martedì 29 maggio 2012

Nuove restrizioni per il Twitter cinese



(Pubblicato su Dazebao)

Una “censura a punti”, ecco come Sina Weibo, leader cinese nei servizi di microblogging, tenta di mettere a tacere la giungla di rumors e commenti ritenuti offensivi, che affolla il web d’oltre Muraglia.

La nuova strategia del Twitter “in salsa di soia” funziona cosi’: ognuno dei 300 milioni di blogger registrati sulla piattaforma online verra’ provvisto di un “contratto utente” in grado di fornire un credito iniziale di 80 punti. Ad ogni post ritenuto sgradito fara’ seguito la detrazione di un tot di punti, in una proporzione non ancora resa nota nei dettagli (aggiornamenti). Quando il punteggio sarà pari a zero l'account dell' indisciplinto utente verrà cancellato, previo avvertimento raggiunta quota 60. Ma i più diligenti verranno premiati. Se ci si comporta bene per due mesi consecutivi si potrà tornare a 80. E' inoltre possibile accumulare crediti fino a 100 punti collegando l'account al proprio numero di cellulare, 90 inserendo i dati della propria carta di credito.

L'obiettivo è quello di venire incontro ai termini governativi per la censura, particolarmente severa negli ultimi mesi marcati da una serie di scandali politici di risonanza globale. Il nuovo sistema è stato così affiancato da un codice comportamentale in base al quale i netizen dovranno tenersi alla larga da una serie di tematiche particolarmente calde. Finiranno sotto la cesoia di Pechino le critiche alla Costituzione, commenti che mettono a repentaglio l'unità nazionale, rumors e tutto ciò che rientra nella fumosa categoria dei segreti di Stato.

Misure cautelari per azzittire pettegolezzi e voci di corridoio in un periodo particolarmente a rischio. Mentre si accorcia l'attesa per il diciottesimo Congresso del Partito -l'appuntamento più importante nell'agenda del Dragone durante il quale avverrà il ricambio ai vertici della macchina politica cinese- Pechino stringe la morsa su internet.
Negli ultimi mesi le autorità hanno introdotto una serie di regolamenti con lo scopo di tenere a bada il popolo di Weibo, appliccando controlli più massicci. Ed è così che dallo scorso dicembre gli utenti del servizio di microblogging sono stati costretti ad effettuare la registrazione con il loro vero nome, secondo quanto ordinato dalla municipalità di Pechino.

Dal 1998 un accurato sistema di cyber-censura, soprannominato la “Grande Muraglia di fuoco”, provvede a filtrare le parole, bloccando quelle sgradite al governo cinese. Nulla di insormontabile. Il bavaglio imposto dalle autorità è facilmente aggirabile attraverso l'uso di vpn e proxy, mentre il popolo del web ha saputo dare sfogo a tutta la propria creatività coniando parole in codice per smarcarsi dai divieti. Una pratica alla quale il nuovo sistema ideato da Sina vuole mettere fine. Anche l'utilizzo di giochi di assonanze e omofonie (frequentemente un carattere tabù può essere sostituito da un altro avente significato differente ma stessa pronuncia) verranno puniti con una riduzione dei punti.

Tra gli ultimi “incliccabili” l'ex segretario di Chongqing Bo Xilai, rimosso da tutti i suoi incarichi per il coinvolgimento in uno scandalo dalle molte sfaccettature, e Chen Guangcheng, il dissidente sfuggito dagli arresti domiciliari e riparatosi presso l'ambasciata americana a Pechino lo scorso aprile. Commenti e illazioni riguardanti i “due Voldemort” di cui il Partito non vuol sentir parlare  finiscono inevitabilmente nelle maglie della censura.

Il giro di vite sul web rispecchia il nervosismo crescente che serpeggia tra i palazzi del potere, mentre l'avanzata di internet e dei social network sino ad oggi ha offerto ai cittadini una rara opportunità per poter dare voce ai propri pensieri. Più che motivata la costernazione con la quale è stata accolta l'ultima trovata dell'operatore cinese.

“Le nuove norme danno a Sina il potere di bannare qualsiasi notizia ritenuta sensibile” ha commentato un anonimo utente. “La definizione di cosa sia effettivamente 'sensibile' è sempre stata molto vaga e lo sta divenendo sempre di più. Naturalmente oggi la preoccupazione è maggiore date le voci scatenate dall'ultimo scandalo politico, a pochi mesi dal diciottesimo Congresso.”
“Le nuove regole saranno effettive dal 28 maggio. Pertanto dovrò pubblicare le mie opinoni riguardo alla sovranità statale, all'integrità territoriale e ai vari problemi sociali prima di questa data. In futuro mi limiterò a scrivere di cose personali” è quanto si legge in un altro post.

E così, imbavagliate le “chiacchiere” scomode, la compagnia che ha dato vita a Weibo spera di sfuggire alle ire di Pechino. Il fallimentare tentativo di controllare 324 milioni di utenti attraverso il sistema della registrazione obbligatoria, lo scorso mese, aveva spinto le autorità a bloccare il servizio di Sina per tre giorni. Un fuoco di paglia, secondo David Bandursky, curatore di China Media Project; i rischi per il Twitter cinese rimangono limitati.
Se è vero che i microblog sono lo specchio degli umori del popolo è chiaro quanto a Pechino possa tornar comodo darci ogni tanto un'occhiata.

lunedì 28 maggio 2012

Auto-immolazioni contro Pechino anche a Lhasa



La lunga lista di auto-immolazioni tibetane si arricchisce di due nomi: Tobgye Tseten originario della provincia cinese del Gansu e Dargye, residente nella contea di Aba, regione del Sichuan, domenica scorsa si sono dati fuoco davanti al tempio Jokhang, nota meta di pellegrinaggio della città di Lhasa. Tobgye Dargye, l'unico dei due ad essere sopravvissuto, si trova in ospedale e le sue condizioni sarebbero stabili, secondo quanto riportato dall'agenzia di stampa cinese Xinhua.

La polizia locale è intervenuta tempestivamente spegnendo le fiamme in pochi minuti.
"Hanno usato un tubo dei pompieri per spegnere il fuoco" ha raccontato a Radio Free Asia un testimone oculare, il quale ha specificato che è stato vietato a chiunque l'accesso all'area. "Chi ha tentato di raggiungere il luogo è stato arrestato e portato via, mentre le autorità hanno proceduto alla confisca dei cellulari di tutti coloro si trovavano nei pressi" ha raccontato l'uomo.
Tseten e Dargye, due monaci di età compresa tra i 19 e i 22 anni -come affermato da una fonte anonima- si sarebbero trovati in piazza Barkhor insieme ad altri confratelli per protestare contro il dominio esercitato dal governo cinese sulla regione autonoma del Tibet.
Persone del posto hanno fatto sapere che al momento la città è sotto la stretta sorveglianza della polizia e di forze paramilitari, di vedetta nelle zone turistiche e nei dintorni del palazzo del Potala.

La politica draconiana imposta da Pechino sulla regione ha ispirato molti altri gesti estremi: 37 il totale accertato delle auto-combustioni dal marzo del 2009, 17 i decessi. Quello di domenica è stato il secondo episodio del genere nella "terra dei lama", il primo nella città di Lhasa, mentre la maggior parte delle proteste è avvenuta tra Gansu, Qinghai e Sichuan, provincie cinesi ad alta concentrazione di tibetani. Lo scorso mese un incidente simile è avvenuto a Nuova Delhi dove un uomo si è dato alle fiamme per manifestare contro la visita del presidente Hu Jintao, giunto nella capitale indiana per prendere parte al summit dei BRICS.

Le rimostranze di Tseten e Dargye si sono verificate in concomitanza con la celebrazione del Saka Dawa, mese in cui si tengono i festeggiamenti per la nascita, l'illuminazione e la morte del Buddha. Un periodo di buon auspicio per i tibetani, ma particolarmente a rischio tanto da aver indotto le autorità cinesi ad emettere severe direttive per vietare agli impiegati statali e agli studenti di prendere parte alle attività religiose per l'intero mese.

L'ultimo anno ha visto una netta intensificazione delle manifestazioni anti-cinese, fomentate da episodi di discriminazione e violazioni dei diritti da parte dei funzionari di Pechino ai danni dell'etnia tibetana, da anni in protesta per il riconoscimento di maggiori libertà e per il ritorno del Dalai Lama, in esilio a Dharamsala dal '59.
Sua Santità ha accusato il governo cinese di aver affrontato il problema delle auto-immolazioni attraverso politiche "totalitarie" e "irrealistiche", mentre, da parte sua, Pechino ha bollato i martiri tibetani come terroristi, criminali, emarginati e malati di mente, aizzati a commettere folli gesti dalla loro guida spirituale.

Nel tentativo di tenere sotto controllo i "ribelli", le autorità cinesi hanno messo in atto uno stretto giro di vite che ha condotto alla detenzione di centinaia di monaci; scrittori, artisti e molti tra coloro si sono battuti per l'affermazione dell'identità nazionale tibetana sono finiti dietro le sbarre.



(Leggi anche Tibet. Riti funebri per il Nuova Anno10 marzo 1959,
Capodanno di sangue nel Sichuan)


domenica 27 maggio 2012

"La fabbrica del consenso" cinese: quando la propaganda diventa Pr




In poco piu’ di trent’anni la Cina si e’ scrollata di dosso l’epiteto di “Paese del terzo mondo” e, scalzato il Giappone, ha raggiunto il secondo posto in classifica tra le potenze economiche tallonando da vicino gli Stati Uniti primi della classe. “Deus ex machina” indiscusso di questa prodigiosa scalata, il Partito comunista cinese che, a partire dalla fine dell’era maoista, ha dato inizio ad un processo di restayling volto a ridipingere la propria immagine, dismettendo la divisa rivoluzionaria per vestire i panni del “partito di governo”(sistema mono-partitico permettendo). Ha reagito agilmente alle disastrose politiche anni '50-'60 intraprendendo con successo un processo di riadattamento e modernizzazione là dove altri regimi comunisti si sono scontrati contro irreparabili fallimenti e le blasonate democrazie hanno pericolosamente vacillato.

