domenica 31 agosto 2014

Amarcord in salsa cinese

Ogni giorno comunisti e nazionalisti si affrontano a Yan'an proprio come alla vigilia della fondazione della Repubblica popolare (1949), quando le truppe di Mao Tse-tung difesero la base 'rossa' dall'avanzata del Generalissimo Chiang Kai-shek. Stavolta, però, i carri armati sono di cartone e a fronteggiarsi sono circa 350 attori in uniformi blu. 'La culla della Rivoluzione', dove l'attuale Presidente cinese Xi Jinping trascorse sette anni della propria vita durante la Rivoluzione Culturale, è oggi una delle mete più gettonate del 'turismo rosso', quello che ripercorre i punti salienti della fondazione della Nuova Cina e della resistenza all'invasione giapponese.

L'idea non è del tutto nuova. Si stima che, tra il 1966 e il 1976, milioni di persone si siano recate nei luoghi 'sacri' del Comunismo cinese, come Shaoshan, il villaggio nella Provincia dello Henan che diede i natali a Mao Zedong. Nel 2005, Pechino ha cominciato a supportare il 'folklore locale' nell'ottica di dare slancio alle aree rurali più arretrate e defilate. Cinque anni dopo tredici città siglavano la 'China Red Tourism Cities Strategic Cooperation Yan'an Declaration'. Ma è soltanto nel 2011 che il fenomeno ha raggiunto un nuovo picco in concomitanza con la ricorrenza del 90esimo anniversario della fondazione del Partito. Addirittura a stabilirlo è il Dodicesimo Piano Quinquennale (2011-2015): «La Cina deve sviluppare vigorosamente il 'turismo rosso'». Come? Secondo quanto riportato il 19 luglio dall'agenzia di stampa 'Xinhua', lo scorso anno il Ministero degli Affari Civili ha sborsato 2,8 miliardi di yuan (450 milioni di dollari) per la costruzione di luoghi della memoria. 487 milioni sono stati destinati dal Governo centrale alla ristrutturazione dei siti già esistenti, mentre altri 1,5 miliardi sono serviti a migliorare la viabilità in prossimità dei centri del 'turismo rosso'. Risultato: secondo la National Tourism Administration, nel 2013 786 milioni di turisti sono confluiti nei siti rivoluzionari, un +17,3% su base annua che tradotto in soldoni corrisponde a 198,6 miliardi di yuan (32 miliardi di dollari) di entrate.

Certamente il fatto che i pacchetti verso destinazioni 'vintage' siano più economici di altri ha favorito l'espansione del settore. "Il Governo paga per queste visite così che risultano più economiche", spiega a 'L'Indro' Kerry Brown, Direttore del Chinese Studies Centre presso l'Università di Sydney. Ma come fa notare Liu Xiao del Tourism Institute of Beijing Union University, la tendenza in aumento è piuttosto sintomo di un disagio che accomuna i Paesi sviluppati. «Quando le persone smettono di preoccuparsi per quanto riguarda cibo e sicurezza, allora cominciano a cercare qualcosa che possa soddisfare le loro esigenze spirituali». Non solo roba da nostalgici, dunque. (Segue su L'Indro)

giovedì 28 agosto 2014

Se scappi ti compro


Appena 7-8 anni fa la prima sposa cambogiana fece la sua comparsa a Huanggang, villaggio della provincia cinese del Jiangxi lungo lo Yangtze. Oggi ogni cittadina in prossimità del fiume ne ha almeno tre o quattro.

Galeotto fu il gap di genere, frutto del connubio tra un trentennale controllo sulle nascite, della predilezione per il figlio maschio e dei conseguenti aborti selettivi, così che oggigiorno, in Cina, nascono 100 bambine ogni 118 maschi. Le proiezioni per il futuro non sono incoraggianti: nel 2020 saranno grossomodo 30 milioni gli scapoli cinesi, di cui una buona percentuale concentrata nelle aree rurali. Normalmente a ripiegare sulle mogli del Sud-est asiatico sono i cosiddetti 'uomini avanzati', quelli che data la penuria non sono riusciti a trovare una connazionale. Una tipologia maschile che comprende sopratutto disabili e indigenti.

L''arricchimento glorioso' perseguito dalla Repubblica popolare negli ultimi anni ha alzato le aspettative femminili, tanto che secondo un rapporto rilasciato nel 2011 su un sito di appuntamenti, il 68% delle donne cinesi single avrebbe dichiarato di dare molta importanza alla situazione economica del loro potenziale marito. Si tenga presente che anche in un villaggio come Huanggang, chi ambisce ad una donna locale spesso si trova a dover pagare una dote fino a 200mila yuan (oltre 24mila euro), come prevede la tradizione del posto. Va da sé che i prezzi più convenienti del Sud-est asiatico rappresentano la principale attrattiva per gli scapoli cinesi meno abbienti.

Xiaoyan ha 30 anni, è cambogiana, e due anni fa la sua famiglia è stata ben felice di darla in sposa a un uomo di Huanggang per l'equivalente di 400 dollari. Nonostante il marcato accento del Jiangxi, Xiaoyan della Cina non sa quasi nulla a parte che «è molto più ricca e grande» rispetto alla Cambogia che continua a stazionare sui gradini più bassi dei Paesi sottosviluppati con 8 milioni di persone costrette a vivere contando su meno di 2,30 dollari al giorno. «Più povera è una donna, prima cerca di sposarsi», spiega ad Afp Xiaoyan.

