lunedì 30 settembre 2013

Torna il Libretto Rosso di Mao, l'intervista a Daniel Leese


La Cina si appresta a rispolverare il Libretto Rosso di Mao. Dopo un periodo di gestazione durato due anni, una nuova versione delle massime del Grande Timoniere vedrà la luce il prossimo novembre, giusto alla vigilia del 120esimo anniversario della nascita del padre della patria.

L'opera, seconda soltanto alla Bibbia per numero di tirature, ha raggiunto il miliardo di copie sotto la Rivoluzione Culturale, per poi declinare progressivamente ancora prima dell morte di Mao. Dopo i tempi duri delle riforme targate Deng Xiaoping, ristampe commerciali del Libretto Rosso hanno fatto la loro comparsa nelle librerie, ma nuove edizioni mai.

L'azzardata iniziativa, che giunge in un momento in cui la leadership cinese torna a fare un uso generoso di citazioni rosse, non sembra tuttavia avere un'impronta ufficiale. "Vogliamo soltanto riesaminare il testo, così come altri studiosi lavorano sui Dialoghi di Confucio- ha dichiarato al Guardian il colonnello Chen Yu dell'Accademia di Scienze Militari, responsabile editoriale della nuova versione- non abbiamo uno scopo politico complicato".

Sembra, d'altra parte, piuttosto improbabile che i simpatizzanti del Grande Timoniere avrebbero trovato il coraggio di compiere un passo del genere se a Zhongnanhai, il quartier generale del Partito, di questi tempi non si respirasse un'atmosfera particolarmente propizia. Tra purghe, sessioni d'autocritica e corsi di marxismo per i giornalisti cinesi, i più conservatori escono baldanzosamente allo scoperto, dopo che il processo all'ex astro nascente Bo Xilai ha assestato un sonoro schiaffo ai suoi seguaci e alla sinistra estrema, di cui Bo era l'esponente di punta.

Secondo i più ottimisti, è proprio per ammansire quelle frange radicali, ferite ma ancora piuttosto agguerrite, che il presidente Xi Jinping starebbe ammiccando ad una serie di pratiche inquietanti, accostate dai più alla figura di Mao Zedong. Tanto più che il Terzo Plenum del prossimo novembre sembrerebbe preannuncia riforme economiche poco gradite ai fautori della pianificazione statale e dei grandi conglomerati pubblici, sino ad oggi zoccolo duro del "capitalismo socialista" cinese.

Dunque, cosa bolle in Cina? Lo abbiamo chiesto a Daniel Leese, professore di storia cinese presso l'università di Freiburg e autore di "Mao Cult: Rhetoric and Ritual in China's Cultural Revolution".

Critica e autocritica, purghe ad ogni livello del Partito, un controllo sempre più serrato sull'opinione pubblica e uno studio maniacale del marxismo. Più che il Sogno cinese questo sembra l'incubo di una nuova Rivoluzione Culturale. Che direzione sta prendendo la Cina?

"Le scelte politiche di Xi Jinping mi sembra assomiglino ad un approccio 'shuanggui': ovvero un approfondimento della liberalizzazione economica (mi riferisco, per esempio, alla zona di libero scambio di Shanghai), accompagnato dal rinnovamento di pratiche maoiste. Questo in realtà non è un approccio nuovo, ma è piuttosto una ricorrenza a partire dal movimento della 'rettificazione dei quadri di Partito' di metà anni '80. La tensione creata da un approccio conservatore in politica e da una spinta liberale in economia sembra accomunare Xi ai suoi predecessori. Durante il suo famoso viaggio al Sud, Deng Xiaoping chiedeva maggiori riforme di mercato e una privatizzazione economica, pur continuando a reprimere il dissenso politico. Jiang Zemin, con le 'Tre rappresentanze' ha ampliato la base del potere del Pcc reclutando imprenditori e nuovi attori socio-economici, eppure ha lanciato la campagna di repressione contro il movimento del Falun Gong. L'appello populista di Hu Jintao ha affiancato il concetto di 'società armoniosa', basato sul tentativo di colmare le disparità economiche tra i cittadini per allentare le tensioni sociali, con un rafforzamento dell'apparato della sicurezza interna e della censura sui media. Oggi la situazione non è ancora chiara e per questo, ad un livello inferiore, i gruppi rispondono con tentativi di ogni tipo per testare i limiti ufficiali. Così assistiamo ad un'esplosione dei sostenitori del maoismo, oltre ad un tentativo di controllo sulla sfera pubblica."

La nuova edizione del Libretto Rosso di Mao giunge in un momento in cui diversi analisti ravvisano nella lotta alla corruzione lanciata da Xi Jinping alcuni elementi in comune con la campagna "picchiare il nero" di Bo Xilai. Ritiene plausibile credere che il nuovo presidente stia prendendo in prestito alcune politiche che a Chongqing, sotto il regno di Bo, hanno funzionato piuttosto bene?

"Per quanto riguarda il Libretto Rosso, se una nuova edizione verrà pubblicata a livello ufficiale -ma non credo che questo avverrà veramente- ciò vorrebbe dire che il Partito sta mettendo in discussione il principio assunto anni fa dell'abolizione del culto della personalità. Ciò rappresenterebbe una gravissima virata rispetto alla linea adottata dopo il 1978. Comunque non penso che Xi punti ad una nuova Rivoluzione Culturale, né che sia un opportunista paragonabile a Bo Xilai. Mi sembra piuttosto che il nuovo presidente creda realmente nel potenziale di una prassi maoista per ripulire il Partito dalla corruzione. Si tratta del primo movimento di rettifica del nuovo millennio, che d'altra parte comprende una rivalutazione del passato maoista. Questo senz'altro rende una ricerca critica sul periodo maoista più difficile di quanto non lo sia stato dieci anni fa".

Ultimamente alcuni intellettuali liberali hanno ricevuto intimidazioni. Di contro sembra che la linea ufficiale incoraggi nazionalismo e altre istanze conservatrici proprie della sinistra estrema. Che peso ha la Nuova Sinistra nella Cina di Xi Jinping?

