lunedì 30 gennaio 2012

Il contrattacco di Han Han



Si sposterà nelle aule del tribunale l'accesa controversia tra lo scrittore trentenne,  Han Han, e il rinomato "poliziotto della scienza", Fang Zhouzi, che il 19 gennaio ha accusato il giovane prodigio di non essere il reale autore del romanzo Le Tre Porte. Il cavallo di battaglia con il quale Han ha conquistato i lettori del Regno di Mezzo sarebbe, invece, stato scritto dal padre, Han Renjun, a sua volta romanziere e possibile autore di molte altre opere ingiustamente attribuite al figlio.

Ma Han Han non ci sta, e proprio ieri il suo agente ha fatto sapere che il ragazzo presenterà querela contro Fang, chiedendo di ricevere le dovute scuse con allegati 100mila yuan di rimborso danni.

E' dallo scorso 15 gennaio che la "superstar della narrativa cinese" lotta per liberarsi da una serie di diffamazioni. Il blogger Mai Tian per primo ha avanzato qualche dubbio sull'effettivo talento di Han, facendo notare come parte dei suoi bestseller sia stata scritta in periodi in cui egli era impegnato in importanti gare di rally. E mentre si fa avanti l'ipotesi di una composizione a più mani, le indagini seguono due piste: amore paterno o un aiutino del suo editore?

Comunque sia, la giovane penna ha dichiarato di aver richiesto l'aiuto delle autorità per accertare l'autenticità dei suoi manoscritti; una pila di documenti, per un totale di 1.000 pagine, risalenti agli anni tra il 1997 e il 2000, gli  saranno testimoni. E oltre ad esigere un lauto risarcimento, Han ha anche offerto una ricompensa da 20 milioni di yuan per tutti coloro saranno in grado di confutare con chiare prove la paternità dei suoi libri. Una sfida che ha indotto Mai a battere in ritirata, eliminando il suo articolo con tante scuse.

Fine della storia? Neanche per sogno. Dopo il blogger cinese è stata la volta di Fang Zhouzi, rinomato per le sue campagne contro frodi e pseudoscienza. Il "crociato della verità" ha aperto il fuoco pubblicando una serie di analisi sulla scrittura di Han e mettendo in luce la presenza di più stili nei suoi post. Ad avvalorare la sua tesi, i noti insuccessi scolastici del giovane romanziere che da pessimo studente si è miracolosamente trasformato nell'autore del libro ("Le Tre Porte") che ha riscosso maggior successo in Cina negli ultimi vent'anni.

"Dodici anni di duro lavoro possono essere rovinato da una sola voce e dall'azione di più persone" ha scritto sul suo blog Han. E sempre sul suo blog la penna irriverente ha risposto ad una serie di domande pungenti rivoltegli dal popolo del web circa le recenti diffamazioni. Solo pochi minuti fa l'ultimo post: una frecciata diretta proprio al suo principale accusatore, nella quale viene messo alla berlina niente meno che Lu Xun, uno dei pilastri della letteratura cinese di inizio 900' nonchè scrittore favorito di Fang Zhouzi. Sotto i colpi di un osservatore attento, anche la pietra miliare della narrativa in caratteri può franare nel giro di poche righe (link).

sabato 28 gennaio 2012

Capodanno di sangue nel Sichuan: almeno 3 i tibetani trucidati


Sale il numero delle vittime rimaste uccise negli scontri che dal 24 gennaio vedono le forze di polizia cinese opporsi ai manifestanti di etnia tibetana con l'uso della forza; ma i conti non tornano.
Due i morti e 13 i feriti, come riportato ad inizio settimana dal gruppo Free Tibet, solo una la vittima, secondo l'agenzia di stampa governativa Xinhua, che ha precisato come l'uomo sia rimasto ucciso sotto gli spari della polizia, intervenuta dopo il ferimento di 14 agenti nell'assalto alla caserma della contea di Seda, nel Sichuan. Ma alcune associazioni per la difesa dei diritti umani avanzano numeri ben più elevati: e già si vocifera di sei decessi e 60 feriti.

Secondo il rapporto ufficiale rilasciato dalle autorità, l'assalto di lunedì sarebbe stato effettuato da facinorosi armati di bombe molotov, coltelli e pietre.

Ma il bilancio delle vittime accertate non si arresta. Nella giornata di giovedì un terzo manifestante è stato freddato dalle forze dell'ordine, come riferito questa mattina dal South China Morning Post. Urgen, 20 anni, è morto nella contea di Rangtang, mentre la polizia faceva fuoco sulla folla irata per la detenzione di un altro dei loro compagni.

Si tratta del terzo scontro mortale avvenuto nella parte occidentale del Sichuan, e la prima settimana di festa per il Nuovo Anno cinese si è tramutata in una settimana di sangue.

Intanto un funzionario di Rangtang, che ha preferito rimanere nell'anonimato, venerdì ha smentito l'esistenza di alcun movimento di protesta, come scrive AFP. "Non è conveniente parlare di quanto è successo" ha continuato l'uomo, "nessuno vi dirà nulla".

Gli abitanti della zona si chiudono in un omertoso silenzio. Sedici i ristoranti e gli alberghi della contea che chiamati a fornire le loro testimonianze sugli accadimenti di Rangtang, si sono astenuti dal rilasciare dichiarazioni.

Intanto le aree tibetane sono state completamente sigillate dalle forze dell'ordine e per il quinto anno di fila, tra il 20 febbraio (data del Capodanno tibetano) e il 30 marzo (anniversario degli scontri del 2008) saranno rese irragiungibili.

Lo stato di isolamento a cui è stata sottoposta la contea rende la circolazione delle informazioni particolarmente difficoltosa. Alcuni inviati di AFP, che nel corso della settimana avevano tentato di raggiungere il luogo degli scontri, a più riprese sono stati respinti dalla polizia locale ma, secondo quanto dichiarato da International Campaign for Tibet (ICT) e da Tibetan Centre For Human Rights and Democracy (TCHRD), gli incidenti di Rangtang sarebbero stati fomentati da un giovane di nome Tarpa, il quale avrebbe diffuso una serie di volantini inneggianti alla liberazione del Tibet e al rimpatrio del Dalai Lama.

Le autorità hanno fatto irruzione nella casa del ragazzo, che nonostante l'intervento della folla, è stato portato via a forza. Le proteste della popolazione locale sono state messe a tacere dai colpi della polizia.

Epicentro delle rivolte di questi ultimi giorni- le più violente dal sanguinoso 2008- è ancora una volta il Sichuan occidentale, provincia caratterizzata da una forte presenza tibetana. L'attacco alla caserma di polizia si inserisce nel movimento di protesta attraverso il quale il popolo tibetano ha espresso la volontà di astenersi dai festeggiamenti per il Capodanno cinese, dallo scorso 23 gennaio in corso nel Regno di Mezzo.

Ancora addolorata dalla lunga serie di auto-immolazioni che nei passati mesi hanno scosso la regione (almeno 17 i monaci ad aver scelto la morte tra le fiamme in segno di protesta contro il governo cinese) , la popolazione locale tibetana "ha colto l'occasione per esprimere il proprio risentimento per le ingiustizie di cui continua ad essere vittima sotto la dominazione cinese" ha spiegato Tenzin Dorjee, direttore esecutivo di Students for a Free Tibet.

Repressione religiosa, mancanza di libertà e un'identità culturale progressivamente erosa dalla supremazia dell'etnia Han: queste alcune delle principali scintille ad aver innescato i focolai di rivolta nella regione del Sichuan, così come nella "terra dei Lama".

Secondo le proiezioni di alcuni esperti, la strategia di Pechino punta, entro un decennio, ad effettuare un ribaltamento demografico nella regione autonoma del Tibet,  innescando il vantaggio numerico dell'etnia Han su quella tibetana, destinata così a diventare sempre più una minoranza.

Questa settimana, circa 185 gruppi in difesa del Tibet hanno emesso un comunicato di denuncia contro il giro di vite attuato dal governo cinese nei confronti dell'etnia tibetana, volto a richiedere un "intervento congiunto della comunità internazionale" contro il Dragone.

Una situazione disperata da attribuire alla linea dura utilizzata per decenni dal governo comunista cinese: "La propaganda di Pechino maschera bene ciò che nei fatti non è altro che una campagna di distruzione nei confronti del nostro popolo e della nostra cultura, spinta da ambizioni coloniali". Un genocidio al quale il popolo tibetano ha cercato di reagire attraverso dimostrazioni pacifiche, senza tuttavia sortire alcun effetto.