E' soltanto a partire dal 2010 che i cinesi sono diventati la prima scelta delle donne cambogiane. Nel 2008 oltre 25mila neo-spose risultavano legate in matrimonio a uomini sudcoreani, ma con la progressiva ascesa del gigante asiatico a seconda potenza mondiale, le proporzioni si stanno lentamente invertendo. Tre anni fa nel Jiangxi erano state registrate ben 2mila unioni sino-cambogiane e al momento sono circa una dozzina i broker specializzati nel combinare matrimoni tra i due vicini asiatici. Complice il rilassamento dei regolamenti che disciplinano i matrimoni con gli stranieri. Come riporta la rivista economica 'Caixin', mentre in caso di unioni miste Hanoi richiede che lo sposo cinese vada in Vietnam a registrare di persona il matrimonio, Phnom Penh, pretende soltanto che venga confermato lo stato civile nubile della donna prima del matrimonio. (Segue su L'Indro)

sabato 23 agosto 2014

Pechino e Ulan Bator tra alti e bassi

«E' come fare visita a un parente» ma, si sa, con i parenti non sempre va tutto liscio. Questo il commento di Xi Jinping al suo arrivo giovedì nella terra di Gengis Khan, prima visita in Mongolia di un Presidente cinese in 11 anni, quella di più alto profilo da quando l'ex Premier Wen Jiabao vi si recò nel giugno del 2010. Nel frattempo una serie di meeting bilaterali hanno spianata la strada verso Ulan Bator. A maggio il leader mongolo Tsakhiagiin Elbegdorj, aveva raggiunto Shanghai per presenziare al summit sulla sicurezza asiatica CICA (Conference on Interaction and Confidence-Building Measures in Asia), mentre il Ministro degli Esteri cinese Wang Yi ricambiò la visita un mese più tardi dando la netta sensazione che, sì, Pechino è finalmente deciso a recuperare il tempo perduto.

In un articolo scritto di proprio pugno («Galoppando verso un domani migliore per le relazioni sino-mongole») e pubblicato su un giornale locale, Xi illustra in quattro punti la sua visione della partnership strategica rimarcando i vantaggi traibili dalla prossimità geografica e dalla complementarietà economica dei due Paesi. Il Dragone condivide con lo Stato centroasiatico 4.710 chilometri di confine e un turbolento capitolo dell sua storia imperiale.

I rapporti diplomatici tra i due Paesi risalgono a ben 45 anni fa, ma hanno vissuto periodi burrascosi risentendo del deterioramento delle relazioni tra il gigante asiatico e l'Urss intorno al volgere degli anni '60. Al tempo si parlava ancora della sovietica Repubblica Popolare della Mongolia. Acquistato nuovo smalto dopo il 1989, il «buon vicinato basato sulla mutua fiducia» è definitivamente stato promosso a «partnership strategica» nel 2011. E se già nei National Security and Foreign Policy Concepts del 1994 la Cina compariva come priorità assoluta della politica estera di Ulan Bator, di contro negli ultimi anni la diplomazia cinese pare aver trascurato la Mongolia per dare la precedenza a zone ritenute più ghiotte (pensiamo al reticolato di pipeline realizzate negli stan) o semplicemente più instabili (come il Mar cinese con le sue dispute territoriali).

Anche il 2014 è trascorso non senza intoppi: l'incapacità del Governo mongolo di sbloccare la situazione con Rio Tinto per l'espansione delle attività minerarie a Oyu Tolgoi rischia di interrompere lo sviluppo delle forniture di concentrato di rame alla Cina. A ciò si aggiunga l'ennesima posticipazione del rimborso di forniture di carbone per 130 milioni di dollari dovute dalla statale Erdenes Tavan Tolgoi JSC alla China Aluminum International Trading Co, e la notizia della morte improvvisa di Djashzeveg Amarsaikhan, ex Presidente della Petroleum Authority of Mongolia, deceduto in carcere dove si trovava con l'accusa di riciclaggio di denaro in combutta con PetroChina Daqing Tamsag.

Ciononostante, gli esperti sono concordi nel ritenere che «le relazioni relazioni bilaterali stanno vivendo il loro periodo si massimo splendore». Il volume degli scambi commerciali tra i due vicini è aumentato quasi 20 volte tra il 2002 e il 2013, lievitando da 324 milioni di dollari a 6 miliardi. Cifra che i due Paesi si sono impegnati a (quasi) raddoppiare entro il 2020. Secondo la rivista 'Mongolian Economy' la Cina conta per l'80% delle importazioni e il 30% delle esportazioni mongole, ovvero per più della metà del commercio intrattenuto dalla repubblica centroasiatica con l'estero. Circostanza che è già costata a Pechino accuse di 'neocolonialismo economico' alla luce dei massicci investimenti cinesi nelle risorse minerarie mongole, unica vera ricchezza del Paese. Ma la prospettiva di una riduzione delle fonti energetiche inquinanti potrebbe portare ad una diversificazione degli interessi cinesi nelle steppe mongole. Meno carbone, più infrastrutture e reciproca assistenza sullo scacchiere geopolitico.

Che è poi quello che il Dragone si propone di fare su scala regionale con la realizzazione di nuova Via della Seta, una cintura economica attraverso l'Eurasia che prevede nuove ferrovie, condotte e autostrade. Anche la Mongolia potrebbe essere tirata dentro al progetto. Ulan Bator ha in programma di spendere 5,2 miliardi di dollari per espandere le proprie ferrovie. Già a maggio il Governo mongolo aveva presentato al Parlamento una risoluzione per consentire una combinazione di binari a scartamento misto cinese e russo (fino ad oggi le politiche ferroviarie locali hanno imposto il modello russo più largo), che cambierebbe drasticamente il sistema degli scambi bilaterali lungo il confine condiviso rendendo più semplice ed economico l'export di carbone mongolo verso l'ex Impero Celeste. Allo stesso tempo, il perseguimento di un vecchio progetto per la costruzione di una ferrovia più a nord (con scartamento russo) presuppone la volontà di raggiungere nuovi clienti asiatici potenziando i collegamenti tra la Transiberiana e la Transmongolica. Tradotto: un divorzio da Mosca è fuori discussione.

Il timore di un'eccessiva dipendenza dal partner cinese spinge naturalmente Ulan Bator verso le braccia di interlocutori alternativi. Lo dimostrano il silenzio prolungato della Mongolia sulla crisi ucraina (per non turbare la 'Madre Patria') e l'approssimari della visita di Putin in concomitanza con la ricorrenza del 75esimo dalla vittoria russo-mongola sui giapponesi a Khalikhin-Gol del 27 agosto. Se è vero che tutt'oggi la storia ha la capacità di turbare i rapporti attraverso l'Asia Orientale, questo in linea di principio non depone a favore di Pechino. Per i discendenti di Gengis Khan i cinesi si sono già presi una bella fetta di quello che era un tempo il loro Paese -la provincia della Mongolia Interna con Huhehot come capitale- ed è appunto per farsi difendere contro Pechino che la Repubblica Mongola scelse di orbitare attorno al grande sole della'Unione Sovietica. D'altra parte, trattandosi della seconda potenza mondiale, gli strappi di vecchia data possono essere rattoppati senza troppi problemi. Le rassicurazioni sul fatto che «la Cina rispetta la sovranità, l'indipendenza e l'integrità territoriale della Mongolia», attendono una risposta analoga per quanto riguarda il riconoscimento dei diritti della mainland su Taiwan e Tibet -secondo i bene informati, il potere di persuasione cinese ha fatto saltare una visita del Dalai Lama a Ulan Bator in agenda proprio per questo mese. Un kotow oneroso per un Paese in cui il Buddhismo tibetano è la religione più seguita, ma ben ripagato.

