci anni di mandato. Durante il discorso d'apertura dello Shibada, ha rimarcato come nel processo di sfide della decade l'aspetto più importante è stato l'aver plasmato e sviluppato la 'visione scientifica dello sviluppo." Questo è uno scherzo così ovvio, da indurmi a credere che all'interno del Pcc abbiano voluto fare dell'autoironia. Nel nome della 'società armoniosa' (和諧盛世) e dello 'sviluppo scientifico' (科學發展), infatti, l'ordine sociale è stato calpestato arbitrariamente e questo è, sicuramente, un altro aspetto rilevante del decennio passato.

Negli ultimi trent'anni, lo slogan del Partito che più ha conquistato il cuore del popolo -oltre al concetto di economia di mercato- è quello del 'governare il Paese attraverso la legge', un principio promosso alla metà degli anni '90 da Jiang Zemin. Così se da una parte la gente ha reagito in maniera cinica alla 'teoria delle tre rappresentanze', dall'altra ha approvato sinceramente 'il governo attraverso la legge'. Gli intellettuali, i giornalisti, i giuristi e gli avvocati dei diritti umani, si sono tenuti stretti queste quattro parole, tramutando lo scherzo in realtà, e mettendolo in pratica con grande dedizione. Tuttavia, in questi dieci anni, gli sforzi delle persone sono andati in malora e la legge è diventata la base teorica per le demolizione forzate, mentre gli ospedali psichiatrici sono diventati la nuova casa dei petizionisti. E questo semplicemente perché sempre più cittadini hanno cominciato a manifestare idee politiche differenti, venendo puniti come criminali. Negli ultimi anni, durante ogni tipo di discussione, è diventata ricorrente la parola 'democrazia liberale' (民主憲政), la quale, tuttavia, si è scontrata con la più alta istituzione del potere: 'il Parlamento'. Wu Bangguo, il presidente del Comitato permanente dell'Assemblea Nazionale del Popolo, ha reso noti 'i cinque no' (五不搞), etichettati da Hu Jintao stesso, durante l'ultimo Congresso, come una 'strada sbagliata'.

Voltandoci a guardare il passato, come dieci anni fa, ancora adesso continuano ad essere vive le aspettative della comunità internazionale sull'amministrazione Hu-Wen e le lodi del popolo cinese per una leadership considerata illuminata. Solo sei mesi fa qualcuno dichiarava che Hu e Wen, durante il loro mandato, potessero ancora ottenere un'ultima vittoria.

Ma io non posso tacere. Oggi molte persone hanno semplicemente cambiato i nomi di quelle stesse speranze e lodi, trasferendole direttamente sul nuovo governo Xi-Li. All'inizio Jiang Zemin fu riluttante ad abbandonare il potere e suscitò l'indignazione dei cinesi con quella sua volontà di ostacolare lo sviluppo del nuovo governo (Hu-Wen ndr). Molti ritengono che adesso le cose siano differenti. Ora le persone acclamano Hu Jintao per aver ceduto tutti i suoi incarichi. Ma chi può assicurare che, dal punto di vista della 'civilizzazione politica socialista' (文明政治), il trasferimento di un potere -ottenuto del tutto irregolarmente- dalle mani di uno alle mani di un altro sia poi alla fine tanto meglio?


主編的話】
傲慢的黑鐵
十年前輿論對「胡溫新政」的期待,歷歷在目。今天只將這些期待和讚美換了一些名詞,就直接套用到了「習李新政」上。

【封面故事】
不改革會從失敗走向失敗 文/丹頓
中共體制內沒有改革派,將希望寄託在新上任的領導人身上是不現實的。但是包括他們在內的所有人都應該了解,胡溫十年已經把中國帶進了十分危險的境地。

胡溫十年·政治·權貴禍國:權為黨所用讓政改休克 文/陳子明
意識形態趨向保守,強勢維穩、警察治國,胡溫執政十年間,中國政治不是停滯,而是倒退了。

胡溫十年·經濟·竭澤而漁:這場遊戲只讓權貴獲利 文/羅小鵬
胡錦濤的雙逆差政策對於創造財富的中國人民不公平,對於全球經濟秩序也是一種破壞,而中國的權貴資本,是遊戲的最大贏家。

胡溫十年·社會·道德淪陷:維穩維出假和諧 文/周克商
維穩是中共的必然邏輯。穩定壓倒一切,但往往是造成更大的不穩定。

胡溫十年·司法·黨大於法:要講政治不要講法治 文/王建勛
黨的事業至上,社會主義司法價值觀,加強黨對律師工作的領導……過去十年,中國司法正經歷着令人不安的變化。

胡溫十年·民族·矛盾激化:中共在邊疆緣何進退失據? 文/姚新勇
貧富差距加大,族群關係日益緊張,國家認同度進一步降低,族群矛盾進一步惡化。胡溫任內,中國民族問題滑入險境。

胡溫十年·台灣·金元促統:就這樣被你征服? 文/康依倫
胡溫十年橫跨台灣陳水扁和馬英九兩個年代。十年間,胡溫政府以恫嚇來反獨、以利誘來促統的戰略無疑是成功的。兩岸關係在馬英九上台後更是進入了前所未有的蜜月期。

胡溫十年·文化·回到延安:和諧時代創造「河蟹」文化 文/吳祚來
胡溫十年,有文化封鎖與突破禁錮;有國家把文化當作面向權貴的工程,也有最豐富的民間創作。這是最壞,也是最好的十年。


傲慢的黑鐵
22/11/2012 09:20:58 由 陽光時務 發佈
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人民日報、新華社將胡溫主政的10年定義為「黃金時代」,讓我們想到了「黑鐵時代」。

這種對人類世代的劃分法源自古希臘神話。黃金時代人神共處,和平歡樂。雖然土地會自己長出糧食,但是人們並不懶惰,也不貪婪,品德高尚,心地善良。黑鐵時代則黑暗腐朽,道德墮落,朋友失信,情侶反目,規則被毀,謊言橫行,人無廉恥,眾神棄之。如若按照這個標準,顯然,後者更適用於描述這10年來中國人的真實感受。

也許中共官媒並沒有這麼考究,只是揀「黃金」富足美好的字面意思。那麼我們也要說,「黑鐵」也是我們對胡溫10年的直觀感受。從身為國家元首的胡錦濤始終僵直的表情,到高層權力鬥爭的黑幕重重,再到暴力維穩的鐵錘政策、橫徵暴斂來的胡作非為,以及互聯網絡的高牆禁苑,無不讓人聯想到黑鐵般的冰冷與恐懼。

新華社在一篇謳歌「十八大」的報道中,引述外媒評論說,「黃金十年」成就大國自信,奇蹟仍將繼續」。

這十年間,中國人擁有了舉世矚目的「大國自信」,的確是最大的一個變化。改革開放初期的面對世界文明的謙卑一掃而光,極端的民族主義情緒一再躁動。這種「自信」的背後,是「六四」鎮壓之後高壓、收買政策下的「愛國主義教育」,是巨額投入之下的網路資訊封鎖和遍佈互聯網各個角落的「網絡閱評員」的「輿論引導」,是無視人類文明成果的粗鄙野蠻,無知無畏者的自鳴得意,以為用錢財可以買通一切的愚蠢自大。這種「自信」的確讓全世界感到恐懼,中共又把這種恐懼描述成敵意,用來進一步鼓動國民對世界的傲慢,對文明的仇視。

在這篇報道中,新華社借助外媒說,過去10年,中國從世界第六大經濟體躍升至第二大經濟體,國內生產總值(GDP)增長了3倍多。「但是在胡錦濤看來,這些還不是過去10年最偉大的成就。他在十八大開幕式上指出,總結10年奮鬥歷程,最重要的就是形成和貫徹了科學發展觀」。這個笑話如此明顯,我都懷疑是中共內部的自我反諷。以「和諧盛世」和「科學發展」的名義,對社會秩序的肆意踐踏,的確是這十年來的又一個顯著特徵。