Sulla scia dell'ondata di auto-immolazioni, il 10 settembre scorso l'ufficio di pubblica sicurezza della prefettura di Ngaba (Sichuan) ha condannato tre monaci a scontare 3 anni di lavori forzati nei famigerati lager cinesi. La tradizione vuole che ogni anno all'inizio di settembre la comunità religiosa di Kirti celebri 15 giorni di festività, ma quest'anno solo pochi membri hanno fatto ritorno al monastero, mentre Pechino ha sguinzagliato nella zona un vasto numero di agenti per procedere con la "campagna di rieducazione patriottica". Ma le autorità cinesi non si fermano davanti a nulla, e non hanno esitato nemmeno a sfoderare l'arma della corruzione: 20mila yuan e un prestito di 50mila il compenso promesso a coloro che si allontaneranno volontariamente dal monastero per "cominciare una nuova vita".

Lo scorso 23 gennaio il portavoce del ministero degli Esteri, Hong Lei, è tornato ad accusare le potenze straniere di strumentalizzare la questione tibetana per mettere in cattiva luce il Partito: “I tentativi di gruppi secessionisti con base all’estero di usare il Tibet per distorcere la verità e gettare discredito sul governo non avranno alcun successo”, ha dichiarato Hong

La questione tibetana rappresenta una ferita ancora aperta per la leadership del Regno di Mezzo dagli accadimenti del 1959, data della grande rivolta anticinese nonché dell'inizio dell'esilio indiano del Dalai Lama. In seguito gli attriti tra Pechino e il popolo del Tibet sono degenerati in un'escalation di eventi culminata nei sanguinosi scontri dell'aprile 2008.

(Pubblicato su Dazebao)

Twitter's censor move with eye on China?


fonte: The Times of India


NEW DELHI: Twitter, a hugely popular social networking site for microblogging, has said that "if required by the law" it can block tweets in a particular country. In a post titled 'Tweets Must Still Flow', Twitter, which has around 300 million users, wrote on its official blog, "Starting today, we give ourselves the ability to reactively withhold content from users in a specific country, while keeping it available in the rest of the world."

In the wake of the government's recent run-in with internet sites like Google, Yahoo! and Facebook over certain user-generated content, this was interpreted by many as Twitter's accommodation of a rising concern of several governments on the need to regulate user-generated content on social networking sites, and seen to be contrasting with the "stubborn" stand of Google and Facebook.

However, some experts wonder if Twitter's position was really different from that of Google or Facebook. "Google and Facebook have said that they would remove content if ordered by the courts, and Twitter too is saying that it can block tweets if required by the law," said an expert. "Where laws are codified, as in Germany and France about pro-Nazi propaganda, Twitter can block pro-Nazi tweets proactively. But in countries like India, where the laws are not that specific, this will be done reactively on the basis of court orders. That's all Twitter is saying."

In its blog post, Twitter said it has added the feature to block content depending on the region because it will enter "countries that have different ideas about the contours of freedom of expression." It cited the example of Germany and France: "Some countries differ so much from our ideas that we will not be able to exist there. Others restrict certain types of content, such as France or Germany, which ban pro-Nazi content."

Twitter claimed if "we are required to withhold a tweet in a specific country, we will attempt to let the user know, and we will clearly mark when the content has been withheld." It will also post detailed information about blocked content on the website of Chilling Effects, a joint project of the Electronic Frontier Foundation and law departments of several leading US universities.

However, the move is most likely prompted by Twitter's alleged plan to enter China, a country with the highest number of internet users. The service is banned in the Asian country since 2009. With its new technology it might be able to block tweets that Chinese government deems offensive without raising the hackles of its global audience.

Twitter said that so far it has not used its new technology. "But if and when we are required to withhold a tweet in a specific country, we will attempt to let the user know, and we will clearly mark when the content has been withheld," the company said.

Pranesh Prakash, a senior official with the Centre for Internet and Society, termed the move a step towards the "Balkanization of the web". "The region-specific blocking was already being used on video hosting websites like Youtube and Hulu, where due to the wishes of copyright owners many videos are not available in India. Twitter is extending this technology to its tweets," he said.

As governments seek some regulation of the web, the demand for region-specific content filtering and blocking has grown. Last month, asking Google and Facebook to filter "offensive material", telecom minister Kapil Sibal said, "We have to take care of the sensibilities of our people. Cultural ethos is very important to us."

Twitter became a household name in India last year as thousands of protesters used it to spread word about Anna Hazare's anti-corruption movement. In countries like Egypt and Tunisia, it was used by protesters in their fight against oppressive regimes. Prakash added that in the past the website had resisted attempts to censor tweets. "Last year when the US government sought detailed information about a user, Twitter challenged them in a court," he said.

lunedì 23 gennaio 2012

I fantasmi del 23 gennaio


Il 23 gennaio il popolo cinese, dopo i bagordi della vigilia, dà il benvenuto al 2012. Comincia così un nuovo anno sotto il segno propizio del Drago. Le consuete aspettative di felicità e ricchezza scacciano dalla mente il ricordo di un altro 23 gennaio: quello del 2001 quando Piazza Tiananmen, il centro politico di Pechino, fu funestata dall'autoimmolazioni di cinque persone.

Ad una settimana di distanza, la televisione statale CCTV ha trasmesso il video dell'incidente, nel quale tuttavia il numero delle vittime è stato portato a sette. La minuziosità dei dettagli delle riprese ha suscitato diversi dubbi: come ha fatto il governo ad immortalare in così poco tempo e senza preavviso l'accaduto?
Le telecamere a circuito chiuso hanno mostrato le immagini strazianti della dodicenne Liu Siying- figlia di una delle donne che si è data alle fiamme- gravemente ustionata.

Le autorità hanno veicolato l'incidente per intensificare la stretta sulla Falun Gong, costringendo i cittadini a porre la loro firma contro il movimento. Con le foto di Liu Siying, Pechino ha tentato di fomentare l'opinione pubblica contro la Falun Gong e di giustificarne la repressione violenta messa in atto.

domenica 22 gennaio 2012

Pechino: Capodanno Cinese 2012

La condanna a morte di Wu Ying scuote la Cina


Aveva solo 26 anni quando nel 2007 era stata arrestata per “raccolta fraudolenta di fondi”, a 28 è stata condannata a morte. Wu Ying oggi ha 31 anni e su di lei incombe l'implacabile verdetto della Corte popolare della provincia del Zhejiang, che ha rifiutato il suo ricorso in appello.

Imprenditrice miliardaria ed ex proprietaria del gruppo Zhejiang Bense Holding “con i suoi gravi crimini ha causato enormi perdite per il Paese e per il suo popolo, e pertanto dovrà pagare”, scriveva venerdì il China Daily.

770 milioni di yuan (oltre 122 milioni di dollari) il bottino intascato avanzando false promesse di alti guadagni ad investitori, nel biennio 2005-2007. I molti i debiti lasciati scoperti e i 380 milioni di yuan mai restituiti hanno scatenato la macchina giuridica cinese che- come specificato dal China Daily- “nei casi di raccolta illegale di fondi prevede come massima sanzione la pena di morte”

Ma la notizia ha colto di sorpresa un po' tutti, avvocati difensori della donna in primis. Zhang Yanfeng, legale di Wu ha dichiarato che farà di tutto per ottenere un alleggerimento della pena, in attesa della revisione della Corte suprema del popolo di Pechino a cui, in caso di sentenze di morte, spetta sempre l'ultima parola.

E a quanto pare ad essere rimasta sotto shock non è stata soltanto la difesa della tycoon cinese. Da giorni l'opinione pubblica si interroga sulla decisione presa dall'organo giurisdizionale del Zhejiang. “Normalmente tutti pensano che quando viene emessa una condanna a morte, in seconda istanza ci possa essere una svolta, ma in questo caso il risultato finale è ancora la pena di morte, questo stupisce non poco per il semplice fatto che non si può pagare con la vita un crimine economico”, scriveva giovedì il portale in lingua cinese News163.

Il verdetto della Corte ha instillato nel popolo del web non pochi dubbi: i 380milioni di yuan racimolati illegalmente che fine hanno fatto? Le pratiche di finanziamento e i prestiti concessi erano attività condotte in prima persona o dall'unità lavorativa in generale? Lo scopo perseguito da Wu Ying in definitiva era quello del possesso illegale o del semplice prestito?