Ad aprile il Premier mongolo Norov Altankhuyag ha ufficializzato l'ingresso della Nazione centroasiatica nel board dei membri fondatori dell'Asian Infrastructure Investment Bank, l'istituto creato da Pechino per soppiantare gli istituti appannaggio dell'Occidente. Letteralmente: «Data l'eccezionale importanza dello sviluppo delle infrastrutture per il Paese senza sbocco sul mare, il Governo mongolo ha accettato di diventare fondatore della banca». Il prossimo passo potrebbe essere un ingresso della Mongolia nell'APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation), come lascerebbe intendere il supporto dimostrato da Xi Jinping a margine del summit CICA.

E' evidente che la nuova geometria del potere mondiale prevede un crescente allontanamento dell'ex satellite sovietico da quello che in passato è stato visto come il partner chiave della 'politica del terzo vicino': gli Stati Uniti. A lungo ha tenuto banco la teoria che il tentativo di divincolarsi dal soffocante abbraccio di Mosca e Pechino avesse reso Ulan Bator una pedina manovrata da Washington, il cavallo di Troia del 'Pivot to Asia' firmato Obama, una nuova promessa delle democrazia asiatica. Detto altrimenti, la Mongolia cercava uno scudo con cui pararsi dall'influenza sino-russa, Washington puntava ad accaparrarsi l'ennesima base militare con cui accerchiare il Dragone per contenerne l'espansione. La buona riuscita dell'intesa sembrava trovare conferma nelle numerose esercitazioni congiunte, così come nella partecipazione fianco a fianco di soldati americani e mongoli in Iraq e Afghanistan. Vero, ma solo per metà.

Come fa notare Jeffrey Reeve su 'The Diplomat', dati gli interessi condivisi con Pechino, la 'politica del terzo vicino' non conviene più a Ulan Bator, che ora sta cercando di stemperare l'influenza cinese con i propri mezzi. Per esempio, limitando gli investimenti diretti stranieri e proibendo alle società statali di assumere il controllo di assets strategici. Anche sul versante militare la partnership con Washington sembra essere stata decisamente sopravvalutata, giacché consultazioni sulla difesa, esercitazioni anti-terrorismo e pattugliamenti alle frontiere avvengono regolarmente anche con le truppe cinesi e russe. Non a caso la Mongolia compare tra i membri osservatori della SCO (Shanghai Cooperation Organization), la 'Nato asiatica' diretta da Pechino e Mosca. Ma ciò che più conta, è la posizione neutrale affermata da Ulan Bator con la sottoscrizione dei Concetti di sicurezza nazionale e politica estera, documento in cui si vieta a qualsiasi esercito straniero di operare in territorio mongolo, anche se a stelle e strisce. Non solo un tentativo di stare alla larga dai bisticci tra le due potenze mondiali, ma anche di proporsi come possibile mediatore in caso la stabilità della regione venga turbata. La Mongolia è tutt'altro che una pedina e fa un gioco tutto suo.

 (Pubblicato su L'Indro)

venerdì 22 agosto 2014

Gli hui, i musulmani 'buoni'

Mentre i controlli nella regione autonoma occidentale dello Xinjiang si fanno più pressanti, le manovre coercitive di Pechino non sembrano sortire i risultati sperati. Il 20 giugno, Jume Tahir, l'imam della moschea di Kashgar, la più grande della Repubblica popolare, è stato accoltellato a morte per aver lodato le politiche del Partito comunista attribuendo agli estremisti della minoranza musulmana uigura la responsabilità dell'esacerbare delle violenze. Alcuni giorni fa la stampa cinese ha riportato la notizia della chiusura di 27 luoghi di ritrovo utilizzati segretamente per la preghiera; 44 imam 'illegali' sono stati arrestati a Urumqi, capitale provinciale dello Xinjiang, nell'ambito di un'operazione che ha portato al 'salvataggio' di 82 bambini prelevati dalle madrasa, le scuole religiose esterne al sistema delle moschee statali (rigidamente monitorate da Pechino) e per questo avvertite dalle autorità come un pericolo. Ogni anno funzionari locali, studenti, insegnanti e dipendenti pubblici vengono invitati ad ignorare le festività religiose. Eppure i divieti non sono ancora riusciti a debellare le pratiche proibite, anzi: indossare il velo integrale sta diventando una forma di resistenza pacifica che suggerisce una progressiva radicalizzazione degli uiguri in risposta alle misure repressive adottate dal Governo centrale.

"Il Partito sta cercando di tranquillizzare i membri dell'etnia maggioritaria han dello Xinjinag sul fatto che è completamente in grado di mantenere la stabilità nella regione, e ha scelto di farlo vietando barbe e foulard", ci dice Gardner Bovingdon, Professore associato di Studi euroasiatici presso l'Indiana University, "ovviamente queste politiche offendono la sensibilità di molti uiguri -non soltanto di quelli che vorrebbero portare la barba e indossare il velo- che si considerano tutti sospettati terroristi. Questo è quanto finiscono per pensare tanto gli han che gli uiguri. D'altra parte, le misure assunte non sembrano far molto per la stabilità e la sicurezza dello Xinjiang, piuttosto stanno allontanando molti uiguri riaffermando quanto il Partito vorrebbe in realtà negare: ovvero che la loro fede e le loro 'scelte sartoriali' rendono gli uiguri categoricamente diversi dagli han, e che per tale ragione debbono essere trattati in modo differente".

