venerdì 27 giugno 2014

La Repubblica popolare dell'acciaio


In tempi di rallentamento economico e lotta all'inquinamento a vedersela peggio sono cementifici e acciaierie, i responsabili numero uno delle nubi grigie che ammantano la Cina. Adeguarsi alle nuove normative ambientali potrebbe comportare un aumento dei costi del 10-20% per le fabbriche inquinanti costrette a controllare scrupolosamente le emissioni di anidride solforosa, polvere sottili, metalli pesanti e diossine. Molte sono già state costrette a chiudere, per altre si profila un futuro a tinte foschissime, ora che Pechino ha dimostrato di voler ripulire il settore eliminando i carrozzoni improduttivi nemici dell'ambiente. Anche a costo di tollerare qualche default, purché controllato.

Il Governo sta colpendo duro sopratutto nelle zone più contaminate, che neanche a dirlo sono proprio i centri dell'industria pesante cinese: in particolare le municipalità di Pechino e Tianjin, nonché la provincia nord-orientale dello Hebei che vanta una produzione annua di acciaio di 70 milioni di tonnellate. Entro il 2017 il Dragone conta di ridurre i livelli di PM2,5 di quest'area del 25%, un obiettivo raggiungibile soltanto perseguendo una massiccia riduzione della dipendenza dal carbone, fonte energetica per eccellenza del Paese e nutriente principale del siderurgico cinese.

Il settore dell'acciaio viene generalmente considerato termometro dello stato di salute dell'economia del Paese. Debole per tutto il periodo delle due guerre, in rapida ascesa con l'avvio delle riforme anni '80, e letteralmente in volo con l'ingresso del gigante asiatico nella World Trade Organization (WTO). Il recente appetito della Repubblica popolare per il manifatturiero (sopratutto automotive, elettronica di consumo e settore edile) ha ulteriormente surriscaldato un settore che, ancora prima del cambio di Secolo, rischiava di sfuggire di mano, dominato com'era dai colossi di Stato (Baosteel, Angang Steel Company e Tangshan per citarne alcuni), grandi gruppi appartenenti alle autorità centrali e ai poteri locali attraverso quote di partecipazione.

Sebbene arginata con un consistente pacchetto di stimoli, la crisi finanziaria mondiale non ha risparmiato nemmeno Pechino; oggi il mercato dell'acciaio si trova a fronteggiare un crollo verticale dei profitti del 98% rispetto allo scorso anno. I prezzi del minerale ferroso sono precipitati di oltre il 20% quest'anno a causa del surplus delle forniture globali e della frenata della domanda dalla Cina, principale consumatore nonché produttore della lega a livello mondiale (il Dragone contribuisce ai depositi globali per un 47%). Nel 3013 la produzione cinese ha raggiunto la quota record di 779 milioni di tonnellate e, secondo stime di 'Bloomberg', per quest'anno l'aumento dovrebbe essere del 3,8% a 809 milioni, superando la domanda che, con un + 3,3%, si attesterebbe sulle 752 milioni di tonnellate.

Dall'inizio dell'anno, a riportare perdite sono state ben l'80% delle acciaierie private e diverse imprese statali; soltanto nella città di Tangshan,170 chilometri a est della capitale, 199 fabbriche si sono viste interrompere le forniture elettriche perché non in regola con gli standard ambientali. E la situazione minaccia di perdurare senza previsione di miglioramenti per i prossimi tre o quattro anni, avverte Xu Zhongbo di Beijing Metal Consulting. (Segue su L'Indro)

giovedì 26 giugno 2014

Pechino sceglie la Grecia


Non solo porti, ma anche linee ferroviarie e infrastrutture aeroportuali. La Cina cementa la partnership con Atene e aggiunge un altro mattone al proprio avamposto occidentale. La tre giorni del premier cinese Li Keqiang in Grecia non ha fatto altro che confermare il sostegno di Pechino al Paese più debole dell'Eurozona, mantenuto a galla grazie ai prestiti di Unione Europea e Fondo Monetario Internazionale. L'ultima tranche di accordi vale 3,4 miliardi di euro e spazia dai prestiti delle banche cinesi per la realizzazione di almeno 10 imbarcazioni alla costruzione di parchi ad energia solare, passando per il commercio di prodotti agroalimentari. «Le due economie sono complementari», ha scritto Li alcuni giorni fa sul quotidiano locale 'Kathaimerini', «la Grecia sta accelerando le privatizzazioni e la costruzione di infrastrutture. La Cina vuole che le sue imprese ben consolidate svolgano un ruolo attivo in questo processo». E Pechino sa come tirare acqua al proprio mulino: nel 2011 i due Governi hanno istituito un fondo comune da 10 miliardi di dollari per offrire agli armatori greci prestiti a basso interesse, a condizione che le navi vengano costruite nei porti del Regno di Mezzo.