"Non è una domanda alla quale si può rispondere facilmente. Per me la Nuova Sinistra non è una fazione coerente, la sua forza effettiva sfugge a valutazioni precise. Xi Jinping mostra una propensione verso pratiche 'Mao-style', e ovviamente incoraggia superficialmente sentimenti nazionalistici. Eppure come rivelano la sentenza a Bo Xilai (condannato all'ergastolo per corruzione, appropriazione indebita e abuso di potere, ndr) e, ancora prima, le misure restrittive sul wuyou zhi xiang (il sito di sinistra Utopia, ndr) la sua agenda potrebbe non coincidere con le aspettative di chi si riconosce nella Nuova Sinistra".

mercoledì 25 settembre 2013

Un gamberetto tra due balene



Come un gamberetto in balia di due balene. Il vecchio detto coreano torna attuale mentre si inasprisce la competizione tra Pechino e Mosca nell'estremo nordest, impegnate ognuna per sé nello sviluppo di due aree limitrofe nel porto nordcoreano di Rajin.

Il 22 settembre Russia e Corea del Nord hanno festeggiato il completamento dei lavori di riparazione della tratta Kashan-Rajin; 54 chilometri di strada ferrata che collegano il distretto costiero russo al porto centro nevralgico della zona economica speciale di Rason, stabilita dal governo di Pyongyang nel 1991. Secondo la joint venture stipulata nel 2008 tra la Russian Railways Traiding House e il porto di Rajin, Mosca detiene il diritto d'uso per 49 anni sulla linea ferroviaria e una delle tre banchine del porto di Rajin, la numero 3. L'area portuale di competenza russa, che copre una superficie di 147mila metri quadri, starebbe beneficiando di investimenti per 2,2 miliardi di rubli (66 milioni di dollari), riportano fonti dell'Asahi Shimbun.

I lavori, cominciati nell'ottobre dello scorso anno, hanno interessato la ripavimentazione in calcestruzzo della banchina e l'installazione di serbatoi di carburante e gru su rotaie per il trasporto del carbone. Inoltre l'aumento della profondità del fondale intorno al molo (da 9 a 12 metri) dovrebbe agevolare l'accesso alle navi di grandi dimensioni, tanto che si stima che, una volta completato -entro gennaio se tutto andrà come da programma-, il pontile n°3 sarà in grado di gestire 4 milioni di tonnellate di merci l'anno.

Nei piani di Mosca lo snodo marittimo di Rajin e la linea ferroviaria Russia-Corea del Nord, che conduce direttamente alla Transiberiana, rappresentano due tasselli d'importanza fondamentale nello sviluppo di un'arteria commerciale tra Asia e Europa. Se non fosse che a pochi centinaia di metri, presso la banchina n°1, una società cinese, con base nella provincia del Jilin, si è a sua volta data da fare nella costruzione di magazzini e altre strutture per scaricare carbone sotto una concessione d'uso di 10anni.

Pechino, che da due anni sfrutta il porto del "far north-east" per trasportare carbone a sud, pare abbia già realizzato una strada che collega Rajin alla città di Hunchun, nella prefettura autonoma coreana di Yanbian, Jilin orientale. E, stando a fonti dell'Asahi Shimbun, il governo cinese avrebbe anche annunciato a Pyongyang l'intenzione di estendere i lavori alla costruzione di nuove banchine nell'area portuale. 

Perché tanto da fare? Negli anni '90 Rajin ha rappresentato un importante punto di sbarco delle automobili giapponesi che attraverso la Corea del Nord raggiungevano il nordest della Cina per essere rivendute, mentre legname e altre risorse naturali facevano il viaggio in senso opposto fino al Sol Levante. Per comprendere la portata degli interessi in gioco, basti pensare che nel caso in cui la Cina perdesse l'accesso al porto nordcoreano le merci dovrebbero passare via terra attraverso le regioni di Jilin e Heilongjiang fino al porto di Dalian, per quasi 1000 chilometri. Non desta dunque stupore la solerzia con la quale il Dragone si sta adoperando a rendere gli scali marittimi nordcoreani importanti basi per il proprio import-export. Senza calcolare la possibilità che un giorno possano venire utilizzati per scopi militari, avvertono certuni.

E mentre i rapporti tra Pechino e il Paese eremita rimangono saldi pur scricchiolando (proprio ieri la Cina ha vietato l'esportazione verso la corea del Nord di alcune merci e tecnologie atte allo sviluppo di armi nucleari), Mosca, dalla sua, sembra spingere verso un riavvicinamento al regime di Kim Jong-un. Per riannodare le relazioni, precipitate dopo la dissoluzione dell'Unione Sovietica, ora la Russia cerca la strada della collaborazione. E lo fa proprio a Rajin, impegnandosi nello sviluppo congiunto dell'importante scalo marittimo.

Nonostante, a circa un ventennio dalla sua inaugurazione, la Zes di Rason abbia decisamente disatteso le aspettative, il potenziale di Rajin come hub commerciale rappresenta una prospettiva sempre più allettante per il governo nordcoreano gravato dalle sanzioni internazionali, scrive il China Daily. 

In occasione di un vertice, nel 2001, l'allora leader Kim Jong-il e Vladimir Putin accettarono di ristabilire il collegamento ferroviario come parte di un progetto comune che includeva un terminal container a Rajin. I lavori cominciarono sette anni più tardi con l'intento di inglobare la tratta tra Kashan e lo scalo nordcoreano nella "Iron Silk Road", una linea ferroviaria che attraversasse Asia e Europa con tanto di collegamento tra Nord e Sud Corea. Piano, quest'ultimo, deragliato a causa della volatilità dei rapporti tra Seul e Pyongyang. 

"Ci aspettiamo un'implementazione positiva di questo progetto pilota per avviare in futuro una più ambiziosa cooperazione che colleghi la Transiberiana alla linea transcoreana" ha commentato all'inizio di settembre il vice ministro degli Esteri russo Igor Margulov, in occasione del 65esimo dalla fondazione della Repubblica democratica popolare di Corea "Ma questo necessiterebbe certamente una maggiore collaborazione con il partner del Sud".

(Per approfondimenti sul porto di Rajin:Rajin-Sonbong, A Strategic Choice)





giovedì 19 settembre 2013

Pubblicamente colpevoli


(Aggiornato il 6 ottobre)

Più di mezzo secolo fa, Otto Kichheimer, un analista politico molto apprezzato, si chiedeva perché così tante dittature preferiscano condannare i loro nemici in processi “pubblici”, piuttosto che piantargli una pallottola in testa nei meandri di qualche seminterrato, lontano da occhi indiscreti. Anche se oggi è costretto a operare in un contesto molto più trasparente ed esigente rispetto a quello con il quale si sono dovuti confrontare Stalin e i suoi coevi, il Partito comunista cinese sente ancora di dover vestire la gente comune con la 'toga' da giudice, affinché sia il popolo stesso ad emettere una solenne condanna nel nome del governo. Così la legittimità del regime viene rafforzata e l’opinione pubblica trova una valvola di sfogo per i propri sentimenti. Anche quanti hanno dimestichezza con le corti di giustizia fanno semplicemente quello che viene loro ordinato dall’alto: punire il male e accrescere il bene.” (Jerome A. Cohen, China File).