Il pugno di ferro riservato alla minoranza del 'Far West' cinese rientra in una più ampia campagna di prevenzione dalle contaminazione esterne, che finisce per travolgere anche la dimensione religiosa. Le influenze occidentali rendono il Cristianesimo un ospite poco gradito in Cina; quelle in arrivo dal Medio Oriente agitano il fantasma di una jihad oltre la Muraglia. A dimostrazione di come ciò che più preoccupa la leadership cinese non sia tanto la fede in sé, quanto la possibilità che l'adesione ad un culto possa prevalere sulla lealtà al Partito e farsi portatrice, per vie traverse, di aspirazioni secessioniste -come avvenuto in Tibet e Xinjiang. "Gli uiguri vivono nel sospetto di essere ritenuti politicamente infedeli, mentre il Governo li ritiene più facilmente critici verso il Partito e le sue politiche", continua Bovingdon, "questa diffidenza viene condivisa anche dai cittadini comuni dell'etnia han per i quali portare la barba o il velo è segno di un fanatismo religioso potenzialmente pericoloso per la propria incolumità. Si tratta di una credenza ormai radicata -sebbene non basata su prove concrete- e pertanto difficile da cambiare". (Segue su L'Indro)

lunedì 18 agosto 2014

I tentacoli di Pechino sul Nicaragua


Il canale di Nicaragua verrà completato entro il 2019: parola di Wang Jing, Presidente e CEO del HKND Group (HK Nicaragua Canal Development Investment Co) la compagnia con base a Hong Kong che nel giugno del 2013 si è assicurata una concessione di 100 anni per finanziare, amministrare e costruire il canale. Un progetto -che dovrebbe mettere in comunicazione Atlantico e Pacifico- senza precedenti in termini di difficoltà ingegneristica, costi (circa 50 miliardi di dollari), carico di lavoro e impatto globale. E sulla cui fattibilità sono in pochi a scommettere. Questioni di tempi e misure: il nuovo canale sarà quasi quattro volte più lungo del canale di Panama e verrà realizzato in soli 5 anni (a partire da dicembre prossimo) contro i 10 impiegati dagli Stati Uniti per l'omologo panamense. Nel caso in cui tutto andasse come da programma, la Cina si troverebbe a coronare un sogno vagheggiato da Spagna, Francia, Germania e Stati Uniti nel secolo scorso. E a mettere a segno uno dei cinque progetti ciclopici che ha attualmente in corso, tra cui il corridoio economico col Pakistan (costo: 32 miliardi di dollari) e il Baltic Pearl Project, una nuova area immobiliare da 35mila abitanti vicino San Pietroburgo stimata intorno ai 1,7 miliardi.

All'inizio di luglio, il Governo di Daniel Ortega e il HKND Group hanno stabilito un tracciato pensato appositamente per dribblare le aree protette e i territori indigeni: ben 278 chilometri a partire dal fiume Punta Gorda, sul Mar dei Caraibi, attraverso il Lago di Nicaragua fino ad arrivare alla foce del fiume Brito sul Pacifico. Ma non si escludono cambiamenti qualora ulteriori studi sull'impatto sociale e ambientale lo dovessero richiedere. Le organizzazioni 'verdi' sono già in fibrillazione per gli ipotetici danni che il progetto potrebbe arrecare. (Segue su L'Indro)

mercoledì 13 agosto 2014

Intolleranza religiosa al confine sino-nordcoreano


«See you soon»: un cartello appeso alla finestra del Peter's Coffee House di Dandong, la più grande città al confine sino-nordcoreano, annuncia una breve pausa prima della riapertura. Ma Kevin e Jualia Garrat al loro locale non hanno ancora fatto ritorno. I coniugi, di nazionalità canadese, sono spariti martedì 5 agosto e di loro nulla si sa da quando la stampa cinese ha annunciato un'indagine a loro carico che potrebbe portare ad incriminazioni formali di «spionaggio e furto di segreti militari». Il caso non è di quelli che sempre più spesso vedono Pechino e l'Occidente scambiarsi accuse di cyberspionaggio. Stavolta abbiamo due cittadini canadesi, un caffè, e una linea rossa che per 1300 chilometri separa l'ex Celeste Impero dal 'Regno eremita'; un confine poroso lungo il quale ogni anno migliaia di nordcoreani fuggono dalla fame rischiando di venire rispediti indietro, come stabilisce un accordo tra Pyongyang e le autorità cinesi. Campi di lavoro, torture e in alcuni casi la pena di morte li attendono al rientro.

Dandong costituisce una comoda base per i missionari occidentali che vogliono inviare aiuti oltre il fiume Yalu, la frontiera naturale che divide la Cina dalla Corea del Nord per svariati chilometri. Qui proliferano attività umanitarie camuffate da operazioni commerciali, bar, panifici, ristoranti e agenzie di viaggi. Si dice che i Garrat facessero parte del giro; non avevano mai superato il limite della legalità, ma non si erano nemmeno mai curati di nascondere la propria fede. Avevano aperto il Peter's Coffee House nel 2008 dopo aver lasciato Vancouver alcuni anni prima, diventando punto di riferimento per i cristiani protestanti della zona e i nordcoreani che fanno la spola tra tra Repubblica Popolare Cinese e Repubblica Democratica Popolare di Corea per ragioni di business o per scopi umanitari. Gestivano una 'casa di formazione' per i fuggiaschi nordcoreani fuori Dandong e collaboravano con la North Star Aid, organizzazione che si occupa di spedire aiuti alimentari nel 'Regno eremita', e con varie chiese domestiche cinesi (che Pechino considera illegali) per fornire assistenza sull'altra sponda dello Yalu. Secondo quanto ammesso dal Signor Garrat in un sermone pubblicato sul sito web della Terra Nova Church, nella Columbia Britannica, «il 99% dei nordcoreani che abbiamo incontrato sono tornati indietro per predicare il Vangelo. Hanno dovuto farlo perché gliel'ha ordinato Dio».