Ma al di là della retorica, i numeri evidenziano un volume di affari tra i due Paesi estremamente basso. Secondo alcuni dati forniti dalla Camera di Commercio e dell’Industria greco-cinese, i rapporti bilaterali nel 2011 si aggiravano sui 3,25 miliardi di euro e l'anno successivo rappresentavano solo lo 0,6% del totale degli scambi tra Cina e UE. Sembrerebbe, quindi, piuttosto evidente che l'attrazione del Dragone per Atene sia strettamente in funzione di un riposizionamento degli interessi cinesi nel 'Mare Nostrum' . Scambi virtuosi a parte. (Segue su L'Indro)

sabato 21 giugno 2014

Tutte le sfumature della partnership Cina-UE


La guerra dei dazi non ha scalfito la partnership strategica tra la seconda economia del mondo e l'Unione Europea. Nonostante le accuse che vogliono le imprese di Stato cinesi avvalersi di sussidi sleali e facile accesso ai capitali, per via del cordone ombelicale che le lega al Governo di Pechino, il commercio bilaterale ha superato i 590 miliardi di dollari l'anno. L'UE si è confermata per il decimo anno di fila il principale mercato di sbocco per le merci cinesi, mentre la Cina è ancora la seconda destinazione per le esportazioni dai 28 Paesi membri, dopo gli Stati Uniti. Nell'aria fluttua un accordo di libero scambio tra Unione Europea e gigante asiatico, fortemente auspicato dalla Gran Bretagna, ma sul quale Bruxelles procede con maggior cautela, evidenziando la scarsa coesione che caratterizza il blocco. Come ci diceva tempo fa Maurizio Scarpari, docente di lingua cinese presso la Ca' Foscari di Venezia: "Ormai la partita si gioca a livello di G2, tra Cina e Stati Uniti; l'Europa non è ancora un interlocutore credibile e continuerà a non esserlo finché non raggiungerà una coesione politica ed economica effettiva".

Fino a oggi, infatti, Pechino ha sempre riconosciuto in Berlino il principale interlocutore europeo, ripartendo i propri partner su un podio che vede la Germania in cima e a seguire Francia e Gran Bretagna. Nel 2012, gli scambi bilaterali tra la seconda economia al mondo e la prima economia europea hanno raggiunto i 144 miliardi di euro.

Da mesi, i leader europei sono impegnati in un delicato corteggiamento diplomatico, cominciato a novembre dopo il Terzo Plenum del Partito, evento che ha sancito l'inizio di riforme epocali per la Repubblica popolare; nello stesso mese per la prima volta la capitale cinese ha ospitato l'UE-China Summit, primo incontro tra i nuovi timonieri e i pesi massimi europei. Lo scorso dicembre, il Premier britannico David Cameron è giunto a Pechino con una truppa di imprenditori al seguito. Soltanto alcuni giorni fa, il Primo Ministro cinese Li Keqiang ha ricambiato volando a Londra per l'ultimazione di accordi del valore di 14 miliardi di sterline (17,5 miliardi di euro). A marzo la Francia ha messo a segno un'intesa per operazioni commerciali da 18 miliardi di euro, in occasione di un corposo tour europeo che ha visto il Presidente cinese Xi Jinping toccare anche Olanda, Germania e Belgio. Durante la trasferta il numero uno di Pechino ha sottolineato l'"intimità culturale" che lega la culla della civiltà orientale e quella occidentale. Da ultimi, la missione di Matteo Renzi oltre la Muraglia, valutato dagli esperti un gran successo a giudicare dall'affluenza di capi di grandi aziende cinesi al primo Business Forum Italia-Cina, e il viaggio di Li Keqiang in Grecia, dove il colosso della logistica cinese Cosco lavora da alcuni anni allo sviluppo del porto del Pireo, d'importanza strategica per la sua posizione come porta d'accesso all'Europa e ai Balcani.