這30多年來,執政黨最深得人心的治國口號,除了市場經濟之外,就是依法治國。這個口號在上世紀90年代中期由江澤民政權提出,人們一邊對「三個代表」冷嘲熱諷,一邊卻對「依法治國」衷心贊同,知識分子、媒體人、法律學者和維權律師都緊緊地抱住這四個字,假戲真做,全力實踐。然而,這十來年裏,民間的一切努力付諸東流,法律成為強拆民房的依據,精神病院成為上訪者的歸宿,僅僅因為持不同政見的言論而被治罪的人愈來愈多。早年間在各種討論會上成為熱詞的民主憲政,卻遭遇號稱「代表民意」的最高權力機關——全國人大常委會委員長吳邦國高調宣稱「五不搞」,胡錦濤在「十八大」報告中更是公然稱之為「邪路」。

回首往昔,10年前國際輿論對「胡溫新政」的期待,國內輿論對開明領導的讚美,仍歷歷在目。就在半年前,還有人宣稱胡溫會在任期「最後一搏」。

我不得不說,今天很多人只是將這些期待和讚美換了一些名詞,就直接套用到了「習李新政」上。當初江澤民留戀權力,人們憤怒他拖住了擋住「新政」的腳步,然而很快就有人議論「今不如昔」。如今人們為胡錦濤的「裸退」而歡呼,然而有誰能證明從文明政治來說都屬於非正當得來的權力到底交在誰手裏更好一些?






martedì 20 novembre 2012

Donne e potere: la maledizione cinese


Chi dice donna dice danno. Il vecchio adagio sembra avere una tradizione particolarmente consolidata oltre la Grande Muraglia. E nonostante i tentativi di Mao Zedong di riconoscere pari dignità all''altra metà del Cielo', la figura femminile continua a scontare il peso di stereotipi secolari. Così nella Cina del turbo-capitalismo le donne siedono al timone di società multimiliardarie, scalano la classifica di Forbes tallonando i super ricchi in pantaloni, ma faticano ad entrare nell'agone politico.

Il Diciottesimo Congresso del Partito comunista cinese, che tra l'8 e il 14 novembre ha delineato il nuovo assetto del potere, si è concluso con un'altra sconfitta al femminile. Liu Yandong, unica donna tra i 25 del Politburo e data tra i papabili sette del Comitato permanete del Politburo, il gotha cinese, non ce l'ha fatta. In odore di nomina a vicepremier, tuttavia, Liu è adesso affiancata da Sun Chunlan - recentemente promossa segretario del Partito di Tianjin- seconda donna a sedere nell'Ufficio politico del Pcc, mai così 'ricco' di quote rosa dai tempi della Rivoluzione culturale.
Il Sancta Sanctorum del potere continua a rimanere off limits per le donne dal 1949, tanto che nemmeno Wu Yi, membro del Politburo, vicepremier negli anni '80 e madrina dell'ingresso del Dragone nella Wto, riuscì mai ad accedervi. Neanche facendo leva sulla sua vicinanza all'ex Premier Zhu Rongji.

Secondo un articolo pubblicato da Bloomberg il 20 novembre, la presenza femminile nel Pcc è calata rispetto a quando, quattro decenni fa, Mao e l'allora presidente americano Nixon si strinsero la mano. Dal 2005, anno in cui Wu Yi lasciò il ministero della Salute, i dicasteri sono tutti presieduti da uomini. In sessant'anni di comunismo soltanto sei donne sono riuscite a diventare governatrici o capi del Partito a livello provinciale. Nel Comitato Centrale (CC) uscente appena 13 dei 205 membri appartenevano al gentil sesso (nel nuovo CC le quote rosa sono del 4,9%, in calo rispetto al 7,6% del 1969, anno in cui entrò in carica Nixon), mentre tra i 2268 delegati del Congresso solo 521 erano donne. Anchorwoman, calligrafe, cantanti, ma anche soldatesse e operaie; a giudicare da quanto apparso sul sito del Quotidiano del Popolo le delegate -molte delle quali appartenenti a minoranze etniche- hanno contribuito al consesso 'rosso' più che altro per il loro aspetto. Foto in abiti esotici hanno fatto la loro comparsa sul principale quotidiano di Partito in una slideshow dal titolo eloquente: "Beautiful Scenery from the 18th Party Congress". Ma non solo. La stampa ufficiale ha anche eletto la 'mamma-delegato' e la 'maestra-delegato' più belle ('dentro'), titoli che sono andati a Wu Juping, balzata agli onori della cronaca per essere riuscita ad afferrare una bambina di 2 anni precipitato da un edificio, e Zhang Lili, divenuta un'eroina dopo aver perso le gambe in un incidente stradale, mentre cercava di salvare alcuni bambini.

Ma, messe da parte le note di colore, ora che il "grande Diciottesimo" si è concluso tutti gli occhi sono puntati su di lei: Peng Liyuan, la consorte del neo Segretario generale del Partito Xi Jinping, che a marzo succederà a Hu Jintao come Presidente della Repubblica popolare. Dotato di una scioltezza da far invidia al suo ingessato predecessore, Xi si è già conquistato i cuori del cittadini con un discorso disinvolto che ha affascinato il pubblico tv e la rete. E se adesso il nuovo "imperatore" è in cerca di popolarità, sicuramente ha un'arma in più a disposizione: la sua coloratissima moglie.

49 anni, Peng è una delle principali star del Regno di Mezzo. Ex cantante folk dell'Esercito popolare di liberazione -di cui è anche General Maggiore- ha partecipato regolarmente al variety trasmesso dalla CCTV in occasione del Capodanno cinese, New Year Gala, uno dei programmi più visti in Cina da oltre venti anni. Tanto nota da rischiare di oscurare il marito che, durante la sua ultima visita negli Usa da vicepresidente, preferì lasciarla a casa. Ma adesso la stella dello Shandong, per i nati negli anni '80-'90 l'eterna ragazza sexy della porta accanto, dovrà cambiare look e indossare i panni della firts lady. La domanda è: lo farà davvero? La storia recente suggerirebbe di no.

Dopo la controversa moglie di Mao, tutte le consorti dei leader cinesi hanno mantenuto un profilo basso, così che, in Cina, molti non ne conoscono nemmeno il nome. Non hanno rivestito alcun ruolo nella politica interna, e sono apparse raramente al fianco dei mariti nei loro viaggi all'estero, impegnandosi di rado in attività filantropiche e culturali, come sono, invece, solite fare le first lady durante le visite di stato. Colpa del sistema politico, dicono gli esperti. Non siamo in America, non ci sono presidenziali all'ultimo sangue o campagne elettorali estenuanti. I dirigenti cinesi non vengono eletti dal voto popolare e pertanto risulta superfluo tutto quel corollario di sorrisi smaglianti e famiglie felici di cui si servono i politici sull'altra sponda del Pacifico per accattivarsi l'opinione pubblica. Nell'ex Impero Celeste le mogli dei "timonieri" vivono, per lo più, all'ombra dei mariti.

Ma, in realtà, a pesare è sopratutto il retaggio di una tradizione che nel binomio donne-potere scorge, ancora, un'alchimia diabolica e nefasta. Convinzione, questa, rafforzata dal recente caso Bo Xilai, ex nastro nascente della politica cinese caduto in disgrazia a causa del coinvolgimento della moglie Gu Kailai nell'omicidio di un uomo d'affari britannico.