Come ha fatto notare lo studioso cinese, Lang Xianping, nei migliaia di casi di corruzione in cui sono stati coinvolti negli ultimi anni funzionari pubblici, le pene capitali sono state molto rare.
Cos'è dunque che ha spinto la giustizia cinese ad accanirsi tanto contro la miliardaria di Jinhua?

Probabilmente a mettere in allerta è stata l'ondata di fallimenti a catena che dall'inizio del 2011 ha colpito le piccole e medie aziende di Wenzhou, proprio nel Zhejiang, dove si parla di ben 230 casi di uomini d'affari costretti alla fuga o al suicidio in seguito alla crisi del credito.

I fallimenti sono il risultato di forti debiti contratti da imprenditori nei confronti di strutture di credito informali o sotterranee le quali spesso concedono prestiti con tassi da usura (che possono raggiungere il 180%) e non esitano a mettere in pratica espedienti da malavita per poter rientrare in possesso delle somme. Il governo provinciale del Zhejiang ha dichiarato che l'entità di questi fallimenti è ben più allarmante di quella causata dalla crisi dei mutui sub-prime americani del 2008.

La società di Wu Ying non è altro che la punta dell'iceberg di un fenomeno che ha ormai messo salde radici nella regione meridionale del Paese. Secondo alcune stime l'89% delle famiglie della zona partecipano a tale struttura creditizia, che è il lascito dello sviluppo della piccola imprenditoria privata della Cina post-maoista, di quello che negli anni '80 prese il nome di “modello Wenzhou”.

Ma non solo. Come prevedibile, la storia di Wu ha finito per riaccendere i riflettori sulla questione pena di morte. Sulla scia delle riforme del diritto penale attuate lo scorso primo maggio, Pechino ha abrogato la pena capitale per tredici reati economici di natura “non violenta”, ma nel caso di finanziamenti illeciti la legge continua ad essere severissima.

Anche il direttore esecutivo della rivista Caijing, sul suo microblog, ha mostrato la propria indignazione verso la sentenza emessa dalla Corte del Zhejiang. “Come bisogna giustiziare Wu Ying allo stesso modo bisogna giustiziare i funzionari corrotti. Nella maggior parte dei casi questi ultimi sono esenti dalla pena di morte, solo che mentre persone come Wu Ying vengono fuori una volta ogni tanto, di quadri corrotti invece ce ne sono in quantità; a questo punto chi è più pericoloso per la società? La stessa clemenza dimostrata verso di loro andrebbe concessa anche alla signorina Wu, e ciò è proprio quanto desidera il popolo, anche se gli esperti non sembrano tenerne conto. Questa è la ragione per la quale Wu Ying si è conquistata l'appoggio della gente comune. L'opinione pubblica può essere di parte, ma alle autorità spetta il dovere di effettuare delle indagini accurate.”

Meno benevolo il giudizio di Wu Qilun, commentatore finanziario, il quale ha sottolineato come la morte dell'imprenditrice cinese sarà di grande insegnamento per tutti. “La sua condanna ha scosso il web, la notizia ha avuto un'ampia eco e molti sono i dubbi che oscurano la vicenda. In sua difesa sono stati chiamati i principi del foro, ma io penso che la mole degli illeciti commessi e il numero delle persone rimaste implicate richieda necessariamente delle misure molto dure. Wu Ying dovrà morire, questo è il prezzo delle sue colpe e sarà anche un avvertimento per tutti gli altri.”

(Pubblicato su Dazebao)


"Sunflower seeds" per la prima volta a New York



M A R Y   B O O N E   G A L L E R Y
7 4 5   F I F T H   A V E N  U  E   N  E W   Y O  R  K ,   N  Y   1 0 1 5 1 .   2 1 2 . 7 5 2 . 2 9 2 9
AI WEIWEI

On 7 January 2012 the Mary Boone Gallery will open at its Chelsea location Sunflower
Seeds, an Installation by world-renowned artist and human rights activist AI WEIWEI.
Seen for the first time in New York, Sunflower Seeds, as in the related Installation that
debuted at the Tate Modern in London in October 2010, is a field comprised of millions
(five tons) of hand-painted porcelain sunflower seeds. Each actual-size seed is unique and
intricately hand-formed and painted by artisans in the historic porcelain-producing city of
Jingdezhen in northern Jiangxi, China.
The sunflower, with its destiny to follow the sun, became a common metaphor for The
People during China’s Cultural Revolution. At the same time, the seeds of the flower
provided sustenance at all levels of society, and the ubiquitous discarded husks provided
evidence of an individual’s existence. Ai Weiwei demonstrates that a staggering quantity of
individual seeds may produce a deceptively unified field. The work is a commentary on
social, political and economic issues pertinent to contemporary China: the role of the
individual versus the masses, and China’s long history of labor-intensive production and
export.
Sunflower Seeds is on view at 541 West 24 Street through 4 February 2012. For further
information, please contact Ron Warren at the Gallery, or visit our website