La pubblicazione, nel mese di aprile, del dossier sulle politiche cinesi relative all'UE parrebbe testimoniare un interessamento non riservato a qualsiasi partner economico. Alcune questione rendono la liaison con Bruxelles particolarmente preziosa per il gigante asiatico. Da una parte, Pechino teme di svegliarsi un giorno commercialmente isolato dal raggiungimento di un'intesa tra Unione Europea e Stati Uniti per la partnership euro-atlantica (TTIP). Dall'altra, l'assenza di particolari punti di frizione con le Nazioni europee (diritti umani a parte) fanno di Bruxelles un prezioso sodale per controbilanciare lo strapotere americano e svincolarsi da una quasi-alleanza claustrofobica con Mosca. Nessuno dei Paesi europei ha avanzato mire espansionistiche in Oriente; fattore che non guasta in un momento in cui la Cina -già impegnata in dispute per la sovranità di alcune aree contese con i vicini asiatici- avverte con fastidio l'avanzata opprimente del Pivot to Asia americano. In meno di un anno, sia Xi che Li si sono recati in Germania, Paese al quale la dirigenza cinese guarda con simpatia per l'umiltà con la quale ha saputo riconoscere gli errori commessi sotto il Nazismo. Un mea culpa che Pechino pretende anche da parte del Giappone, nemico storico del Dragone e a sua volta autore di efferatezze ancora vive nella memoria del popolo cinese, a partire dallo "stupro di Nanchino".

Dunque, Europa come asso nella manica su svariati fronti. Eppure, è bene ricordare che durante il primo anno dell'amministrazione Xi-Li il Vecchio Continente non era rientrato tra le priorità dell'agenda estera del neo-presidente, il quale aveva invece dato la precedenza a Russia, Africa e America Latina. Una scelta che il 'Diplomat' attribuisce alla valenza politica (più che economica) dei viaggi istituzionali del numero uno di Pechino, come conferma il meeting informale tenuto con Obama nel giugno 2013. Africa e America Latina rientrerebbero in una sfera più strettamente diplomatica in virtù dei sussidi e dei progetti infrastrutturali con i quali il gigante asiatico tenta di scrollarsi di dosso l'epiteto di neo-colonizzatore dei Paesi in via di sviluppo. Qualcosa di più sottile di un'operazione commerciale tout court. Di contro, la partnership con l'UE è ancora di tipo strettamente economico e, pertanto, rientra nel raggio d'azione del Capo di Governo. Lo evidenzia il fatto che, su tre trasferte compiute lo scorso anno da Li Keqiang, due sono avvenute in territorio europeo.

Lo scorso novembre, a una settimana dal summit con i Paesi UE, il Primo Ministro aveva partecipato al CCEE (China-Central and Eastern Europe leader's meeting), in occasione del quale ha espresso il desiderio di vedere gli scambi con l'Europa centrale e orientale raddoppiare entro il 2018. Un'area geografica, questa, considerata fondamentale per la realizzazione di una nuova "Via della Seta"; una cintura economica che, tagliando di netto l'Eurasia -nei piani di Xi Jinping- collegherà l'ex Impero Celeste al "vicinato più esteso". Di cui il Vecchio Continente non può non fare parte. (Scritto per Uno sguardo al femminile)








venerdì 20 giugno 2014

Piccoli atolli crescono


Si racconta che la flotta guidata dall'ammiraglio Zheng He contasse più di 300 imbarcazioni tra giunche commerciali e navi da guerra, per un totale di quasi 30.000 marinai. Sette furono le spedizioni di carattere diplomatico, scientifico e commerciale che tra il 1405 e il 1433 solcarono gli Oceani Pacifico e Indiano andando a toccare Corea, Indocina, Indonesia, India fino a sfiorare la penisola arabica e le coste somale. Quelle stesse aree oggi implicate dalle dispute territoriali tra Cina e vicini, o dove le ambizioni marittime di Pechino si intrecciano con la battaglia internazionale contro la pirateria. La storia ci insegna che ben presto il Celeste Impero tornò ad essere una potenza continentale; la parentesi marittima venne sacrificata sull'altare della coesione interna. «La capitale ritornò a Pechino perché la minaccia mongola dal nord non era stata debellata. Le casse dello stato indirizzarono il denaro alla difesa tradizionale, nella costruzione e nella coltivazione ideologica della Grande Muraglia. Prevalse in definitiva l’impostazione conservatrice e sino-centrica dei discepoli di Confucio: la Cina è una potenza continentale, l’agricoltura prevale sulle altre attività produttive, i commercianti sono dei parassiti, il mare è pericoloso, la protezione della differenza cinese è nevralgica», scrive sul suo blog Romeo Orlandi, Presidente del Comitato Scientifico di Osservatorio Asia.