"E' un'idea che risale all'epoca dell'Imperatrice Vedova (che regnò per gli ultimi 47 anni della dinastia Qing): la gente pensa che se viene dato potere ad una donna ci saranno certamente dei problemi" spiega a The National Zhang Lijia, scrittrice e commentatrice sociale di Pechino "ci sono ancora persone che credono che Jiang Qing, la moglie di Mao, sia l'unica responsabile della Rivoluzione culturale." Ma a differenza delle consorti 'storiche', Peng non deve la propria popolarità al marito, un semi-sconosciuto quando nel 2008 il mondo capì chi sarebbe diventato. Così che adesso alla domanda "Chi è Xi Jinping?" spesso si risponde ancora con ironia "Oh certo, è il marito di Peng Liyuan".

Eppure, rispetto al passato, la star del folk ha ridotto drasticamente le sue apparizioni pubbliche; niente più esibizioni per il Nuovo Anno e quando, ancora, lo fa si presenta in divisa piuttosto che in vistosi abiti da ballo. I censori hanno pensato al resto, eliminando dal web le sue prime interviste e bloccandone il nome; un destino comune a tutte le "first lady" cinesi. Peng -che è anche politicamente attiva come membro dell'XI Comitato nazionale della Conferenza politica consultiva del popolo cinese- negli ultimi anni si è impegnata in progetti filantropici e campagne sanitarie governative. Nel 2011 è stata nominata ambasciatrice di buona volontà su Hiv e tubercolosi per l'Organizzazione mondiale della sanità e, all'inizio di quest'anno, ha affiancato il cofondatore di Microsoft, Bill Gates, in una battaglia anti-fumo su scala globale. Incarichi quanto mai impegnativi considerata la sensibilità politica che li circonda da quando, negli anni '90, il Premier entrante Li Keqiang -al tempo governatore dello Henan- gestì goffamente lo scandalo del sangue infetto esploso sotto il suo predecessore. Un'epidemia di Aids che costò la vita a milioni di persone nella sola provincia. "Per stare sicura, solitamente (Peng) descrive il suo coinvolgimento nell'Hiv come un obbligo di madre, figura pubblica e ruolo modello" ha commentato Johanna Hood, assegnista di ricerca presso l'Australian National University, che ha studiato il lavoro portato avanti da Peng nella sanità pubblica.

D'altra parte, non è nemmeno da escludere che Xi e il Partito le permetteranno di portare avanti le sue attività filantropiche e persino di costruirsi un ruolo da 'first lady', ipotizza The National. Avere al fianco una moglie che parla fluentemente inglese consentirà al nuovo leader di ritagliarsi un'immagine più moderna, al passo con le ambizioni di una Cina che studia da superpotenza. Non solo economica, ma anche 'culturale'. E allora -scherza Jean-Pierre Cabestan, professore di scienze politiche alla Hong Kong Baptist University- "Peng potrebbe essere d'aiuto a Xi con il suo profilo internazionale. Ovviamente lui non ha intenzione di convincerla a fare il giro del mondo cantando, ma sicuramente brillerebbe durante le cene alla Casa Bianca".

(Scritto per Uno sguardo al femminile)

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lunedì 19 novembre 2012

Una "morte dolce" per il Dragone


E' meglio morire in pace o continuare a vivere tra atroci sofferenze? La Cina se lo chiede da circa un ventennio. Da quando nel 1986 il primo caso di eutanasia varcò le aule del tribunale. Da quel momento, quasi ogni anno, proposte di legalizzazione sono state sollevate durante la sessione annuale dell'Assemblea Nazionale del Popolo (NPC), il "parlamento" cinese. E ogni volta, al secco no del legislatore è seguito il pollice verso del ministero della Salute: "La Cina non è ancora pronta per questo". La risposta è sempre la stessa. Dopo che nel 1994, un gruppo di delegati dell'NPC si schierò in supporto della "morte dolce", una legge del 1998 autorizza gli ospedali a praticare l'eutanasia sui malati terminali. Come spiega Zhang Zanning, professore presso la Southeast University di Nanjing, viene diffusamente riconosciuta la possibilità di eseguire l'eutanasia esclusivamente sui pazienti ritenuti incurabili.

Il dibattito, nel corso del tempo, si è fatto via via più acceso. Nel marzo 2007, un caso eclatante scatenò un vespaio di polemiche. Li Yan, 28enne paralizzata dall'età di 4 anni, sottopone la sua storia all'attenzione di una giornalista della televisione di Stato CCTV: Chai Jing. Al tempo i social media avevano già cominciato a rivelare il loro ruolo di megafono del popolo e Chai decide di ospitare il caso di Li sul proprio blog, dando voce al suo dolore. Li, che soffre di distrofia muscolare progressiva, è stanca di combattere e si rivolge all'Assemblea Nazionale del Popolo perché le venga riconosciuto il diritto di staccare la spina. "Amo la vita ma non voglio vivere" scrive la giovane donna. Poi si fa portavoce di tutti i malati disperati e delle famiglie gravate dai costi di cure spesso inefficaci, chiedendo che l'eutanasia venga approvata dalla legge. Dopo il semaforo rosso del Parlamento cinese, la comunità del web si è divisa su Sina.com, il principale fornitore di servizi internet, manifestando in alcuni casi comprensione, in altri dissenso. Uno dei primi episodi in cui il popolo cinese ha lasciato il tradizionale riserbo per riflettere pubblicamente su questioni di carattere etico e morale.

Passano gli anni. E' il 16 marzo 2011 quando Deng Mingjian, 41enne lavoratore migrante di Canton, decide di soddisfare il desiderio della madre paralizzata. Dopo averla curata amorevolmente per circa 20 anni, le somministra del pesticida, come lei stessa gli aveva chiesto più volte. Deng è stato accusato di omicidio dalla corte di Panyu, nel Guangdong, e condannato a tre anni di carcere con sospensione della sentenza di 4 anni. A qualcosa è servito, dunque, l'appello inoltrato alle autorità giudiziarie da 70 persone tra parenti, colleghi e amici, per chiedere una mitigazione della pena. Il noto Twitter cinese, Sina Weibo, si infiamma di commenti appassionati pro e contro l'eutanasia. Per circa la metà dei netizen la "buona morte" andrebbe legalizzata -o quantomeno dovrebbe essere fatta chiarezza sul suo stato giuridico- sopratutto tenuta considerazione delle carenze del sistema sanitario nazionale.

A circa un mese dal caso di Deng, nel maggio 2011, la Corte popolare della contea di Longnan, nella provincia meridionale del Jiangxi, condanna Zhong Yichun, a due anni anni di reclusione per aver assistito il suo amico Zeng Qianxiang nel commettere suicidio. Zhong è accusato di negligenza criminale. Secondo quanto riportato dall'agenzia di stampa statale Xinhua, Zeng, mentalmente disabile aveva chiesto ripetutamente al suo amico di aiutarlo a morire. Poi il gesto finale. Nell'ottobre 2010, dopo aver assunto una dose massiccia di farmaci, si sdraia in un buco scavato nel terreno. Come stabilito tra i due, Zhong procedette a seppellirlo dopo essersi accertato del decesso. Ma il caso è controverso. Secondo il rapporto dell'autopsia, infatti, il ragazzo sarebbe morto per soffocamento e non per overdose. Impugnata inutilmente la sentenza, nell'agosto 2011 il tribunale respinse il ricorso di Zhong, colpevole di non essere stato in grado di verificare se l'amico fosse ancora in vita.

Negligenza o omicidio volontario? L'articolo 232 del Codice penale prevede una pena da tre a dieci anni di reclusione per omicidio intenzionale "se le circostanze sono relativamente minori"; in circostanze gravi, invece, si parla di un minimo di dieci anni fino alla pena di morte. Tuttavia, secondo l'articolo 233, chi causa il decesso di un'altra persona per negligenza dovrà trascorrere dietro le sbarre "soltanto" da tre a sette anni; se le circostanze sono relativamente minori, la sentenza massima è di tre anni, salvo quanto diversamente specificato dal Codice.