Cosa hanno in comune il re dei narcotrafficanti birmani, un leader in ascesa dalle inclinazioni populiste, un consulente aziendale britannico e un apprezzato commentatore del web dal click facile? Probabilmente poco e niente, se non fosse per il fatto che tutti e quattro, una volta incappati nelle maglie della giustizia cinese, sono stati in qualche modo risucchiati nel tritacarne della propaganda ufficiale che decanta trasparenza, come voluto dal presidente Xi Jinping fin dai primi giorni del suo mandato.

Così abbiamo Naw Kham, il signore della droga giustiziato (quasi) in diretta TV lo scorso marzo per aver assassinato, con la sua gang, 13 pescatori cinesi sul corso del Mekong; Bo Xilai, l’alfiere del maoismo silurato a causa delle sue ambizioni e protagonista del processo più “limpido” della storia del Pcc da quando alla sbarra a comparire fu la vedova del Grande Timoniere. Con tanto di live update sul microblog del tribunale di Jinan -salvo tagliuzzamenti qua e là. E poi Charles Xue (alias Xue Manzi) il businessman sino-americano arrestato formalmente alcuni giorni fa con l’accusa di adescamento di prostitute, comparso pubblicamente davanti alle telecamere della televisione di Stato per ammettere le proprie colpe. Già reo confesso a fine agosto, in settimana ha rinnovato il proprio mea culpa riconoscendo anche di aver abusato della sua notorietà su Internet per diffondere notizie infondate. Una mossa che deve essere piaciuta molto a Zhongnanhai, impegnato in una battaglia sul terreno dei new media culminata in nuovi arresti e in una più stringente campagna anti-rumors. E ancora il detective Peter Humphrey, finito in manette ad agosto, e comparso sul piccolo schermo ammanettato e avvolto nella tipica tunica arancione dei detenuti per riconoscere di aver utilizzato metodi illegali nella raccolta di informazioni. A luglio, invece, a fare autocritica in TV era stato un dirigente della casa farmaceutica GSK, agganciata nel mirino di una maxi-inchiesta anticorruzione.

La gogna pubblica torna di moda in un momento in cui oltre la Muraglia lo spettro di una nuova Rivoluzione Culturale bussa alle porte di attivisti e blasonate voci del web.

Le confessioni sono state a lungo parte fondamentale del sistema giuridico cinese, con frequenti mea culpa da parte di piccoli criminali davanti alle telecamere. Raramente però lo stesso trattamento è stato riservato a figure di spicco del mondo degli affari, scrive la Reuters.

Nonostante un emendamento alla legge di procedura penale cinese -entrato in vigore all'inizio dell'anno- vieti alle autorità  di forzare qualcuno ad autoincriminarsi, le confessioni in Cina continuano ad essere estorte con metodi poco ortodossi. Lo stesso Bo Xilai in sede processuale ha dichiarato di essersi stato sottoposto "ad un'impropria pressione psicologica" durante i suoi sette mesi di detenzione.

Molti scelgono di incassare le accuse nella speranza di ottenere punizioni più miti. Come fatto notare da Eva Pils, docente di legge presso la Chinese University of Hong Kong, al tempo di Mao la funzione dei processi non era tanto quella di determinare se una persona fosse colpevole o meno, quanto piuttosto quella di istruire il popolo. Detto alla cinese, "ammazzare il pollo per spaventare le scimmie".

Oggi sembra che l'ostentazione esasperata con la quale i "nemici dello Stato" vengono spinti a fare ammenda serva anche a persuadere i cittadini sull'efficacia della campagna anti-corruzione lanciata dalla leadership per purificare i ranghi del Partito e riacquisire credibilità tra la popolazione.

Proprio negli ultimi giorni lo stesso Xi Jinping ha supervisionato una serie di sessioni di "critica e autocritica" nello Hebei, la provincia che circonda Pechino, alla quale la CCTV ha riservato 24 minuti di filmati. Il 1 ottobre il South China Morning Post ha raccontato di iniziative simili a Chongqing, nello Yunnan e nello Hunan. Banchetti sontuosi, SUV superaccessoriati e progetti appariscenti sono tra i "peccati" che hanno macchiato l'integrità morale dei funzionari locali, dimentichi dei bisogni dei cittadini comuni.

Il 9 settembre l'agenzia di stampa Xinhua aveva pubblicato una lunga riflessione di Liu Yunshan, membro del Comitato permanente del Politburo, riguardo "la critica e l'autocritica" nella contemporaneità cinese. Si tratta di un discorso tenuto il 1 settembre in occasione dell'apertura della sessione autunnale 2013 della Scuola Centrale del Partito, di cui Liu è direttore. Definite il riflesso dell'epistemologia e della pratica marxista, "critica" e "autocritica" sono i principi fondamentali che regolano la vita politica all'interno dei partiti marxisti, afferma Liu. Su di loro bisogna puntellare la spinta verso la democrazia (intrapartitica, s'intende!), trovando il coraggio di additare gli errori altrui e sopratutto i propri. Sarà la capacità di "giudicare coscienziosamente" a riavvicinare il Partito alle masse. "Servire il popolo è lo scopo essenziale del Pcc, e un rapporto stretto con le masse è la fonte del suo potere".

"Siamo difronte a due questioni differenti, ovvero l'uso di autocritiche al di fuori del processo penale (ad esempio nell'ambito di un procedimento disciplinare di partito) e autocritiche che invece servono come confessioni in effettive accuse di carattere penale" mi ha spiegato Margaret Lewis della Seton Hall Law School, esperta di legge penale cinese e autrice di varie pubblicazioni a riguardo. "Personalmente mi sono occupata più spesso di queste ultime. Anche se non è scritto nel codice di procedura penale, la Cina ha avuto per lungo tempo una politica informale 'di clemenza per chi confessa, severità invece per chi fa resistenza'. E, alla luce dell'elevato numero di condanne, è comprensibile che i criminali sospettati provino almeno a diminuire le accuse a loro carico e a ottenere una sentenza più mite. Allo stesso tempo la spinta di questi ultimi anni è stata quella di ridurre le confessioni estorte, in gran parte per via di imbarazzanti errori giudiziari. Alcune di queste condanne errate hanno fatto molto discutere, come quella ai danni di Zhao Zuohai."