L'attivismo cinese nell'Asia-Pacifico è, in realtà, argomento di cronache piuttosto recenti. Per oltre un decennio, gli sforzi militari di Pechino sono stati finalizzati al ricongiungimento della provincia ribelle Taiwan alla madrepatria. Come sottolineano alcuni esperti, la questione taiwanese è costata alla Cina un notevole ritardo sulla tabella di marcia, mentre gli altri attori della regione -Filippine e Vietnam in primis- hanno rafforzato la loro presenza nel Mar Cinese Meridionale attraverso la costruzione di infrastrutture su atolli e scogliere di loro dominio. Proprio lo scorso 8 giugno, il personale navale dei due Paesi asiatici, sempre più uniti in funzione anticinese, aveva organizzato incontri sportivi a margine di un conclave tenutosi a Southwest Cay, suscitando le ire di Pechino. L'isola in questione, occupata dalle milizie vietnamite negli anni '70 ma tutt'oggi rivendicata da Cina e Filippine, vanta addirittura un campo da calcio.

Secondo quanto rivelato da un ufficiale occidentale al 'New York Times', dal mese di gennaio la Repubblica popolare starebbe lavorando alla nascita di almeno tre nuove isole (tra i 20 e i 40 acri ciascuna) nell'arcipelago conteso delle Spratly in grado di ospitare edifici di grandi dimensioni, insediamenti umani e apparecchiature di sorveglianza. Dai primi rilevamenti, almeno un impianto sembrerebbe essere destinato ad uso militare, mentre, in generale, le isole potrebbero servire da scalo per i rifornimenti delle navi pattuglia cinesi. Accuse, queste, respinte dalle autorità di Pechino, per le quali le costruzioni hanno esclusivamente lo scopo di aumentare la capacità di soccorso umanitario e di coordinamento delle attività ittiche nazionali. E sono, peraltro, pienamente giustificate dall'«indiscutibile sovranità della Cina sulle Nansha», ha dichiarato il portavoce del Ministero degli Esteri riferendosi alle Spratly con il loro nome cinese. (Segue su L'Indro)

mercoledì 18 giugno 2014

Alibaba 'nel pallone'


Pare che tutto sia nato davanti a un drink nella vicina Hong Kong. Il matrimonio tra il Guangzhou Evergrande e Alibaba è stato suggellato da una firma tra il magnate del real estate Xu Jiayin e Jack Ma, fondatore e presidente della società di shopping online. Appena 15 minuti e il colosso dell'e-commerce si è aggiudicato il 50% delle azioni del principale club calcistico cinese, con base a Canton, per 1,2 miliardi di yuan (192 milioni di dollari). «E' veramente economico. Non avevo idea di quanto potesse valere una squadra di calcio», ha dichiarato Ma in conferenza stampa. Eppure, stando a quanto riportato dal 'South China Morning Post', lo scorso mese il papà di Alibaba aveva rifiutato un'offerta simile per l'acquisto dell'Hangzhou Greentown, altra squadra della CSL (la Chinese Super League, massima serie calcistica cinese), che al momento appartiene per il 96% delle sue quote a Song Weiping, boss di Greentown China, tra i principali promotori immobiliari del Paese.

L'accordo arriva in coda ad una serie di acquisizioni di alto profilo e in attesa del debutto in Borsa con cui Alibaba punta a raccogliere almeno 15 miliardi di dollari, segnando una svolta rispetto al core business perseguito fino ad oggi. Ai più scettici Ma risponde così: «Non importa che io non capisca niente di football. Non ne sapevo nulla nemmeno di vendite, e-commerce o di internet, ma questo comunque non mi ha impedito di andare avanti». Poi, motivando la mossa, ha scandito: «Il calcio è qualcosa che infonde felicità tra le persone, ed è proprio al felicità che mi ha persuaso a investire».