Il segreto del suo successo risiede in una formula vincente nella quale l’ apologetica di regime si miscela con una buona dose di vis persuasoria. Quella che comunemente viene chiamata propaganda  nel Regno di Mezzo si è evoluta nell'arco di quarant'anni da mera esaltazione del Partito a più accurata e sottile manipolazione degli organi d'informazione.

Il Dipartimento Centrale di Propaganda rappresenta da sempre lo zoccolo duro della macchinosa burocrazia cinese. Da principio caratterizzato da forti influssi sovietici e goebbeliani, verso la metà degli anni '80, ha comincia a guardare con maggior interesse al modello americano delle pubbliche relazioni. In particolar modo, il collasso dell'Unione Sovietica (della quale la politica di Pechino è stato per lungo tempo debitrice) e le proteste di piazza Tian'anmen inducono la leadership cinese a rimettere in discussione la propria strategia di perseguimento della longevità. La panacea per i mali del gigante asiatico -negli anni del trionfo del soft power a stelle e strisce- sembra per ovvie ragioni essere custodita sull'altra sponda del Pacifico.

I concetti di “pubblico”e “pubblicità” subscono fortemente l'influenza dei padri della Rivoluzione americana dall'idea di una democrazia basata sul “continuo scambio di idee tra un pubblico istruito e informato”di Jefferson al muck-raking,termine coniato da Roosevelt per indicare il giornalismo d'inchiesta.
Poi dagli anni '20 le pubbliche relazioni diventano uno strumento utilizzato dal governo statunitense per respingere gli attacchi della stampa sfoggiando un'immagine di sé imbellettata a dovere; la così detta “fabbrica del consenso”che tanto piace a Pechino. Ma la moderna propaganda del regime cinese è per lo più debitrice verso  Walter Lippmann e la sua teoria del modellare l'opinone pubblica attraverso i mass media.

Al tempo di Mao, l'ideologia marxista-leninista marchiava le tecniche di propaganda esplicandosi in un “controllo del pensiero” realizzato attraverso campagne di emulazione d'ispirazione anti-borghese, autocritiche, denunce e mobilitazioni di massa.
I tragici eventi del 1989 hanno indotto i piani alti della politica cinese a sostituire l'obsoleto e scomodo termine “propaganda”con una serie di surrogati più alla moda;“pubblicità” e “pubbliche relazioni”negli anni '90 cominciarono ad essere preferebili.

Il tentativo di makeup del Dragone coinvolge anche la politica estera. Una ricerca dal titolo “National Image Building and Chinese Foreign Policy”, pubblicata nel 2003 da Hongying Wang, professore di scienze politiche presso l'Università di Waterloo, mostra come il gigante asiatico abbia rimpiazziato l'immagine di “leader rivoluzionario” di cui si fregiava ai tempi del Grande Timoniere, con quella di “cooperatore internazionale e grande potenza”plasmata da Deng Xioping, padre delle riforme e della politica di apertura anni '80.


Il XXI secolo, nel bene e nel male, viene ritenuto unanimamente il secolo del Dragone e, mentre la lente d'ingrandimento globale scruta minuziosamente tutto ciò che accade al di là della Grande Muraglia, i falchi del Partito hanno imparato a sorridere alle telecamere: l'ex segretario generale Jiang Zemin, Zhu Rongji premier dal 1998 al 2003, e gli attuali presidente e primo ministro Hu Jintao e Wen Jiabao sono stati tutti indottrinati su come trattare con i media. Per non parlare di Bo Xilai, l'ex-capo del partito di Chongqing, rimosso di recente da tutti i suoi incarichi e al centro di uno scandalo che sta facendo tremare il Partito. Fotogenico e sempre impeccabile, Bo ha messo in piedi una delle più colossali impalcature propagandistiche dalle “tinte rosso forti”: coinvolgimento dei cittadini attraverso canzoni rivoluzionarie e sms con citazioni del libretto rosso, pulizia dei palinsesti televisivi e il divieto di trasmettere messaggi pubblicitari imposto alla rete satellitare della municipalità. Una linea populista collegata alla “Nuova Sinistra” che non è mai andata giù alla coppia Hu-Wen tanto che qualcuno la ritiene complice del suo tracollo. Solo pochi giorni dopo il siluramento dell'ex capo di Chongqing, gli spot pubblicitari hanno fatto nuovamente la loro comparsa sul piccolo shermo.

Il fallimento della tattica basata sul “controllo del pensiero”- in aggiunta al ricco corollario di pratiche maoiste sopra citate- ha portato la classe dirigente cinese a virare verso una nuova filosofia a “basso costo”che consiste principalmente nel puntare il dito contro “le forze esterne”, scaricando la colpa di parte dei propri insuccessi sulle potenze straniere.
Questa modalità nazionalista ha raggiunto punti apicali in concomitanza con il Grande Balzo in Avanti, la strage di Tian'anmen e l'imbarazzante inconveniente che ha stoppato la corsa della torcia olimpica a Parigi nel 2008. La colpa è oltremare, hanno fatto sapere da Pechino, mentre sempre più spesso il governo cinese agita il fantasma del complottismo “made in Occidente”. Comodo quando le cose si mettono male, come nel “caso Chen Guangcheng”, il dissidente che con la sua fuga presso l'ambasciata americana a Pechino ha messo a repentaglio le relazioni tra l'Aquila e il Dragone. Secondo le autorità cinesi l'attivista non è altro che una pedina nelle mani degli Usa con il pllino per i diritti umani.
Il modus operandi adottato da Pechino per dirimire la spinosa questione e la scarsa diplomazia dimostrata dai media statali (le sparate del Global Times contro Washington hanno fatto da sottofondo a tutta la vicenda), secondo molti, hanno assestato un duro colpo al soft-power cinese.

Domare l'informazione e il consenso
“Ogni mezzo immaginabile che trasmette informazioni al popolo cinese ricade sotto la competenza del Dipartimento Centrale di Propaganda”scrive Shambaugh, senior fellow al Center for Northeast Asian Policy Studies (CNAPS), in China's Propaganda System: Institutions, Processes and Efficacy. Il CCPPD rimane ancora uno dei dipartimenti governativi meglio finanziati e più influenti dell'ex Impero Celeste ed “è uno strumento proattivo volto a educare e dare forma alla società”. Sebbene il ruolo e i metodi della propaganda ufficiale siano mutati, il Ministero della Verità -come è stato ribattezzato dal web- continua a rappresentare il cuore del sistema, effettuando un controllo a tappeto su ciò che può essere detto e quando può’ essere detto. L'“applicazione selettiva” e “l'autocensura”sono le due modalità attraverso le quali opera l'occhio di Pechino il quale, tuttavia, lascia un certo margine di libertà alla circolazione di critiche e notizie negative prima di calare la scure, come dimostra la censura a singhiozzo degli ultimi mesi targati Bo Xilai.

L'esempio più lampante viene fornito dall'incidente ferroviario di Wenzhou, avvenuto nel luglio 2011 lungo la linea superveloce di recente inaugurazione (avviata con un anno di anticipo sulla tabella di marcia). In seguito a tale episodio l'opinione pubblica si scagliò contro la corruzione dei funzionari e il disprezzo dimostrato dal governo nei confronti della vita dei cittadini rimasti vittime di una modernizzazione incontrollata.
Dopo alcuni giorni di tolleranza, da Zhongnanhai- roccaforte del Pcc- partì l'ordine rivolto a tutti i giornalisti di fare una cernita delle notizie riportando soltanto quelle in grado di mettere in mostra gli aspetti positivi della vicenda.
Secondo le fonti ufficiali ammontarono a 40 i morti e circa 200 i feriti, ma per l’amministrazione Hu-Wen il costo della sciagura e’ stato molto piu’alto. La linea ad alta velocita’, concepita come il fiore all’occhiello del “socialismo con caratteristiche cinesi” si e’ rivelato una rosa piena di spine, mettendo in vetrina tutte le pecche dell’attuale governo cinese a partire dalla corruzione endemica che serpeggia tra i funzionari del Partito. Il ministero delle Ferrovie e’ finito nell’occhio del ciclone, mentre il giro di vite messo in atto dalla leadership non ha concesso sconti distribuendo licenziamenti e sospensioni a tutti i funzionari implicati.

Dopo i primi giorni di semaforo verde, le maglie della censura hanno cominciato a stringersi: il Dipartimento centrale di propaganda ha richiamato agli ordini i giornalisti dando disposizioni su come trattare la notizia. Le direttive obbligavano a rilasciare esclusivamente il bilancio delle vittime secondo la vulgata del Pcc; a dare enfasi ai risvolti piu’ toccanti della vicenda (donazioni di sangue, servizi di taxi gratuiti ecc..);a non indagare sulle cause che hanno portato all’incidente, limitandosi a utilizzare le informazioni fornite dalle autorita’e a evitare commenti e riflessioni. Il tutto all’insegna del principio “di fronte alle tragedie c’e’grande amore”, come insegnano le lacrime versate da “nonno Wen” ad uso e consumo delle telecamere davanti agli sfollati della nevicata record nel sud della Cina del 2008 cosi’ come in molte altre occasioni. Il Partito e’ vicino alle masse anche nelle disgrazie, ma “non fate domande, non indagate, non commentate”.

La strategia rientra a pieno nel motto “incanalare l’opinione pubblica” inaugurato da Hu Jintao nel 2008 quando, abbandonata la strategia della “repressione ad ogni costo” dopo il disastro mediatico delle rivolte tibetane, ordino’ all’ufficio di Propaganda di risparmiare le notizie seppur negative, a patto di renderle vantaggiose per il Partito (link). Un principio che e’stato messo a punto e ripreso sulla rete di internet con l’introduzione dell’esercito dei 50 centesimi, la truppa di internauti prezzolati incaricati di pubblicare commenti favorevoli al governo in cambio appunto di 50 cent a post.