Gentilmente Margaret mi ha inviato un suo studio sull'argomento: Controlling abuse to mantain control







domenica 15 settembre 2013

Il Dragone e la prostituzione


(L'articolo verrà pubblicato sul numero di ottobre di Uno sguardo al femminile)

Dongguan, un nucleo urbano di 10milioni di abitanti sul delta del Fiume delle Perle, il polmone industriale cinese. Negli intenti della propaganda di regime, una probabile candidata a divenire la pittoresca culla di un coacervo di culture. Nell'immaginario collettivo Dongguan è "Sin City", la città che notte e giorno vende sesso per poche centinaia di yuan.

Come riporta il South China Morning Post, tra le 500mila e le 800mila persone -circa il 10% della popolazione migrante locale- sono in qualche modo implicate nel giro della prostituzione. 300mila esercitano il mestiere più antico del mondo in saloni di massaggi al bordo della strada, hotel esclusivi, centri benessere e karaoke.

E a poco e niente sono serviti i blitz della polizia. Dozzine di serrande abbassate e sigilli dell'Ufficio di pubblica sicurezza, là dove un tempo sostavano le ragazze di piacere, hanno semplicemente tolto dalla vista un lucroso business che ora prosegue -più cautamente- in locali sotterranei o al secondo piano di un KTV. Nulla hanno potuto orde di mogli inferocite contro la connivenza delle autorità. Se da una parte il Ministero della Pubblica sicurezza giura da tempo di voler "spazzare via il giallo" per debellare un mestiere che in Cina è illegale dall'inizio della gestione comunista, dall'altra, nei fatti, le parole si riducono a sporadici successi. La chiusura del sex market di Dongguan "New Generation" è niente più che una goccia in un oceano dove sguazzano funzionari di Partito e forze dell'ordine. Spesso saloni e night appartengono a figure di spicco nella gerarchia del potere, e non capita di rado che ai vertici si affittino interi piani di hotel per ospitare alcuni conclavi politici particolarmente delicati. L'intrattenimento femminile è di contorno.

Nonostante dal 1949 ad oggi il governo cinese abbia lanciato diverse campagne anti-prostituzione (l'ultima nel 2010), il fenomeno è ugualmente aumentato di anno in anno a partire dal 1982, come riporta una ricerca condotta da James Finckenauer e Min Liu della Rutgers University. Da Pechino hanno risposto con l'apertura di 183 centri di rieducazione e di detenzione, a partire dal 1987, al solo scopo di ospitare prostitute agli arresti e i loro clienti.

Sebbene sia piuttosto difficile reperire dati affidabili, si stima che i lavoratori del piacere in Cina siano tra i 3 e 10 milioni, di cui il 90% sarebbe portatore di malattie veneree. L'altra faccia delle riforme economiche anni '80 e dell'urbanizzazione che, in un trentennio, ha trascinato nelle città una fetta considerevole della popolazione rurale. Tutt'oggi spesso accade che le lavoratrici migranti non riescano, con mezzi legali, a guadagnare uno stipendio sufficiente a mantenere sé stesse e la propria famiglia. Ragione per la quale molte scelgono di vendere il loro corpo, fonte di introiti superiori a quanto racimolabile con un lavoro in fabbrica. Tant'è che ormai si tende ad associare la prostituzione alle carenze strutturali di cui soffre la società cinese, come povertà e disuguaglianze di genere. E non è un caso che, a meno di un anno dall'insediamento della nuova leadership, si torni a parlare con maggior insistenza di un modello basato su uno sviluppo più bilanciato e sostenibile, al fine di raddrizzare le storture che affliggono il Dragone.

"La corruzione diffusa tra le forze dell'ordine e i funzionari di governo è un grave problema e un ostacolo considerevole sulla strada per contenere ed eliminare la prostituzione", scrivono Finckenauer e Liu. A volte sono gli stessi poliziotti a fare la soffiata prima dell'inizio di un nuovo giro di vite, altre volte ricorrono a multe salate per riempirsi le tasche invece di arrestare i colpevoli. Come riporta un recente rapporto di Human Rights Watch, "le sanzioni monetarie contribuiscono a completare i costi operativi delle forze dell'ordine locali". Così, sebbene il Ministero della Pubblica Sicurezza abbia messo in guardia dall'applicazione di pene pecuniarie al posto delle manette, HRW rivela che la pratica è ancora largamente diffusa. Non solo. A farne le spese non sono quasi mai i pilastri portanti sui quali poggia l'industria della prostituzione, bensì le venditrici di sesso, prese in custodia, arrestate e spesso perseguite dalla legge senza un adeguato controllo giurisdizionale o un giusto processo. I periodi di detenzione nei centri educativi possono andare dai sei mesi ai due anni, anticamera dei campi di lavoro dove la permanenza può poi protrarsi fino a tre anni.

Questo sistema punitivo non fa che addossare le colpe interamente sulle donne, nella maggior parte dei casi finite sui marciapiedi non per scelta personale, ma spinte da fattori socio-economici. In passato erano le stesse autorità a costringere le prostitute a una pubblica umiliazione con "parate della vergogna"; una pratica messa al bando nel 2010 per placare l'indignazione popolari. Eppure, tutt'oggi, si tende a scaricare ogni responsabilità sulla controparte femminile, spesse volte per giustificare la brutalità delle forze dell'ordine e altre forme di violenza perpetrate ai danni delle prostitute. Non molto tempo fa ha fatto scalpore la storia di Ye Haiyan, attivista pro leglizzazione della prostituzione, sfrattata e lasciata sul ciglio di una strada dalla polizia per via delle sue numerose campagne contro gli abusi sessuali.

Che prostituzione faccia rima con corruzione lo confermano alcuni casi di cronaca recente, primo tra tutti quello che vede quattro giudici di Shanghai sospesi per la loro frequentazioni con donne di malaffare. Lo scorso novembre era stata la volta di Lei Zhengfu, funzionario di Chongqing filmato mentre faceva sesso a pagamento con una ragazza di diciotto anni assoldata da uno sviluppatore locale per imbastire un ricatto. A giugno Lei è stato condannato a 13 anni di carcere per corruzione. Entrambi i casi sono stati scoperchiati grazie a Weibo, il Twitter cinese.