Se nella Repubblica Popolare il Protestantesimo rientra -affianco al Cristianesimo, all'Islam, al Buddhismo e al Taoismo- tra le religioni riconosciute dallo Stato e viene accettato purché professato all'interno del TSPM (Three-Self Patriotic Movement), l'unica chiesa protestante riconosciuta dal Governo, nella stalinista Corea del Nord vi è tolleranza zero per qualsiasi credo all'infuori del culto della personalità nei confronti dei i membri della famiglia Kim. Nemmeno la diplomazia statunitense è riuscita a salvare il missionario americano Kenneth Bae condannato nel 2013 a 15 anni di lavori forzati per aver tentato di «rovesciare il regime» fingendosi un operatore turistico. Anche lui era solito frequentare Dandong. (Segue su L'Indro)


lunedì 11 agosto 2014

La Cina fa i conti con la pena di morte


Il 10 luglio, Wu Ying si è vista commutare la pena di morte in ergastolo. La donna era stata condannata nel 2009 dalla Corte intermedia del popolo di Jinhua (Zhejiang) alla pena capitale con l'accusa di raccolta illegale di fondi. 61 milioni di dollari è la cifra che, in qualità di presidente della Bense Trade Co. Ltd, Wu ha sfilato ai suoi clienti con false promesse di alti rendimenti sugli investimenti. Nel maggio del 2012, un nuovo processo si è concluso con la sospensione della condanna di due anni al termine dei quali la giovane è ricorsa in appello, ottenendo pochi giorni fa un'ulteriore riduzione della pena. Il caso, uno dei più discussi oltre la Muraglia per la severità della sentenza di primo grado, è stato trattato con una trasparenza insolita, si sono affrettati a sottolineare i media di Stato: il video del procedimento è apparso sul sito dell'Alta Corte del Zhejiang rompendo la tradizionale segretezza che ha fin'oggi caratterizzato la giustizia cinese. Piccoli segnali di una Cina che è decisa a cambiare.

Secondo il rapporto 2014 dell'organizzazione Nessuno Tocchi Caino, anche lo scorso anno la Repubblica popolare ha dominato la classifica mondiale per numero di condanne a morte con almeno 3000 esecuzioni sulle complessive 4104 realizzate in tutto il pianeta. A seguire Iran (687), Iraq (172) e Arabia Saudita (78).

Lo scorso marzo, Pechino aveva respinto il rapporto annuale di Amnesty International accusando l'organizzazione di mantenere una "posizione sbilanciata a sfavore della Cina". "Conservare o meno la pena di morte è questione che si basa principalmente sulle tradizioni e condizioni specifiche di un Paese. La pena di morte corrisponde alle aspirazioni del popolo cinese e contribuisce a reprimere e prevenire gravi attività criminali", ha scandito il Portavoce del Ministero degli Esteri Hong Lei, il quale ha aggiunto che la prassi segue "tradizioni giuridiche e culturali" del Paese. Tuttavia, la posizione ufficiale -confermata dal rapporto di Nessuno Tocchi Caino- riconosce l'impegno del Governo di Pechino nell'attuazione di "una politica di controllo stringente e uso prudente della pena di morte". Secondo Human Rights Watch e la Fondazione cinese Dui Hua, dieci anni fa le esecuzioni in Cina erano più di 10000.

Nel febbraio 2011, il Congresso Nazionale del Popolo ha approvato un emendamento al Codice Penale che riduce il numero dei reati punibili con la pena di morte, portandoli da 68 a 55. I 13 reati non più soggetti a pena capitale sono per lo più di natura economica e non violenta, ma il patibolo rimane per i casi di terrorismo (categoria nebulosa in cui possono rientrare forme di dissenso politico o religioso) e di droga (produzione, trasporto o traffico di quantitativi pari o superiore a 50 grammi di eroina, un chilo di oppio o 150 chili di marjuana). Appena pochi giorni fa è stata portata a termine l'esecuzione di un funzionario nipponico giudicato colpevole, nel 2012, di traffico di narcotici nella città di Dalian. Si tratterebbe del quinto giapponese ad essere stato giustiziato in Cina da quando Tokyo e Pechino hanno riallacciato i rapporti diplomatici nel 1972. Mentre il numero delle sentenze capitali spiccate ai danni di cittadini ugandesi sta diventando motivo di imbarazzo nei rapporti tra il gigante asiatico e il Governo di Kampala.

Nonostante le esecuzioni siano ancora nell'ordine delle migliaia, tuttavia è stata evidenziata una sostanziale diminuzione a partire dal 1° gennaio 2007, quando è entrata in vigore la riforma in base alla quale ogni condanna a morte emessa da tribunali di grado inferiore deve essere rivista dalla Corte Suprema. Da allora, la Corte Suprema ha annullato in media il 10 per cento delle condanne a morte pronunciate ogni anno nel Paese. Nonostante la pena capitale sia coperta dal segreto di Stato, si stima che dal 2007 a oggi il numero delle esecuzioni abbia registrato un calo del 50%.

Secondo la Fondazione cinese Dui Hua, la riduzione è stata probabilmente determinata da un maggiore utilizzo della pena di morte con due anni di sospensione (quasi sempre commutata in ergastolo o in una pena detentiva a termine); dai miglioramenti in materia di diritti al giusto processo recentemente codificati nelle revisioni al codice di procedura penale; dalla Corte Suprema del Popolo che ha continuato a riesaminare le sentenze capitali e dalla decisione di abbandonare l’uso di prigionieri giustiziati come fonte primaria per la donazione di organi. Si prevedono ulteriori passi in avanti nell'ambito della riforma del sistema giudiziario e dell'abolizione delle detenzioni extragiudiziali annunciate lo scorso novembre in occasione del Terzo Plenum del Comitato Centrale del Partito. La leadership cinese ha giurato guerra alla corruzione che si annida nelle aule di giustizia e ha ufficialmente vietato l'estorsione delle confessioni sotto tortura. Dal consesso è poi emersa la volontà di applicare regole più rigide per la condanna capitale comminabile dietro un numero consistente di prove e solo da giudici esperti.

Rimane, tuttavia, da segnalare l'ambigua posizione assunta dall'opinione pubblica cinese. Se il caso di Wu Ying, a suo tempo, scatenò un acceso dibattito, è anche vero che la pena di morte continua ad ottenere vasto consenso popolare quando si tratta di crimini violenti. Stando ad un'indagine condotta dall'Accademia delle Scienze Sociali, nel 1995 il 95% dei cinesi si era detto favorevole all'applicazione della condanna capitale. Un'inchiesta effettuata nel 2007 tra Pechino, lo Hunan e il Guangdong, riposizionava i favorevoli a quota 58%, mentre il 63,8% degli intervistati aveva richiesto la pubblicazione da parte del Governo delle statistiche ufficiali sul numero esatto delle esecuzioni. Che è poi quanto vorrebbero le associazioni per la difesa dei diritti umani. "Credo che [l'abolizione della pena di morte] in Cina sia realizzabile" ha dichiarato al 'Diplomat' Roseann Rife, direttrice di Amnesty per l'Asia Orientale, "le nuove riforme possono senza dubbio portare a tale risultato. Ma se questo è veramente l'obiettivo [del Governo], allora perché non condividono la riduzione dei casi in maniera concreta fornendoci i numeri reali?" (Scritto per Uno sguardo al femminile)

domenica 10 agosto 2014

AFGHANISTAN: LAND OF COOPERATION


(Published on Eurasia Review - August 10, 2014)

On July 4, Beijing hosted the dress rehearsal for the Fourth ministerial meeting of the “Istanbul Process”, a regional platform created in 2011 to encourage cooperation between Afghanistan and some of its neighbors, namely China, Russia, Kazakhstan, India, Pakistan, Iran, Turkey and more, but that also sees the participation of extra-regional countries (with important names such as USA and UK) and international entities acting as “supporting-partners”.