Nel 2012, con oltre 130 miliardi di euro, l'azienda dello shopping online ha fatturato più di eBay e Amazon messi insieme. Virare verso l'entertainment potrebbe servire ad assicurare ai propri siti mobile di e-commerce un flusso stabile di utenti. Sopratutto dopo che l'esplosione degli smartphone ha messo a dura prova il tradizionale sistema dello shopping online via pc, costringendo la società ad ampliare lo spettro delle proprie attività per non perdere clienti. Il processo di trasformazione ha preso il via alcuni mesi fa. A gennaio l'azienda ha cominciato a offrire videogiochi per dispositivi mobile attraverso la sua app di mobile e-commerce;  assunto il controllo del ChinaVision Media Group, a marzo ha istituito una società cinematografica a Hong Kong, mentre ad aprile ha acquistato una partecipazione del 16,5 % in Youku Tudou Inc., specie di Youtube in salsa di soia. Fino ad estendere i propri rami nel Sud-est asiatico, con l'acquisto del 10% del 'Singapore Post', lo scorso mese. Si stima che dall'inizio dell'anno la creatura di Jack Ma abbia già speso 6 miliardi di dollari in servizi finanziari, sanitari e d'intrattenimento. (Segue su L'Indro)

sabato 14 giugno 2014

Renzi alla corte di Xi Jinping


Non si può certo dire che il primo approccio renziano all'Oriente fosse stato entusiasmante: il Presidente del Consiglio si è reso responsabile di una gaffe clamorosa proprio alla vigilia della tournée asiatica, accogliendo il Premier giapponese Shinzo Abe, in visita a Roma, con un piccolo inchino a mani giunte. Un saluto esotico, sì, peccato che tipicamente indiano. Renzi se l'è cavata decisamente meglio sul campo, guadagnandosi il plauso di chi fa affari con l'Asia da anni. Dopo un breve pit stop in Vietnam - trampolino di lancio delle aziende italiane verso il mercato asiatico in virtù degli accordi di libero scambio tra Hanoi e le Nazioni dell'Asean -, il Premier ha proseguito per Shanghai e Pechino spalleggiato da uno stuolo di imprenditori.

A dieci anni dalla prima missione 'di sistema' guidata da Ciampi e Montezemolo, le pmi italiane faticano ancora ad espugnare la Grande Muraglia, scontrandosi con il capitalismo di Stato cinese. Ma come fa notare Alessandro Barbera su 'La Stampa', due dati infondono conforto: innanzitutto, l'idea che il capitalismo di Stato non potrà durare per sempre. Secondo pronostici di Andrea Goldstein dell'Ocse, ci si aspetta in un prossimo futuro un riequilibrio tra Stato e mercato. In secondo luogo, la constatazione che le similitudini tra il gigante asiatico e il Belpaese sono di più del previsto: nonostante lo strapotere dei colossi statali, «l'80% dell'economia cinese è fatta a sua volta di piccole imprese».

Le cifre dell'interscambio commerciale tra Cina e Italia (33 miliardi di euro nel 2013), per il Presidente del Consiglio Renzi, non rispecchiano le effettive potenzialità dei due Paesi e la responsabilità è nostra. «I 23 miliardi di euro di importazioni a fronte dei 10 miliardi di export del 2013 dipendono tutti da noi e siamo noi a dover cambiare questa situazione». Secondo il gruppo assicurativo SACE, l'export italiano verso il Regno di Mezzo metterà a segno una crescita media annua superiore all'11% nei prossimi quattro anni, scrive l''Huffington Post'. Come spiegato dallo stesso Renzi, la direzione da seguire è quella dell' internazionalizzazione. «Noi non siamo qui per riportare a casa le aziende», ha scandito, «siamo qui per dire che occorre più Italia all'estero». (Segue su L'Indro)