Come sottolineato dalla Xinhua nella maggior parte del mondo il suicidio assistito viene ancora considerato omicidio; anche nei paesi in cui l'eutanasia è permessa per legge -come Belgio e Paesi Bassi- sebbene non possa essere perseguito nel caso in cui, secondo i medici, siano soddisfatte determinate condizioni legali. Nel marzo 2011 in India la Corte suprema ha concesso agli ospedali di somministrare l'"eutanasia passiva" ai malati terminali, riconoscendone, per la prima volta, lo stato giuridico.

Sono in molti a ritenere che vi sia un profondo divario di qualità tra i servizi medici e la legislazione della Cina e quelli dei paesi nei quali l'eutanasia è già stata legalizzata. "Nei villaggi, i casi di cancro tra le persone anziane sono aumentati moltissimo negli ultimi anni" commenta su Weibo @39du "non è realistico tenerli negli ospedali per tanto tempo sotto analgesici e altri medicinali. Gridano dal dolore ogni giorno". Per @Fengxingyun "dopo che un cittadino trascorre la propria vita a lavorare per il bene del paese, dovrebbe essergli riconosciuta una garanzia sociale, un sostegno per gli ultimi anni. Non sono tutti funzionari con un reddito generoso".

Il logoramento del sistema sanitario cinese è un fenomeno piuttosto giovane. Prima dell'apertura economica del paese, cominciata alla fine degli anni '70, vi erano i cosiddetti "medici scalzi", i quali fornivano gratis assistenza medica di base anche ai cittadini più poveri. Paradossalmente con il boom economico, tali figure sono scomparse, i costi ospedalieri sono aumentati e ai malati terminali, ormai, non resta che sobbarcarsi tutte le spese. "Non c'è da stupirsi che i cinesi siano tra i più grandi risparmiatori al mondo" commenta @Zhaiyudaren "il conto in banca è tutto ciò che li separa dalle calamità".

Secondo un rapporto pubblicato sul Life Time Newspaper, ad essere favorevoli all'eutanasia sono per lo più i giovani e le persone con un livello di educazione più elevato, mentre un sondaggio effettuato da Health Weekly su centinaia di residenti di Pechino rivela che il 91% dei rispondenti ha espresso il proprio plauso per la "morte dolce" e l'85% si è detto favorevole ad un suo riconoscimento legale.

Per Yan Sanzhong, capo del dipartimento di legge dell'Università Normale del Jiangxi, il Dragone dovrebbe spostarsi gradualmente verso la legalizzazione della "buona morte" analizzando i principi fondamentali del diritto penale cinese. "La Cina deve prima accumulare esperienza giudiziaria nella gestione di casi in materia di eutanasia. La Corte Suprema potrà così avvicinarsi a interpretazioni giudiziarie per, in fine, legalizzare l'eutanasia al momento giusto".

Oggi "la buona morte" è riconosciuta dalla legge in Lussemburgo, Paesi Bassi e Belgio e in alcuni stati degli Usa. Nei Paesi Bassi, i primi a legalizzare l'eutanasia nel 2002, è stato introdotto un servizio a livello nazionale, attivo dal 1 marzo di quest'anno, grazie al al quale è possibile fornire al malato una squadra di valutazione incaricata di eseguire l'eutanasia a domicilio per i richiedenti qualificati.
"Ma è difficile per loro poter stabilire, in tempi brevi, se i pazienti siano veramente incurabili e destinati a soffrire per il resto della loro esistenza" ha spiegato Xu Hongbin, chirurgo dell'Aerospace Central Hospital di Pechino.

Come stabilisce una legge del 1998, in Cina gli ospedali possono interrompere il trattamento medico su pazienti incurabili qualora, l'ammalato, i familiari e i medici abbiano raggiunto un accordo, sulla base dell'evidente inutilità di un accanimento terapeutico. Nel 2006 Zhao Gongmin, ex ricercatore presso l'Accademia Cinese delle Scienze Sociali, ha, in vano, proposto alla Conferenza Politica Consultiva del Popolo Cinese (CPPCC) -l'organizzazione incaricata di rappresentare i vari partiti politici della Repubblica Popolare, sotto la direzione del Pcc- la possibilità di testare "la morte dolce" attraverso programmi pilota, in aree selezionate. "Somministrare veleno o medicine letali ad una persona ancora in vita equivale a commettere un omicidio, anche se si tratta di un gesto nato dal desiderio di aiutare qualcuno. La legalizzazione dell'eutanasia per i pazienti, con un piede nelle tomba, è molto più umana" ha commentato Zhao.

Al di là delle motivazioni morali, il governo cinese continua ad avversare la "morte dolce" temendo le conseguenze che potrebbero derivare da un abuso di tale trattamento. Come nel caso dei malati anziani abbandonati dai propri figli. Il rischio è quello di mettere in pratica degli omicidi nel nome di una "morte pacifica", ha spiegato Zhang Zanning. Eppure -pronostica Zhang- potranno essere necessari diversi anni, ma rispetto ai paesi occidentali, in Cina gli ostacoli ad un'approvazione della legge sono inferiori, senza i lacci e i lacciuoli posti dall'ingombrante presenza della religione.

(Scritto per Uno sguardo al femminile)

venerdì 16 novembre 2012

Xi&Co. La nuova leadership del Dragone


Sette. E' il numero dei "magnifici" che siederanno nel Comitato permanente del Politburo, la stanza dei bottoni cinese, per i prossimi anni. Due di loro, Xi Jinping e Li Keqiang -rispettivamente successore del presidente e segretario generale del Pcc Hu Jintao e del Premier Wen Jiabao- rimarranno al potere fino al 2022, mentre per gli altri cinque potrebbe prospettarsi un pensionamento anticipato, tra cinque anni, per sopraggiunti limiti d'età. Wang Qishan, Zhang Dejiang, Yu Zhengsheng, Liu Yunshan e Zhang Gaoli compongono il resto della rosa, ridotta di due membri rispetto alla precedente di nove.
Smentendo le speculazioni degli ultimi giorni, Hu Jintao ha ceduto al suo erede anche la presidenza della Commissione militare centrale, il potente organismo che governa l'Esercito; un fattore che conferisce maggiori poteri a Xi Jinping, consentendogli un più ampio spazio di manovra. Oggi Segretario del Partito e leader delle forze armate, Xi solo a marzo assumerà, ufficialmente, la carica di presidente della Repubblica popolare.

Tecnicamente delineata sul voto dei 205 membri del Comitato Centrale del Pcc durante il XVIII Congresso, la nuova geometria del potere, è, in realtà, il frutto di mesi di accordi e scontri tra le varie fazioni del Partito. Una lotta ai vertici che ha visto Hu Jintao e l'ex presidente Jiang Zemin -solo apparentemente lontano dalla politica attiva- spintonarsi per piazzare i propri uomini in posizioni chiave. Il risultato di questa "battaglia" è un Empireo caratterizzato dalla preponderanza netta di "principini", ovvero gli eredi dei veterani del Partito e, pertanto, abituati ai privilegi del potere, fatta eccezione per quella buia parentesi della Rivoluzione culturale, impietosa verso i rampolli dell'aristocrazia "rossa".