Relazioni disdicevoli sono costate care anche al noto uomo d'affari e blogger Charles Xue, agli arresti dal mese scorso con l'accusa (ufficiale) di aver intrattenuto rapporti con prostitute. Assieme a lui sono state fermate altre 26 persone per lo stesso motivo.

Nel corso degli anni la lotta alla prostituzione ha rappresentato un caposaldo nel processo di legittimazione del Partito comunista guidato da Mao, dato che -secondo l'ideologia marxista- sono disperazione e spirito di sopravvivenza a spingere una donna a vendere il proprio corpo. Nei primi anni '60 le forme più visibili di prostituzione furono nascoste sotto il tappeto. Nel 1964 tutti i 29 istituti di ricerca sulle malattie veneree chiusero i battenti. Ma mentre le autorità festeggiavano la loro "vittoria di Pirro", la prostituzione "invisibile", quella che coinvolge i quadri e si regge sulla formula sesso in cambio di privilegi, diventava la caratteristica distintiva della Cina maoista, specie verso la fine della Rivoluzione Culturale.

All'inizio degli anni '90 la prostituzione è diventata una fattispecie giuridica a sé stante. Sotto le pressioni del Ministero della Sicurezza Pubblica e di All-China Women's Fondation, nel 1991 l'Assemblea nazionale del popolo ha passato una legislazione che amplia notevolmente la gamma e la portata dei controlli in materia, vietando severamente la vendita e l'acquisto di prestazioni sessuali, nonché minacciando dure sanzioni per chi è coinvolto nel traffico di donne e bambini.

Tra il 1989 e il 1990 si contavano 243,183 persone implicate nel giro della prostituzione. A seguito della campagna di pulizia lanciata dal governo nel 2000, l'economista Yang Fan riportò un calo dell'1% nel Prodotto interno lordo cinese, a causa del crollo della spesa da attribuirsi all'assottigliamento del portafoglio delle prostitute. Oggi l'industria del sesso pare rappresenti il 6% del Pil nazionale.

Secondo uno studio del 1997, il 46,8% degli universitari cinesi avrebbe ammesso di essere stato tentato di ricorrere al sesso a pagamento. Il motivo si dice sia da attribuirsi in parte al gap di genere causato da trent'anni di politica del figlio unico: tra un quindicennio 30 milioni di uomini potrebbero non riuscire a trovare una compagna.





lunedì 9 settembre 2013

Cina, allarme rosso?


"Il potere deve essere limitato da una gabbia di regolamenti", aveva sentenziato Xi Jinping lo scorso gennaio davanti alla Commissione centrale di ispezione e disciplina. Tra il dire e il fare, però, ci sono di mezzo centinaia di blogger arrestati, decine di attivisti incarcerati, e nuove restrizioni alla libertà di parola. Da ultima la notizia fresca di giornata che chi pubblica commenti diffamatori online potrà essere arrestato nel caso in cui i post incriminati siano stati visualizzati da oltre 5000 utenti o ripostati più di 500 volte (China Daily)

In Cina è allarme rosso. Il giro di vite messo in atto dalla nuova leadership, la cui transizione al potere si è conclusa soltanto nel mese di marzo, ha il sapore di una notte dai lunghi coltelli (ne avevo già parlato qui). Il potere al quale si riferiva il presidente cinese sembra essere tutt'altro che ingabbiato, anzi agisce a briglia sciolta travalicando anche i limiti dettati dalla Costituzione. Le speranze di quanti auspicavano una virata liberale del neosegretario generale sono state travolte da una serie di discorsi di Xi e direttive segrete interne al Partito, usciti allo scoperto sulla scia di una fuga di notizie sempre meno controllabile da parte di Zhongnanhai. I contenuti sono inquietanti; ultima in ordine di tempo una dichiarazione di guerra al web (link), tornata sotto i riflettori appena pochi giorni dopo la pubblicazione sul New York Times di nuovi dettagli circa il controverso Documento numero nove.

La situazione non è delle migliori. Non giova di certo la composizione fortemente conservatrice del Comitato permanete del Politburo, il sancta sanctorum del potere cinese. Eppure non mi sembra del tutto corretto attribuire a Xi Jinping la paternità della stretta sull'opinione pubblica cinese. Come se sulla quinta generazione di leader non pesasse una lunga tradizione di governo con il pungo di ferro. Sono passati soltanto sei mesi da quando Xi ha assunto l'incarico di presente della Repubblica popolare; forse è troppo presto per dare dei giudizi, negativi o positivi che siano. Prima di tutto perché, come si dice da tempo, sarà la riunione plenaria di novembre a chiarire il corso del nuovo governo. Non sembrano esserci in cantiere riforme politiche, almeno come le intendiamo dalle nostre parti, ma per la prima volta si è parlato in maniera insistente di una riforma della politica del figlio unico, dell'hukou e dei campi di lavoro (il sistema verrà presto sospeso, per tre tipi di reati politici, nelle province dello Yunnan e del Guangdong).

In secondo luogo, perché -come accennato sopra- alcune questioni ritenute allarmanti non sono certo una novità in Cina.

Guerra al web
Non ci dimentichiamo che i dati per lo scorso anno -quando a guidare il paese erano ancora Hu Jintao e Wen Jiabao- non sono stati migliori. Il sistema online di pubblica sicurezza della municipalità di Pechino ha proceduto all’eliminazione di 366mila informazioni sul web, punendo 7549 società di internet e mettendo in manette più di 5007 internauti sospettati di crimini, dal commercio illegale alla diffusione di rumors e attacchi alle autorità (dati di fine luglio 2012). All’inizio del “caso Bo Xilai” – arricchito di un’ipotesi golpe avanzata proprio dalla rete – le autorità avevano preferito mantenere il silenzio piuttosto che rispondere con chiarimenti o smentite. Nessuna spiegazione ufficiale, ma la necessità di mettere fine alle congetture di Internet, tra marzo e aprile, portò all'arresto di almeno 6 persone, alla chiusura di circa una quarantina di siti web, nonché alla rimozione di oltre 210 mila post.

Dissidenti
Liu Xiaobo, Yao Lifa, Ai Weiwei, Chen Guangcheng, Yang Hengjun sono solo alcuni dei nomi degli attivisti vittime del giro di vite messo in atto da Pechino negli ultimi anni. Nel marzo 2011 il sito web China Geeks individuava i nomi di 24 dissidenti tra blogger, scrittori e avvocati dei quali si erano perse le tracce. A sei settimane dalla "rivoluzione dei gelsomini", ondata di proteste su ispirazione della "primavera araba", ammontava già a 47 il totale delle voci di dissenso messe a tacere dal governo cinese; numeri destinati a salire a 140 entro il mese di giugno.

