venerdì 20 giugno 2014

Piccoli atolli crescono


Si racconta che la flotta guidata dall'ammiraglio Zheng He contasse più di 300 imbarcazioni tra giunche commerciali e navi da guerra, per un totale di quasi 30.000 marinai. Sette furono le spedizioni di carattere diplomatico, scientifico e commerciale che tra il 1405 e il 1433 solcarono gli Oceani Pacifico e Indiano andando a toccare Corea, Indocina, Indonesia, India fino a sfiorare la penisola arabica e le coste somale. Quelle stesse aree oggi implicate dalle dispute territoriali tra Cina e vicini, o dove le ambizioni marittime di Pechino si intrecciano con la battaglia internazionale contro la pirateria. La storia ci insegna che ben presto il Celeste Impero tornò ad essere una potenza continentale; la parentesi marittima venne sacrificata sull'altare della coesione interna. «La capitale ritornò a Pechino perché la minaccia mongola dal nord non era stata debellata. Le casse dello stato indirizzarono il denaro alla difesa tradizionale, nella costruzione e nella coltivazione ideologica della Grande Muraglia. Prevalse in definitiva l’impostazione conservatrice e sino-centrica dei discepoli di Confucio: la Cina è una potenza continentale, l’agricoltura prevale sulle altre attività produttive, i commercianti sono dei parassiti, il mare è pericoloso, la protezione della differenza cinese è nevralgica», scrive sul suo blog Romeo Orlandi, Presidente del Comitato Scientifico di Osservatorio Asia.

L'attivismo cinese nell'Asia-Pacifico è, in realtà, argomento di cronache piuttosto recenti. Per oltre un decennio, gli sforzi militari di Pechino sono stati finalizzati al ricongiungimento della provincia ribelle Taiwan alla madrepatria. Come sottolineano alcuni esperti, la questione taiwanese è costata alla Cina un notevole ritardo sulla tabella di marcia, mentre gli altri attori della regione -Filippine e Vietnam in primis- hanno rafforzato la loro presenza nel Mar Cinese Meridionale attraverso la costruzione di infrastrutture su atolli e scogliere di loro dominio. Proprio lo scorso 8 giugno, il personale navale dei due Paesi asiatici, sempre più uniti in funzione anticinese, aveva organizzato incontri sportivi a margine di un conclave tenutosi a Southwest Cay, suscitando le ire di Pechino. L'isola in questione, occupata dalle milizie vietnamite negli anni '70 ma tutt'oggi rivendicata da Cina e Filippine, vanta addirittura un campo da calcio.

Secondo quanto rivelato da un ufficiale occidentale al 'New York Times', dal mese di gennaio la Repubblica popolare starebbe lavorando alla nascita di almeno tre nuove isole (tra i 20 e i 40 acri ciascuna) nell'arcipelago conteso delle Spratly in grado di ospitare edifici di grandi dimensioni, insediamenti umani e apparecchiature di sorveglianza. Dai primi rilevamenti, almeno un impianto sembrerebbe essere destinato ad uso militare, mentre, in generale, le isole potrebbero servire da scalo per i rifornimenti delle navi pattuglia cinesi. Accuse, queste, respinte dalle autorità di Pechino, per le quali le costruzioni hanno esclusivamente lo scopo di aumentare la capacità di soccorso umanitario e di coordinamento delle attività ittiche nazionali. E sono, peraltro, pienamente giustificate dall'«indiscutibile sovranità della Cina sulle Nansha», ha dichiarato il portavoce del Ministero degli Esteri riferendosi alle Spratly con il loro nome cinese. (Segue su L'Indro)

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