mercoledì 28 novembre 2018

Hukou e controllo sociale



Quando nel 2012 mi trasferii a Pechino per lavoro, il più apprezzabile tra i tanti privilegi di expat non era quello di avere l’ufficio ad appena venti minuti di cammino quanto piuttosto quello di vivere in un compound munito di “minimarket” aperto h24 con ogni genere di confort cinese: acqua minerale, sturalavandini e stuzzichini per la fame tossica al ritorno dai bagordi del sabato sera. Anche di notte la luce sempre accesa, solo più tenue, invogliava a entrare. E allora dovevi intrufolarti silenziosamente per non svegliare Li, il giovane negoziante steso a terra tra gli scaffali dei noodles liofilizzati e quello dei biscotti, mentre la suocera gestiva la cassa e la moglie dormiva abbracciata al figlio di pochi mesi in una stanza attigua: la loro casa. Poco più di un letto, una tv e un fornello su cui ribollivano costantemente pentoloni fumanti.

Incuranti delle condizioni di vita spartane, dicevano di voler restare lì fino a quando il bambino non avesse raggiunto l’età scolare: poi i costi dell’istruzione sarebbero stati insostenibili per una famiglia di mingong (migranti) come loro.

A complicare la vita di Li e degli oltre 260 milioni di lavoratori itineranti cinesi è l’hukou, il sistema di registrazione famigliare che classifica ogni individuo, fin dalla nascita, sulla base di una serie di parametri – tra cui provenienza (rurale o urbana), indirizzo, professione, etnia e religione – ancorandone l’accesso ai servizi essenziali al luogo d’origine. Ed è ereditario. Vuol dire che per poter iscrivere il figlio ad una scuola pubblica Li sarà costretto a tornare nel villaggio del Sichuan da cui proviene, o in alternativa a pagare la retta per un mediocre istituto privato di Pechino.

Introdotto all’epoca degli Stati Combattenti (III sec. a.C.), inizialmente il sistema serviva a rubricare famiglie e clan per facilitare l’imposizione fiscale, la coscrizione e il mantenimento della stabilità sociale. E’ soltanto nel 1958 che l’hukou “diventa specificatamente uno strumento per controllare lo spostamento delle persone tra le città e le campagne”, Ci spiega Wang Fei-ling professore della University of Pennsylvania nonché autore del primo studio completo sul tema (Organizing Through Division and Exclusion: China’s Hukou System, Stanford University Press, 2005), “la dicotomia città-campagna è sempre esistita ma ha assunto una certa rigidità con la fondazione della Repubblica popolare (1949)”. Da quel momento in poi l’hukou è diventato uno strumento al servizio dell’economia pianificata nella distribuzione delle risorse e nella protezione delle attività economiche ad alta intensità di capitale.

Grazie all’apartheid, i contadini sarebbero dovuti restare nei campi per assicurare costanti approvvigionamenti alimentari agli operai impiegati nelle fabbriche urbane; manodopera a basso costo ma ricompensata con la cosiddetta “ciotola di ferro”, un pacchetto di benefit (istruzione gratuita, assistenza sanitaria, pensioni, una casa) assicurato dall’impiego statale. Così è stato durante il Grande balzo in avanti (’58-’62), quando le campagne – collettivizzate – continuarono a nutrire le città in base a stime sulla produzione gonfiate. Circa 30 milioni di cinesi persero la vita a causa della carestia, di cui il 95% in possesso di un hukou rurale.

Il sistema ha cominciato ad evidenziare le prime profonde crepe in concomitanza con gli esperimenti capitalistici anni ’80. La necessità di sostenere l’incessante richiesta di forza lavoro nel settore delle costruzioni e in quello industriale spinse milioni di persone a fluttuare dalle campagne alle città alla ricerca di migliori opportunità. Così, nel 2003, Pechino ha sospeso la pratica di sfratto forzato contro i mingong non regolarmente registrati, permettendo loro di lavorare legalmente nelle città ma continuando a privarli del welfare assicurato ai loro concittadini urbani. Risultato: se da una parte la migrazione giovanile dalle zone rurali alle città ha ridotto il tasso di disoccupazione nelle campagne permettendo ai lavoratori di accumulare capitale da reinvestire nei luoghi d’origine, dall’altra, le ripercussioni discriminatorie dell’hukou hanno causato fratture sociali e distorsioni sistemiche.