Documento numero 9
"Se avessi ricevuto un dollaro per ogni volta che ho letto una dichiarazione simile su un giornale americano nel corso degli ultimi trent'anni, adesso potrei comprarmi un nuovo smartphone". Così Gregory Kulacki, China project manager e senior analyst con alle spalle un ventennio di esperienza in Cina, commentava il report del NYT sul già citato Documento n.9; una nota dell'Ufficio generale del comitato centrale del Pcc rilasciata nel mese di aprile, "contenete una noiosa litania di frasi familiari per incoraggiare i quadri a proteggere l'integrità ideologica."
"Alcuni osservatori cinesi e stranieri sembrano interessati agli appelli populisti di alcuni leader, quali Bo Xilai (...) e scorgono nell'apparente assunzione da parte di Xi Jinping di una propaganda 'rossa' i segnali di una nuova Rivoluzione Culturale", scrive Gulacki, "Quando nel 1984 mi recai per la prima volta in Cina da laureato, la campagna di Deng Xiaoping contro "l'inquinamento spirituale" era appena all'inizio. Nell'autunno del 1989, quando ottenni il mio primo impiego in Cina, la lotta contro la 'liberalizzazione borghese' di Jiang Zemin era agli albori. Proprio come la recente nota (il Documento n.9, ndr), queste precedenti campagne ideologiche si scagliavano contro i valori occidentali (marxismo escluso, ovviamente) e mettevano in guardia dal fatto che forze straniere stavano cercando di cambiare la politica interna della Cina attraverso 'un'evoluzione pacifica'. D'altra parte, la 'società armoniosa' dell'ex Segretario del partito Hu Jintao sembra essere stato un mezzo meno stridente per sottolineare i medesimi concetti: l'importanza del Partito unico e i pericoli delle nozioni liberali di un governo diviso, di un giusto processo con contraddittorio e di una stampa indipendente. Mentre è possibile una rettifica politica da parte di Xi Jinping per mezzo del Documento numero 9, non sono tuttavia visibili i segnali di uno spostamento significativo a sinistra. Piuttosto sembra una manovra molto simile a quelle adottate dai predecessori dell'era post-Mao."

Costituzionalismo
In Cina, il 2013 è cominciato con un aperto dibattito sul costituzionalismo, inaugurato dall'ormai celebre editoriale del Yanhuang Chunqiu (per approfondimenti). Negli ultimi mesi, i media di stato hanno osteggiato questo concetto ritenendolo una minaccia per l'integrità politica e ideologica del Paese. Tuttavia un'eccellente ricerca condotta da China Media Project rivela come le maggiori critiche contro il costituzionalismo non derivino dalla stampa ufficiale quanto piuttosto dalla rete internet, con un'andamento crescente in seguito alla pubblicazione da parte del Partito di una lista di sette argomenti tabù da evitare (valori universali, libertà di parola, società civile, diritti civili, errori storici del Pcc, borghesia, indipendenza della magistratura).
"Personalmente ho assistito a molti cambiamenti politici dalla Rivoluzione Culturale, attraverso gli anni '80, fino ad oggi", scrive Qian Gang, direttore di CMP, "I miei ricordi delle passate campagne ideologiche del Pcc sono molto freschi, ma osservando la polemica sul costituzionalismo, partita a maggio, mi vengono parecchi dubbi. Non mi sembra un movimento preparato e organizzato con cura".
Qian fa poi notare come gli strali avvelenati contro costituzionalismo e valori occidentali siano partiti principalmente dalla versione "overseas" di People's Daily e da Red Flag, mentre -da maggio ad agosto- il People's Daily e Seeking Truth (che gestisce Red Flag) non si sono mai pronunciati a riguardo. A ciò si aggiunge un'ulteriore costatazione: gli scrittori che hanno sostenuto il costituzionalismo hanno firmato gli articolo con il loro vero nome. Si tratta di persone già note nel panorama culturale cinese per le loro posizioni particolarmente aperte. Quanto ai loro detrattori, sembrano invece essere caratterizzati da una scrittura irregolare e povera, piena zeppa di reminiscenze della Rivoluzione Culturale. "Trovo davvero difficile credere che questi possano far parte di una squadra messa a punto dal Partito per osteggiare la corrente reazionaria" chiosa Qian.

Xi Jinping un nuovo Mao?
"Fin dall'inzio del suo mandato in molte occasioni ufficiali ha diffuso un'immagine di frugalità, evitando lo sfarzo cerimonioso e rispolverando l'umiltà essenziale dello stile maoista." No, non stiamo parlando di Xi Jinping, ma bensì di Hu Jintao che Marina Miranda, in "La Cina dopo il 2012", accosta per principi ispiratori niente meno che alla Nuova Sinistra, il simbolo del conservatorismo cinese. Alle frange di estrema sinistra Hu avrebbe strizzato l'occhio più che altro per ragioni di realpolitik, scrive Miranda, dando un enorme impulso allo sviluppo del nazionalismo a partire dal 2002. Vi dice niente?
Ultimamente si parla di preoccupanti richiami di Xi Jinping alla retorica e alla terminologia maoista; lezioni di marxismo per i giornalisti cinesi e rinvigorimento della "linea di massa". Ma non dimentichiamo che nel 2003, durante il discorso di commemorazione dei 110 anni dalla morte del Grande Timoniere, Hu Jintao sottolineava - allineandosi al giudizio ufficiale del Partito- come gli errori commessi da Mao negli ultimi anni della sua vita fossero da considerarsi secondari rispetto ai suoi grandi meriti. Nel 2009, poi, in occasione delle celebrazioni per i sessant'anni della fondazione della Rpc, Hu non è comparso in abiti occidentali come gli altri otto membri del Comitato permanente del Politburo, ma bensì in'uniforme di foggia maoista.
E se alla stampa statale piace ritrarre Xi Jinping come "l'uomo del popolo", l'agenda politica di Hu Jintao si proponeva ugualmente di dare "impulso ad un nuovo programma caratterizzato sulla carta da una grande attenzione ai problemi sociali e ai molti squilibri causati dalla strabiliante, ma selvaggia, crescita economica degli ultimi anni".