La longa manus del Ministero della Verita’
Il principale organo d’informazione a cui fa riferimento il CCPPD e’ l’agenzia di stampa statale Xinhua, la cui duplice funzione consiste da una parte nel riportare notizie e divulgare messaggi propagandistici tra il pubblico, dall'altra nell’occuparsi della pubblicazione di informazioni non censurate da far circolare attraverso canali interni tra i quadri del Partito, cosi’ da tenere sempre aggiornati i funzionari su quello che accade entro i confini del Paese.

Il dilemma su come “fabbricare il consenso” ha causato una spaccatura tra gli uomini di Pechino, venuta a galla in seguito alla lettera inoltrata nell'ottobre del 2010 da alcuni veterani del Partito al Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo. Gli illustri firmatari -tra i quali compaiono l’ex segretario di Mao, Li Rui, l’ex direttore del Quotidiano del Popolo, Hu Jiwei e l’ex direttore dell’Amministrazione generale della stampa e dell’editoria, Du Daozheng- mettevano in guardia dalle disastrose ripercussioni politiche e sociali che sarebbero scaturite da una governance restrittiva nei confronti della liberta’di parola.
Il messaggio, seppur rimbalzato contro il muro di gomma della realpolitik cinese, rappresenta comunque un primo campanello d’allarme: una frangia del Partito, consapevole dei limiti dimostrati dalla politica del pugno di ferro, protende verso una maggior apertura.

A fianco alla Xinhua, la televisione di stato CCTV costituisce l’altro braccio armato del Dipartimento della Propaganda, saldamente controllata dal regime e chiusa agli investimenti esteri.
Lo scorso ottobre la sessione plenaria del comitato centrale del Partito ha dato il via alla “wenhua tizhi gaige”, la riforma del sistema culturale che ha stabilito nuovi e più rigidi regolamenti sui palinsesti televisivi con lo scopo di ricondurre la cultura sulla retta via dei dogmi socialisti. Cosi’ una disposizione della Sarft (State administration for radio, film and television), organismo di controllo su televisione, radio e cinema, ha stabilito l’abolizione di spot pubblicitari dalle commedie a puntate della durata di massimo 45 minuti. Un provvedimento che va ad aggiungersi alla campagna di pulizia messa in atto sulle tv satellitari provinciali al fine di limitare i programmi di intrattenimento, fissando un tetto massimo di trasmissione al di sotto del quale i singoli canali si devono mantenere.
Comunque sia, l’avanzata rampante di internet sta mettendo a repentaglio il ruolo egemone dei media mainstream limitando chiaramente il potere di controllo del Partito, gia’ visibilmente in affanno nel tentativo di stare al passo con lo scambio d’informazioni che quotidianamente affolla le piattaforme di microblogging.

Le PR in Cina, alcuni casi esemplari
L’evoluzione delle pubbliche relazioni in Cina è segnata da due  eventi che evidenziano modalità di gestione differenti in cui per comunicare con i media e con il pubblico è stato fatto ricorso all'ars persuasoria e alla manipolazione delle notizie. Il picco più basso delle Pr cinesi viene solitamente associato alla fallimentare gestione mediatica adottata dal Pcc durante l'epidemia di Sars del 2003, quello piu’ alto, al terremoto del Sichuan del 2008 . Quest'ultimo caso ha segnato un svolta nella comunicazione cinese grazie alla copertura massiccia realizzata dai media nazionali:  dettagli, foto e continui aggiornamenti hanno tenuto la popolazione costantemente informata sullo stato delle zone colpite.
Nell'arco di poco meno di un anno, tre sono gli eventi -incidente di Wenzhou compreso- che meglio rispecchiano le varie strategie adoperate dal Partito per controllare l'opinione pubblica, avvenuti tutti a cavallo tra il luglio e l'agosto del 2011. Ognuno di essi ha attirato, in prima battuta, l'attenzione della rete divenendo virale su Weibo -sorta di Twitter “in salsa di soia”- per poi, solo in seguito, venire ripreso dai media governativi.

Censura selettiva per l'industria petrolchimica di Dalian
Il 14 agosto, secondo quanto riportato dalla Reuters, le autorità del nord-est della Cina ordinarono la chiusura immediata dell'impianto petrolchimico Fujia Group di Dalian in seguito alle proteste inscenate da migliaia di persone per la rilocalizzazione della fabbrica, ritenuta causa di una spaventosa fuoriuscita di sostanze tossiche (link).
In questo caso la censura cinese operò in maniera selettiva: la domenica successiva, il motore di ricerca cinese Baidu offriava una lunga lista di notizie riguardanti il trasferimento della fabbrica a causa della sua pericolosità senza tuttavia fare menzione delle manifestazioni. Quanto a Google, i risultati inerenti alle sollevazioni popolari furono resi inacessibili dalla “Grande Muraglia di fuoco”, il filtro online che blocca le parole ritenute da Pechino sensibili.
Sebbene le autorità abbiano subito provveduto a spostare l'impianto, non fu cosa facile riuscire a mettere la museruola ai 12 mila cyber-manifestanti che infervoravano Weibo.

Il caso della Croce Rossa Cinese imbarazza Pechino
Era l'inizio di luglio quando sul Twitter cinese Guo Meimei, una stravagante ventenne, cominciò ad ostentare le proprie ricchezze  pubblicando foto di macchine sportive e identificandosi come “General Commercial Manager della Croce Rossa cinese (RCSC)”. Quest'ultima, un'organizzazione non-governativa approvata da Pechino, risulta completamente slegata dalla Croce Rossa internazionale ed è pertanto in grado di operare senza dover rispondere a particolari criteri di trasparenza.
Aizzata dai sospetti per un nuovo caso di corruzione, la rete scavò a fondo per verificare l'identità della ragazza che si scoprì essere l'amante di un membro della compagnia partner della RCSC,la Boai Asset Management Ltd.
La storia ha finito per gettare nuove ombre sulla ONG cinese, in passato già al centro di alcuni scandali finanziari e guardata con sospetto per l'opacità con la quale gestisce le donazioni (la Croce Rossa cinese è la prima destinataria dei fondi per la popolazione in caso di tragedie e disatri naturali).
Pechino, che di fatto non era coinvolto direttamente nella faccenda, ha dovuto affrontare grandi difficoltà per tenere sotto controllo la situazione. Il “papy” di Guo, dopo aver ammesso la sua relazione adulterina con la giovane, è stato costretto alle dimissioni, ma la reputazione della RCSC ne è uscita irreparabilmente danneggiata. “La Croce Rossa cinese non è una ONG, è stata fondata dal governo e da esso riceve finanziamenti” dichiarò al tempo Wang Ming, direttore del centro ricerche ONG dell'università Tsinghua.

La parola alla stampa 
La settimana scorsa il Beijing Daily, megafono del partito locale della capitale cinese, si è scagliato contro il concetto di “libertà di parola” pubblicando un editoriale dai toni accesi. Principali destinatari dell'invettiva “alcuni giornali e riviste commerciali”colpevoli di calcare la mano sui problemi politico-  sociali più caldi del momento. In particolare il quotidiano di Pechino si è focalizzato sui recenti scandali alimentari, sulla scarsa qualità dei prodotti nazionali e sulla corruzione dei funzionari locali; questioni, queste, riprese dai media in maniera erronea con lo scopo di confezionare notizie in grado di suscitare inutili allarmismi.

La risposta dei colleghi è giunta a stretto giro di posta innescando un dibattito tra gli addetti ai lavori. Tra i primi a replicare è stato il Xinhua Daily Telegraph -testata che fa capo all'agenzia di stampa statale- uscito a sua volta con un editoriale a tema dal titolo “Expert Opinion Helps Calm Food Panic”.“Affrontare i problemi è un primo passo per tentare di risolverli e il lavoro che fanno gli organi d'informazione, riportando le notizie sulla sicurezza alimentare, è un modo per informare l'opinione pubblica e permettere alla società di monitorare ciò che accade nel Paese. E' una cosa che va incoraggiata”. D'altra parte afferma, Ma Changjun, redattore del Southern Metropolis Daily -una delle roccaforti del giornalismo investigativo cinese- qualora anche queste notizie non fossero diffuse attraverso l'infosfera non per questo i fatti cesserebbero di esistere. Certo non sono una creazione dei media, anzi -aggiunge Ma- sono troppo pochi i giornali disposti a riportare informazioni negative. Le malefatte dei quadri del Partito, l'appropriazione indebita di fondi pubblici da parte delle loro mogli, il giro di tangenti che si nasconde dietro i progetti edilizi, sono questioni che non occorre vengano inventate e che i media portano alla luce del sole soltanto in seguito all'avvio di indagini ufficiali.

“Le malattie epidemiche non si diffondono certo perchè le hanno diagnosticate i medici; si diffondono perchè è nella loro natura.”E' compito degli organi mediatici scendere nei dettagli così da scuotere i lettori, da risvegliare la coscenza dei cittadini. “Sono sicuro che in questo modo -prosegue l'editorialista del quotidiano di Canton- verrà incoraggiata la partecipazione del pubblico alla costruzione di una società migliore.”

mercoledì 23 maggio 2012

Shao Yan: la calligrafia nella Cina del 2012

(Scritto per Uno sguardo al femminile)

Soffocato tra le colate di cemento del business district di Pechino, il Today Art Museum (Jinri yishuguan) dà un tocco di colore nel grigiore della capitale cinese ed è il primo museo privato non-profit del Regno di Mezzo.

Fondato nel 2001 da Zhao Bao Quan, dopo tre anni si è conquistato la sua attuale posizione: uno spicchio del distretto di Chaoyang, incastonato tra negozi di design e coffee shop, sembra avere l’ambizione di una 798 -ex area industriale oggi quartiere artistico- su scala minore, miscelando all’arte il fascino della “Pechino da bere”.