Mentre i migranti costruivano il “miracolo cinese” assemblando smartphone, tirando su palazzi o smistando rifiuti, l’attuale classe media accumulava benessere grazie al processo di privatizzazione del mercato immobiliare anni ’90, quando le aziende di Stato cominciarono a svendere ai propri dipendenti urbani le abitazioni in cui vivevano in affitto. Proprio il mattone – secondo un recente rapporto dell’Economist Intelligence Unit – è il principale catalizzatore dell’ineguaglianza sociale che vede la Cina posizionarsi a quota 3 su una scala in cui l’1 indica una situazione di pieno equilibrio nella distribuzione degli asset (Global Wealth Report). Lo stipendio medio di un mingong (2.290 yuan) continua ad essere nettamente inferiore rispetto a quello dei lavoratori urbani (3.987 yuan), con un tasso di risparmio del 50% (rispetto al 30% dei cittadini in senso stretto) motivato dalla necessità di far fronte di tasca propria alle spese per tutti quei servizi di base da cui gli inurbati sono esclusi. Un trend che va contro il nuovo paradigma di crescita trainato dai consumi interni con cui Pechino vuole sostituire il vecchio modello “export/investment-driven” non più funzionale alla luce delle nuove dinamiche globali. In questo futuro all’insegna di una crescita sostenibile saranno le città di seconda, terza e quarta fascia a diventare il centro nevralgico del Paese. Non più le megalopoli ipertrofiche esplose negli ultimi anni.

Solo nel 2011 la popolazione urbana cinese ha superato quella rurale, un processo che la leadership comunista punta ad accelerare arrivando a rilocalizzare il 60% degli abitanti (compresi 100 milioni di mingong) nelle città entro il 2020. Gli esperti stimano che una spinta urbanizzatrice dell’1% l’anno regalerebbe tassi di crescita attorno all’8% nel prossimo ventennio, mentre una forza lavoro destinata a mansioni agricole di base nelle campagne – dove gli appezzamenti sono generalmente molto piccoli e la terra non può essere assegnata secondo meccanismi di mercato né convertita ad altri usi – sottrae produttività alla Nazione. D’altronde, proprio la prospettiva di perdere il controllo sul principale asset a propria disposizione, la terra, in cambio di un futuro incerto lontano da casa, continua a scoraggiare la popolazione rurale dal lasciare le campagne – dove la sovraoccupazione si aggira ancora attorno al 6,3%.

La coincidenza temporale tra la ripresa del dibattito sull’hukou e la formulazione del Tredicesimo Piano Quinquennale (2016-2020) – che ha per missione il raggiungimento di una “società moderatamente prospera” – è tutt’altro che casuale. Tre anni fa, il Consiglio di Stato ha introdotto una roadmap per l’istituzione di un sistema di registrazione unificato, sia per i cittadini rurali sia per quelli urbani, potenzialmente in grado di assicurare a tutti lo stesso accesso ai servizi sociali e aumentare il potere di spesa dei mingong. Ciò vuol dire che la distinzione tra hukou rurale e cittadino si estinguerà a favore di una serie di criteri di accesso generici in base alla località di arrivo: lavoro e una residenza stabili, il pagamento dei contributi per l’assicurazione sociale e il tempo che una persona ha trascorso nella città in questione. Gli spostamenti verranno incoraggiati verso le piccole città laddove i centri con popolazione superiore ai 5 milioni (e servizi migliori) continueranno ad alzare nuove barriere. E’ un sistema che lascia ampia discrezionalità ai governi locali, liberi di allentare o inasprire i criteri di insediamento in accordo alla disponibilità delle risorse locali.