Waiting for the real meeting to take place in the port city of Tianjin at the end of August, the hottest topic at the latest gathering was the difficult political transition of Afghanistan, which after the elections in April, the second ballot in June and the alleged electoral frauds, will have to wait until the new vote count to know the name of its new president. In the meantime, half of 2014, the last year marked by a massive US troops presence on the national soil, has already gone by. By the end of December the number of American armed forces should decrease to less than 15,000 units. This perspective concerns Beijing, for whom the stability in Central Asia is of primary importance, both for business and for national security matters. The new Great Game has increasingly less the characteristics of an intense match of risk and is starting to look more like a community of interests among superpowers to keep the region from sinking into chaos.

How much the PRC cares about the Afghan stability is proved by the decision to appoint a special envoy for Afghanistan. Sun Yuxi, a Chinese diplomat with ambassadorial experience in Afghanistan  and India, will help “ensure lasting peace, stability and development for Afghanistan and the region,” PRC’s Foreign Ministry said. This is the latest diplomatic move after a series of high-profile meetings: the outgoing leader Hamid Karzai and Chinese President Xi Jinping met during a CICA (Confidence Building Measure in Asia) summit dedicated to peace in Asia and hosted in May by Beijing that is increasingly becoming a crossroads of geopolitical interests.

Only three months earlier the Chinese Foreign Affair Minister Wang Yi visited Kabul during his Middle-East tour. Both times the stability of the country was the hot topic of the meetings, with the Chinese government, although underlining that the country’s stability must be kept by the Afghan people with their own means, nonetheless proclaiming to be willing to “play a constructive role” to favor the political reconciliation in Afghanistan. Translated from the cautious diplomacy language: PRC will not become the region’s new enforcer, taking Washington’s place, but it’s more more likely to aim for a cautious collaboration.

According to the experts, while the Pacific is still a reason for friction between China and United States, the “Heart of Asia” is becoming the arena for an alignment of the Chinese and American positions in the region. “The Chinese are very much aware that we are now on the same page in Afghanistan,” explained to “The Guardian” an American diplomat on the sidelines of a meeting between Chinese officials and Af-Pak experts, held in Beijing last March

Up until five years ago, Afghanistan was regarded as an El Dorado for its raw materials and hydrocarbons: crude oil, gas, copper, steel, gold and lithium, main nutrients for the energy-consuming economy of PRC. Even though still incomparable to energy giants like Turkmenistan (for gas), Iran and Uzbekistan (for crude oil), it is estimated that Afghanistan produces 22 barrels of black gold per capita, in line with neighboring Pakistan, and is rich in precious minerals, known as rare earth elements, much needed for the high-tech industry.

In 2011, the China National Petroleum Corporation signed a deal for 700 million dollars, with the target of operating in the three oil-rich basins of the Amu Darya, while three years earlier the Chinese Metallurgical Group and the Jiangxi Copper Co. earned a contract for the exclusive mining right in the site of Mes Aynak, in the Logar province, worth 3 billion dollars.

At that time, the range of the deal seemed to justify the costs, it is thought that the one in Mes Anyak is the world’s biggest copper deposit. However, following the Chinese economic growth’s slow down, the decreased stability in the country and the drop in copper’s value, last spring Beijing announced the desire to adjust the terms of the agreement, endangering the plans that Kabul has to use its resources to relaunch the country’s development — confirming how Afghanistan is slowly becoming more a security issue than an economic opportunity for the Asian giant. After three Chinese residents were killed in Kabul and two more kidnapped, in August 2013, for many entrepreneurs the wisest choice was to pack and retreat behind the Great Wall.

The turning point came in 2012, when Zhou Yongkang, back then tsar of the Chinese security — currently investigated for “serious disciplinary violation” — headed to Kabul, the highest level figure to visit the country since 1966. That occasion signed the beginning of a cooperation with Karzai’s regime aiming at training 300 Afghan police officers, followed by a Sino-American agreement for the professional training of diplomats, health workers and agrarian specialists. For the first time Beijing proved its goodwill in engaging in a collaboration with a third country on foreign land, commented to “The Guardian” William Darymple, historian and author of books about traveling in Central Asia. Three are the meetings held every year by ambassador James Dobbins, special representative of Obama in Afghanistan, and the Chinese counterpart to discuss the future of the region; demonstrating a progressive alignment of the interests of the two world super powers, at least concerning the Central Asian area.

More than once the Chinese mining activities in Logar have fallen victim to the Talibans’ attacks, whose origin is traced back to Pakistan. For a long time Kabul and Islamabad have accused each other of protecting insurrectionist groups. And according to the American intelligence, al-Qaeda’s leadership after the US’ military intervention in 2001 moved its headquarters to Pakistan, is already preparing its coming back to Afghanistan. According to sources from the Jerusalem Center for Public Affairs, about 1,000 Chinese Jihadists are already being trained, waiting to contribute to the civil war that has been shedding blood in Syria for the past two years.

Beijing is starting to suspect that Islamabad is not entirely committed to the war on terrorism, a phenomenon that China perceives as a real threat since when violence strikes — officially attributed to the Muslim Uyghur minority — it has the possibility to cross the border in the remote Western region of Xinjiang (sharing borders with both Pakistan and Afghanistan), climaxing into an attack to the political heart of the PRC: Tian’anmen Square. It’s well known how soldiers coming from Xinjiang have joined the battlefield in the area near the border between Afghanistan and Pakistan: in December 2001, Uyghur Jihadists were among the first to die under the American bombings following 9/11 over the mountains of Tora Bora.