Mary Boone Gallery

venerdì 20 gennaio 2012

Pronostici al 38° parallelo


È passato un mese da quando Kim Jong-Il, il tiranno nordcoreano, ha lasciato questo mondo, ma oltre il 38° parallelo si continua a respirare aria di congetture, timori e speranze. Storia di una morte annunciata, quella del Caro Leader le cui condizioni di salute dal 2008 si erano notevolmente aggravate, e pur tuttavia occultata agli occhi indiscreti dei media per ben 48 ore, come solo l’ultima cortina di ferro ancora presente al mondo può riuscire a fare nell’era dell’informatizzazione.
Poi la notizia diffusa dall’emittente televisiva di Stato, mentre le lacrime sincere della presentatrice vestita a lutto, il cordoglio e la diperazione del popolo stridono con la realtà di un Paese alla deriva e sull’orlo della carestia. Questa l’eredità che l’ex primo uomo di Pyongyang lascia al suo successore il terzogenito Kim Jong-Un, al quale da due anni a questa parte sono state affidate posizioni di responsabilità, contemporaneamente al rafforzamento della figura del cognato Chang Suang Taek, promosso a capo della Commissione nazionale di Difesa.
Il clan dei Kim sembra così essere salvo, mentre garante della stabilità e dell’ordine continuerà ad essere l’esercito, così come lo è sempre stato dalla fondazione della Repubblica Democratica. Eppure sono in molti a riporre seri dubbi sull’adeguatezza del delfino del Caro Leader, un ragazzo non ancora trentenne, riguardo al quale la stampa internazionale ama puntualizzare il “cursus honorum” di stampo occidentale; la formazione scolastica in Svizzera, la passione per il rock e la pallacanestro. Ora tutti gli occhi sono puntati su di lui che assolutamente digiuno di politica e affari di Stato si troverà a traghettare il Paese verso un nuovo difficile equilibrio.
Una situazione non certo nuova, che sembra rievocare i fantasmi di una Corea del Nord primi anni ’90 quando, all’indomani della successione di Kim Jong-Il al padre, un decennio di crisi e carestia vessò il popolo nordcoreano, con stime che parlano di venti milioni di morti. Responsabile numero uno la dissoluzione dell’Unione Sovietica, al tempo principale erogatore di aiuti economici di quello che era già uno degli Stati più ermetici al mondo. Oggi il quadro non è più rassicurante: mentre la pancia del Paese è ridotta alla sussistenza mastodontiche infrastrutture giganteggiano inutilizzate sul suolo nazionale.
Per 17 anni il Caro Leader ha governato la Corea del Nord con il pugno di ferro, ha rafforzato il culto della personalità, istituendo un regime fondato su base familiare. Ora lascia la strada spianata al suo favorito, che affiancato dallo zio e all’esercito impugnerà le redini di Pyongyang tra i dubbi della comunità internazionale e l’indiscussa venerazione dei cittadini che nel proprio leader riconoscono una natura divina; proprio pochi giorni fa è stata diffusa la notizia dei preparativi per l’imbalsamazione delle spoglie mortali di Kim Jong-Il, stessa sorte riservata al suo predecessore, il Grande Leader.
Ma che sia un dio per il suo popolo, potrebbe non bastare laddove complesse relazioni politiche aprono un terreno accidentato per il Brillante Compagno (questo l’appellativo dato a Kim Jong-Un). Un leader manovrabile potrebbe far comodo alla ristretta cerchia di aspiranti al potere (che si esaurisce in qualche familiare o gerarca militare), mentre una risoluzione in tempi brevi è nell’interesse della stessa cricca di oligarchi desiderosi di effettuare la scalata ai vertici istituzionali.
Intanto è opinione diffusa tra gli accademici che il passaggio delle consegne al delfino del Caro Leader non avverrà nell’immediato ma gradualmente, seguendo una prassi già consolidata in passato. L’incognita ancora una volta sarà rappresentata dall’esercito, al quale, come previsto dalla nuova politica songun, spetta un ruolo di primo piano nella società. Dalla tradizionale dottrina  juche - nel tempo trasformata da un embrionale “socialismo in un solo paese” verso un nazionalismo autarchico – scivolando verso un regime fortemente militarizzato: questa volta i legami di sangue, potrebbero non essere sufficienti ad assicurare una successione indolore.
A questo punto è lecito chiedersi se il rampollo di Kim Jong-Il – nel settembre 2010 affrettatamente nominato generale dell’esercito e vicepresidente della Commissione militare in seguito all’aggravarsi delle condizioni di salute paterne – sarà effettivamente in grado di tenere a bada i propri generali.
Quanto al popolo, il dolore e la commozione mostrata nei giorni successive alla dipartita “dell’amato dittatore”, potrebbero in realtà celare uno stato di disperazione latente, covato e maturato in anni di fame e privazioni. L’allentamento del controllo sugli organi d’informazione potrebbe essere foriero di pericolosi sviluppi qualora il profumo dei “gelsomini rivoluzionari” riuscisse a raggiungere la penisola coreana, innescando proteste sulla falsariga della Primavera Araba.
E lo sa bene Pechino, dallo scorso febbraio alle prese nel tentativo di reprimere sul nascere qualsiasi tentativo di protesta. La chiusura pressurizzata di Pyongyang per il momento è riuscita a scongiurare rischi di sorta, ma è difficile poter avanzare pronostici sugli sviluppi futuri, soprattutto alla luce di un eventuale indebolimento del regime post Kim Jong-Il.
La morte del Caro Leader è stata improvvisa, ma non del tutto inaspettata. I Paesi più strettamente legati a Pyongyang, per ragioni di vicinanza o per interessi di natura economica e diplomatica (leggi: Corea del Sud, Cina, Giappone e Stati Uniti), avevano sicuramente già provveduto da tempo ad immaginare un ipotetico nuovo scenario senza il tiranno nordcoreano, pianificando a tavolino le reazioni più opportune.
La Cina, da parte sua, ha immediatamente dato il suo placet al nuovo leader, confermando il proprio prezioso sostegno all’alleato nordcoreano. Al decesso di Kim padre, ha fatto seguito il rispettoso pellegrinaggio degli alti papaveri cinesi verso l’ambasciata della Corea del Nord a Pechino, scandito dalla consueta retorica politica, infarcita da una buona dose di ipocrisia.
“Un grande leader e un buon amico del nostro popolo, che ha contribuito notevolmente allo sviluppo del socialismo” le parole di benvenuto rivolte a Kim Jong-Un dal portavoce del ministero degli Esteri cinese hanno lo scopo di preservare gli equilibri consolidati.
Nonostante nel corso del tempo la tensione nell’area abbia raggiunto picchi critici, tuttavia dal 1953 ad oggi la penisola coreana si puo’ dire abbia raggiunto, malgrado tutto, una sua stabilita’. Stabilita’ fortemente auspicata da Pechino, che nel caso di un collasso del regime di Pyongyang, sarebbe costretto a far fronte ad una crisi umanitaria di proporzioni macroscopiche, alimentata dall’esodo di circa 50mila profughi nordcoreani verso le provincie settentrionali del Regno di Mezzo.
Ma non solo. Un vuoto di potere potrebbe lasciare ampio spazio di manovra ai fautori degli armamenti chimici, batteriologici e nucleari; al momento solo voci silenziate, ma che nella prospettiva virtuale di una Pyongyang alla deriva potrebbero riuscire a farsi sentire.
Pechino ha dichiarato di essere preoccupato per il futuro della regione, e pur essendo un interlocutore privilegiato nei rapporti con la nomenklatura nordcoreana, tuttavia, comincia ad avvertire il peso di un alleato sempre più’ scomodo. Se in passato la Corea del Nord veniva vista come un prezioso stato-cuscinetto, capace di ammortizzare l’impatto con una Seul americanizzata, adesso nella più ampia prospettiva di una Cina con un piu’ alto profilo internazionale, l’amicizia con Pyongyang e’ diventata motivo di imbarazzo.
Nel 2010 lo sbarramento d’artiglieria messo in atto da Pyongyang nell’isola del Mar Giallo, Yeonpyeong, ha causato per la prima volta dalla fine della Guerra di Corea (1950-53) nuove vittime tra i civili del Sud. E nonostante le ripetute smentite, su Pyongyang incombe anche l’accusa di un tentativo di affondamento ai danni di una nave da guerra sudcoreana, durante il quale all’inizio di quest’anno morirono 46 marinai.
Lo scenario di un conflitto a fuoco tra le due Coree porrebbe il Dragone davanti alla difficile scelta tra un intervento militare in aiuto dell’alleato- con conseguente degenerazione dei rapporti con Washington e Seul- e una discutibile astensione, che di fatto lascerebbe piena liberta’ di manovra agli Stati Uniti, la cui presenza nell’area viene gia’ avvertita da Pechino come una forte minaccia.
D’altra parte sono in pochi a rincorrere il sogno di una Corea unificata: una prospettiva, questa, sgradita non solo a Seul- che si dovrebbe fare carico di risollevare le sorti della popolazione nordcoreana, affrontando costi economici non indifferenti- ma anche a Washington, che nelle continue frizioni tra le due Coree ha trovato un’ottima giustificazione per piazzare un proprio avamposto in Estremo Oriente. Quanto a Pechino, l’ipotesi di avere come vicino di casa un Paese nazionalista, forte economicamente e politicamente saldo, deve apparire più come un ostacolo alla propia “ascesa pacifica” che come un fattore di stabilità.
E’ pertanto presumibile che un po’ tutti, Cina e Stati Uniti in primis, siano maggiormente propensi ad effettuare un’azione di monitoraggio nella regione il più possibile coordinata, al fine da evitare brusche sterzate. Una strategia fortemente auspicata da ambedue i Paesi, per i quali il 2012 si prospetta come un anno delicato, foriero di importanti rimescolamenti al vertice, con tanto di presidenziali a Washington e cambio di leadership a Pechino.
Al momento il Dragone esercita un’influenza determinante su Pyongyang, il quale, dopo il taglio degli aiuti economici a stelle e strisce, ha dirottato tutte le sue speranze sul potente alleato. Nell’ultimo anno e mezzo Kim Jong-Il si è recato a Pechino ben quattro volte, nonostante la sua riluttanza a varcare i confine del proprio “regno”.
Ma il legame a doppio filo nei confronti del cugino asiatico, vincola la Corea del Nord in maniera ambigua, e non è da escludere che Pyongyang cominci a sentire la propria indipendenza minacciata più dalla Cina che dagli Stati Uniti. Un’ipotesi che fornisce un’interessante chiave di lettura alla progressiva apertura dimostrata dal regime del defunto Caro Leader nei confronti della comunità internazionale: il ripristino dei colloqui a sei potrebbe essere un primo tentativo di dialogo con l’esterno, nella speranza di divincolarsi dall’incombente presenza cinese. 