Il numero uno
Lo scorso settembre era sparito nel nulla. Di lui si è detto di tutto, ma mai il Partito ha svelato le ragioni della sua prolungata assenza dalla scena pubblica. Xi Jinping, 59 anni, figlio di Xi Zhongxun (funzionario vicino al riformista Hu Yaobang) sfila ad ampi passi sulla moquette rosso cremisi della Grande Sala del Popolo, poi tiene banco per circa un quarto d'ora, annunciando le sfide per la nuova leadership; corruzione e riforme in primis. Nuovo numero uno, e pur sempre un primus inter pares, come stabilisce la leadership collettiva, frutto dell'epurazione del culto della personalità targata Mao Zedong. Possiede tutte le credenziali per portare avanti le riforma caldeggiate dall'ala liberale del Partito e per anni vagheggiate dal primo ministro uscente Wen Jiabao.
Sono bastate poche battute sul palco del Congresso per mettere in risalto una personalità brillante, ben distante dal grigiore di Hu Jintao. Al suo debutto come Segretario generale del Partito, Xi non cita il marxismo né il pensiero del Grande Timoniere; piuttosto scherza sui 45 minuti di ritardo con i quali ha fatto attendere i giornalisti di mezzo mondo. Tutt'altro stile rispetto al lento ed enfatico scandire di Hu, che dall'inizio del proprio mandato ha ridotto al minimo le sue apparizioni pubbliche. Su quest'ultimo, quando prese il potere dieci anni fa, si erano concentrate le speranze di chi auspicava una sinergia tra riforme politiche e apertura economica. Speranze tramontate in una "decade d'oro", di fatto, soltanto per la stampa ufficiale.

Gli altri cinque
Zhang Dejiang, economista formatosi in Corea del Nord nonché sostituto del deposto boss di Chongqing Bo Xilai, e Wang Qishan, esperto di finanza, sono accoliti di Jiang Zemin. Un fattore che li accomuna a Xi Jinping, leader in pectore dal 2007, il cui destino fu tracciato proprio dal grande vecchio della politica cinese.
E con Yu Zhengsheng e Zhang Gaoli, appartenenti alla cricca di Shanghai -di cui il vecchio presidente è leader- e Liu Yunshan, capo del Dipartimento della Propaganda, in posizione mediana tra Hu Jintao e Jiang Zemin, di fatto, al presidente uscente non resta che un unico alleato diretto nel Comitato permanente: Li Keqiang, successore di Wen Jiabao a capo del governo, uscito dalla Lega della gioventù comunista, il feudo politico di Hu Jintao.

Solo sette
Dopo una settimana, il XVIII Congresso (anche detto Shibada in cinese) si è chiuso con un Comitato permanente del Politburo ridotto da nove a sette membri. Una manovra, questa -secondo gli esperti- volta a garantire maggiore coesione, in un anno di scandali e ingorghi politici. Ma sopratutto in previsione di una nuova epoca, in cui, abbandonati tassi di crescita a due cifre (il terzo trimestre del 2012 si è chiuso con un +7,4%), il Dragone si troverà a dover prendere decisioni rapide per far fronte al rallentamento della macchina economica. E cercare di raggiungere la soglia psicologica dell'8%, ritenuta da Pechino risultato minimo per contenere il problema disoccupazione. A lanciare un'ulteriore sfida è stato proprio Hu Jintao, che nel suo discorso d'apertura ha richiesto alla nuova leadership, entro i prossimi dieci anni, un raddoppio del PIL e del reddito procapite ottenuti nel 2010. Un obiettivo che, alla luce della crisi dell'Eurozona (e l'Ue è il primo partner commerciale del Dragone) richiede un nuovo paradigma di crescita, non più imperniato sulle esportazioni. Ma questo l'amministrazione Hu-Wen sembrava averlo già capito, tanto che nei primi nove mesi del 2012, il 55% della crescita è derivato proprio dai consumi interni

Le sfide per i nuovi leader
Tra i vari nodi al pettine che i "magnifici sette" dovranno sbrogliare, oltre al problema corruzione, compare, il rischio bolla immobiliare e lo strapotere delle quattro grandi banche (Bank of China, Agricultural Bank of China, China Construction Bank e Industrial and Commercial Bank of China) -che bloccano gli investimenti ai privati- e delle società statali che monopolizzano settori chiave, stroncando la concorrenza e ingolfando il sistema. E ancora: l'indebitamento delle amministrazioni locali attraverso il sistema delle Local Investment Companies (LIC) che, nel biennio 2009-2010, hanno ricevuto prestiti dalle banche per l'equivalente di 1282 miliardi di euro, di cui un quinto sarebbe in sofferenza; il gap tra ricchi e poveri e il peggioramento delle condizioni ambientali. Spinosa anche l'agenda estera, con una serie di controversie territoriali che pesano sui rapporti tra Pechino e alcuni paesi rivieraschi della regione Asia-Pacifico, impegnati a rivendicare la propria sovranità su alcune isole nel Mar Cinese Meridionale e Orientale. Meriterebbe una parentesi a parte la questione tibetana, che ha accompagnato tutta la durata del Congresso con una lunga scia di auto-immolazioni contro Pechino: almeno 74 le autocombustioni dal 2009 -10 soltanto tra il 7 e il 15 novembre- per chiedere l'indipendenza del Tibet e il ritorno del Dalai Lama, in esilio dal '59.

Riforme graduali
Alla vigilia del conclave rosso, la Reuters aveva pronosticato per il Grande Diciottesimo un potenziamento della "democrazia intrapartitica" ed elezioni più competitive, con il 20% in più di candidati rispetto al numero dei seggi nel Politburo. Secondo fonti anonime, doveva essere il lascito di Hu Jintao ai nuovi "imperatori"; una svolta storica che, alla luce di quanto, invece, avvenuto, si farà ancora attendere.
Dopo giorni di illazioni circa una possibile rimozione dell'ideologia maoista dallo Statuto del Partito, lo Shibada ha riconfermato l'eredità del padre della Repubblica popolare. Di più. Ha consacrato i concetti di "sviluppo scientifico" e "società armoniosa" cari a Hu Jintao. Alcuni giorni fa lo stesso Xi Jinping, davanti alla delegazioni di Shanghai, aveva ribadito che la Cina "non dovrà copiare i sistemi politici occidentali", continuando a seguire la via del "socialismo con caratteristiche cinesi".

L'equilibrio finale della nuova leadership -priva del riformista Wang Yang dato, per mesi, tra i papabili- pende visibilmente verso il conservatorismo. Una proiezione autorevole sul futuro della Cina: per Sidney Rittenberg, ex confidente di Mao rinchiuso in isolamento per 16 anni, Pechino agirà con cautela. "L'inerzia è formidabile" spiegava lunedì il 91enne americano "vedremo passi avanti ma non cambiamenti sostanziali. Il gioco non può cambiare, Xi non ne ha la forza anche se volesse".

Il dibattito sulle riforme del Dragone, negli ultimi tempi, ha lasciato una scia d'inchiostro sulle principali testate internazionali. Il Wall Street Journal, ad esempio, ha ospitato un lungo botta e risposta tra Cheng Li, analista politico della Brookings Institution, e Minxin Pei, professore di Scienze del Governo presso il Claremont McKenna College. Entrambi concordano sul fatto che, se le riforme arriveranno, saranno il prodotto di pressioni dal basso. Il popolo, esasperato per le ingiustizie sociali, comincerà ad alzare sempre di più la voce fino a quando il Partito non deciderà di ascoltare per evitare una rivoluzione. Ormai da anni Pechino ha smesso di rilasciare le statistiche ufficiali, dopo che il numero annuo delle proteste violente ha superato la soglia delle 100mila. Ma -secondo Sun Liping, professore di sociologia presso l'Università Qinghua- solo nel 2010, gli "incidenti di massa" sarebbero stati circa 180mila.

E se la corruzione ad ogni livello del Partito rappresenta il vero nervo dolente del Dragone, i due esperti non hanno dubbi: è necessario rompere i monopoli di Stato e riformare il sistema bancario, dando maggiori opportunità alle piccole imprese. Una svolta sulla quale, tempo fa, aveva posto l'accento anche Wen Jiabao durante un discorso riportato in esclusiva da China Radio International (CRI). Ma con il Pcc come gruppo d'interesse più potente in Cina, non desta stupore il continuo procrastinare dei leader, poco inclini a rinunciare ai propri privilegi.
Un ruolo chiave nelle riforme dovrà, poi, essere svolto dalla progressiva "apertura" dei media, che peccano di mancata trasparenza: una manovra necessaria per fare ordine sull'internet cinese, vox populi, ma anche fabbrica di dicerie infondate, in quanto unica valvola di sfogo di cui dispongono i cittadini. Distorsione, quest'ultima, che può essere sanata soltanto rendendo i media mainstream un'attendibile fonte d'informazione.