Il gusto occidentale all’insegna del minimal persegue la ricerca dell’essenziale, senza rinnegare la matrice sinica sulla quale si innesta. Scambi culturali e cooperazione artistica viaggiano lungo il doppio binario della ricerca accademica e della sperimentazione, dando nuovo vigore a quell’asse est-ovest sul quale si snoda gran parte della produzione artistica cinese contemporanea.

Il Today Art Museum è stato il primo in Cina ad ospitare un’esposizione personale di Jannis Kounellis – un decano del movimento italiano dell’arte povera – e il primo museo privato a realizzare una mostra collaterale della Biennale di Venezia.

Grazie alla promozione dell’iniziativa “Today Art Lectures”, negli ultimi anni ha poi aperto le porte a menti creative provenienti da ogni parte del globo; un modo per condividere esperienze e prospettive di artisti di fama internazionale con tutti gli amanti dell’arte dell’ex Impero Celeste.

Dal 15 aprile al 5 maggio, il museo ha ospitato l’esposizione di Shao Yan, uno dei maggiori calligrafi dei nostri giorni: un salto nel mondo monocromatico della pittura ad inchiostro, dove tradizione e innovazione si fondono indissolubilmente.

Classe ’62, Shao è originario di Wendeng, cittadina dello Shandong, una delle provincie costiere della Repubblica popolare cinese. Si è formato presso la Shandong Laiyang School e il laboratorio calligrafico del China Central Fine Art College. Oggi vive a Pechino come artista freelance, lavora per la Rong Bao Academy ed è vice presidente dell’Istituto di ricerca calligrafica della Chinese Painting Academy della regione del Jiangsu.

Shao non è uno qualunque. Lo confermano le sue radici familiari. Il padre, Shao Bingshan, fu un noto calligrafo specializzato nello stile yan (yanti), codificato ai tempi della dinastia Tang (618-907) e caratterizzato dalla statuaria solidità dei caratteri, lo zio Shao Bingyan, invece, un ritrattista e grande maestro della pittura ad inchiostro (bai miao renwu).

Il giovane Shao subisce l’influsso di entrambi, sperimenta, coltiva il sostrato familiare con esiti eclettici. Scarabocchia, smonta e riassembla giocattoli ed elettrodomestici; a 24 anni vince il Gold Award in occasione della National Calligraphy and Seal Carvings Exhibition for Young and Middle-aged Artists. Ma non si ferma. La sua vena creativa lo trascina in un virtuale “viaggio verso Occidente”: si avvicina all’espressionismo, all’astrattismo, trae ispirazione dalla pop art.

Nel 1990 ripercorre il sentiero in senso inverso riapprodando alla pittura ad inchiostro, ma senza mai cadere nella banalità. Rifugge l’arte concettuale e visionaria che caratterizza gran parte dei calligrafi cinesi e ribadisce fermamente la necessità di integrare l’arte contemporanea con l’eredità della tradizione.

Dal “Regno di yi” al mondo reale

La produzione di Shao Yan nasce entro i confini del “Regno di yi” (yi jing), una dimensione che nella cultura cinese ha due accezioni differenti ed è associabile sia ad uno stato mentale di tranquillità e rilassatezza, sia – in ambito più strettamente artistico – ad uno stile libero, naturale ed irrefrenabile. Una caratteristica, questa, che, completamente estranea all’estetica occidentale, affonda le radici nella pittura dei letterati che ha marchiato per secoli l’arte d’oltre Muraglia.

Nella sua insaziabile versatilità, Shao ha declinato il concetto di yi in tutte le forme possibili, realizzando opere calligrafiche su carta, istallazioni e performance, rifuggendo da concettualismi e aggirando i paletti imposti dalla tradizione.

Ma, da oltre un ventennio, una costante non lo abbandona mai: le linee vigorose, piene di luce richiamano alla mente il consueto paragone che accosta la calligrafia all’arte della spada, rievocando la pittura zen (chan in cinese).

Poi, nel 2008 un incontro ravvicinato con la morte lo conduce ad una nuova comprensione della labilità della vita umana. In seguito ad un intervento cardiaco, Shao sostituisce il pennello con una siringa; quella che lo ha tenuto in vita dopo l’operazione. Ma la sua esperienza trasborda dai confini dell’individuale per abbracciare l’umanità intera. Ora spara inchiostro denso come sangue, si accosta al mondo reale e grida i mali della società. La sua arte diventa critica e investigativa, traendo ispirazione da catastrofi naturali e ingiustizie sociali, varca i confini del “Regno di yi” per catapultarsi nel mondo, quello della Cina di oggi.

Il crescente interesse per la dimensione reale lo ha portato a compiere un ulteriore passo avanti: nel 2011 la sua sperimentazione si concentra sull’elemento “acqua”, fonte di vita. Non più semplice diluente ma vera protagonista, rimpiazza l’inchiostro, lo trasforma in “fumo” e “cenere”, lo anima.

Effetti originali scaturiscono da un nuovo processo sperimentale: i fogli già dipinti vengono immersi nell’acqua per lungo tempo, in alcuni casi 24 ore.

“Il movimento dell’acqua lascia tracce d’inchiostro sulla carta, poi evapora, si trasforma in nuvole nutrendo le creature” ha spiegato Shao “Il mio lavoro è il risultato dell’idratazione di me stesso e dell’acqua. L’idratazione lascia tracce d’inchiostro sulla carta di riso, e allo stesso tempo, in una forma artistica cooperativa, da parte mia aiuto l’acqua a completare il suo viaggio sulla Terra“.

Le opere di Shao Yan aspirano all’universale, oltrepassando confini geografici e barriere culturali.

“Nel 1999 la moglie del rappresentante di un gruppo bancario del nord-est d’Italia, acquistò una delle mie opere – ci ha raccontato l’artista – mi disse che in esse rivedeva il mare del suo paese natale, rivedeva la schiuma, le reti da pesca, le spiagge, vi scorgeva le conchiglie e riusciva persino a distinguere suo fratello surfare sulle onde. Italiani e cinesi hanno ricordi comuni riconducibili al mare. Io fin da piccolo ho vissuto vicino alla costa e inevitabilmente quei luoghi ancora suscitano in me profondi sentimenti. In questo i nostri popoli sono molto simili, pertanto le sue parole mi elettrizzarono; sembrava come se fossimo dello stesso paese. A partire da quel giorno ho cercato di intensificare i miei contatti con gli italiani. Al centro delle mie opere vi è l’acqua, e sono convinto che questo elemento possa essere un mezzo di comunicazione tra i nostri due Paesi.”

Ma cosa vuol dire “calligrafia” nell’arte contemporanea? E’ ancora possibile parlare di calligrafia anche quando un carattere, il cui scopo primario è quello della comunicazione, si libera dai lacci della semiotica perdendo qualsivoglia riferimento con la realtà concreta? La domanda si era già fatta strada verso la metà degli anni ’90, dando luogo ad un acceso dibattito tra gli esponenti del movimento d’Avanguardia sino a quando nel 1995 Zhang Qiang, artista rivoluzionario e professore presso la Shandong Academy of Fine Art, risolse la questione con una semplice osservazione: se un dipinto non figurativo rimane pur sempre un dipinto, un’opera calligrafica rimarrà tale anche se composta da segni grafici privi di significato.

Chiamiamola pure “astrattismo”, ma “con caratteristiche cinesi”: secondo Zhang è possibile attraverso l’utilizzo degli strumenti artistici tradizionali – ovvero pennelli, inchiostro e carta di riso – raggiungere effetti irriproducibili per mezzo dei loro omologhi occidentali. Un carattere, seppur illeggibile, può trasmettere un messaggio dai profondi richiami sociali e culturali, riflettendo le impressione che un artista nutre nei confronti del proprio Paese e della propria epoca.

E allora, cosa pensa Shao della Cina del 2012?

“La mia arte è incentrata sulla comunicazione e sulla coscienza. Il mio scopo è quello di tutelare la libertà d’espressione ed ogni diritto essenziale, pertanto, per me attivismo e arte sono inseparabili,” aveva dichiarato lo scorso autunno l’artista-dissidente Ai Weiwei, noto in Occidente per aver dato vita allo stadio che ha ospitato le Olimpiadi di Pechino 2008. Oggi Shao Yan non è ancora arrivato a tanto, ma la crescente disparità tra le classi sociali gonfiata dalla comune venerazione per il dio denaro, quella ci dice, è una delle piaghe della Nuovissima Cina che la sua arte vorrebbe curare.

lunedì 21 maggio 2012

La rivalsa di Zhou la condanna di Wang: il Pcc distribuisce premi e purghe tra gli uomini di Bo Xilai



In questi ultimi tempi di lui se ne sono dette di tutti i colori: unico vero alleato del tanto "chiacchierato" Bo Xilai- l'ex capo del partito di Chongqing epurato il 10 aprile-  sospettato di aver architettato un colpo di Stato lo scorso marzo, la stampa lo aveva dato per finito ma Zhou Yongkang, il potente uomo degli apparati di sicurezza cinesi e numero nove nell'organigramma del Partito comunista cinese, ad uscire dalla scena non ci pensa lontanamente. La sua piccola rivincita arriva dal Xinjiang, la provincia autonoma del remoto e burrascoso ovest cinese.

Alcuni giorni fa il New York Times aveva insinuato che Zhou, indagato dalla Commissione Centrale per la Disciplina per i suoi legami con l'ex leader di Chongqing, avesse rinunciato alla propria carica in favore di Meng Jianzhu, attuale ministro per la Pubblica Sicurezza. Proprio l'appoggio da lui dimostrato a Bo pochi giorni prima che quest'ultimo venisse rimosso dalla sua carica gli era costata un'autocritica di fronte al presidente Hu Jintao e al primo ministro Wen Jiabao, secondo quanto riportato dal quotidiano newyorkese. La ridda di voci sulla sua sorte era stata messa a freno solo dopo un'inaspettata apparizione di fronte alle telecamere durante un summit con il premier indonesiano.