“E’ dagli anni ’90 che si cerca di ammorbidire il sistema ma il controllo viene ancora largamente esercitato”, spiega Wang alludendo a una serie di riforme lanciate a partire dal 1997: dall’hukou “a punti” di Shanghai e Guangzhou a varie forme sperimentali di commercializzazione. Ma, secondo l’esperto, nessuna riforma andrà mai a segno in assenza di una revisione del regime dei diritti di proprietà. Come promesso nel nuovo piano quinquennale, è necessario che sia il mercato a governare l’allocazione delle risorse e di conseguenza la direzione intrapresa dai flussi migratori. “Le grandi città oggi sono tali perché il governo ha deciso che lo diventassero attraverso politiche mirate”, spiega Wang, che evidenzia un altro inaspettato ostacolo alla liberalizzazione del sistema: nessun cittadino urbano “di prima classe” muore dalla voglia di dividere i propri privilegi con un’umanità considerata inferiore e tradizionalmente vilipesa.

Quanto avverrà in futuro sarà probabilmente un gioco di “cosmesi”, in cui nuovi ritocchi non cambieranno la sostanza. E non solo per non scontentare l’elite cittadina. “Il governo cinese vuole rilassare il sistema per ottenere una buona crescita economica, ma allo stesso tempo ne vuole conservare le funzionalità politiche di controllo sociale” attive fin dall’epoca imperiale, conclude Wang. Da quando alla fine degli anni ’80 il database nazionale degli hukou è stato digitalizzato, il ministero della Sicurezza pubblica, i suoi uffici a livello locale e le stazioni di polizia – che lo amministrano – ne hanno sfruttato le potenzialità occulte per mantenere il controllo sugli “elementi target” (zhongdian renkou): criminali, dissidenti fino ai “terroristi” che si annidano nella regione musulmana dello Xinjiang. Per lo studioso, “il perseguimento dell’unità politica” è ciò che terrà veramente in vita l’hukou.

Stando alla stampa statale, grazie alla costante ricerca di nuove soluzioni, negli ultimi sei anni il numero dei migranti in arrivo nelle città ha mantenuto una traiettoria discendente dal +3,4% del 2011 al +0,3% del 2016. Ma più che la riforma dell’hukou, pare siano le nuove contingenze economiche (a partire dalla saturazione del settore impiegatizio nelle metropoli) a dettare un ritorno alle piccole e medie realtà urbane. Insomma, il mercato.

Dalla Cina i primi esseri umani geneticamente modificati



La Cina è riuscita a creare i primi esseri umani geneticamente modificati. È quanto sostenuto da He Jiankui, un ricercatore cinese con formazione americana oggi affiliato alla Southern University of Science and Technology di Shenzhen, alla vigilia di una conferenza sull’editing genetico in programma per martedì 27 novembre a Hong Kong.

Secondo quanto racconta lo scienziato in un video pubblicato su Youtube (vedi immagine), le gemelle “Lulu” e “Nana” sono nate alcune settimane fa nell’ambito della sperimentazione sull’alterazione degli embrioni a cui sono state sottoposte sette coppie durante regolari trattamenti di fertilità. L’obiettivo conclamato dell’esperimento non è curare o prevenire malattie ereditarie, quanto piuttosto sviluppare una resistenza alle possibili future infezioni come l’HIV. Infatti, mentre in tutte le coppie coinvolte l’uomo risultava positivo al virus dell’AIDS, la trasmissibilità della malattia si sarebbe potuta evitare con metodi molto meno complessi dell’editing genetico.

Come precisa He, lo scopo dell’esperimento è quindi quello di “offrire alle coppie affette da HIV la possibilità di avere un bambino che possa essere protetto dal loro stesso destino.” Come? Modificandone il DNA attraverso la tecnologia di editing genomico CRISPR-Cas9, così da disabilitare il gene CCR5 che compone le proteine che permettono al virus dell’HIV di penetrare nelle cellule. L’operazione chirurgica viene effettuata da un embriologo subito dopo l’inserimento dello sperma nell’ovulo, prima che questo venga impiantato nell’utero.

L’università prende le distanze – L’annuncio, in attesa di ricevere conferme indipendenti, ha già suscitato non poche polemiche. Stando alla MIT Technology Review – la rivista che per prima ha riportato la notizia domenica scorsa – “la nuova tecnologia ha implicazioni etiche perché le modifiche di un embrione possono essere ereditate dalle generazioni future, finendo per interessare l’intero pool genetico“, l’insieme di tutti gli alleli dell’intero set di geni appartenenti a tutti gli individui che compongono una popolazione in un determinato momento. Ben 122 scienziati cinesi hanno sottoscritto un comunicato di condanna, mentre la Southern University of Science and Technology ha preso le distanze dichiarandosi ignara di quanto sperimentato dal ricercatore. In un’intervista esclusiva ad AP, He afferma di sentire “una forte responsabilità non solo per essere stato il primo, ma anche per aver fornito un esempio per gli sviluppi futuri della scienza”. “Sarà la società a decidere cosa fare in seguito”, afferma.