In altre parole la Corea del Nord ha trovato riparo nel grembo di Pechino piu’ per disperazione che per scelta: vistasi sbarrate le porte dalla maggior parte delle potenze mondiali, ha preferito conservare rapporti amichevoli con chi tutt’oggi continua a fungere da megafono per i propri interessi sullo scacchiere internazionale. Pechino riveste il ruolo di mediatore nei rapporti tra Pyongyang e gli altri Paesi coinvolti nei colloqui a sei, volti ad arrestarne la corsa all’atomica. E la morte di Kim Jong-Il è giunta proprio alla vigilia del terzo round dei colloqui bilaterali sul programma nucleare nordcoreano.
E’ dal 2003 che le sei potenze interessate (Seoul, Pyongyang, Pechino, Mosca, Tokyo e Washington) tentano di dirimere la questione coreana, incappando in non pochi ostacoli. Dopo una prima interruzione nel 2008, lo scorso maggio, grazie all’intervento cinese, la Corea del Nord era tornata a sedere al tavolo delle trattative.
Ma nonostante i progressi fatti, Pyongyang non accenna ad abbandonare il suo atteggiamento ostile. Proprio la settimana scorsa aveva accusato gli Stati Uniti di “politicizzare” il cibo, promettendo aiuti umanitari e la sospensione delle sanzioni economiche in cambio dell’interruzione dei piani sull’arricchimento dell’uranio. Un punto, quest’ultimo, riguardo al quale l’esercito si è sempre dimostrato fortemente contrario. Secondo il regime comunista Washington dovrebbe consegnare ancora più di 300 mila tonnellate di alimenti, sulla base di quanto promesso nel 2008.
Quest’anno la Corea del Nord si prepara a festeggiare il centenario della nascita del Grande leader, promettendo di migliorare la distribuzione degli alimenti tra la popolazione affamata; il raggiungimento o meno di quest’obiettivo sarà un banco di prova determinante per l’ascesa al potere dell’ultimo dei Kim.

giovedì 19 gennaio 2012

Tradizionale esodo per il Capodanno cinese, ma qualcosa sta cambiando


Biglietterie prese d'assedio, treni stracolmi e traffico paralizzato. Accade in Cina. Il Capodanno cinese (quest'anno i festeggiamenti cominceranno il 23 gennaio), è la piu lunga delle due “Golden Week” vacanziere, nonché l'unica occasione dell'anno in cui i lavoratori migranti possono fare ritorno ai loro villaggi d'origine per ricongiungersi con i propri familiari.

Le stime per la Festa di Primavera 2012 parlano di un esodo su rotaia di circa 200 milioni di persone, ma se i numeri continuano ad essere all'altezza della tradizione, tuttavia qualcosa sta cambiando.

Con il progressivo sviluppo delle province centrali del Paese, un numero crescente di mingong (lavoratori migranti) non ha più bisogno di allontanarsi da casa per cercare lavoro, scriveva ieri il China Daily.

Le ultime statistiche realizzate nella regione dello Anhui, mostrano che dalla fine del settembre 2011, solo il 10% dei migranti ha dovuto fare ritorno al paese nativo per cominciare una nuova attività, mentre un numero maggiore aveva già trovato un impiego vicino casa.

Lu Weidong, ha 41 anni ed è uno dei rimpatriati. Un tempo contadino di Zhufoan, nello Anhui, appesi ad un chiodo zappa e rastrello, è andato in cerca di fortuna nella lontana metropoli di Shanghai, dove ha esercitato lavori saltuari per piu di 10 anni. Poi tre anni fa ha fatto marcia indietro, è tornato a casa e ha fondato una società per la realizzazione di prodotti in bambù.

“Non ho più bisogno di fare una fila di tre giorni e tre notti per riuscire a comprare un biglietto ferroviario per festeggiare il Capodanno con la mia famiglia” ha raccontato Lu “è così bello lavorare vicino casa e poter prendersi cura dei propri genitori e dei propri figli.

Con una produzione di 500.000 bastoncini di bambù, Lu guadagna un totale di 20 milioni di yuan all’anno (3,17 milioni di dollari), elargendo ai suoi dipendenti stipendi da 3 milioni di yuan.
Gli impiegati ricevono salari mensili di 2.000 yuan, un po' meno di quanto guadagnerebbero nelle grandi città, ma con spese nettamente inferiori.

“Nel complesso i lavoratori riescono a risparmiare circa 10.000 yuan all’anno che se vivessero fuori casa”. Lu ha preso la decisione di tornare al proprio paese cavalcando l'onda delle politiche di incentivazione messe in atto dalle autorità locali. Il governo cittadino ha incoraggiato gli agricoltori a tornare presso i propri villaggi per sfruttare le rigogliose foreste di bambù presenti nella zona.

Chen Hong, vice segretario del governo locale, ha introdotto un nuovo sistema che prevede l'affitto a basso costo di edifici di proprietà dello stato per i migranti che, fatto ritorno a casa, decidono di lanciarsi in nuove attività imprenditoriali.

“Per il primo anno non facciamo pagare nulla alle imprese che affittano i nostri impianti. Il secondo anno il costo sarà equivalente al 50% del canone e negli anni a seguire a circa l’80%, in base ai loro guadagni.” ha spiegato Cheng.

Secondo I dati forniti dal governo di Zhufoan, tra I 28.000 abitanti di età superiore ai 18 anni e in grado di lavorare, più di 20.000 scelgono di rimanere a casa per darsi all’agricoltura o ad altre professioni.

Wang Kaiyu, studioso delle questioni riguardanti i mingong, ha spiegato che sempre più persone preferiscono rimanere nei paesi d'origine, attratte dal rapido sviluppo dell'economia locale nonché dalla prospettiva di poter stare vicino ai propri cari. E i migranti arricchiti dalle loro esperienze nelle grandi citta sono una risorsa importantissima per le province interne della Cina.

Ormai da tempo Pechino sta cercando di convogliare la forza lavoro e gli impianti industriali verso le regioni occidentali; più vicino ai luoghi di provenienza dei lavoratori, ma dove il costo del lavoro e anche più basso.

Ma nonostante gli sforzi messi in atto dal governo cinese, il fascino e le comodità della vita metropolitana continuano ad avere la meglio. Ad inizio settimana l’Ufficio Nazionale di Statistica di Pechino ha conferamto ciò che le proiezioni di alcuni think thank preannunciavano da tempo: per la prima volta nella storia della Cina, più della metà della popolazione vive nelle grandi città 690,79 milioni di cittadini urbanizzati contro i 656,56 milioni ancora residenti nelle zone rurali.
Un sorpasso storico che, trainato dall'esodo di 21 milioni di lavoratori, testimonia ancora una volta come la migrazione interna sia un fenomeno tutt'altro che superato.

L’attivista Yu Jie subisce torture e fugge negli USA


Ha scelto l’esilio il noto dissidente cinese di fede protestante, Yu Jie, che dopo essere stato malmenato e torturato dalle autorità si è  rifugiato negli Stati Uniti, come scriveva alcuni giorni fa la Reuters.
Yu ha dichiarato di voler fornire un racconto dettagliato dei maltrattamenti subiti durante il periodo di detenzione.

Le sorti di Yu hanno preso una brutta piega da quando nel 2010, il noto attivista Liu Xiaobo, suo buon amico, e stato insignito del premio Nobel. “La mia situazione e peggiorata drammaticamente e ho dovuto subire torture terribili” ha raccontato telefonicamente, mentre si trovava nei pressi di Washington.

“Pochi giorni prima della cerimonia per l’assegnazione del Nobel, sono stato rapito e picchiato da diverse persone al punto da collassare in terra e dover essere ricoverato d'urgenza in ospedale” ha continuato Yu, il quale, dopo l'accaduto, ha per diversi mesi perso la memoria e sofferto d'insonnia.

“Indignati per il riconoscimento di Liu Xiaobo, hanno deciso di sfogare la loro rabbia su di me. Credevano che essendo un suo amico, fossi anch'io partecipe di ciò che aveva fatto”

Nel 2009 Liu e stato condannato ad 11 anni di detenzione con l'accusa di incitamento alla sovversione del potere statale. La notizia della sua incarcerazione e dell'arresto ai domiciliari della moglie, Liu Xia, ha scosso la comunita internazionale, innescando un'ondata di proteste contro il modus operandi adottato da Pechino nei confronti dei dissidenti.

Il cambio di leadership in agenda per il prossimo autunno, fa presagire un ulteriore giro di vite intorno alle voci scomode; e ai vertici del Partito è tolleranza zero verso nuove destabilizzanti sfide politiche.

La testimonianza di Yu riaccende i riflettori sulla questione dissidenti a pochi giorni dalla trasferta diplomatica del vice premier- nonché probabile futuro Grande Timoniere- Xi Jinping negli Stati Uniti.

“L anno passato, sono stato messo agli arresti domiciliari e privato della mia libertà per lunghi periodi,” ha dichiarato l'attivista ai microfoni di Radio Free Asia giovedi scorso. “Privato della libertà di potermi esprimere attraverso la scrittura e di praticare la mia fede religiosa, ho preferito scegliere di vivere altrove”.