Ma le cose per Zhou si stavano mettendo male e la scorsa settimana a rincarare la dose ci hanno pensato 15 veterani del Partito, firmatari di una lettera indirizzata a Hu e Wen nella quale hanno richiesto esplicitamente la sua rimozione. “Vogliamo che Zhou Yongkang venga destituito - aveva spiegato Zhao Zhengrong, ex funzionario anti-corruzione della provincia dello Yunnan- perché ha diretto e supportato il ‘modello Chongqing’ ed era un sostenitore di Bo Xilai. Sono entrambi falsi e appartengono alla stessa razza”.

Una mossa ardita quella degli ex del Pcc, che schierati in un fronte unito contro uno dei nove membri del Comitato Permanete del Politburo, il vero ghota di Pechino, avevano aizzato media e politologi pronti a scommettere su un’inevitabile defenestrazione di Zhou che, per raggiunti limiti di età, non potra’ comunque essere rieletto al prossimo Congresso del Partito, l’appuntamento piu’ importante nell’agenda del Dragone che segnera’ il rimpasto ai vertici della macchina politica cinese.

Alcuni giorni fa un’esclusiva della Retuers aveva rivelato un probabile ritardo del Congresso -di norma previsto per ottobre- a causa di alcuni contrasti ai piani alti del Partito circa i nomi che adranno a riempire sette delle nove poltrone che contano. E la smentita ufficiale del Quotidiano del Popolo non e’ bastata a far tacere il chiacchiericcio di sottofondo che continua ad accompagnare i lavori in corso per il ricambio della leadership cinese.

La scorsa settimana il quotidiano on-line Duowei aveva avanzato l’ipotesi di una possibile riduzione del numero dei seggi del Comitato Permanete da nove a sette, riportando così l’Empireo cinese alla struttura dei tempi in cui alla presidenza della Repubblica popolare sedeva Jiang Zemin. Il che comporterebbe una concentrazione del potere con conseguente eliminazione della carica di capo della Commissione per gli Affari Politici e Legali attualmente ricoperta proprio da Zhou Yongkang.

Ma con un colpo di scena venerdi’, al ritorno da una visita di alto profilo nel Xinjiang, il capo della sicurezza ha fatto la sua apparizione al fianco di Hu Jintao e Wen Jiabao durante una cerimonia in onore dei funzionari di polizia tenutasi nella Grande Sala del Popolo a Pechino. Uno sfoggio di unita’ e concordia volto probabilmente a salvare la faccia e ad azzittire le malelingue (leggi: media d’oltremare) che dallo scoppio dell’affaire Bo Xilai vociferano di una spaccatura in seno ai vertici del Partito.

Non una gita di piacere quella di Zhou nell’irrequieta provincia occidentale, ma sicuramente di soddisfazione: il numero nove del Partito sarebbe stato “eletto unanimamente” dai 630 votanti membro della delegazione del Xinjiang al prossimo Congresso, come riportato sabato dal Xinjiang Daily. Scroscio di applausi per lui da parte di tutti i presenti “in segno di apprezzamento per l'appoggio dimostrato dal governo centrale”.

Coincidenza o meno, mentre Zhou attraversava la regione del nord-ovest, nel frattempo, a Tokyo si teneva il quarto forum annuale del World Uyghur Congress diretto da Rebiya Kadeer, un tempo donna d’affari xinjiangese ma ben piu’ nota per essere la leader dei ribelli indipendentisti uiguri, la minoranza turcofona che popola la provincia del Xinjiang e che da anni rappresenta per Pechino una dolorosa spina nel fianco. A Zhongnanhai – quartier generale del Pcc- non l’hanno presa bene, tanto che il ministero degli Esteri e gli organi d’informazione statali hanno rivolto aspre critiche contro il governo nipponico per aver accolto i rivoltosi. A indignare i funzionari cinesi sopra ogni cosa e’ stata la tappa della Kadeer presso il Yasukuni Shrine, un controverso memoriale in onore dei soldati giapponesi caduti in guerra.
Come si leggeva nella giornata di ieri sul People’s Daily, la missione di Zhou nel remoto Ovest, con tanto di visita presso una base d’addestramento delle truppe di riserva, ha avuto lo scopo di promuovere la stabilita’ a lungo termine della regione.

Il Xinjiang, con una superficie di 1,6 milioni di chilometri quadrati, in buona parte costituita da zone desertiche e montagne innevate, e’ la divisione amministrativa piu’ estesa della Cina. Confinante con diversi Stati dell’Asia Centrale tra i quali Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Afghanistan e Pakistan, e’ stata piu’ volte teatro di scontri tra uiguri e han- l’etnia dominante in Cina- e viene pertanto considerata un’area particolarmente sensibile, specie dalle rivolte che nel 2009 insanguinarono la capitale provinciale Urumqi.
Il recente viaggio dell’alleato di Bo Xilai nella regione confermerebbe - secondo il New York Times- il suo pieno controllo sull’apparato di sicurezza nazionale; un potentato il cui budget di 111 miliardi di dollari quest’anno ha superato di 5 miliardi quello destinato all’esercito.

Ma c’e’ dell’altro. Il Xinjiang non e’ solo rocce e rivolte etniche. Importanti giacimenti di minerali, gas e petrolio hanno attratto le piu’ importanti societa’ petrolifere statali, tanto che la China Petroleum and Chemical Corporation (Sinopec), leader asiatico della raffinazione, lo scorso marzo ha annunciato che entro il 2015 portera’ i suoi investimenti nella regione ad oltre 8miliardi di dollari. Un settore, quello dell'energia, nel quale Zhou ha sempre avuto le mani in pasta da che, laureato presso il Beijing Petroleum Institute, mosse i primi passi nell'industria del petrolio per poi diventare a metà degli anni '80 vice ministro dell'Industria. Nel 1996 ha ricoperto la carica di general manager della China National Petroleum Corporation (CNPC), colosso energetico di proprietà statale, sino a diventare nel '98 ministro della Terra e delle Risorse.

Nessuna purga, quindi, per il sostenitore più accanito dell'ex segretrio di Chongqing: sarà un'epurazione dolce la sua, con progressivo svuotamento dei poteri in previsione di un prossimo pensionamento. Nel frattempo ieri la Reuters ha battuto la notizia che trenta delle imprese statali più in vista del Paese -tra le quali Sinopec, CNPC e China Mobile, il principale operatore telefonico cinese- hanno firmato contratti da oltre 55miliardi di dollari con la municipalità ex feudo di Bo Xilai.

In un'oculata distribuzione di premi e castighi, volta a spegnere l'incendio divampato in seguito allo scandalo politico "in salsa di soia" più eclatante dell'ultimo ventennio, alcuni degli alleati del leader caduto in disgrazia, tutto sommato, si salvano  mentre i "nemici" vanno incontro a severe punizioni: Wang Lijun, il superpoliziotto che con la sua fuga presso il consolato Usa decretò l'inizio del "caso Bo Xilai" e la fine del proprio padrino politico, verrà processato a giugno per tradimento, scriveva questa mattina il South China Morning Post. Per lui si profila il rischio pena di morte.

venerdì 18 maggio 2012

Ergastolo per "il fuggiasco di Xiamen"


Pechino mantiene la parola data: niente pena di morte per Lai Changxing, ma l'ergastolo non glielo leva nessuno. L'imprenditore latitante, balzato agli onori della cronaca per aver condotto negli anni '90 operazioni illegali a nove zeri, dovrà passare il resto della sua vita dietro le sbarre con l'accusa di contrabbando e corruzione: è quanto ha stabilito il tribunale intermedio di Xiamen -città portuale della Cina meridionale e per lungo tempo feudo personale di Lai- il quale ha, inoltre, ordinato la confisca del patrimonio e la privazione dei diritti politici.

La sentenza giunge dopo anni di turbolenti tira e molla con il governo canadese al quale l'uomo si era appellato invano per ottenere lo status di rifugiato politico. Nel 1999 Lai si era trasferito con la sua famiglia in Canada dove ha trascorso 12 anni prima di essere riconsegnato alle autorità di Pechino, come stabilito dalla corte federale di Ottawa lo scorso luglio. Ad un patto però: che il fuggiasco non venisse sottoposto a torture né condannato alla pena capitale.

Simbolo degli eccessi smodati dell'iperbolica crescita economica realizzata dal gigante asiatico nell'era post Mao, Lai si è scrollato di dosso un'infanzia di privazioni raggiungendo le stelle per poi precipitare nuovamente in disgrazia. Dopo aver sperimentato gli anni del Grande Balzo in Avanti spartendo quel poco che c'era da mangiare con sette fratelli, si è costruito il suo impero del business mattone dopo mattone diventando il più grande importatore privato di auto, e acquisendo un monopolio quasi assoluto sul commercio locale di olio vegetale e sigarette straniere. Non pago, si è dato al real estate mettendo in piedi centinaia di appartamenti e niente meno che una Città Proibita in scala minore, tappa fissa nelle notti brave dei quadri locali.

Secondo quanto emerso dalla sentenza del tribunale di Xiamen, ammonterebbero a 64 i funzionari corrotti coinvolti nel losco business portato avanti dal faccendiere cinese tra il 1996 al 1999. Un giro di denaro da quasi 4,5 miliardi di dollari. "I crimini coinvolgono ingenti somme e le circostanze sono piuttosto gravi" ha dichiarato il tribunale in un rapporto ripreso questa mattina dall'agenzia di stampa Xinhua.

Nella rete tessuta da Lai sono rimasti impigliati molti pezzi grossi dal vice-sindaco di Xiamen, al vice-ministro della Pubblica Sicurezza, compresi il numero due di una squadra anti-corruzione nonché una dozzina di altri uomini politici e alti dirigenti successivamente licenziati, degradati o direttamente spediti in prigione. Ma c'è anche chi, come un ex membro del Politburo, dalla spirale scandalistica ne è uscito indenne sfuggendo ai severi castighi della giustizia cinese.