I dubbi degli scienziati – A impensierire gli esperti è anche la metodologia impiegata. Per Nicholas Evans, assistente di filosofia presso la University of Massachusetts Lowell, “annunciare il test attraverso un video su YouTube è una pratica scientifica molto problematica, in quanto esclude processi di controllo come la revisione paritaria”, ovvero la procedura di selezione degli articoli o dei progetti di ricerca proposti dai membri della comunità scientifica effettuata attraverso una valutazione di specialisti del settore che ne verificano l’idoneità alla pubblicazione scientifica.

La tecnica e i possibili benefici – Bandito nel resto del mondo, negli Stati Uniti l’editing del DNA umano è stato fino ad oggi consentito solo nelle ricerche di laboratorio. In Cina tuttavia la tecnica è al vaglio da tempo, tanto che lo scorso settembre gli scienziati della Sun Yat-sen University hanno annunciato di aver impiegato l’editing genomico per correggere una mutazione degli embrioni umani all’origine della beta-talassemia, una malattia del sangue potenzialmente fatale. Nonostante le preoccupazioni diffuse, c’è anche chi riconosce i benefici della pratica. Secondo George Church, famoso genetista della Harvard University, l’utilizzo dell’editing genetico è “giustificabile” se finalizzato a combattere l’HIV, “una grave e crescente minaccia per la salute pubblica”. Stando ai dati ufficiali, nell’ultimo anno i casi di Aids e HIV oltre la Muraglia sono aumentati del 14%. Oggi sono più di 820mila le persone affette, con 40mila nuovi casi solo nel secondo trimestre del 2018.

[Pubblicato su Il Fatto quotidiano online]

martedì 6 novembre 2018

Il calo dei consumi fa traballare il patto sociale



“Siamo preparati al peggio”. Con queste parole il governatore della banca centrale cinese Yi Gang ha rassicurato i vertici di G20 e FMI riuniti a Bali sulla resilienza della seconda economia mondiale, trascinata da Trump in una guerra commerciale tutt’altro che passeggera e alle prese con nuovi smottamenti del mercato finanziario, la svalutazione del renminbi e “un iceberg del debito” (copyright S&P Global). Ma, affermando che “in Cina molti sono pronti alle prolungate incertezze,” Yi sembra dare voce a pochi ottimisti, ignorando le preoccupazioni nutrite da quella fetta di popolazione su cui la leadership cinese punta tutto per ribilanciare il proprio modello di crescita. “E’ finito il tempo del binomio investimenti-export, si passa a consumi e servizi,” aveva annunciato Pechino nel 2013, anticipando l’arrivo di riforme economiche.

Secondo i dati dell’agenzia di stampa statale Xinhua, lo scorso anno i consumi hanno contribuito al Pil nazionale per il 58%, mentre i servizi sono arrivati a contare per il 51,6%. Ma quei numeri, sbandierati fino a oggi a riprova della soddisfacente performance economica, rischiano di segnare una traiettoria decrescente ora che le frizioni commerciali con Washington – abbinate alle misure restrittive nei settori finanziario e immobiliare – cominciano a esercitare i loro effetti psicologici sulla pancia del paese prima ancora di intaccare l’economia reale.

Non è il rallentamento della crescita al 6,5% a preoccupare gli esperti.

Quest’anno durante la Golden Week, uno dei pochi periodi vacanzieri nella Repubblica popolare tradizionalmente dedicato allo shopping selvaggio, i consumi hanno toccato i minimi dal 2000, perdendo 10 miliardi di dollari rispetto all’anno scorso. La crescita delle vendite al dettaglio (barometro della spesa dei consumatori) è rallentata al livello più basso degli ultimi 15 anni, con segni di sofferenza anche nell’automotive, di cui la Cina è il primo mercato al mondo.