Chinaleaks
Un'ultima considerazione. Fin dai primi mesi del 2013 le aspettative riformiste riposte in Xi Jinping erano franate con la diffusione di un discorso pronunciato durante il viaggio al Sud. In quell'occasione il (non ancora) presidente aveva rammentato gli errori commessi dall'Unione Sovietica, collassata a causa del lassismo ideologico del riformista Mikhail Gorbaciov. Concetto poi ripreso ai primi di maggio in un discorso in cui ha predetto la morte del Partito comunista cinese qualora venga rinnegata la figura di Mao, così come la condanna di Stalin è costata cara all'URSS, riportava il Guangming Daily. Allo stesso modo l'invettiva caustica scagliata contro i rumors è apparsa in tutta la sua crudezza soltanto di recente, sebbene il 19 agosto la Xinhua avesse già riportato l'incontro tra Xi e i funzionari della propaganda sorvolando sul linguaggio bellicista adottato dal presidente.
Sembra, insomma, che il lato più conservatore dell'uomo forte di Pechino sia emerso più che altro per vie traverse, attraverso fonti anonime -arresti degli attivisti a parte. La facilità con la quale stanno affiorando sempre nuovi leaks rompe con una tradizione che vuole il Partito ammantato nel più totale riserbo. Potrebbe, forse, avere senso chiedersi quante direttive minacciose non sono riuscite a venire a galla sotto le precedenti amministrazioni.









martedì 3 settembre 2013

Il Chinese Dream, la Cina e il resto del mondo

Un libro per spiegare il "sogno cinese". La Cina ci riprova. Presentato lo scorso 30 agosto in occasione della Ventesima fiera internazionale del libro di Pechino, "The Chinese Dream. What It Means for China and the Rest of the World" racconta le storie di cinesi e stranieri residenti nella Repubblica popolare, e di come questi perseguano il proprio sogno cinese. Non è un caso, dunque, che il testo sia stato pubblicato dalla New World Press in cinese e inglese. Tanto che prossimamente potrebbe vedere la luce anche in giapponese e coreano.

Come rimarcato alla cerimonia del lancio da Zhou Mingwei, presidente di China International Publishing Group, la narrazione si snoda in maniera tale da facilitare la comprensione da parte del lettore d'oltreconfine di quali siano state, siano e saranno le sfide del popolo cinese nel perseguimento del proprio sogno: "Questi casi vividi possono aiutare la comunità internazionale a capire la Cina in modo da migliorare la cooperazione tra la Repubblica popolare e il mondo, cancellando i dubbi e le incomprensioni verso il nostro Paese, oggi in una fase di rapido sviluppo". Le parole di Zhou ricalcano quanto affermato di recente dal presidente Xi Jinping, vero padre del sogno cinese: "Una missione importante nel nostro lavoro di pubblicità consiste nel guidare le persone verso una visione della Cina contemporanea e del mondo che sia completa e oggettiva".

Cos'è il Chinese Dream? In cosa si distingue dal sogno americano? Quali sono le difficoltà lungo il cammino e quanto lontano dovranno spingersi i cinesi per realizzare il loro sogno? Queste alcune delle domande alle quali l'opera si impegna di rispondere; ultima fatica in coda ad analoghi tentativi affinché lo slogan, marchio di fabbrica della nuova leadership, si riempia di significato. "Il sogno cinese non consiste nel popolo cinese che sogna di restare a porte chiuse, ma è un sogno di apertura. E' il sogno che la Cina possa collaborare con il mondo e raggiungere una situazione win-win. Tale sogno andrà a beneficio della Cina e del mondo" scrive nella prefazione del libro Cai Mingzhao, direttore dello State Council Information Office (SCIO). Che vale a dire: chi ha paura dei cinesi lo legga!

(Leggi anche Sogno cinese VS sogno americano in sette puntiChinese dream VS American dream)

domenica 1 settembre 2013

"Tigri" in gabbia


(Aggiornamento del 4 settembre: Fonti della Reuters smentiscono il fatto che Zhou Yongkang sia sotto inchiesta; piuttosto pare stia aiutando gli inquirenti in un caso di corruzione, forse quello relativo a Jiang Jiemin, ex presidente di CNPC. Reuters però non esclude nemmeno che in futuro il cerchio intorno a Zhou si possa stringere ulteriormente. Pare infatti che all'inizio dell'anno, con una mossa epocale, il Pcc abbia "demolito una regola non scritta, in vigore da decenni, la quale rende un membro del Comitato permanete del Politburo -in carica o in pensione- immune da indagini per reati economici".)

Aggiornamento del 3 settembre: il Financial Times è il primo giornale -stampa di Hong Kong esclusa- a confermare l'inchiesta su Zhou Yongkang. Fonti vicine al figlio Zhou Bin lo danno già agli arresti domiciliari, ma non escludono possa scampare un'incriminazione)

(Aggiornamento del 2 settembre: secondo il Mingjing, Zhou Yongkang sarebbe agli arresti domiciliari)

Potrebbero essere poco più che speculazioni, ma se si dovessero rivelare esatte, le indiscrezioni di questi giorni collocano l'ultima preda della caccia ai funzionari corrotti tra i più alti scranni del Partito comunista cinese. Zhou Yongkang, ex zar della sicurezza, e fino al rimpasto politico dello scorso autunno numero nove del Pcc, potrebbe avere i giorni contati. Secondo quanto riportato venerdì dal South China Morning Post, la leadership cinese avrebbe deciso di avviare un'inchieste per corruzione a carico di Zhou durante il rituale meeting estivo nella località marittima di Beidaihe. Se le fonti del Post hanno detto il vero, si tratterebbe del primo membro del Comitato permanente del Politburo -sebbene in pensione- ad essere indagato per corruzione dai tempi della Rivoluzione Culturale. La più maestosa delle "tigri", termine con il quale il neo presidente cinese Xi Jinping ha identificato le mele marce che si annidano al vertice della gerarchia del potere.

Nell'organigramma di Partito Zhou, infatti, si trova al di sopra di Bo Xilai, il deposto segretario di Chongqing processato nei giorni scorsi per corruzione, appropriazione indebita e abuso di potere, del quale viene considerato mentore e padrino politico. Raggiunto il Comitato permanete del Politburo nel 2007, mentre era a capo della Commissione per gli Affari politici e legali, grazie al doppio incarico ha finito per gestire un budget destinato alla sicurezza nazionale di 110 miliardi di dollari annui -più del bilancio per la difesa. La sua carriera, che ha coperto un periodo contraddistinto da malumori e "incidenti di massa", si è chiusa con una macchia indelebile: il caso del dissidente cieco Chen Guangcheng, fuggito dagli arresti domiciliari lo scorso anno, pare aver dato sufficienti motivi all'allora presidente Hu Jintao per rafforzare la supervisione sulle forze di polizia e i servizi di sicurezza nazionale. Tanto che la sua carica è stata "declassata" ed ereditata da un "semplice" membro del Politburo (Meng Jianzhu), andando a rompere una tradizione che voleva il direttore della Commissione per gli Affari politici e legali nella rosa del Comitato permanete.