Per buona parte del 2011 il tritacarne del Partito ha lavorato senza sosta: alla luce degli sconvolgimenti politici in Medio Oriente, e nel tentativo di scongiurare una Primavera di Pechino, nel Regno di Mezzo centinaia di attivisti e manifestanti sono stati messi in manette, trattenuti dalla polizia o fatti sparire nel nulla. L’odissea di Ai Weiwei, il padre dello stadio “Nido d’uccello” detenuto dalle autorità per 81 giorni, è stata, e continua ad essere, una delle vicende piu dibattute tanto in patria che all'estero.

Yu Jie ha 38 anni ed è una delle voci più pungenti della Cina. Ha più volte puntato il dito contro il  controllo esercitato dal governo in materia religiosa e di libertà d'espressione. Noto per aver scritto una serie di libri proibiti nella Cina continentale- (la cui vendita e stata vietata nella mainland per oltre cinque anni) il suo nome aveva gia varcato i confine della Grande Muraglia in quanto membro di un gruppo di giovani saggisti dalla penna affilata.

Cristiano dal 2002, Yu si e scagliato più volte contro la chiusura dimostrata da Pechino nei confronti delle “chiese domestiche”, e dalla sua abitazione, nella periferia della capitale cinese, ha continuato la sua attività di scrittore, pubblicando le proprie opere ad Hong Kong e all'estero.

Nel 2010 la sua vena critica ha preso di mira il primo ministro Wen Jiabao, considerato da molti uno dei leader piu liberali di Zhongnanhai, e invece descritto da Yu come un ridicolo “Idolo da Film” incapace di promuovere lo Stato di diritto e di assicurare la tutela dei comuni cittadini.

“Prima di lasciare il mio Paese un alto funzionario responsabile per la sicurezza dello Stato mi ha detto che mi sarebbe stato concesso di andare negli Stati Uniti e di tornare in Cina; tenendo a precisare però che se avessi fatto qualcosa a loro sgradito, mi avrebbero rivoluto subito indietro”, ha dichiarato l’attivista, che proprio in quei giorni stava ultimando la biografia dell'amico Liu Xiaobo.

(Pubblicato su Dazebao)

mercoledì 18 gennaio 2012

Corruzione e land grabbing: anche Wanggang alza la voce


La terra del Guangdong continua a scottare. Nella giornata di ieri, circa un migliaio di cttadini infuriati si è radunato di fronte alla sede del governo della città di Canton, mentre bandiere colorate e striscioni di protesta ondeggiavano al vento.

Risarcimenti adeguati per il sequestro delle proprie terre e la sospensione del segretario del partito locale: questo quanto richiesto dagli abitanti del villaggio di Wanggang, cittadina situate nella parte orientale della provincia che più di ogn'altra ha trainato lo sviluppo economico del Paese.

Ad un mese dalla rivolta di Wukan ( HYPERLINK "http://www.dazebaonews.it/mondo/item/7361-rivolte-a-wukan-arrestato-muore-in-circostanze-sospette"http://www.dazebaonews.it/mondo/item/7361-rivolte-a-wukan-arrestato-muore-in-circostanze-sospette) , la tempesta torna ad infuriare sulla questione del land grabbing, una delle piaghe che affligge più dolorosamente il popolo cinese, alimentata in buona parte dal problema endemico della corruzione dei funzionari locali. E mentre i petitioner invocavano giustizia davanti ai palazzi del potere provinciali, a qualche chilometro di distanza il congresso del popolo celebrava la chiusura della sessione annuale

Come raccontato da Li Hongding, 32 anni risiedente a Wanggang, è la terza volta che i cittadini del villaggio bussano invano alle porte dei palazzi governativi per far sentire la propia voce. Il timore diffuse è che, se non si procederà immediatamente con una  campagna di investigazione sull'operato dell’amministrazione locale, ben presto tutti i terreni sino ad oggi di proprità dei cittadini verranno espropriati con la forza.

Ma alla rabbia e alla disperazione hanno fatto ben presto seguito le minacce. “Se la questione non sarà risolta correttamente trasformeremo il nostro villaggio in una seconda Wukan” hanno intimato I leader della protesta. “Vogliamo far sentire al governo la nostra voce mentre è in corso il congresso del popolo provinciale” ha continuato Li “a Wanggang il regime comunista è stato rimpiazzato da un potere corrotto affiliato alle gang mafiose delle triadi. La terra ci è stata lasciata in eredità da I nostri antenati e lotteremo sino a che non ci verrà restituita”.

Dopo ore di attesa, Xie Xiaodan, nuovo vice sindaco di Canton addetto alla sicurezza pubblica e ai reclami, ha incontrato alcuni rappresentanti del villaggio presso l'ufficio delle petizioni.
I manifestanti hanno puntato il ditto contro il segretario del partito di villaggio, Li Zhihang, colpevole di aver intascato oltre 400milioni di yuan dall'affitto di terre collettive, di aver sottratto 850milioni di yuan dalle cooperative di villaggio nonché di essere intervenuto illegalmente nelle elezioni locali.

Li Zhizhang, non verrà sospeso dal suo incarico, come richiesto dai manifestanti, ma Xie ha assicurato che sarà immediatamente sottoposto ad indagini, il cui esito verrà reso noto il 19 febbraio.

La decisione delle autorità è suonata tanto come il contentino di rito, volto ad ammansire i cittadini scontenti. E i petitioner a questi infruttuosi compromessi non ci stanno piu’. Alcune centinaia di irriducibili continuano a dimostrare davanti alla sede del governo di Canton, richiedendo una dichiarazione scritta di quanto promesso dal vice sindaco Xie.

“Abbiamo paura delle rappresaglie, una volta tornati a Wanggang- ha affermato uno degli abitanti del villaggio- Li Zhizhang ha relazioni strette con le triadi e noi in passato abbiamo gia’ assaggiato i loro pugni e il loro bullismo”

Il caso Wanggang non è che l’ennesima gatta da pelare per il capo del partito del Guangdong Wang Yang, balzato agli onori della cronaca per aver saputo gestire magistralmente i disordini di Wukan. Tempo fa proprio Wang avevo dichiarato che la provincia meridionale della Cina avrebbe adottato il così detto “metodo Wukan” come modello di riforma della propria governance.

“Coraggioso, liberale e con una mentalità da leader moderno” -come scriveva a metà dicembre il South China Morning Post- Wang Yang ha più volte posto l’accento sulla necessità di migliorare le condizioni dei lavoratori, eliminare le discriminazioni e facilitare il progresso di integrazione urbana, sottolineando come le modalità adottate nella gestione dell'incidente di Wukan “andrebbero prese come un insegnamento in tutta la provincia”.

Proprio ieri il giornale ufficiale, Qiushi, ha pubblicato un articolo recante la firma del capo del partito del Guangdong in cui veniva ribadita la necessità di anteporre a tutto gli interessi del popolo.

Molti gli elogi ma altrettante le critiche mosse dai colleghi più conservatori, convinti che la politica del guanto di velluto utilizzata da Wang possa lasciare spazio all'insorgere di nuovi episodi simil-Wukan

Le proteste di Wanggang giungono in un momento particolarmente delicato per la dirigenza politica cinese. Giusto in questi giorni, nella provincia dello Shanxi 51 persone sono finite in manette con l'accusa di estorsione, traffico d'armi e altri reati. 68 i funzionari risultati implicati nell'attività mafiosa della gang, mentre il boss è risultato essere Ma Feng, ex pubblico ministero che, spalleggiato da dipendenti del governo e forze di polizia, per anni ha estorto denaro a commercianti e imprenditori locali.

Il fenomeno della corruzione tra i quadri del partito non cenna a diminuire, e se la rivolta di Wanggang non è stato il primo episodio di rimostranza popolare, qualcosa fa tanto pensare che non sarà nemmeno l'ultimo.

(Pubblicato su Dazebao)

domenica 15 gennaio 2012

Cina. Foxconn: disputa sui magri salari. Lavoratori sul piede di guerra


E` ancora Foxconn sulle prime pagine dei quotidiani internazionbali: proprio ieri il principale fornitore di componentistica dei colossi dell`elettronica quali Apple, Nokia e Dell, ha reso noto di aver risolto la disputa sui salari che la settimana scorsa ha surriscaldato l`atmosfera nello stabilimento di Wuhan, regione dello Hubei.


Nelle prime ore della mattina dell 4 gennaio, circa 150 operai hanno protestato contro i magri stipendi e il trasferimento di alcuni lavoratori in un’altra unità dello stesso stabilimento. La controversia si e’ conclusa pacificamente, e l’attività produttiva e’ tornata alla normalità, ma 45 operai hanno preferito presentare le proprie dimissioni, come reso noto giovedì da un comunicato rilasciato dalla società Taiwanese. Solo una manciata di mosche bianche se si pensa che l’impianto di Wuhan è alimentato da una forza lavoro di 32.200 dipendenti.