Secondo Li Shi, professore di economia presso l’Università Normale di Pechino, l’erosione dei consumi, sul lungo periodo, andrebbe imputata al calo del reddito delle famiglie – sceso al 50% del reddito nazionale complessivo dai circa due terzi del 2000 – a causa di un aumento più rapido delle entrate statali dovuto alla sostenuta imposizione fiscale; un punto che Pechino vorrebbe correggere con l’introduzione di sgravi fiscali e l’annuncio del primo taglio in sette anni delle tasse sul reddito. A ciò si aggiungono mutui e affitti, spese mediche, per l’istruzione dei figli e l’assistenza agli anziani.

A contribuire all’assottigliamento dei portafogli concorre la riduzione delle possibilità di investimento, minacciate dal recente crollo delle borse e dal rallentamento del real estate, settori che negli ultimi anni si sono alternati nel fornire un rifugio ai risparmi delle famiglie cinesi. Dall’inizio dell’anno a oggi, gli investitori hanno perso in media più di 100.000 yuan ciascuno dopo che il crollo registrato dai listini negli ultimi mesi ha bruciato 3 trilioni di dollari di capitalizzazione di mercato. Secondo la Xinhua, nel 2017 il 66% degli investitori ha chiuso l’anno in perdita. Il tutto proprio mentre il mattone – che conta per il 15% del Pil – comincia a perdere terreno dopo sei mesi di crescita continuativa sulla scia delle misure introdotte dal governo centrale in ottica di deleveraging. Un trend che spaventa tanto gli sviluppatori immobiliari quanto i proprietari che vedono polverizzarsi il valore delle loro abitazioni, spesso acquistate con scopi speculativi.

Per la leadership al potere in gioco c’è molto più della stabilità economica. A rischio è il patto implicito con cui all’indomani del massacro di Tian’anmen Pechino ha promesso alla popolazione benessere in cambio di lealtà politica. Segni di insofferenza tanto tra i piccoli investitori quanto tra i proprietari immobiliari evidenziano la posizione scomoda delle autorità, chiamate a intervenire come deus ex machina per riportare la situazione alla normalità. Negli scorsi giorni, la riduzione dei prezzi delle case a Shanghai, Xiamen e Guiyang è stata accolta da proteste violente e appelli “in lacrime e in ginocchio affinché il governo serva il popolo.”

Che la fiducia nei confronti di Pechino sia in discesa lo dimostra la premura con cui, negli ultimi anni, la classe media ha provveduto ad assicurarsi assets all’estero con l’obiettivo di ottenere permessi di residenza e un accesso a servizi migliori in paesi come Australia e Stati Uniti. Acquisti spericolati talvolta sfociati in frodi. In altre circostanze culminati in pesanti sanzioni a causa dei limiti imposti sull’esportazione di capitali. Alla fine di agosto la SAFE ha reso noti 23 casi, di cui cinque concernenti l’acquisizione di proprietà immobiliari, con multe fino a 1,45 milioni di yuan per l’impiego di “banche sotterranee”.

Chi è che sarebbe “pronto a tutto”?

[Pubblicato su il manifesto]

sabato 27 ottobre 2018

Pechino punisce la tortura con una sentenza storica



Si è chiuso con una condanna record a 15 anni di carcere il caso di Stephen Lau Hei-wing, imprenditore di Hong Kongmorto dopo essere stato torturato dai pm cinesi che lo avevano preso in custodia per una sospetta frode. La sentenza, rilasciata martedì dal tribunale intermedio N°1 di Tianjin supera le aspettative delle organizzazioni per la difesa dei diritti umani. I nove responsabili, quasi tutti della prefettura di Yanbian, provincia nord-orientale del Jilin, hanno solo dieci giorni per fare ricorso in appello. Le pene detentive spaziano dai 15 anni di Xu Xuezhe, che ha diretto l’interrogatorio, a un minimo di 15 mesi. Quattro sono gli anni che dovrà scontare dietro le sbarre Zhao Bozhong, responsabile della squadra investigativa.