Molte di quelle sopra citate sono questioni sulle quali la vecchia leadership si era già espressa nel corso del suo governo. Ma nell'anno dello scandalo Bo Xilai e del cortocircuito politico più grave dal 1989, il Partito soffre di una profonda crisi di credibilità. E adesso non bastano più le parole, ci vogliono i fatti.

(Scritto per Ghigliottina.it)






domenica 11 novembre 2012

Tu, quoque, Brute fili mi!


Hanno infangato l'immagine del Partito popolando il gossip cinese e adesso minacciano pericolosamente la stabilità del regime. L'oggetto dell'invettiva caustica di Liu Yuan, generale e figlio di Liu Shaoqi, l'ex presidente caduto in disgrazia all'epoca di Mao, sono i "principini"; gli eredi dei leader, cresciuti all'estero, spediti nei più prestigiosi atenei d'oltremare per ricevere una formazione al top e, oggi, tra gli 1,4 milioni di studenti cinesi residenti oltre la Muraglia dalla fine del 2011.

Pronunciate nel mese di febbraio, all'inizio del scandalo che ha coinvolto l'ex segretario di Chongqing Bo Xilai, le affermazioni incendiarie di Liu sono apparse come una chiara dichiarazione di guerra alla corruzione che serpeggia nei palazzi del potere. Anche a costo di puntare il dito contro i grandi nomi dell'amministrazione Hu Jintao-Wen Jiabao. E perché il monito venisse ascoltato, il generale ha fatto appello alla storia recente, agitando il fantasma della primavera araba che tanto spaventa Pechino. A decretare la rovina del dittatore libico Gheddafi -avverte il generale- è stato proprio il suo secondogenito Saif al-Islam; un riformatore traviato dai valori occidentali, ubriaco di democrazia ed educato in quelle stesse università straniere presso le quali oggi si trovano molti "principini". Un destino analogo attende il Partito comunista cinese qualora non sarà in grado di trovare un collante ideologico in grado di giustificare il monopolio del potere che esercita alla luce del sole. Perché l'errore del Rais non è stato il mancato raggiungimento delle riforme democratiche e dello stato di diritto, come molti credono. La sua rovina ha un nome: Saif.

Il discorso di Liu, filtrato attraverso un rapporto interno di Zhu Jidong, funzionario della propaganda, suona come l'ennesima bordata contro l'Ovest. "L'egemonica classe capitalista occidentale ha creato una serie di valori -democrazia, diritti umani, e libertà- che maschera come "valori universali" per fare il lavaggio del cervello ai cittadini cinesi, attraverso organizzazioni non governative, i media e i figli degli alti dirigenti" tuona Liu "è questa cospirazione dell'Occidente la causa principale della guerra ideologica che, attualmente, infuria in Cina e non la naturale evoluzione delle aspirazioni di una società sempre più prospera, pluralista e ben informata".

Ma Liu ne ha per tutti e nel mese di aprile ha messo nuovamente a rischio la propria carriera accusando, senza giri di parole, la corruzione, la disuguaglianza e l'ipocrisia del Partito e dell'Esercito, assediati dal clientelismo e da un "individualismo maligno".

Dalle parti di Zhongnanhai, il Cremlino cinese, gli ammonimenti dell'ambizioso generale non sono stati graditi, tanto che Liu ha terminato in anticipo la propria carriera politica con il ritiro della sua tessera di membro del Congresso. Lasciato fuori dalla lista dei circa 250 membri del presidium del Congresso pubblicata dall'agenzia di stampa statale Xinhua nella giornata di giovedì, Liu sconta, tra le altre cose, la sua vicinanza al silurato Bo Xilai e le inimicizie attiratesi in seguito alla destituzione di Gu Junshan, il suo vice al dipartimento di logistica, implicato in un giro di denaro sporco.

Ma Liu non è una voce fuori dal coro e la sua sparata giunge nell'anno del più grande terremoto politico dai tempi del massacro di Tian'anmen. L'aristocrazia "rossa" finisce sempre più spesso al centro di episodi imbarazzanti. Dall'ormai noto incidente della Ferrari, nel quale lo scorso marzo avrebbe perso la vita il figlio di uno dei protégé del presidente uscente Hu Jintao, Ling Jihua, alla vita dissoluta di Guagua, il rampollo di famiglia Bo, fino ad arrivare alle ricchezze nascoste del leader in pectore Xi Jinping e del premier Wen Jiabao, portate alla luce da una stampa estera sempre più occhiuta verso gli stravizi dei "timonieri" cinesi.

I figli di almeno otto dei nove membri dell'attuale Comitato permanete del Politburo, il vero gotha cinese, hanno studiato o lavorato per lungo tempo oltremare; quelli del quasi-premier Li Keqiang e Wen, si sono formati negli Stati Uniti. Il rampollo del numero tre, Winston Wen, dopo aver calcato i banchi della Northwestern University, ha fondato la società leader nel private-equity, New Horizon Capital, mentre il genero di Hu Jinato, Daniel Mao, ha studiato alla Stanford, lavorato nella Silicon Valley per poi divenire CEO del colosso dell'internet cinese Sina. Li Tong, la figlia del capo della propaganda Li Changchun, laureata alla University of New South Wales, in Australia, oggi ricopre una posizione di rilievo presso la Bank of China. E se -secondo fonti del business cinese- Zhou Bin, rampollo dello zar della Sicurezza Zhou Yongkang, avrebbe studiato in Canada, uno dei figli di Jia Qinglin, numero quattro del Partito, pare abbia vissuto in Australia, mentre sua nipote, Jasmine Li, ha frequentato la prestigiosa Stanford. Per concludere, Xi Mingze, figlia di Xi Jinping, studentessa niente meno che ad Harvard, ma, con un'attenuante: di lei si dice sia molto cauta nei rapporti con il mondo occidentale.

Insomma, la gioventù dorata del Regno di Mezzo guarda al di là della Muraglia. E casa Liu non fa eccezione. Oltre ad un ragazzo mentalmente disabile, infatti, il generale anti-corruzione ha una figlia laureata ad Harvard: Liu Ting, oggi alla presidenza dell'Asia Link Group, società di consulenza per le aziende straniere che vogliono accedere al mercato cinese. Nella seconda economia mondiale il legame perverso tra potere politico e business non risparmia nessuno, mentre l'Occidente, additato come nemico numero uno, esercita un fascino minaccioso sull'élite rossa. E pone gli alti funzionari davanti ad un dilemma spinoso: riuscire a conservare la propria purezza ideologica, pur continuando ad assicurare ai propri figli una vita ai massimi livelli, oggi sembra un obiettivo sempre più irraggiungibile.