Dalle strade di Wukan ai tetti di Wuhan, la protesta degli operai della catena di assemblaggio di XBox 360 (creatura di Microsoft), e` stata contraddistinta da nuove minacce di suicidi di massa da parte dei lavoratori, che, esausti di essere sottoposti a condizioni di lavoro durissime in cambio di stipendi irrisori, hanno messo alle strette l`amministrazione della compagnia minacciando di gettarsi dai tetti della fabbrica.

In cima alla lista delle richieste, il rispetto delle condizioni stabilite secondo contratto: uno stipendio di circa 450 dollari al mese, straordinari inclusi -del quale avrebbero visto solo i due terzi- secondo quanto raccontato telefonicamente da uno dei partecipanti alla rivolta pacifica. Molte anche le voci contrarie al trasferimento dallo stabilimento di Shenzhen, il piu’ grande detenuto dalla Foxconn in Cina, a quello di Wuhan; un provvedimento in linea con la nuova tendenza delle fabbriche operanti nella mainland di spostarsi verso le zone piu’ interne e piu’ economiche del Paese.

“Le proteste sono durate otto ore e hanno coinvolto piu di cento persone” ha raccontato l’uomo il quale ha preferito rimanere nell’anonimato, temendo ritorsioni da parte della società. “Era una giornata molto fredda. Alcune delle donne salite sul tetto non hanno resistito al gelo e hanno perso i sensi.”

Giovedì il gigante dell`informatica Microsoft- che proprio alla fabbrica di Wuhan ha affidato l`assemblaggio della sua console Xbox 360- ha dichiarato che sta effettuando delle indagini sull`ultima protesta messa in atto dai dipendenti della Foxconn. “Teniamo molto in considerazione le condizioni di lavoro all`interno degli stabilimenti che si occupano dei nostri prodotti, pertanto stiamo studiando attentamente il problema.”

Ma secondo quanto emerso dopo una lunga discussione con gli operai e i manager della societa’,- scrive Bloomberg- il malcontento che imperversa negli stabilimenti della Foxconn e’ da imputarsi principalmente alle politiche di rilocalizzazione e alle modalità di gestione del personale piuttosto che alle condizioni di lavoro dei dipendenti.

Wang Guangzhou, researcher presso l`Accademia cinese di Scienze Sociali, ha spiegato al Global Times come la societa’ taiwanese dovrebbe seriamente pensare di cambiare le proprie strategie gestionali per rimanere al passo con i tempi. Nell`Impero di Mezzo si sta affacciando una nuova generazione di lavoratori che, figli dell`apertura e delle riforme anni ‘80, manifestano una maggior consapevoleza dei loro diritti e sono sempre piu’ inclini ad alzare la voce.

Da tempo ormai la Foxconn e’ al centro di un ciclone mediatico: nel 2010, hannus horribilis per la multinazionale del gruppo Taiwanese Hon Hai Precision Industry Company, un’ondata di suicidi aveva tinto di rosso gli stabilimenti di Shenzhen, Dongguan e Foshan. Al tempo, a spingere gli operai a commettere un gesto tanto estremo erano state le condizioni di lavoro al limite della disumanita’: turni di piu’ di 12 ore al giorno, per una paga di mille yuan al mese (circa 110 yuan di allora), tempi cronometrati per i bisogni corporali, pause pranzo ridotte al minimo e il divieto assoluto di parlare durante l`orario di lavoro.

Lo stop alle autoimmolazioni degli operai è giunto soltanto nel momento in cui la compagnia ha assicurato un aumento degli stipendi prima del 30%, innalzando il budget mensile a 1200 yuan, e dopo pochi mesi del 66%. Bei propositi mai messi in pratica: “La paga base e’ ancora di 1.000 yuan, una cifra nettamente al di sotto di quella promessa”, aveva affermato al tempo uno dei dipendenti.

E come se non bastasse, l’azienda Taiwanese non ha esitato ad avanzare minacce di licenziamenti al fine di dissuadere gli operai dal mettere in atto altri scioperi. Vietati dalla legge cinese, nella realta’ dei fatti, il blocco della produzione e l’astensione dal lavoro vengono trattati in maniera differente dai vari governi locali., con la provincia del Guangdong in testa per esempio di tolleranza e liberalita’.

Ma se è indubbio che nell’ex Impero Celeste qualcosa si sta cominciando a muovere, d’altra parte risulta ancora piuttosto improbabile possa trattarsi delle prime avvisaglie di una “lotta di classe”. Alcuni elementi farebbero pensare piuttosto ad un fenomeno circoscritto: gli scioperi interessano per lo più aziende straniere e sono concentrati principalmente nel Guangdong -cuore pulsante del manifatturiero cinese- mentre le richieste dei rivoltosi vertono quasi sempre sull’innalzamento del salario minimo: un provvedimento, questo, che in realtà è perfettamente in linea con la politica governativa volta ad incrementare i consumi interni del Paese.

(Pubblicato su Dazebao)

sabato 7 gennaio 2012

Taiwan. I pronostici ad una settimana dalle presidenziali


Aria tesa sull'isola di Taiwan. Ad una settimana esatta dalle elezioni presidenziali i due piatti della bilancia sembrano essere ancora in equilibrio: secondo i sondaggi, a contendersi la poltrona sono Tsai Ing-wen, rappresentante del Partito democratico progressista e Ma Ying-jeou, leader del Partito nazionalista alla ricerca del secondo mandato, mentre il terzo candidato, il fondatore del Primo Partito del Popolo James Soong, riuscirà a fatica ad accaparrarsi un decimo dei votanti.

Negli scorsi giorni i due rivali si sono sfidati a colpi di accuse: la signora Tsai e i suoi uomini hanno incolpato l'attuale presidente di aver sguinzagliato i servizi di intelligence per spiare illegalmente la loro campagna elettorale, mentre Ma, per non essere da meno, ha sollevato una serie di interrogativi sulla posizione ricoperta dalla leader del Partito democratico all'interno di una società biotech statale, che le avrebbe fruttato ingenti guadagni. Immediate le smentite da ambo le parti.

Così "lontani" eppure così "vicini"; una serie di somiglianze accomunano in maniera evidente i due leader politici. Entrambi hanno effettuato gli studi oltremare, muovendo i primi passi nel mondo accademico: Ma ad Harvard e alla New York University, Tsai alla Cornell e alla London School of Economics. Tutti e due refrattari alle telecamere manifestano, piuttosto, una certa tendenza wonkish; promettono una generosa spesa sociale e abitazioni a basso costo.

Tsai punta sulla variegata schiera dei suoi fedeli sostenitori, che oltre ai nativi dell'isola e ai contadini del sud vanta la partecipazione dei colletti blu, i quali sognano ancora un ritorno agli splendori degli anni '90, quando Taiwan era ancora il paradiso della produzione dell'high-tech. "Se chiedete ai miei vicini, loro vi diranno di essere verdi, ma in realtà dentro di loro sono blu" ha dichiarato la Miss dei Democratici, facendo riferimento ai colori delle bandiere sventolate dai due Partiti rivali.

E tra i due fronti si erge la questione cinese. Taiwan vive in un'indipendenza de facto da quando nel 1949 Chiang Kai-shek fuggì sull'isola spostando il governo della Repubblica di Cina a Taipei; poi negli anni 70' il declino, con la perdita del seggio all'Onu in favore di Pechino.

Dopo 8 anni di presidenza democratica -guidata da Chen Shui-bien, tutt'oggi dietro le sbarre con un'accusa di corruzione-  nel 2008 il testimone è passato a Ma, già conosciuto nel panorama politico come ex sindaco di Taipei, il quale ha da subito mostrato una linea morbida nei confronti della mainland suggellata da un accordo di libero scambio, l'Economic Cooperation Framework Agreement (ECFA).


"Diciamolo chiaramente, la Cina non vuole altro che divorarci, e il GMD (ovvero il Partito nazionalista) ci sta abbandonando nelle sue grinfie" ha commentato lo scorso mese Zhou Zhu-Zhen, un infermiere in pensione che ha dato eco ai timori del popolo taiwanese, indignato verso l'eccessiva accoglienza dimostrata dal governo attuale nei confronti del colosso della porta accanto.

