martedì 3 gennaio 2012

Cina: 2011, l'anno del dissenso


Forse in qualche remoto angolo della terra il 2011 sarà stato anche visto come un anno tutto sommato buono, ma sicuramente non nel Nuovo o nel Vecchio Continente, nè nella Mezzaluna, e tanto meno in Cina, dove verrà caldamente messo alla porta con il più sentito augurio di un "a mai rivederci".

Dopo le zampate inferte dell'inflazione, la crisi del credito di Wenzhou, lo scoppio di numerosi focolai di rivolta nel sud del Paese e le minacce della "rivoluzione dei gelsomini", probabilmente, nei palazzi del potere di Pechino le speranze sono già tutte protese verso il 2012, che sotto il segno propizio del Drago segnerà un'importante svolta, se non altro a livello politico: il passaggio delle consegne dalla quarta alla quinta generazione di leader sancirà la fine dell'era Hu Jintao-Wen Jiabao, aprendo una serie di incognite su quella che sarà la nuova gestione della cosa pubblica cinese.

Sebbene siano in molti a credere che vi sarà una sostanziale continuità con il passato nella linea politica dei "principini"- così vengono chiamati i figli dei maggiorenti del Partito e futuri membri del Comitato permanente del Politburo- d'altra parte le loro credenziali concedono il beneficio del dubbio: la maggior parte di loro ha studiato all'estero, conosce il mondo globalizzato ed è entrata in contatto con i valori occidentali. Ragioni sufficienti, queste, per indurre molti a sperare -forse un po' troppo ottimisticamente- in una sterzata in senso democratico.

D'altra parte timide spinte riformiste hanno cominciato a farsi sentire già da tempo, sopratutto nella provincia del Guangdong, polmone industriale che ha irrorato ossigeno alla Nuova Cina. A fine novembre il Southern Metropolis Daily, si era fatto portavoce delle speranze dell'ala più liberale del Partito, inviando messaggi subliminali a Xi Jinping, salvo colpi di scena, futuro Grande Timoniere, nonché figlio di Xi Zhongxun, esponente della corrente riformista anni '80. Una mossa azzardata, che difficilmente sarebbe potuta essere messa in pratica senza la sicurezza di non rischiare di infastidire il destinatario della frecciata. (link).

Con il nuovo secolo la dirigenza del Partito ha deciso di cambiare strategia rispetto a quella draconiana adottata a ridosso degli eventi di piazza Tiananmen. Reprimere con la forza la formazione di organizzazioni autonome in grado di dar voce alle vittime della modernizzazione è cominciata ad apparire una tecnica sempre meno efficace, così che si è deciso di impugnare nuove misure per impedire la nascita di una vera società civile. Il Partito ha stabilito di accordare alla pancia del Paese nuove modalità attraverso le quali poter esprimere il proprio malcontento, annunciando l'attuazione dello Stato di diritto.

E tuttavia ciò non ha impedito l'emergere di movimenti per la difesa dei diritti civili (weiquan) che, nella maggior parte dei casi alimentati dagli strati più bassi della popolazione, cominciano ad esprimersi sempre più spesso attraverso i giornali, sfidando la cesoia del Dipartimento di Propaganda. Poi la rete di Internet fa il resto, arrivando dove la carta stampata non riesce. In altre parole, i cittadini quando non trovano giustizia nelle aule dei tribunali, spostano il dibattito sui media, così da ottenere più facilmente l'attenzione dell'opinione pubblica.

Eredi del movimento democratico anni "70-"80, avvocati, giornalisti, sociologi e accademici prendono le parti dei contadini espropriati, dei lavoratori migranti, degli operai sottopagati. Un fenomeno in continua espansione che ha indotto il governo a monitorare più a fondo la situazione, creando una nuova amministrazione- presente ad ogni livello dal distretto al centro- volta a proteggere la stabilità controllando gli elementi ritenuti sovversivi, reprimendo le manifestazioni sul nascere o facendo sparire i petitioner nelle black jails. Questo sistema di vigilanza è diventato fondamentale per Pechino, tanto che nel 2011 il suo budget ha superato quello della difesa nazionale.

Nella megalopoli di Chongqing, nel Sichuan, si sta lavorando alla realizzazione del più grande apparato di sorveglianza poliziesca al mondo, che attraverso un sistema di telecamere, terrà sott'occhio ogni angolo della città.

I tentativi di Wen Jiabao di spingere il Partito verso una riforma del sistema politico e verso l'accettazione della nascita di una società civile- sinceri o meno che fossero- sono rimbalzati contro il muro di gomma della realpolitik cinese. Dall'8 ottobre 2010, data dell'assegnazione del premio Nobel per la pace al dissidente Liu Xiaobo, la morsa delle autorità ha cominciato a stringere con più vigore, confermando il principio della "stabilità del silenzio" grazie al quale il potere indiscusso del governo viene raggiunto attraverso l'imposizione del bavaglio sulla popolazione e sui principali organi d'informazione.

Yao Lifa, Ai Weiwei, Chen Guangcheng, Yang Hengjun sono solo alcuni dei nomi degli attivisti vittime del giro di vite messo in atto da Pechino nell'ultimo anno. E lo scorso marzo il sito web China Geeks, gestito da studiosi cinesi e stranieri, individuava i nomi di 24 dissidenti tra blogger, scrittori e avvocati dei quali si erano perse le tracce.