According to the experts today, Uyghurs are training a little more in the East, in the North Waziristan, Northern Pakistan, although international organizations are more cautious in quantifying the Uyghur presence in Central Asia, the Chinese government linked them to the ETIM (East Turkestan Islamic Movement), an organization that the United States removed from their blacklist a few years ago.

The inefficiency of the measures adopted by Kabul against the militants has an heavy influence on the relations with China, but analysts don’t rule out that the proximity of China to both Pakistan and Afghanistan might facilitate a reconciliation between the two parts. Still, for this to happen “ It will need to be accompanied by demonstrable and substantial changes in practice: these could be institutional mechanisms and/or economic integration” said Richard Ghiasy, research fellow at the Afghan Institute for Strategic Studies (AISS) in Kabul.

“Beijing is certainly a logical interlocutor to help defuse tensions between Afghanistan and Pakistan”, explains Michael Kugelman, senior program associate for South and Southeast Asia at the Woodrow Wilson Center, “It wields considerable leverage over Pakistan, and unlike the US—which just like China provides Pakistan with a lot of aid—the Chinese are well-liked and trusted by the Pakistanis. China is also respected by Kabul because of the various investments it has made in Afghanistan. China is very concerned by growing instability in Afghanistan and Pakistan, because it believes that Uighur militants use that unstable environment to create a sanctuary and staging grounds for attacks on China. And China understands that reducing instability in Afghanistan and Pakistan will require in part reducing the tensions between Afghanistan and Pakistan. Though, Afghanistan-Pakistan tensions run very deep and go back very far in time, and there’s no way that an outside mediator—whether China or any other country—will able to solve them. Both countries will need to address domestic challenges at home before they can truly reconcile. For Pakistan, this means ending its state sponsorship of militants, and for Afghanistan, this means finding a way to deal with its Taliban problem—whether by defeating it on the battlefield or, more realistically, by trying to reconcile with it politically.It is true that Beijing is trying to improve its relations with New Delhi. However, Islamabad is sufficiently dependent on Beijing’s largesse that it should be willing to accede to China’s requests even if China is seen as getting closer to Pakistan’s traditional enemy in New Delhi”.

Despite the skirmish around the border, Beijing and Delhi are heading towards an improved cooperation, not only from the economic point-of-view (in February the Asian Giant became India’s first commercial partner). Delhi is also involved in the Central Asian country, mainly because of the 10 billion dollars invested in Hajigak, an iron minerals deposit 100km west of Kabul. Last January, Beijing hosted a three-sided meeting with Moscow and the Indian government to discuss Afghanistan’s future, after the departure of the American troops from the region. A topic that dominates the scene at the SCO (Shanghai Cooperation Organization), NATO’s antagonist Russian-Chinese-led block, to which Pakistan and India participate as observers. The conflict between the Indian and Pakistani government over Kashmir — controled for two thirds by Delhi and claimed in its integrity by Islamabad — has so far hindered their official entrance in the organization.

On November 10, 2013, the Indian capital city hosted a similar meeting sealed by the general wish for an economic reconstruction lead by Kabul in which the participation of the international community, must only be of support and not drawing power. It’s interesting to notice that this “support”, according to what is reported in the final communiqué, is to be carried on by regional and multilateral institutions, starting by SCO itself, by the South Asian Association for Regional Cooperation, the post-Soviet Collective Security Treaty Organization, end — only at last — NATO.

But driving the destiny of the Afghan growth, which is mostly export-oriented, will be above all the ability (or lack of ability) to strengthen the logistic sector. The Central Asian country is basically isolated because of the fragility of its transportation infrastructures. As Vaughan Winterbottom writes in “The Interpreter”, the American project for the Northern Distribution Network, series of logistic agreements that connect harbors on the Baltic and Caspian seas to Afghanistan, passing through Russia, Central Asian and Caucasus, was compromised by regional resentments. In February Eurasianet.org reported about bickering among the “-stan” countries, relating to the realization of the long awaited railway line TAT (Turkmenistan-Afghanistan-Tajikistan); project announced in 2011 by the former US Secretary of State Hillary Clinton, related to the “New Silk Road Strategy”, whose destiny is still uncertain today. The Central Asia Regional Electricity Trade Project, elaborated to transmit the energy surplus from Tajikistan and Kyrgyzstan to Pakistan by Afghanistan wasn’t much luckier, and is still years off despite the interest from the Asia Development Bank. And although Beijing has been working for years together with Islamabad at the strengthening of the  Gwadar-Karakoram-Xinjiang Corridor, bridge connecting Pakistan and the Chinese region of Xinjiang, the project looks mostly interested in providing a commercial and military access to the Baltic Sea for China; surely not bestowing dynamism to the neighboring Afghanistan.

On the other hand, there are good reasons to hope that the increasing activities carried on by the Chinese side in Central Asia, openly announced with the plan for an economic belt throughout Eurasia (another “New Silk Road”, this time with Xi Jinping’s signature on it), might bring some benefit also to Afghanistan. But “while economic connectivity by means of physical infrastructure undoubtedly works conducive to regional cooperation, Afghanistan’s enduring state of insecurity and possible political instability are concerns that need to be addressed properly parallel to the Silk Road Economic Belt’s unfolding. Kabul will also need to fine tune its soft infrastructure, i.e. digital infrastructure and customs protocol”, annotates Ghiasy.

“The New Silk Road initiative, if successful, could help boost economic growth in Afghanistan at a time when the Afghan economy is very weak”, said Kugelman, “it could increase trade, improve regional transport, and create strong energy markets throughout Central or South Asia, including Afghanistan. This would all improve regional integration, and therefore enhance development and the economy in Afghanistan. Unfortunately, it will be a major challenge to build a successful new silk road. There are two reasons why. One, the political relations of Central and South Asia are very poor. There are tensions between Afghanistan and Pakistan, Pakistan and India, and Russia and its surrounding states. Two, the security situation—particularly in Afghanistan—may not have a proper environment to allow for deep investments, the construction of energy pipelines, and other projects that require ample labor and stable conditions”.


giovedì 7 agosto 2014

La Cina mette una fiche su Detroit



Il 18 luglio dello scorso anno, Detroit, ex capitale mondiale dell'automotive con il reddito pro capite più alto degli Stati Uniti, ha ufficialmente dichiarato bancarotta trovandosi costretta, per ironia della sorte, ad afferrare la mano di chi ne ha parzialmente dettato la rovina.