L'inchiesta su Zhou, approvata, sembra, dal vecchio leader Jiang Zemin, che avrebbe così voltato le spalle ad uno dei suoi protetti -come già avvenuto anni or sono con il capo del Partito di Shanghai, Chen Liangyu- si concentrerà sugli anni trascorsi nella provincia del Sichuan, dove Zhou fu segretario tra il 1999 e il 2002. Ma scandaglierà anche a fondo il suo ruolo a capo della China National Petroleum Corporation (CNPC), colosso petrolifero finito nel mirino degli ispettori di Pechino, in una campagna senza precedenti volta a fare ordine e pulizia nei grandi conglomerati di Stato.

Non è dato di sapere se il caso finirà in tribunale o verrà gestito più discretamente all'interno del Partito, sta di fatto che l'affondo all'ex duro degli apparati di sicurezza è stato anticipato da una serie di arresti che hanno visto cadere molti dei suoi alleati (Guo Yongxiang e Li Chungcheng, rispettivamente ex vicegovernatore ed ex vicesegretario del Sichuan), mentre quattro alti dirigenti della CNPC sono tutt'oggi sotto indagine. Di oggi invece la notizia di un'inchiesta che vedrebbe accusato di "gravi violazione della disciplina" (tradotto dal linguaggio di Partito: corruzione) Jiang Jiemin, da marzo direttore della State-owned Assets Supervision and Administration Commission (SASAC), la Commissione speciale responsabile della gestione delle imprese statali cinesi che risponde del proprio operato direttamente al Consiglio di Stato. "Follow the oil" è il caso di dire. Si perché Jiang è giunto al suo nuovo incarico dopo sette anni come presidente di CNPC, e neanche dirlo viene rubricato tra i protégé di Zhou Yongkang, per via della loro pluriennale carriera nell'industria del petrolio.

Non solo. Come ricorda il South China Morning Post, il nome di Jiang era apparso anche in relazione al controverso incidente della Ferrari nera, schiantatasi contro un muro dopo una corsa forsennata sul quarto anello di Pechino. Era il 18 marzo 2012. A bordo due ragazze e il figlio di Ling Jihua, braccio destro dell'allora presidente Hu Jintao, il cui corpo privo di vita è stato rinvenuto sul posto mezzo nudo. Stando ad alcune origliature, Jiang Jiemin avrebbe cercato di aiutare Ling Jihua -al tempo capo del potente Ufficio generale del comitato centrale del Partito- ad insabbiare il caso risarcendo le famiglie delle due ragazze rimaste ferite con ingenti somme di denaro trasferite proprio dalla CNPC.

Zhou Yongkang, Bo Xilai, Jiang Jiemin: vittime illustri della campagna anti-corruzione alla quale Xi Jinping ha votato il suo primo (quasi) anno di mandato, in uno sforzo volto ad edulcorare gli umori popolari, recita la retorica di Partito. Ma la natura eminentemente politica dell'epurazione di Bo Xilai, un maverick appoggiato dalle frange "neomaoiste", sembra premere per uscire allo scoperto con più veemenza di quanto non abbia fatto finora. Così, mentre i media statali celebravano l'assoluta e inusuale trasparenza adottata per il processo di Bo (in onda in tempo reale su Weibo), stralci della sua energica difesa, rimbalzati sul New York Times, raccontavano qualcosa di ben diverso. Un no secco alle accuse politiche di quanti lo avrebbero additato come un "Putin cinese", accendendo i riflettori sulle crescenti spaccature interne che rischiano di incrinare la natura monolitica del Pcc. E un siluro diretto proprio a Zhou Yongkang che -secondo Bo- avrebbe avuto un ruolo fondamentale nella gestione della defezione del superpoliziotto Wang Lijun, rintanatosi all'inizio dello scorso anno nel consolato Usa di Chengdu dando così il via al "Chongqing drama" (link). Tutti dettagli scrupolosamente eliminati goffamente dalla versione finale data in pasto all'opinione pubblica, ma misteriosamente scivolati via dalle maglie della censura, in un periodo in cui la fuga di notizie sui retroscena di Zhongnanhai rinvigorisce i sospetti di una divisione tra le varie anime del Partito.

Per guardare oltre le semplici accuse di reati economici mosse a Bo Xilai e Zhou Yongkang basti ricordare che sui due pesano i sospetti di un tentato golpe, rilanciati su Weibo nella primavera del 2012, ma rimasti a livello di rumors. Tra gli elementi certi invece c'è che Zhou è sempre stato uno dei più strenui oppositori alle riforme economiche proposte dall'ex Premier Wen Jiabao nell'ultimo periodo del suo mandato. A lui fanno capo tutti quei funzionari che rigettano una riduzione del potere delle imprese statali e si oppongono all'ingresso di capitali privati nel sistema finanziario cinese. Le banche e le aziende governative, che dovrebbero essere il cuore della ristrutturazione economica del paese, sono, infatti, in mano alle famiglie più influenti della politica cinese, poco inclini a rinunciare ai propri privilegi. Alla vigilia del rimpasto al vertice si diceva che il venir meno del ruolo ricoperto da Zhou avrebbe potuto significare una svolta radicale della nuova leadership contro le forze ostili al mercato tra le file del Pcc. Probabilmente il Plenum del prossimo novembre farà chiarezza sui molti punti oscuri, oltre a tracciare l'agenda economica per il prossimo decennio.

"Con la conclusione del processo a Bo i leader ritengono di dover andare avanti e affrontare altre questioni importanti" ha commentato al South China Morning Post Deng Yuwen, ex vicedirettore di Study Times, pubblicazione della Scuola centrale del Partito. Ma posticipare la sessione plenaria, di solito fissata per ottobre, potrebbe indicare che ai vertici non è stato ancora raggiunto un accordo sui punti chiave.




Hukou e controllo sociale

Quando nel 2012 mi trasferii a Pechino per lavoro, il più apprezzabile tra i tanti privilegi di expat non era quello di avere l’ufficio ad...