(Fonti: Foreign PolicyChina Digital TimesAgiChina24)

venerdì 9 novembre 2012

Il XVIII Congresso del Pcc dalla tribuna del popolo


Tra i fasti della Grande Sala del Popolo e misure di sicurezze rigorosissime, il Diciottesimo Congresso Nazionale del Pcc si sta svolgendo secondo la consueta liturgia del Partito, con un presidente Hu Jintao più "grigio" che mai. Oratore per quasi due ore, giovedì Hu ha tirato le somme degli ultimi dieci anni di governo, tracciando le linee guida per i nuovi leader, in carica sino al 2022.
In Cina il turnover politico non brilla certo per dinamismo se raffrontato alle recenti presidenziali americane, che hanno lasciato col fiato sospeso i cittadini durante il countdown verso la nomina dell'inquilino della Casa Bianca. La nuova geometria interna del Pcc, che verrà resa nota il 15 novembre, è frutto di mesi di conclavi a porte chiuse, intese e scontri tra le varie anime del potere. Tutt'altro che monolitico, il Partito vede la propria stabilità minacciata da crepe profonde. Una lotta al vertice ha lasciato sul campo di battaglia una vittima autorevole: l'ex-segretario di Chongqing, stella nascente della politica cinese e sino a febbraio candidato ad uno dei seggi del comitato permanente del Politburo, il massimo organo decisionale del Dragone. Oggi Bo è in attesa di essere processato per corruzione, abuso di potere e altri crimini.

Ma le dinamiche che si celano dietro il passaggio delle consegne ai nuovi "imperatori" sembrano aver interessato più che altro la stampa d'oltremare e gli addetti ai lavori, mentre in patria hanno suscitato qualche critica sul web, lasciando pressocché indifferenti le masse. O meglio tutti coloro non in possesso di un pc e, pertanto, estranei al fermento intellettuale che, da qualche anno a questa parte, anima la rete internet cinese. Nonostante gli sforzi della televisione di stato CCTV nell'esaltare la fede e l'entusiasmo del popolo nei confronti del Pcc, l'aria che si respira tra le strade pechinesi è ben differente. La vita procede regolarmente, senza particolari tensioni, preoccupazioni o manifestazioni di giubilo tra la gente.

"Perchè mi dovrei interessare al Congresso nazionale?" ha affermato un tassista che chiameremo Zhang. "Tutto quello di cui mi devo preoccupare è fare bene il mio lavoro. Le decisioni dei politici non riguardano le persone comuni come me". Zhang è al volante del suo taxi da più di dieci anni e ciò che più lo tormenta è l'aumento dei prezzi del gas. "Ho lavorato cinque anni per poter comprare due metri quadrati in un appartamento di Pechino" ha spiegato ai microfoni di Want China Times.
Più speranzoso Wu, proprietario di una gioielleria, per il quale il ricambio al vertice porterà una ventata di rinnovamento: "Non seguo molto la politica, ma ripongo grandi speranze in Xi Jinping (il delfino di Hu Jintao ndr). Penso che la Cina si incamminerà nella giusta direzione, verso la democrazia  e la lotta alla corruzione". L'attenzione cresce quando ci si sposta nel settore del business. Yu è un PR executive e di politica sembra capirci qualcosa in più. "Non è stata una transizione indolore con Liu Zhujin (il corrotto ex ministro delle ferrovie), Bo Xilai, Chen Guangcheng (dissidente cieco al centro di un' imbarazzante caso Cina-Usa ndr) e le isole Diaoyu (causa di ostilità con il Giappone ndr). La Cina ha tentato di emulare gli Stati Uniti varando un pacchetto di stimoli economici, ma tutti i soldi sono finiti nelle mani dei funzionari" ha affermato Yu "I prezzi delle case sono insostenibili e in futuro diventeranno un problema enorme. I ricchi sono sempre stati soliti nascondere i loro patrimoni. Ora li ostentano acquistando prodotti di marca e auto sportive. Ho come il sentore che Xi Jinping presto ne avrà le mani piene". Le critiche abbondano anche nella comunità migrante. Wang Jun, un passato da giornalista televisiva in Cina,  adesso vive in Italia da diversi anni e, alle prese con un mutuo, del Congresso non se ne cura. "E' tutto deciso a priori, non ha senso seguirlo. I leader non sono votati dal popolo". Invitata a rilasciare un giudizio sui "timonieri" cinesi non ha dubbi: Hu Jintao è troppo serio, Wen Jiabao (il primo ministro uscente ndr) è falso, Xi Jinping "indefinito". L'unico dotato di carisma -secondo Wang- è proprio Bo Xilai che, grazie ad un volto telegenico e savoir-faire con i media, si è conquistato il titolo di funzionario più "social" di Cina.

Il Congresso a casa
Mentre a piazza Tiananmen, centro politico della capitale, si svolge il "grande diciottesimo", il partito entra nelle case per fare breccia nei cuori dei cittadini, ricordando loro il passato glorioso dei primi anni di vita del comunismo cinese. E lo fa attraverso uno dei suoi più fidati araldi: la televisione. Durante tutta la durata del Congresso, infatti, i canali nazionali intensificheranno la trasmissione di fiction "rosse"; un tempo veicolo propagandistico di punta, ma oggi affetto da un netto calo di audience, sopratutto a causa dello scarso interesse dimostrato dalla generazione post anni '80. In questi giorni solenni, ai giovanissimi non resterà che affidarsi alle serie tv americane, centellinate sul piccolo schermo, ma pur sempre reperibili online. Come riporta la Reuters, proprio in concomitanza con l'apertura del consesso, la CCTV ha proposto una serie da 23 episodi, il cui titolo "Yangshan Zhou" si rifà al nome di un ex funzionario, noto per umiltà e vicinanza alle masse. Un quadro modello, insignito di diversi premi postumi tra i quali il "Touching China".
Ma occorre che il regime riguardi seriamente i palinsesti televisivi se non vuole rischiare di perdere una fetta di pubblico consistente. Il consiglio arriva da diversi esperti tra i quali Xiao Xiao-sui, docente di cultura e teoria dei media presso la Hong Kong Baptist University. Secondo Aegis Media, da gennaio a luglio 2012, gli show patriottici, trasmessi da canali per lo più per un pubblico adulto, hanno registrato un raddoppio dello share. Di contro, canali giovani come, la TV satellitare della provincia dello Hunan, sono stati interessati da un calo dell'80% in concomitanza con la trasmissione delle fiction "rosse". Ora, mentre nelle case genitori e figli si contendono il telecomando, al Partito non resta che scegliere se puntare a ingraziarsi le nuove generazioni o continuare ad adulare i cuori nostalgici.

"Compagni" per interesse
Nonostante gli ultimi scandali abbiano minato la credibilità del Pcc, secondo quanto riportato sul sito cinese di Deutsche Welle, molti ragazzi ambiscono ancora a diventarne membri. Ma non certo per amor patrio o per il fascino dell'ideologia socialista, piuttosto perché essere un bravo "compagno" aiuta a fare carriera. Il Diciottesimo Congresso? Per molti giovani tesserati non ha nulla a che fare con la propria vita. Tre anni fa una ragazza intervistata dall'emittente tedesca - che ha chiesto di rimanere anonima- è entrata nel Pcc con la speranza di riuscire a trovare un lavoro stabile nei grandi conglomerati statali o in qualche agenzia governativa. Come lei molti giovani hanno dichiarato di considerare la politica un valido trampolino di lancio per il futuro. Quanto alla nuova leadership, le ultime generazioni si sono dette poco ottimiste: le riforme tanto attese si faranno ancora aspettare, mentre lo Shibada - nome cinese del consesso "rosso"- annoia i piani bassi del Partito, estromessi dai rituali di potere. E a dirla tutta, anche nella Grande Sala del Popolo si è visto più di qualche sbadiglio.

(Pubblicato su Dazebao)



venerdì 2 novembre 2012

Nuova Cina "Nuovo Mao"?


Nella Nuovissima Cina non c'è più posto per Mao. E' quanto sembrerebbero suggerire alcuni recenti manovre messe in atto ai piani alti del potere proprio alla vigilia del XVIII Congresso del Pcc, l'appuntamento più atteso dell'anno che l'8 novembre sancirà il passaggio delle consegne ai nuovi leader del Dragone.