Come ricorda l'economista Michael Snyder, tra il 2000 e il 2010, il Michigan ha perso il 48% dei posti di lavoro sopratutto a causa di una bilancia commerciale sfavorevolmente inclinata verso la Cina. Ora il Dragone sta provvedendo ad accaparrasi terreni nelle zone più in difficoltà degli Stati Uniti -spesso a prezzi stracciati- con la promessa di far girare l'economia locale e sopperire al problema occupazione. Sì perché, se la maggior parte degli investitori cinesi preferisce ancora fare affari sicuri a New York, Los Angeles e San Francisco, da qualche tempo gli amanti del rischio hanno cominciano ad esplorare nuove frontiere. Da tempo Sino-Michigan Properties LLC ha in programma di comprare 200 acri di terra vicino alla cittadina di Milan per trasformarla in una 'China City' con tanto di laghetti artificiali, centro culturale cinese e centinaia di abitazioni destinati a ospitare 'nuovi americani' in arrivo dalla Repubblica popolare. Mentre stando quanto riporta la 'CNN', Detroit è già quarta nella lista delle mete favorite dei palazzinari del gigante asiatico. «E' proprio perché Detroit è messa male che voglio rilanciarla», spiega un investitore cinese alla RE/MAX Crown Properties, «[In Cina] abbiamo già visto molti casi simili, basta pensare alla zona di Pudong a Shanghai», un tempo ridotta ad un acquitrino e oggi tra le aree immobiliari più esose del pianeta.

Tutto è cominciato quando, nel marzo 2013, un servizio della China Central Television calamitò l'attenzione degli sviluppatori cinesi definendo le case del Michigan «più economiche di un paio di scarpe di pelle». Al che il Twitter cinese Weibo è esploso con commenti del tipo: «700mila persone, aria pulita, tranquillità e democrazia. Cosa state aspettando?!», mentre il Ministero degli Esteri è dovuto intervenire per mettere in guardia i cittadini dalle 'bufale' mascherate da investimenti facili. (Segue su L'Indro)

sabato 2 agosto 2014

Il Dragone divora l'Africa tronco dopo tronco


Nel giro di 15 anni, il Mozambico potrebbe esaurire le sue scorte commerciali di legname con la complicità della Cina. E' quanto emerge dall'ultimo rapporto dell'organizzazione non profit EIA (Environmental Investigation Agency) 'First Class Connections', effettuato sulla base di analisi condotte tra la metà del 2013 e il 2014. Confrontando i numeri ufficiali del raccolto di legname mozambicano con le importazioni globali, l'EIA ha stabilito che il il 93% delle risorse forestali del Paese africano sono state prelevate illegalmente a causa della «cattiva applicazione della legge, della corruzione endemica, dei finanziamenti statali insufficienti e di una leadership incompetente».

L'opacità mantenuta dal Governo di Maputo richiede un'attenta interpretazione dei dati per portare a galla quanto gli archivi amministrativi non dicono. Nel 2013 la Cina ha registrato l'importazioni di 516mila metri cubi di legname dal Mozambico, contro i soli 281mila metri cubi esportati ufficialmente dal Paese dell'Africa Orientale. Lo stesso anno, Maputo ha riportato 66000 metri cubi di legname legalmente raccolto, molto meno di quanto le autorità hanno affermato di aver autorizzato all'esportazione; fattore dal quale si può dedurre che la maggior parte di quanto va a finire oltre la Muraglia deriva da attività illecite. Secondo le stime dell'EIA, lo scorso anno, quando il Mozambico è diventato il principale fornitore di legname della Repubblica popolare, il 46% dei 516.296 metri cubi importati dal gigante asiatico è stato fatto uscire dal Paese clandestinamente attraverso società quali la Fan Shi Timber, con base nel Fujian, e la Shanghai Senlian Timber Industrial Development Co. Stando a quanto rilevato da un'indagine indipendente del Center for International Forestry Reserach, «praticamente nessuna società mozambicana è impegnata nell'export di legname. Il commercio internazionale del legname del Mozambico è gestito principalmente da aziende cinesi che lo esportano per il mercato cinese».

Già in passato Ong quali WWF e Global Witness hanno puntato il dito contro il Dragone denunciando l'esistenza di un network illegale che da Africa, Birmania e Russia raggiunge i porti dell'ex Celeste Impero. Non sorprende che per un Paese povero come il Mozambico le risorse boschive vengano considerate una fonte di facile guadagno -si legge nel report EIA-, ma il disboscamento illegale e il contrabbando verso la Cina «hanno raggiunto livelli insostenibili, nonostante i funzionari mozambicani continuino ad affermare il contrario». Il Mozambico è tra le Nazioni più arretrate al mondo, preceduto in termini di sottosviluppo soltanto dal Niger e dalla Repubblica democratica del Congo, secondo il Human Development Report 2013 delle Nazioni Unite. L'EIA stima che le attività 'sommerse' siano già costate a Maputo 146 milioni di dollari di perdite in potenziali tasse su esportazioni ed esplorazioni. Una somma che avrebbe potuto coprire due volte il budget statale destinato ai programmi per la lotta alla povertà e 30 anni quello per l'applicazione del Mozambique's National Forest Program.

Non solo. «La Cina vuole legname il più possibile grezzo e si rifiuta di investire nella produzione locale», spiega Jago Wadley, attivista dell'EIA, facendo eco a quanti bollano la presenza cinese in Africa come 'neocolonialismo'. Da quando nel 1998 Pechino ha vietato il disboscamento delle foreste di proprietà statale per contenere il problema inondazioni che affligge le province meridionali nei mesi estivi, le risorse nazionali sono in grado di coprire soltanto il 40% della domanda interna di legno. Di conseguenza, con le sue risorse naturali, il Continente Nero è diventato sempre più terra di conquista cinese. Qui il Dragone ha trovato terreno permeabile alla corruzione e una popolazione locale bisognosa di liquidità. (Segue su L'Indro)

Hukou e controllo sociale

Quando nel 2012 mi trasferii a Pechino per lavoro, il più apprezzabile tra i tanti privilegi di expat non era quello di avere l’ufficio ad...