giovedì 12 giugno 2014

Equilibrismi mediorenitali


A dieci anni esatti dalla fondazione, la scorsa settimana il CACF (China-Arab Cooperation Forum) ha tenuto il suo sesto meeting ministeriale, attraendo nella capitale cinese i rappresentati della politica estera di 19 dei 21 Paesi membri spalmati tra Medio Oriente e Nord Africa. Tra questi, Giordania, Yemen e Bahrain. Il forum costituisce un canale privilegiato tra Cina e Lega Araba, nato nel 2004 da un'intuizione dell'ex Presidente cinese Hu Jintao in visita al Cairo e oggi più attuale che mai alla luce del progressivo ritiro delle truppe americane dall'Asia Centrale. Un vuoto che Pechino si appresta a riempire con una versione speculare del 'pivot to Asia' di Obama con 'caratteristiche cinesi'; ovvero senza sparare nemmeno un colpo di fucile, ma tessendo relazioni commerciali rigorosamente 'win-win'. Almeno a parole. Parafrasando quanto affermato dal Presidente Xi Jinping nel discorso d'apertura: «Vogliamo implementare il nostro sviluppo e aiutare gli altri Paesi a crescere».

Nel mese di dicembre, la visita in Medio Oriente del Ministro degli Esteri cinese Wang Yi era stata accolta con entusiasmo da parte dei Paesi del Golfo, pronti ad afferrare la mano allungata dal Dragone pur di allentare la propria dipendenza economica da Washington. Lo scorso anno i rapporti bilaterali tra il gigante asiatico e la regione hanno toccato i 239 miliardi di dollari, con la Cina principale partner commerciale di nove Stati arabi. Allo stesso tempo, oltre ad essere principale importatrice di petrolio dal Golfo Persico, la Repubblica popolare parrebbe ormai guidare anche la crescita della domanda complessiva di greggio dall'OPEC (Organization of the Petroleum Exporting Countries).

Alla vigilia del CACF, Wang aveva preannunciato la volontà di Pechino di rafforzare la partnership strategica nei settori in cui la partecipazione cinese ancora langue, irrobustendo la tradizionale cooperazione nel comparto commerciale e degli idrocarburi, aprendo, al contempo, a settori emergenti quali energia nucleare e ricerca spaziale. Nel prossimo decennio, i rapporti virtuosi tra gli aderenti al CACF seguiranno le direttive racchiuse in un nuovo piano di sviluppo dai contenuti non meglio noti, le cui linee guida, tuttavia, rievocano un concetto caro a Xi Jinping. Quello - inaugurato dallo stesso leader cinese nel 2013 in occasione di una visita di Stato in Asia Centrale e nel Sud-est asiatico - che prevede la nascita di una cintura economica lungo rotte terrestri e marittime. Una Via della Seta in chiave moderna, che arriva a toccare zone cruciali come Iraq, Siria, Golfo di Aden e Mar Rosso. Non a caso alcuni mesi fa, Wang Yi ha messo segno la prima visita di un alto funzionario cinese in terra irachena da 10 anni a questa parte. (Segue su L'Indro)

martedì 10 giugno 2014

Il sogno canadese


Il pomeriggio dell'11 febbraio, il governo federale canadese ha annunciato che interromperà l'Immigrant Investor Program, con il risultato che i 66mila applicanti fino ad oggi in attesa si vedranno chiudere la porta in faccia senza alcuna distinzione. Si stima che tra questi 57mila provengano dalla Cina, tre quarti dei quali pare abbiano fatto richiesta di aderire al programma principalmente per assicurare un'istruzione migliore ai propri figli.I cinesi che si sono arricchiti per primi si affrettano oltremare per attingere al sistema educativo. Non soltanto perché la qualità dell'istruzione all'estero è migliore, ma anche perché, a ben vedere, i costi sono più contenuti rispetto a quelli ai quali è necessario far fronte in Cina.

"Se stiamo insieme, sei disposto a seguirmi in Canada?" chiedeva in una puntata del famoso dating show televisivo "You Are the One" una ragazza al concorrente dell'altro sesso. Ora quella domanda sembra non avere più senso: infatti, se quella ragazza ad agosto del 2013 era ancora in lista tra gli applicanti per il programma d'immigrazione canadese, ormai quasi certamente non riuscirà più a espatriare.

Il pomeriggio dell'11 febbraio 2014, il governo di Ottawa ha lanciato un nuovo piano economico per l'anno in corso, che prevede l'interruzione dell'Immigrant Investor Program. I 66mila applicanti ancora in attesa si vedranno chiudere la porta in faccia senza alcuna distinzione. Si stima che tra questi 57mila provengano dalla Cina; il 98 per cento dalla Cina continentale.