Come la stampa internazionale si è affrettata a sottolineare, il mancato riferimento al Grande Timoniere in un recente documento del Politburo -traboccante, invece, di citazioni di Deng Xiaoping e dell'ex presidente Jiang Zemin- indurrebbe a pensare che sia giunto il momento di scrollarsi di dosso l'eredità scomoda del fondatore della Repubblica popolare, oggi riflesso nell'immagine del corrottissimo ex-segretario di Chongqing, Bo Xilai. Una proposta di modifica della costituzione che richiama al "socialismo con caratteristiche cinesi" di Deng -il padre dell'apertura politica ed economica- ma che ignora il pensiero di Mao, è stata interpretata da molti come una stoccata diretta all'ultrasinistra, ancora schierata dalla parte del defenestrato Bo.

Ormai le prove generali del Congresso volgono al termine: tra giovedì e domenica, durante il settimo plenum del XVII Comitato centrale del Partito, si continuerà a discutere sui nomi dei nuovi "timonieri". In agenda anche il caso Bo Xilai e una possibile eliminazione del "pensiero di Mao" dallo Statuto del Partito; svolta storica, che se realmente intrapresa, va letta più come un paravento per i giochi di potere, piuttosto che come l'indizio di una spinta riformista.

Ma per Mu Chunshan, giornalista del Diplomat, si tratta di speculazioni prive di fondamento fomentate dalla stampa estera: "Tanto per cominciare, dopo il licenziamento di Bo Xilai e le turbolenze interne al Partito, i leader sono interessati a dare all'esterno l'impressione di un fronte unito. Abbandonando il pensiero di Mao Zedong otterranno l'effetto contrario, ovvero raddoppieranno i dubbi sulla coesione della leadership. Una simile mossa costituirebbe un fattore destabilizzante, creando malcontento tra le forze armate. Qualsiasi cosa si dica del Partito, infatti, l'Esercito popolare di liberazione utilizza ancora l'immagine di Mao come base per la propria legittimità".

Negli ultimi tempi il pericolo di un rinnovato maoismo si è affacciato alle porte di Zhongnanhai, quartier generale del Partito, in concomitanza con una serie di proteste nazionaliste in chiave anti-nipponica. In occasione della rivendicazione delle isole Diaoyu (Senkaku in giapponese), contese con il Giappone, tra i manifestanti hanno fatto la comparsa immagini del Grande Timoniere e slogan in favore del rilascio di Bo Xilai. A ribadire come il "Nuovo Mao" -sino a pochi mesi fa in corsa per uno dei seggi del Comitato permanete del Politburo al prossimo Congresso- goda ancora di una certa popolarità. Fare leva sul nazionalismo può essere molto pericoloso. Pechino lo sa bene. Basta poco perché, da collante ideologico e diversivo per smarcarsi dai recenti scandali ai vertici, si trasformi in un'arma a doppio taglio, capace di fomentare il risentimento nei confronti di quella che viene considerata una leadership troppo debole.

Investito in pieno da un triplice scandalo e a breve processato per corruzione, abuso di potere e altri crimini, Bo si era distinto per le sue politiche populiste condite da un "revival maoista" rosso acceso, poco gradite ai leader uscenti. Tanto che il presidente Hu Jintao, così come il premier Wen Jiabao, non misero mai piede nella metropoli feudo di Bo durante il suo periodo di regno.
A marzo in chiusura dell'Assemblea Nazionale del Popolo -quando i particolari dell'intrigo di Chongqing erano ancora custoditi entro le segrete stanze del potere- proprio Wen tornò a parlare di riforme politiche, invocando una ristrutturazione del sistema per scongiurare disordini di massa e tragedie quali la Rivoluzione culturale. Un chiaro pollice verso nei confronti di Bo Xilai e del modello di governance da lui plasmato.

Interessante notare come la pancia del Paese abbia reagito in maniera variegata alla rovinosa caduta del Nuovo Mao. Secondo quanto riportato in un reportage di China Beat, la classe media locale ha cominciato a mostrare il suo disappunto per l'operato di Bo fin dal 2009, solo due anni dopo l'assunzione del mandato di capo del partito di Chongqing. In particolare intellettuali, scrittori e giornalisti del posto hanno dipinto Bo come un megalomane senza scrupoli, un sovrano al di sopra della legge. Di tutt'altra opinione sono, invece, gli strati più bassi della piramide sociale: casalinghe, pensionati, e tassisti, rimasti immuni dalla campagna anticrimine strumentalizzata da Bo per far fuori i suoi avversari politici. "Le persone sono molto vanitose a Chongqing" ha commentato uno scrittore locale "quello che li ha resi più felici di Bo è che ha ornato la città con nuovi alberi e l'ha resa famosa."
E se Bo continua a piacere a molti, un recente sondaggio effettuato dal sito web iFeng ha messo in evidenza come il 58% dei netizen si sia detto favorevole persino alla Rivoluzione culturale, mentre solo il  42% sarebbe contrario.

Mao per immagini
Come ha sottolineato Geremie Barmé in Shades of Mao, l'immagine del padre della Repubblica popolare continua a rimanere viva nell'immaginario popolare. Persino tra le nuove generazioni. Riabilitata alla fine degli anni '80, la figura di Mao ha raggiunto portata virale con l'esplosione di quella che è stata ribattezzata dai media ufficiali "febbre maoista" (22,95 milioni i ritratti stampati nel 1990 contro le 370 mila copie del 1989). Il tempismo suggerisce una manovra pilotata dall'alto, volta a dare una nuova legittimità al Partito le cui mani grondavano ancora del sangue dei manifestanti di piazza Tian'anmen. Ma non è da sottovalutare nemmeno la riappropriazione dell'immagine dell'ex presidente da parte dei cittadini alla ricerca di un'ancora di salvezza in un periodo di crisi sociale e politica. "Per molti la Rivoluzione è morta. Le promesse utopistiche oggi si presentano sotto diverse spoglie ma lo spettro di Mao non è mai lontano" -recita il documentario sulla Rivoluzione culturale Morning Sun, citato dal sinologo Ivan Franceschini in un articolo pubblicato su Orizzonte Cina alcuni mesi fa- "quando le persone si sentono represse e impotenti, quando il sistema non consente di mettere in atto forme legittime di protesta o difesa, Mao emerge come una possibilità, un campione del diritto a ribellarsi".

Nell'ultima settimana, però, il faccione del Grande Timoniere ha fatto una brutta fine. Una foto postata su internet mostra il giovane dissidente Cao Xiaodong e altri tre ragazzi di Zhengzhou, nello Henan, mentre strappano a metà alcune immagini di Mao. La foto rimbalza sul web e non appena si diffonde la voce che Cao e la sua ragazza sono spariti nel nulla dopo essere stati presi in consegna dalla polizia, il popolo del web protesta emulando il gesto del dissidente e dei suoi amici. Immagini dei leader "dimezzati" si riversano su Twitter accompagnati dall'hashtag #撕八大 (sibada = strappare il grande otto), differente per un solo carattere da #十八大 (shibada), termine che in cinese sta ad indicare il Grande Diciottesimo, ovvero il prossimo Congresso nazionale del Partito. Per qualcuno dietro l'irriverente campagna si nasconderebbe l'archistar attivista Ai Weiwei, ma per la sinistra -che in Cina è rappresentata dai conservatori-  si tratta di uno sgambetto dei riformisti, la destra liberale del Paese che spinge per una maggior apertura; non solo economica, ma anche politica.

(Secondo un articolo pubblicato dal Global Times il 5 novembre, Cao sarebbe stato rilascito venerdì in serata: Fury at torn Mao pics. Ma, come riporta il Telegraph, i quattro sono scappati in un posto nascosto dopo aver subito delle minacce)

(Scritto per Ghigliottina.it)



    (Al Jazeera)   China: Whispers of change





Hukou e controllo sociale

Quando nel 2012 mi trasferii a Pechino per lavoro, il più apprezzabile tra i tanti privilegi di expat non era quello di avere l’ufficio ad...