Tsai stessa in un'intervista ha dichiarato che le politiche nazionaliste stanno erodendo la sovranità dell'isola: "Quando arrivano dei visitatori cinesi dobbiamo nascondere le nostre bandiere".
D'altra parte i successi degli ultimi anni potrebbero dare un certo vantaggio al suo rivale. "La distensione ha rafforzato la posizione di Taiwan a livello globale", ha controbattuto il presidente. Pechino ha interrotto la guerra contro i Paesi che riconoscono diplomaticamente l'indipendenza dell'isola, e ha ritratto la sua ostilità verso la partecipazione di Taipei ad alcune organizzazioni internazionali. "Taiwan non è più vista come una piantagrane, ma come una forza pacifica" ha continuato il leader del Guomindang.

E non solo. Ma ha dalla sua parte tanto la Repubblica popolare cinese che gli Stati Uniti, la prima timorosa che un cambio al vertice possa inasprire le relazioni con l'isola, preferisce sostenere l'attuale governo tutto sommato facilmente manipolabile; i secondi perché, legati a Taiwan da un'alleanza risalente al disgelo post Guerra Fredda, sarebbero costretti ad intervenire nel caso il deterioramento dei rapporti tra Pechino e Taipei sfociasse in un attacco armato.

Proprio all'inizio di gennaio Washington aveva annunciato visite ufficiali sull'isola e la possibilità di viaggi negli Usa senza bisogno di visto. Una mossa che gli addetti ai lavori hanno interpretato come un tentativo di tirare acqua al mulino di Ma Ying-jeou. E le smentite della diplomazia a stelle e strisce non sono state sufficienti a dissipare i sospetti: "Noi non interferiamo mai nelle elezioni negli altri Paesi, e Taiwan non fa eccezione" ha dichiarato Sheila Paskman, portavoce dell’Istituto americano di Taiwan.

Ma non è passa certo inosservata l'agitazione mostrata dalla Casa Bianca, che tra due fuochi, deve stare attenta da una parte a non irritare il Dragone, il suo rivale più insidioso sullo scacchiere internazionale, e dall'altra a mantenere gli accordi derivanti dall'alleanza con Taiwan, che alla luce del nuovo assetto geopolitico mondiale, risulta ormai quantomeno obsoleta.

Intanto sull'ex isola di Formosa tutti gli occhi sono già puntati al 14 gennaio, data in cui l'elettorato verrà chiamato alle urne. Rafforzare l'identità nazionale a discapito del quieto vivere con i cugini cinesi, o cedere ad un conveniente compromesso avvallato dai numerosi successi ottenuti in politica estera? Messi da parte i sondaggi, ora l'ultima parola spetta ai cittadini.

(Pubblicato su Dazebao)

venerdì 6 gennaio 2012

Cina. Molestie sessuali sul lavoro in aumento


Aumentano i casi di molestie sul lavoro nei confronti delle donne cinesi. A dare l'allarme è stato il China Daily, organo di stampa del Partito comunista cinese, che il 5 gennaio titolava a grandi lettere: "More sexual assault at work reported".

Nonostante si stia cercando di sensibilizzare sempre maggiormente le donne verso il problema degli abusi sul posto di lavoro, sono ben poche le vittime ad avere il coraggio di varcare le aule delle Corti di giustizia per raccontare la loro storia; "questa è una delle ragioni principali per la quale tale tipo di molestie è in costante aumento" ha dichiarato Guo Jianmei, noto avvocato specializzato nella difesa dei diritti delle donne e dei bambini, nonché direttore del Beijing Zhongze Women's Legal Counseling and Service Center.

Dal 2007 ad oggi il Centro ha ricevuto più di 183 richieste di consulenza  in materia di abusi sessuali; dei 47 casi portati avanti , il 34% era legato proprio all'ambiente di lavoro. I numeri rispecchiano un aumento della consapevolezza delle donne riguardo ai loro diritti; alla sofferenza silenziosa oggi, di frequente, si preferisce la confessione e la ricercare di aiuto, ha osservato Guo.

Questo è il caso di Luo Yun (il nome è fittizio), la quale, dopo essere stata violentata e costretta a posare nuda per delle foto, ha deciso di denunciare il suo ex-capo. Song Shanmu, questo il nome dell'uomo, è stato messo dietro le sbarre nel 2011 in seguito al sopraggiungere di nuove accuse da parte di altre dipendenti, anch'esse accomunate a Luo Yun dalle stessa tragica sorte.

Al giorno d'oggi le donne possono avvalersi del sostegno di Internet e di una più agevole diffusione delle informazioni, e d'altra parte le vittime disposte a segnalare il proprio caso rappresentano ancora una minoranza. "In primo luogo coloro che subiscono le violenze devono essere a conoscenza di come poter richiedere aiuto e di dove cercare le informazioni necessarie" ha sottolineato Guo, facendo riferimento alla storia di una cameriera che, ripetutamente sottoposta ad abusi dal proprio datore di lavoro, ha dovuto ricorrere a diversi aborti, non essendo in grado di accedere ai servizi di consulenza legale.

"In Cina circa 200 milioni di donne sono state o sono tutt'ora vittime di molestie sessuali, ma solo un numero esiguo di centri di assistenza fornisce anche consulenza legale". Chen Wei, avvocato per la tutela dei diritti delle donne presso lo studio legale Yin Ke di Pechino, ha affermato che sebbene abbia ricevuto molte richieste di aiuto per casi riguardanti gli abusi sul lavoro, tuttavia ha rilevato che sono molto poche le clienti decise a portare la questione in tribunale.

A frenarle la paura di perdere il proprio posto e il terrore di essere ritenute colpevoli per quanto accaduto. "E' veramente difficile poter raccogliere degli elementi inconfutabili che provino le molestie sessuali, e ancora più arduo è riuscire a provare le molestie verbali" -ha dichiarato Chen -"le vittime dovrebbero tenere sempre con loro dei registratori mentre sono a lavoro".

Ma anche le autorità hanno la loro buona dose di colpa. "La polizia non presta sufficiente importanza alle molestie sessuali" ha raccontato Zhu Yantao, funzionario in pensione del Ministero della Pubblica Sicurezza, "Ci concentriamo di più su casi di maggiore gravità quali rapine e bombardamenti, mentre gli abusi sul posto di lavoro finiscono nel dimenticatoio".

E alla fine di ottobre anche il South China Morning Post aveva sollevato all'attenzione pubblica il problema delle violenze femminili. Stesso copione ma scenario diverso:secondo i risultati di un'indagine condotta da All-China Women's Federation- pubblicati sul quotidiano di Hong Kong- nel Regno di Mezzo, circa un quarto delle donne sposate ha subito una qualche forma di abuso durante il matrimonio, e per più del 5% le violenze familiari sono ancora una realtà di tutti i giorni. Il 24,7% è stato sottoposto ad umiliazioni verbali, abusi sessuali e restrizioni della propria libertà, perdendo il controllo delle proprie finanze; il 5,5% è vittima di maltrattamenti fisici, con un tasso del 7,9% nelle zone rurale e del 3,1% nelle aree urbane.

Le violenze domestiche spesso sono ancora ritenute un 'problema di coppia', risolvibile semplicemente attraverso il dialogo tra i coniugi, piuttosto che con il coinvolgimento della Corte. Le autorità competenti stanno ancora lavorando alla stesura di un progetto di legge autonomo che copra nello specifico questo tipo di crimini, al momento trattati ancora in maniera superficiale dalla legge sul matrimonio. Secondo gli addetti ai lavoro, una normativa contro le violenze familiari sarebbe già comparsa nell'agenda di agosto del Comitato permanente dell'Assemblea nazionale del popolo.

E nonostante nelle grandi città l’emancipazione economica femminile sia un fenomeno in costante crescita - secondo le classifiche del Forbes e del Sunday Times dell'ottobre 2010, nella classifica delle donne più ricche del pianeta il primato spetterebbe infatti alla Cina - nelle zone rurali i principali beni della famiglia quali abitazioni, automobili e depositi bancari sono ancora tutti intestati a nome del marito mentre alle donne viene affidato il solo compito di crescere i figli e coltivare i campi.

(Pubblicato su Dazebao)

Hukou e controllo sociale

Quando nel 2012 mi trasferii a Pechino per lavoro, il più apprezzabile tra i tanti privilegi di expat non era quello di avere l’ufficio ad...