Nel 2009 ad aver presentato domanda c'era anche un imprenditore di nome Wang Bin. Nonostante il 9 febbraio Wang avesse già intravisto su QQ la notizia di una possibile modifica del programma, ricevere la conferma ufficiale di una revoca "senza distinzioni" è stato per lui come una coltellata al petto.

Anche Han Lei, 38enne businessman di Nanchino, ha visto tutti i suoi piani naufragare improvvisamente. Voleva lasciare la Cina sopratutto per far studiare il figlio all'estero. Quattro anni di attese e ormai il bambino, che ha compiuto otto anni, frequenta già la scuola elementare. "All'improvviso mi hanno detto che non potevo più andare, ma mio figlio nel frattempo mica smette di crescere!". Han pensa che il governo canadese gli abbia tirato una fregatura.

Negli ultimi dieci anni è aumentato sempre di più il numero dei cinesi ricchi che, come Wang Bin e Han Lei, hanno deciso di ottenere un'altra nazionalità o la residenza permanete in un altro paese, attraverso programmi di immigrazione per investitori e lavoratori qualificati. Canada, Stati Uniti, Australia e Singapore sono le mete preferite.
Secondo il "Rapporto mondiale sulle migrazioni" pubblicato dall'Organizzazione delle Nazioni Unite, nel 2013 la diaspora cinese contava già 934,3 milioni di unità, rendendo la Cina il quarto "esportatore" al mondo di migranti.

Perché partire? La risposta è scontata: o per il desiderio di aria pulita e cibo sano, o per trasferire i propri capitali all'estero. Il Southern Weekly ha intervistato alcuni applicanti, le agenzie di immigrazione e i sociologi. La maggior parte di loro ha dato la stessa risposta: "lo facciamo per i figli; perché i nostri figli possano accedere ad un sistema scolastico migliore". La conferma arriva da un sondaggio sui nuovi ricchi cinesi, secondo il quale il 76,7 per cento dei migranti cinesi lascerebbe gli ormeggi proprio pensando ai propri discendenti.

E' una specie di versione moderna dell'antica storia cinese "i tre trasferimenti della madre di Mencio". Questa volta, però, sono i giovani genitori benestanti ad affollarsi oltreoceano per offrire ai propri bambini standard educativi superiori. La virata nell'Immigrant Investor Program fornisce l'occasione per un'analisi sociologica più ampia, in cui la rabbia dei richiedenti, che dopo infinite attese si sono visti esclusi, riflette le ansie dei nuovi parvenu cinesi.

Troppo tardi
La ricchezza materiale li rende particolarmente esigenti verso la qualità e l'ambiente di vita per sé e per la loro prole. Nel 2008 Han Lei non era ancora deciso a partire. Dopo la laurea, si era aperto una società nel settore dell'high-tech. La sua situazione finanziaria era florida, nonostante si fosse comprato casa e macchina. Ormai raggiunta una certa età e la stabilità di vita, l'unico pensiero di Han era che suo figlio potesse diventare una persona di successo.

Nonostante molti tra i suoi amici fossero già andati via, lui non non aveva ancora mai varcato i confini nazionali. Era stato il figlio di alcuni suoi amici emigrati in Canada a fargli cambiare idea. Una volta si era recato a casa loro ed era rimasto sbigottito venendo accolto alla porta dal bambino con modi "urbani" e beneducati. Prima di andare a studiare in Canada, quel ragazzino non salutava nemmeno. Non solo.

Hua scoprì che si programmava persino le giornate da solo, organizzando il tempo per il gioco e quello da dedicare allo studio. E non c'era nemmeno bisogno di controllarlo: finiva i compiti da sé. Eppure Hua se lo ricordava bene, prima di andare all'estero i suoi risultati scolastici erano peggiori di quelli di suo figlio. Domandò agli amici quali fossero le cause di quel cambiamento radicale e questi gli risposero che era tutto merito dei metodi d'insegnamento canadesi. (Tradotto per China Files/Internazionale)

venerdì 6 giugno 2014

'Essere trasformati in malati mentali'