Indiscrezioni sul misterioso decesso di Lau, proprietario del Kimberley Hotel di Hong Kong, erano cominciate a circolare nell’aprile 2017, quando l’uomo d’affari non si era presentato in tribunale nell’ambito del processo che lo vedeva accusato di frode contro la Industrial and Commercial Bank of China per un importo pari a 200 milioni di dollari di Hong Kong. Un caso che nell’ex colonia britannica aveva catturato l’attenzione mediatica per via della stretta amicizia tra Lau e Nina Wang Kung Yu-sum, un tempo tra le imprenditrici più ricche d’Asia. Secondo una copia dei documenti processuali circolata online all’inizio di settembre, l’uomo sarebbe stato bendato e legato a una sedia per più di quattro giorni, con la bocca chiusa con il nastro adesivo.Verso la mezzanotte del 19 marzo 2017, il quinto giorno dell’interrogatorio, gli accusati avrebbero “piegato la parte superiore del corpo verso le gambe più volte” fino a fargli perdere conoscenza. Stando al Sing Tao Daily, l’autopsia – che attesta la presenza di plurime fratture ossee – certifica la morte per soffocamento.

Le ragioni dell’arresto sono tutt’ora poco chiare, anche se il Financial Times ipotizza vada letto alla luce del coinvolgimento di Lau nella disputa sull’eredità di miss Wang. Per le organizzazione dei diritti umani, il caso costituisce un precedente incoraggiante per lo stato di diritto in Cina. “E’ insolito che chi ricorre alla tortura venga condannato e mandato in prigione”, spiega al South China Morning Post Maya Wang di Human Rights Watch, “e questo contribuisce alla persistenza del problema.” La pena massima sarebbe inoltre superiore alle aspettative giacché in genere, per reati analoghi, “la condanna non supera i sette anni”, spiega una fonte legale del quotidiano, individuando nella residenza hongkonghese della vittima un possibile aggravante.

Tra i paesi ad aver siglato e ratificato la Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti (1984), nel 2013 la Cina ha duramente condannato l’utilizzo delle confessioni forzate nell’ambito di una ambiziosa ma poco convincente riforma giudiziaria. Recenti testimonianze rilasciate da alcune delle vittime del giro di vite lanciato nel luglio 2015 contro gli avvocati per la difesa dei diritti umani attestano tutt’oggi l’utilizzo di metodi coercitivi durante le detenzioni extragiudiziarie, dalla privazione del sonno alle tradizionali percosse. Ridimensionando la portata della conversione cinese al rule of law, nel gennaio 2017, il capo della Corte Suprema del popolo, Zhou Qiang, ha intimato alla magistratura locale di combattere gli “errati ideali occidentali dell’indipendenza giudiziaria, della democrazia costituzionale e della separazione dei poteri”.

A dimostrazione della sensibilità della materia, secondo China Digital Times, l’inizio del processo contro i carnefici di Stephen Lau è stato sottoposto a censura nel mese di settembre con la pubblicazione di una circolare in cui veniva richiesto ai media di “non raccogliere, segnalare, commentare o ripubblicare” la notizia. Una misura controversa che non sembra ugualmente aver azzittito il dibattito in corso ai vertici della gerarchia comunista. La superpotenza continua la sua strada verso lo stato di diritto con un passo in avanti e uno indietro.

La sentenza del tribunale di Tianjin arriva infatti mentre il comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo (il parlamento cinese) valuta per la prima volta la possibilità di estendere il controllo degli organi giudiziari sull’operato della National Supervisory Commission, la potentissima agenzia anticorruzione preposta al controllo del personale statale, non solo dei membri del Partito. Istituita a marzo, dopo due mesi la commissione è finita al centro delle polemiche per la morte di un ex impiegato statale mentre era sotto indagine.


[Pubblicato su Il fatto quotidiano]

Cina, Il MeToo sbarca in tribunale


Dalla rete alle corti di giustizia. Il fenomeno di #Metoo  giunge a un inatteso punto di svolta in Cina, paese in cui gli abusi sessuali vengono ancora considerati tabù e le denunce socialmente disdicevoli. La scorsa settimana il tribunale distrettuale di Haidian, nella Pechino Ovest, ha informato una 25enne nota solo con il nickname Xianzi che dovrà rispondere delle accuse di “danneggiamento della reputazione e del benessere mentale” sollevate dal suo stesso assalitore.