Quella del "fuggiasco di Xiamen" è una delle tante storie di quotidiana corruzione alle quali il Partito comunista cinese sta faticosamente tentando di mettere un punto, anche se, per fortuna di Pechino, come Lai non ce ne sono molti. La risonanza del caso al tempo dell'inchiesta indusse la Tv statale a trasmettere nei minimi dettagli le sue stravaganze e i tesori accumulati: auto confiscate, un sacco pieno di anelli d'oro, un tavolo rivestito in pelle di tigre e giovani donne sono le armi della seduzione con le quali Lai si è conquistato i favori delle autorità locali. Ed era diventato così noto da finire nel mirino di un osso duro come Liu Liying, capo della Commissione centrale per l'ispezione della disciplina. Elusa la cattura nel 1999 con una rocambolesca fuga in motoscafo raggiunse Hong Kong per poi volare sino a Vancouver.

Per circa un decennio si è battuto contro l'estradizione dichiarando che una volta rispedito in patria sarebbe stato torturato o giustiziato a causa di quegli stessi crimini che molti altri imprenditori della sua generazione hanno commesso pur rimanendo impuniti. Questione di guanxi, il network di agganci che contano, delle quali Lai ha affermato di essere a corto. "Non ho un buon background familiare" aveva dichiarato tempo fa l'uomo in un'intervista rilasciata ad un giornale nazionale "ho sempre dovuto fare le cose da me passo dopo passo. Ed è così che mi sono conquistato il rispetto della gente. Non ho mai fatto troppe storie per ottenere grandi somme denaro".

Le sue colpe Lai le ha sempre negate, sostenendo che dietro le accuse di Pechino si celassero motivazioni politiche. Solo una "piccola" confessione nel 2008, quando rivelò al Toronto Globe di aver evaso le tasse. Ben altra cosa rispetto alle imputazioni mosse dalle autorità, anche se sotto il tappeto avrebbe nascosto 13,999 miliardi di yuan (circa 1,73 miliardi di euro).

Tra i tanti furfanti con il naso per gli affari che popolano il Regno di Mezzo probabilmente Lai Changxing si posiziona in cima alla lista e difficilmente verrà scavalcato in un prossimo futuro. "La Cina di oggi è ben diversa da quella sulla quale Lai ha fatto la sua fortuna. Lai appartiene ad una Cina morente, l'infanzia rampante della Cina moderna si colloca grosso modo tra la morte di Mao e le Olimpiadi del 2008" ha spiegato Oliver August, autore di un libro che ha per protagonista proprio il "fuggiasco di Xiamen" dal quale trae il titolo.

Rimpatriato il 23 luglio 2011, Lai Changxing è stato processato lo scorso aprile. La sua consegna alle autorità cinesi aveva attirato su Ottawa le critiche di attivisti e avvocati per i diritti umani, impensieriti dalle minacce avanzate da Pechino. “Se anche Lai Changxing morisse tre volte non sarebbe abbastanza” aveva dichiarato nel 2001 il premier Zhu Rongji.


(Leggi anche La condanna a morte di Wu Ying scuote la Cina)




domenica 13 maggio 2012

Pechino vs Manila: quella complicata storia del Mar cinese meridionale



Se fino a venerdì Pechino sembrava essere sul piede di battaglia pronto a fare fuoco contro Manila, nella mattina di sabato il tabloid in lingua inglese Global Times ha invitato alla calma smentendo le voci di una corsa agli armamenti, pur tuttavia, senza rinunciare alle abituali velleità nazionaliste.

"Le voci secondo le quali la Regione Militare di Guangzhou, la Flotta del Mare del Sud ed altre unità si starebbero preparando alla guerra sono false" si leggeva venerdì in un breve comunicato apparso sul sito web del ministero della Difesa e ripreso ieri dal quotidiano megafono del Partito. Soltanto fino a pochi giorni fa i toni utilizzati dal Dragone erano stati ben altri. I pezzi da novanta della diplomazia cinese non avevano utilizzato mezzi termini dichiarando che, una volta esauriti i metodi pacifici, la Cina sarebbe stata "pronta a tutte le possibilità" per risolvere la situazione con il vicino di casa indisciplinato. Poi, a rincarare la dose ci aveva pensato il PLA Daily, la gazzetta dell'esercito, con un pezzo dal titolo pungente:"La Cina non rinuncerà neanche a un centimetro del proprio territorio".

Dall'8 aprile scorso i due Paesi vertono in una fase di stallo da quando la Marina di Manila aveva pizzicato otto pescherecci cinesi a largo del Banco di Scarborough (per i cinesi Huangyan), nel Mar cinese meridionale -o Mar filippino occidentale che dir si voglia- a 124 miglia dall'isola filippina di Luzon, zona sulla quale entrambi i governi rivendicano la loro sovranità. Da quel momento un continuo via vai di navi da guerra e non ha innescato un braccio di ferro che ha portato la tensione alle stelle. E se Manila vuole affermare i propri diritti sulle isole appellandosi alle "leggi internazionali" (la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare estende la giurisdizione nazionale degli Stati marittimi sino a 200 miglia nautiche dalle proprie coste), Pechino chiama a testimone la storia, sventolando una mappa del 1279 ancora utilizzata dai pescatori cinesi e taiwanesi che ne confermerebbe la sovranità sull'area.

Ma non solo. Il confronto tra i governi rivali ha finito per infervorare gli animi dei due popoli: manifestazioni di protesta davanti alla sede diplomatica cinese di Manila, timide risposte avversarie davanti all'ambasciata filippina a Pechino (si parla di una decina di persone), bandiere al rogo, attacchi hacker a siti sensibili, anchorwomen della CCTV preda di un lapsus fruediano afferma che: "è evidente, le Filippine sono parte naturale della Cina". In tutto ciò a rincarare la dose ci hanno pensato i media e l'apparato di sicurezza cinese rilasciando dichiarazioni puntute e belligeranti, difficili da dimenticare nonostante la retorica imbastita ieri dal Global Times.

A fare gola ai due Paesi asiatici non sono tanto i fondali pescosi dell'agognato specchio d'acqua quanto le immense risorse energetiche in essi nascoste che, secondo alcune stime, ammonterebbero a 30 miliardi di tonnellate di greggio -equivalente a 213 miliardi di barili di petrolio e a circa l'80% delle risorse dell'Arabia Saudita- e a 16 mila miliardi di metri cubi di gas, quantità cinque volte superiore a quella accertata negli Stati Uniti.

Il 9 maggio scorso la piattaforma di trivellazione in acque profonde CNOOC 981 di proprietà della CNOOC Ltd.(China National Offshore Oil Company Ltd), principale società petrolifera del Regno di Mezzo, ha cominciato ad operare a 320 chilometri a sud-est di Hong Kong, ad una profondità di 1500 metri, come riportato dall'agenzia di stampa Xinhua. L'inizio delle trivellazioni della CNOOC rende il Dragone il primo Paese ad effettuare ricerche di gas e petrolio in acque profonde nel Mar cinese meridionale e, oltre ad assicurare al gigante asiatico risorse in grado di soddisfare la sua fame energetica, gli "garantirà diritto di sovranità sull'area", ha dichiarato senza troppi giri di parole Wang Yilin, presidente della compagnia.

Ormai sono mesi che dal Mar cinese meridionale soffia vento di tempesta e non solo per via delle schermaglie tra Pechino e Manila. La Repubblica popolare rivendica la sovranità su un'area che si aggira intorno agli 1,7 milioni di chilometri quadrati; una posizione, questa, che è causa di costanti attriti con buona parte degli Stati rivieraschi che la circondano. Contese territoriali per le isole Paracel e Spratly -altra succulenta preda per l'economia energivora del Dragone- la scorsa estate hanno pericolosamente innalzato la temperatura tra Pechino e Hanoi, chiamando in causa anche Brunei, Taiwan, Malesia e Filippine a loro volta determinati ad affermare le proprie posizioni nell'area, mentre le turbolenti relazioni Cina-Giappone rischiano periodicamente il collasso a causa delle dispute sulle Senkaku/Diaoyu, altro gruppo di scogli bagnato dal Mar cinese orientale, per l'acquisto dei quali, secondo quanto reso noto ad aprile dal sindaco di Tokyo, Sintaro Ishiara, il governo nipponico sarebbe già in trattative con alcuni privati.

In questa partita giocata sullo scacchiere Asia-Pacifico si inseriscono come interlocutori esterni (ma neanche troppo) India, Russia e Stati Uniti. Recenti esercitazioni congiunte tra Washington e Manila hanno suscitato l'irritazione di Pechino, memore delle dichiarazioni del Segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, che solo alcuni mesi fa aveva proiettato il XXI secolo americano proprio nel Pacifico.

Un trattato del 1951 sottoscritto da Usa e Filippine garantisce la reciproca assistenza  in caso di aggressione. I rapporti tra Washington e la sua ex colonia, dopo gli anni idilliaci della Guerra Fredda, hanno subito un progressivo allentamento a causa della chiusura delle basi navali e aeree Usa di Subic Bay e Clark, voluta dalle forze politiche nazionaliste nel 1992. Ma oggi l'Aquila vuole recuperare quel decennio di guerre speso tra Iraq e Afghanistan ampliando la propria influenza nel Sud Est asiatico. E lo farà anche grazie all'alleato filippino, ma con prudenza. Le leggi di Manila vietano la presenza di basi straniere entro i confini dell'arcipelago.