Alla fine Wu Chunxia ha ottenuto giustizia. Alcuni giorni fa, l'Alta Corte dello Henan ha sentenziato in favore della donna ingiustamente rinchiusa dalla polizia locale in un ospedale psichiatrico per 132 giorni. Tutto è cominciato nell'aprile 2008, quando le autorità la intercettarono mentre cercava di raggiungere Pechino per chiedere aiuto a All-China Women's Federation, dopo le ripetute violenze subite in casa. Tre mesi più tardi, fu prelevata dalle forze dell'ordine e sottoposta a 10 giorni di detenzione. Condannata senza processo dalle autorità locali a un anno di 'rieducazione attraverso il lavoro', fu, tuttavia, internata in un manicomio per essere curata dalla sua presunta schizofrenia. «Mi hanno coperto gli occhi, costretta a prendere delle pillole e sottoposto a elettroshock tre volte alla settimana», racconta Wu al 'Beijing News', «più cercavo di dimostrare la mia normalità , più (i medici) mi dicevano che ero malata». L'ospedale ha acconsentito a dimetterla soltanto dopo svariati tentativi di suicidio. Una volta tornata in libertà, Wu ha citato in giudizio la struttura sanitaria ricevendo 150mila yuan a titolo di risarcimento. Troppo poco rispetto a quanto patito. Nel 2012 la donna ha intentato causa contro la stazione di polizia di Zhoukou, che -nonostante il ricorso in appello- è stata giudicata colpevole il mese scorso.

Per anni attivisti, petizionisti e 'nemici del regime' sono stati rinchiusi in centri psichiatrici, finendo nella zona grigia che separa Governo centrale e autorità locali, spesso responsabili di soprusi non avvallati da Pechino. Non solo. A causa dell'inaccuratezza dei controlli medici, persone perfettamente sane sono state ricoverate su pressione dei parenti in seguito a dispute famigliari, venendo «sottoposte ad abusi continui». Un fenomeno noto con il nome di bei jingshen bing, 'essere trasformati in malati mentali'. Lo scorso anno, il direttore del Fourth People's Hospital di Urumqi, capitale provinciale dello Xinjiang, ha riconosciuto che tra il 70 e l'80% dei malati presenti nella struttura erano stati ammessi 'forzatamente'. (Segue su L'Indro)

giovedì 5 giugno 2014

Giovani, studiosi e sucidi


Quando il Professor Zhu lesse il biglietto non ebbe un attimo di esitazione. Andò subito a cercarla. La ragazzina era sparita da alcuni giorni lasciando quell'unico messaggio: voleva abbandonare gli studi e scappare di casa. La trovò da una compagna di classe, provò a consolarla fino a notte fonda, ma la disperazione ebbe il sopravvento. La giovane si precipitò verso la finestra per farla finita. Zhu riuscì ad afferrarla al volo, poi i due precipitarono nel vuoto. La studentessa si è salvata, l'insegnante è morto eroicamente facendole da scudo con il proprio corpo.

Tragedie come quella consumatasi nella scuola media di Jinji, Provincia dello Anhui, non sono rare in Cina. Accadono la maggior parte delle volte senza tanto rumore, senza finali eroici o titoloni sui giornali, ma accadono.

Secondo quanto riportano i media di Stato, in Cina il suicidio è la prima causa di morte per la popolazione compresa nella fascia d'età tra i 15 e i 34 anni. Sebbene le stime esatte vengano ancora tenute nascoste -stando a una rivista del Ministero della Salute- ogni anno sarebbero circa 500 i ragazzi delle scuole elementari e medie a togliersi la vita. Mentre, secondo il 'Journal Adolescent Health', tra il 6% e il 10% dei ragazzi cinesi ha cercato almeno una volta di uccidersi. Lo scorso 14 maggio, l'organizzazione no-profit 21st Century Education Research Institute ha rilasciato un nuovo libro blu compilato congiuntamente da associazioni governative ed educative di varie aree del Paese. Dei 79 casi di suicidi tra le mura degli istituti primari e secondari presi in esame lo scorso anno, il 92% si è verificato in seguito a periodi di particolare stress scolastico o a diverbi con gli insegnanti; il 63% è avvenuto nella seconda parte dell'anno, con l'avvicinarsi dei temuti esami di ammissione alle scuole superiori e del famigerato gaokao, l'equivalente della nostra maturità. (Segue su L'Indro)

Hukou e controllo sociale

Quando nel 2012 mi trasferii a Pechino per lavoro, il più apprezzabile tra i tanti privilegi di expat non era quello di avere l’ufficio ad...