Il tritacarne di Pechino, che oltre alle misteriosi sparizioni ha portato anche alla condanna di altri 18 attivisti, tra i quali Liu Xiaobo, si fa sempre più vorace. A sei settimane dalla "rivoluzione dei gelsomini", ondata di proteste su ispirazione della "primavera araba", ammontava già a 47 il totale delle voci di dissenso messe a tacere dal governo cinese; numeri destinati a salire a 140 entro il mese di giugno. E sebbene la protesta pacifica dei gelsomini "made in China" si sia rivelata di fatto un incredibile flop, a Zhongnanhai dallo scorso 14 febbraio non si dormono più sonni tranquilli.

Mentre la comunità internazionale lancia strali avvelenati contro il modus operandi di Pechino in materia di diritti umani, la leadership cinese cerca di metterci una pezza effettuando liberazioni lampo in concomitanza con importanti visite diplomatiche: il rilascio di Ai Weiwei nel mese di giugno a ridosso della tournè di Wen Jiabao in Europa ne è un chiaro esempio.

E anche la nuova proposta di emendamento pubblicata su Legal Daily alla fine dell'estate è stata da molti letta come l'ennesimo tentativo volto a smorzare l'ondata di polemiche che arriva da Occidente.

“In casi riguardanti la sicurezza nazionale, terrorismo o seri episodi di corruzione,” cita l'articolo, “l'accusato o il sospettato potranno essere messi sotto sorveglianza in una residenza diversa dal proprio domicilio per un periodo non superiore ai sei mesi, qualora la sorveglianza presso la casa del sospettato o accusato possa intralciare le indagini. Inoltre, quando il sospettato o accusato in questione verrà messo sotto sorveglianza in una residenza diversa dal proprio domicilio, la famiglia verrà prontamente informata entro 24 ore. A meno che", specifica la proposta d'emendamento, "le autorità non riescano a raggiungere la famiglia o tale notifica non rischi nuovamente di intralciare le indagini.”

La proposta di legge ha suscitato lo sdegno della stampa internazionale la quale ha interpretato l'emendamento, forse non del tutto erroneamente, come una legalizzazione delle sparizioni di quegli “elementi sovversivi” che Pechino deve a tutti i costi mettere a tacere.

Eppure c'è chi alla buona fede del governo ci crede ancora: “la nuova normativa rappresenta un grande passo avanti verso la modernizzazione del sistema legale cinese”, ha dichiarato alla Xinhua Song Yinghui, professore di giurisprudenza presso la Beijing Normal University. 

Anche i recenti sviluppi della rivolta di Wukan (link), conclusasi inaspettatamente con il dialogo tra i manifestanti e le autorità, hanno indotto molti ad avanzare l'ipotesi di un progressivo ammorbidimento del governo cinese, ma in realtà basta percorrere un centinaio di chilometri sino al villaggio di Haimen -dove i cittadini stanno protestando da giorni contro una centrale elettrica, probabile causa di un'impennata dei casi di tumori nella zona-  per imbattersi nella legge marziale. 

In base a quale principio Pechino sceglie di utilizzare il guanto di velluto o il pugno di ferro per spegnere i focolai di protesta? In generale si può dire che il governo cinese tende a tollerare le critiche quando non lo toccano direttamente. Nella maggior parte dei casi, infatti, la popolazione non si scaglia direttamente contro il Partito- che viene invece riconosciuto come garante di giustizia e paladino dei diritti dei cittadini- quanto piuttosto contro quei funzionari locali corrotti, soliti perpetuare soprusi ai danni del popolo; poche, isolata mele marce che il governo centrale sacrifica come capro espiatorio per scaricarsi della responsabilità del malcontento che infiamma il Paese. Riconosciuta la legittimità delle proteste dei manifestanti e puniti i funzionari colpevoli di non aver saputo ascoltare la voce dei cittadini, il Partito di fatto ne esce scagionato e pressocché illeso.

Nel caso dei dissidenti la questione è ben diversa. Gli attivisti, come Chen Wei, Chen Xi -condannato proprio il 26 dicembre a 10 anni di reclusione con l'accusa di sovversione ai danni dello Stato- e Chen Guangcheng, sono finiti dietro le sbarre per aver criticato il modello a partito unico cinese, per aver difeso le categorie più deboli, per aver denunciato i metodi disumani con i quali le autorità hanno imposto il controllo delle nascite. Sono frecce ben più acuminate che vanno a colpire direttamente i vertici del sistema e pertanto non possono essere risparmiate, in quanto pericolosamente destabilizzanti.

E a ridosso delle feste natalizie la mordacchia cinese ha approfittato della pausa delle attività diplomatiche per far passare in sordina le nuove carcerazioni lampo. "Il trucco funziona molto bene perché intorno a Natale le attività diplomatiche sono tutte ferme", ha dichiarato Nicholas Bequin di Human Rights Watch. "Prima che i funzionari saranno tornati alle loro scrivanie, nel frattempo le cose avranno già fatto il loro corso".

"Uccidere i polli per terrorizzare le scimmie" è la strategia utilizzata dal Partito per dissuadere le "teste calde" che minano la stabilità del Paese con le loro idee rivoluzionarie. E a Natale, si sa, si sacrificano "i polli più grassi": proprio il 25 dicembre di due anni fa fu processato Liu Xiaobo.

Per il momento non sembra scorgersi all'orizzonte una linea politica incline ad accettare l'istituzionalizzazione di canali d'espressione del malcontento, ma diversi segni fanno pensare che anche all'interno del Partito si stiano cominciando a sollevare voci contro l'immobilismo del governo. Ora non rimane che attendere il prossimo autunno, quando il passaggio del testimone alla nuova leadership aprirà al popolo cinese un nuovo decennio di speranza.

(Scritto per Uno sguardo al femminile)

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