D'altra parte il piccolo stato asiatico è ben lungi dal volersi inimicare il governo cinese con il quale, entro il 2016, si stima raggiungerà scambi commerciali per 60 miliardi di dollari, mentre gli Stati Uniti, dal canto loro, hanno già un bel da fare nel tentativo di ricomporre gli strappi che qua e là sospendo i rapporti bilaterali col Dragone sul filo del rasoio. E sebbene entro l'anno in corso Manila riceverà 30 milioni di dollari di sussidi militari a stelle e strisce -il doppio di quanto stanziato in prima battuta-  il budget risulta essere comunque di poco superiore a quello stabilito nel 2010  e appena sufficiente a rinverdire la vetusta flotta filippina. Ma nuovi dettagli sulla cooperazione Usa-Filippine potrebbero emergere dalla prossima trasferta statunitense del presidente Benigno Aquino in agenda per la prossima estate.

Intanto, in seguito alle critiche mosse dall'International Crisis Group sulle modalità con le quali Pechino sta gestendo la questione del Mar cinese meridionale creando elementi d'instabilità a causa di una "mancanza di coordinamento tra le agenzie governative", sta prendendo sempre più piede una posizione che vorrebbe la partecipazione cinese alla stesura di un codice di condotta; un documento giuridicamente vincolante volto ad evitare che i battibecchi nelle acque contese possano propagarsi causando una tempesta di più vaste proporzioni.

Nel 1992, un anno dopo l'ingresso della Cina tra i dialogue partner dell'ASEAN (Association of South-East Asian Nations ), l'Associazione ha rilasciato una dichiarazione circa la situazione del Mar cinese meridionale, nella quale tutte le parti interessate sono state invitate a dare prova di moderazione con lo scopo di "creare un clima positivo per la risoluzione finale di tutte le controversie". Passati dieci anni, nel 2002, Pechino ha firmato le Dichiarazione sulla condotta delle parti nel Mar cinese meridionale (DOC), ma i lavori per la redazione di un "Codice di condotta regionale" sono ancora in corso.

Ad indebolire la posizione dell'ASEAN, l'oggettiva differenza di interessi economici che legano i Paesi membri più o meno strettamente alla controparte cinese, ma sopratutto l'ostinazione del Dragone nel voler continuare ad affrontare le dispute su base bilaterale, rifuggendo la regionalizzazione delle controversie. Una situazione, questa, che va a minare le "capacità persuasive" di un fronte unito composto da tutte e dieci le nazioni partecipanti. Ricevuto l'endorsement di Washington nel 2010, nell'ultimo anno la questione di un "codice di condotta" ha tenuto banco durante i colloqui tra gli alti funzionari dell'ASEAN senza tuttavia giungere ad una soluzione risolutiva.

Così mentre le acque del Mar cinese meridionale continuano ad incresparsi, oltre un terzo del commercio mondiale, di cui la metà composto da gas e petrolio, rimane in balia degli umori dei governi della regione; e quello di Pechino, ultimamente, non è per nulla buono.

giovedì 10 maggio 2012

Chen: "la loro folle vendetta è cominciata"


Solo ieri le confortanti notizie di Chen: il "sogno americano" alle porte, documenti per l'espatrio in via di ultimazione (almeno da parte statunitense), valigia quasi in mano. Il governo cinese, da parte sua, aveva dichiarato di aver spedito nel paese natale del dissidente una squadra con lo scopo di fare luce sulle violenze perpetrate dai funzionari locali ai danni della sua famiglia.
Oggi, in un'intervista telefonica rilasciata al Guardian, Chen mette ancora una volta in dubbio la sicurezza della propria famiglia: "La folle ritorsione contro la mia famiglia è cominciata" ha affermato il dissidente "mia cognata è stata arrestata e rilasciata su cauzione. L'hanno accusata di ospitare un latitante ma non hanno fatto nomi." Non è chiaro se l'uomo si stesse riferendo alla madre del nipote Chen Kegui, trattenuta e poi rimessa in libertà, o ad un'altra delle sue quattro cognate, specifica la Reuters. "La mia famiglia è molto preoccupata" ha aggiunto il dissidente.

Il nipote è stato arrestato all'inizio del mese ed è ora sotto inchiesta per l'accoltellamento di alcune guardie del villaggio che avevano fatto irruzione in casa sua poco dopo la notizia della fuga dell'attivista. "La pubblica sicurezza di Yinan ha dichiarato che è già nelle loro mani" è quanto riportato da Chen all'agenzia di stampa britannica. Liu Weiguo, uno dei legali dell'attivista, ha confermato che Chen Kegui si trova presso il Centro di detenzione della contea di Yinan. La madre del ragazzo, dopo essere stata trattenuta dalla polizia per sei giorni, ha ottenuto una sorta di libertà provvisoria in attesa di essere processata, mentre al padre è stato vietato di lasciare il villaggio. La situazione dei parenti del dissidente continua ad essere confusa a causa delle difficoltà di comunicazione: i funzionari del luogo hanno sequestrato i cellulari di diversi membri della famiglia Chen.

L'uomo ha detto di essere ancora in attesa di poter partire per gli Stati Uniti ma che non ci sono notizie certe sulla data. E sebbene il ministero degli Esteri cinese abbia assicurato di aver accettato la sua richiesta, sino ad oggi non è stata ancora rilasciata nessuna informazione circa lo stato della pratica; per il momento Chen è ancora ricoverato presso l'ospedale di Chaoyang, a Pechino, per una frattura al piede e alcuni problemi intestinali. Secondo diverse voci lo stato di salute dell'attivista sarebbe molto preoccupante. Fonti dell'ambasciata americana hanno avanzato il sospetto di un cancro al colon in stato avanzato, scriveva ieri il Global Post (link).

martedì 8 maggio 2012

Al Jazeera via dalla Cina, la stretta di Pechino sui giornalisti stranieri


                                        Il documentario che è costato il visto a Melissa Chan


Il portavoce del ministero degli Esteri Hong Lei risponde alle domande dei giornalisti circa l'espulsione della Chan: China Daily Show

(Pubblicato su Dazebao)

L'ufficio di Al Jazeera English di Pechino chiude i battenti. Una decisione forzata, quella dell'emittente televisiva araba, dopo l'espulsione dalla Repubblica popolare cinese (Rpc) della sua corrispondente Melissa Chan, alla quale il governo cinese ha ripetutamente negato il rinnovo del visto rispondendo con un no secco alla sostituzione della giornalista con qualsiasi altro reporter.

Da Pechino non è stato ancora rilasciato nessuna speigazioni ufficiale circa le ragioni che avrebbero portato le autorità ad allontanare la giornalista dal Paese, adducendo come unica giustificazione la "violazione di norme" non ben specificate, ma che tradotto dalla fumosa retorica di regime potrebbe indicare semplicemente un alto grado di disapprovazione del governo cinese verso il taglio investigativo portato avanti dalla Chan nei suoi servizi.

L'inviata di nazionalità americana lavorava in Cina dal 2007 ed era finita nel mirino delle autorità a causa di un reportage sui laogai -i gulag cinesi- pubblicato da Al Jazeer lo scorso novembre. Documentario, questo, al lavoro del quale la giornalista non avrebbe preso parte, ma che sommato alle inchieste su Liu Xia, moglie del dissidente Liu Xiaobo perseguitata dalle forze dell'ordine, e sui bambini rimasti vittime del terremoto del Sichuan, ha reso Chan un personaggio sgradito agli occhi di Pechino.

“Penso che il governo ci abbia concesso di operare in Cina perche’ convinto che avremmo avuto un atteggiamento soft nei suoi confronti” aveva dichirato la reporter dell’emittente araba in seguito alla realizzazione di alcuni documentari sugli incidenti avvenuti nelle miniere di carbone nel 2010 “credeva che fossimo un qualcosa di molto simile alla CCTV (la televisione di stato cinese), ma ben presto hanno capito che non era cosi’”.

La notizia dell'espulsione della corrispondente di Al Jazeera arriva in un momento particolarmente delicato: solo pochi giorni fa decine di giornalisti impegnati nella copertura del caso "Chen Guangcheng" sono stati convocati dal Dipartimento di Sicurezza e minacciati di vedersi revocato il visto, ad alcuni e’ stato anche confiscato temporaneamente il tesserino.

Secondo il Club dei corrispondenti in Cina (FCCC), negli ultimi 2 anni 27 giornalisti stranieri sono stati costretti ad attendere più di quattro mesi per poter ottenere i documenti necessari alla loro permanenza nella Rpc. "Questo è l'esempio più estremo che evidenzia la strumentalizzazione dei visti messa in atto nel tentativo di intimidire e censurare i giornalisti stranieri in Cina" ha dichirato il FCCC. "Il rifiuto del visto a Melissa Chan indica un netto deterioramento nell'ambiente dell'informazione nel Paese, ed è un chiaro messaggio che la copertura internazionale non è gradita" ha dichiarato Bob Dietz, coordinatore del Commitee to Protect Journalists per l'Asia.

Era dal 1998 che dal Regno di Mezzo non venivano espulsi corrispondenti stranieri. Ultimi nomi noti quelli del giapponese Yukihisa Nakatsu di Yomiuri Shimbun, e del tedesco Juergen Kremb di Der Spiegel. A meta’ degli anni ‘90 Henrik Bork, direttore dell'ufficio di Pechino del Frankfurter Rundschau, si vide revocato il visto a causa della sua serrata critica contro l'allora primo ministro Li Peng. Riuscì a tornare in Cina soltanto una decina d'anni dopo. E nel 1991 era stata la volta di Andrew Higgins inviato dell'Indipendent e degli americani Alan Pessin e John Pomfret, corrispondenti rispettivamente di Voice of America e Associated Press. Al tempo il governo cinese non gradì il loro spiccato interesse per gli eventi di piazza Tiananmen.
Tornando ancora piu’ indietro nel tempo abbiamo i casi dell’inviato del New York Times, John Burns -allontanato dalla Cina perche’ pizzicato in zone del Paese ritenute off-limits per gli stranieri- e del nostro connazionale Tiziano Terzani, che nel 1984 fu persino messo agli arresti e spedito in un campo di rieducazione con l'accusa di aver intrapreso “attivita’ controrivoluzionarie.”

Ma se in prossimità delle Olimpiadi di Pechino del 2008 la stretta sui media vide un parziale allentamento, dalla "rivolta dei gelsomini" dello scorso anno -cui timidi strascichi sono arrivati sino alla Rpc-  il regime sembra aver riabbracciato la linea intransigente vecchio stampo. Nel giro di vite messo in atto dalle autorita’ alcuni giornalisti sono finiti in manette; un reporter americano e’ persino stato picchiato dalle forze dell’ordine finendo in ospedale.

E noto è il ruolo ricoperto da Al Jazeera durante le rivolte maghrebine, che con il via libera del governo del Qatar intento a fare i propri interessi in Medio Oriente, aveva dimostrato il suo sostegno alla causa rivoluzionaria facendosi portavoce dei ribelli. "La voce dei senza voce", come si definisce da sempre l'emittente di Doha, durante la Primavera araba non è stata esattamente un esempio di imparzialità.

Già lo scorso settembre la Chan era incappata in diverse difficoltà nel tentativo di prendere parte ad un forum organizzato ad Urumqi, capitale della provincia autonoma dello Xinjiang: accredito stampa negato, interpreti introvabili...segnali che, letti a posteriori, confermano come il soggiorno cinese della giornalista fosse vicino alla fine. 


lunedì 7 maggio 2012

"Il lato oscuro di Chen" e la "storia dell'acqua" che ha indignato il web



Eccolo il nuovo affondo del Global Times diretto ancora una volta al dissidente Chen Guangcheng e all'Occidente con il pallino per i diritti umani. Il tabloid del Partito comunista cinese non molla la presa, e torna all'attacco con un editoriale a firma di Sima Pingbang, presunto blogger e "intellettuale grass-roots", come si definisce lui stesso.

E se la scorsa settimana Chen era stato definito dal quotidiano ultra-nazionalista una "pedina dei Paesi occidentali", nel pezzo uscito ieri in serata l'attivista di Linyi diventa "l'asso nella manica degli Stati Uniti" continuamente alla ricerca di una leva volta a scardinare gli equilibri interni della Cina.

Una storia che ridipinge la figura del dissidente a tinte fosche quella raccontata da Sima. Un Chen letteralmente ossessionato dagli Usa, odiato dai suoi compagni di villaggio, avido e assoggettato agli interessi di Washington. La vulgata del misterioso blogger è a dir poco imbarazzante per i toni utilizzati, dopo nemmeno 24 ore dalle scuse pubblicate dal Beijing News sul suo account di Sina Weibo per quanto scritto venerdì scorso riguardo alle presunte subdole dinamiche americane e al ruolo ricoperto da Chen (link).

LA DELUSIONE DI SIMA
Durante una visita effettuata lo scorso dicembre a Dongshigu, la cittadina in cui vivono Chen e la sua famiglia, Sima si sarebbe stupito nello scoprire che la fama del dissidente non era esattamente quella decantata dal web, e che tra lui e i compaesani non scorreva più buon sangue da diverso tempo. Per molti uno sconosciuti, per altri un personaggio scomodo fin troppo conosciuto.
Dopo l'entusiasmo iniziale alla notizia dell'arrivo degli osservatori "grass-rots", Chen avrebbe cominciato ad affermare che il suo problema non era risolvibile con mezzi ordinari.
"Il mio problema può essere risolto soltanto dalle Nazioni Unite" avrebbe dichiarato l'attivista, "ho fiducia solo nelle Nazioni Unite, so che verranno a salvarmi prima o poi".
Sima, che si dice un ex ammiratore delle gesta pro-diritti del popolo per le quali era noto Chen, sarebbe rimasto molto deluso dallo scoprire che in realtà l'idolo dei cittadini oppressi era un egocentrico col chiodo fisso degli Usa.

LA STORIA DELL'ACQUA
L'inchiesta sulle sterilizzazioni forzate e la politica del controllo delle nascite nella contea di Linyi? Nient'altro che una nobilitante copertura.
Secondo la teoria dell'autore del blogger l'incarcerazione di Chen sarebbe stata motivata da alcune dispute locali. Il dissidente si sarebbe servito di fondi ricevuti da una fonte britannica per scavare un pozzo bello profondo attraverso il quale avrebbe risucchiato l'acqua di tutti gli altri pozzi monopolizzando le risorse idriche dell'intero villaggio.
L'imposizione di un pizzo salatissimo ai danni degli altri cittadini avrebbe poi suscitato il malcontento generale spingendo Chen alla vendetta. La rabbia del dissidente è sfociata in attacchi contro il comitato di villaggio e nell'ostruzione delle strade, acuita a causa dei termini stabiliti per il suo rilascio.
E mentre l'attivista continuava a invocare aiuto oltre i confini cinesi, la moglie Yuan Weijing, a detta di Sima, si dimostrò più calma e ragionevole. Ma non sufficientemente persuasiva da indurre il marito a venire a compromessi con le autorità locali.

 POKER CON GLI STATI UNITI
"Gli Stati Uniti non hanno rinunciato a Chen, sanno che rappresenta una specie di carta vincente," conclude l'editoriale del Global Times, "il suo status non vale tanto da far sprecare a Washington altro tempo, ma la sua esistenza rappresenta sempre una carta importante se maneggiata con cura. Chen ha passato il suo periodo di detenzione a causa del suo comportamento scorretto, ma quella che è stata una sentenza giusta e in accordo con la legge viene ora utilizzata dagli Stati Uniti per fare di Chen un così detto attivista dei diritti umani perseguitato. Gli Usa lo hanno ingannato trasformandolo in una pedina da giocare nella trama ordita contro la Cina."

LO SDEGNO DEI NETIZEN
Basta dare uno sguardo alla colonna di commenti in chiusura al pezzo per capire che il grosso dell'opinione pubblica alla versione di Sima non ci ha creduto minimamente.

"Credo che diffondere bugie e false notizie sia illegale in Cina" scrive un netizen che si firma con il nome di Leon.
"Quanto sopra è opera di un "intellettuale" le cui "grass-roots" sono state concimate con i soldi del Partito. Evidentemente dà più importanza al potere del governo che agli interessi del popolo" afferma un certo Tung.
"Oh mio dio, sei veramente un cantastorie incredibile, tu mi uccidi!" è il commento di Havefun
e, infine, volendo parafrasare l'ottimo "francese" di ChairmanMao: "Bene, debbo dire che Sima ha veramente un cervello come il buco del culo".

(Leggi anche Stampa cinese rompe il silenzio su Chen Guangcheng)


Testo originale pubblicato sul Global Times alle 19.30 del 6 maggio
Chen trump for US in human rights game (link)


Poker players all know that in most trick-taking games, the face cards are normally the best. However, the "2", generally the lowest in rank, can become a special trump under certain game rules. It can even turn a losing game completely upside-down, if used properly.

What I'm arguing is not about card games, but blind Chinese activist Chen Guangcheng, who has sadly become a trump in US political games.

As China continues to improve its citizens' human rights, the US has found human rights issues becoming more and more ineffective at causing any major domestic turbulence in China. This has driven the US to seek a special trump to leverage its chance in the changing game, and it has found Chen.

I and a few friends were able to visit Chen last December at his hometown, Dongshigu village in Linyi in Shandong Province. 

To our surprise, Chen's reputation wasn't as far-reaching as we have learned from the Internet. Most people living there had never heard of him or his deeds, including the resourceful local taxi-drivers. This hugely imbalanced fame of Chen's between cyberspace and the reality disappointed me.

Chen was quite excited when he heard of our arrival. He questioned who was behind our visit, and, after learning that we are just a group of grass-roots observers there to look for a peaceful solution, he told us that his problem couldn't be solved by ordinary means. I remember him saying "my problem can only be solved by the UN. I only trust the UN, and it will come to save me sooner or later." 

To be honest, I was quite an admirer of Chen when I first learned of his deeds as a disabled rights activist. But after hearing this attitude, I suddenly didn't know what to say. 

He was pursuing rights for farmers and disadvantaged people. But later he was completely bewitched by the belief that only the US government can save him.

Moreover, according to other villagers, Chen's imprisonment a few years ago had nothing to do with his work. It was actually a pretty common local conflict.  They told me that Chen built a deep well using funds he received from a British source. But that well sucked out water from other wells in the village, which meant Chen effectively controlled the village's water. 

They claimed that Chen charged high fees for the water and caused discontent from villagers, some of them then openly voiced their unhappiness and that angered Chen. So he asked his family members to attack the village committee and blocked public roads in order to vent his anger. 

Chen's relationship with the locals worsened when Chen was protesting his jail term after he was released, particularly when he called people outside the village and even outside the country to cry for him.

His wife, Yuan Weijing, was more reasonable and calm. Although we were not coming to "rescue" Chen, she was more willing to talk with us. We suggested her calm Chen down, and expressed our willingness to help them negotiate with local authorities to seek a positive end to this dispute. 

Although Chen himself rejected our help, I still saw hope at that time. We were told that officials want to solve Chen's issue in a positive way, but were clueless because Chen trusts only outsiders who cry for him. 

A few days ago, he entered the US embassy in Beijing, but after spending six days there, he left "on his own volition," according to media report. 

The US hasn't given up Chen, but they know that Chen is a special trump card. His status doesn't deserve the US expending too much effort yet his existence can serve the US' purposes well if he can be handled properly.

Chen has served its term in jail for his misbehavior. But this legally justified sentence had somehow become a reason for the US to promote him as a so-called oppressed human rights activist. The US deceived Chen into becoming a pawn in its plot against China. 
The author is a blogger and grass-roots intellectual. opinion@globaltimes.com.cn



Hukou e controllo sociale

Quando nel 2012 mi trasferii a Pechino per lavoro, il più apprezzabile tra i tanti privilegi di expat non era quello di avere l’ufficio ad...