Tutto è cominciato lo scorso luglio quando, incoraggiata dalla testimonianza di molte sue coetanee, la ragazza ha deciso di pubblicare su Internet la propria esperienza di vittima. La storia risale a quattro anni fa quando, al tempo in cui la giovane frequentava gli studi dell’emittente di stato CCTV come tirocinante, il noto conduttore televisivo, Zhu Jun, le avrebbe messo le mani addosso nel tentativo di baciarla mentre si trovavano nel suo camerino. A nulla sono servite le richieste d’aiuto indirizzate alla polizia locale. Lo status sociale del suo aggressore rendeva sconveniente qualsiasi denuncia formale, spiegarono all’epoca le autorità. Le pressioni e le minacce esercitate contro la sua famiglia hanno costretto la giovane a un protratto silenzio.

“Molte persone chiedono alle vittime di #Metoo perché non abbiano fatto immediatamente rapporto alla polizia. Io sono una di quelle che quattro anni fa lo ha fatto ma non ha ricevuto alcuna giustizia”, spiega Xianzi in una recente intervista alla Bbc. Il racconto della ventenne, diffuso inizialmente all’interno di un gruppo ristretto di amici su WeChat, la scorsa estate ha raggiunto portata virale sul Twitter cinese Weibo grazie alla condivisione dell’amica Xu Chao. Entrambe le ragazze sono state citate in giudizio dall’uomo che – bollate le accuse come “pura finzione” – ha chiesto scuse pubbliche online e sulla stampa, oltre al versamento di  655.000 yuan (95.254 dollari) e al pagamento di tutte le spese legali.

Stando agli atti depositati il 18 settembre, le due sarebbero colpevoli di aver “danneggiato la reputazione e il benessere mentale”  della star del piccolo schermo, celebre in tutto il paese per la conduzione del Gran Galà del Capodanno cinese. In risposta, martedì scorso Xianzi ha presentato una controquerela per “violazione dei diritti della personalità”, un eufemismo spesso utilizzato oltre la Muraglia per indicare gli abusi sessuali. Cinquantamila yuan è quanto preteso dalla donna, disposta in caso di vittoria a devolvere tutto in supporto del movimento #Metoo.


“Ho capito che bisogna usare i canali legali per dimostrare ciò che si sostiene”, ha spiegato la ragazza alla Reuters. A oggi in Cina non esiste una legge specifica sulle violenze sessuali, né una definizione chiara del reato. Stando a un rapporto pubblicato dalle Nazioni Unite nel 2013, circa la metà degli uomini cinesi ha usato violenza psicologica o fisica sulla propria compagna, di cui il 72 per cento rimasto immune a qualsiasi conseguenza legale. Poche sono le vittime inclini a sporgere denuncia, anche solo per paura di divenire oggetto di discriminazioni.  Le cose potrebbero cambiare nel giro di un paio d’anni.  Lo scorso 27 agosto, il parlamento locale ha annunciato di avere al vaglio nuove disposizioni del codice civile che – se approvate – permetteranno di trascinare in tribunale chi “usa parole, azioni o sfrutta una relazione subordinata per molestare sessualmente.”

È il potere della rete. Nonostante la rigidissima censura con cui Pechino setaccia il web, il movimento contro gli abusi – in cinese #woyeshi – ha raggiunto una popolarità inaspettata per un Paese ossessionato dalla stabilità sociale. Sulla scia delle proteste femminili negli Stati Uniti, nei primi mesi dell’anno #Metoo è arrivato a coinvolgere più di 8000 studenti iscritti a 70 atenei cinesi differenti. Settanta petizioni sono circolate sui social soltanto tra gennaio e febbraio, alcune con il sostegno di decine di docenti.

Proprio come in Occidente, negli ultimi tempi le accuse hanno colpito trasversalmente personaggi di spicco, dal presidente dell’Associazione buddhista nazionale, l’abate Xuecheng, a Richard Liu, ceo del colosso dell’e-Commerce JD, fermato dalla polizia del Minnesota in seguito a una segnalazione per molestie sessuali. Ora il coinvolgimento dei tribunali segna un’evoluzione incoraggiante, soprattutto alla luce della riforma giudiziaria avviata dal governo Xi Jinping nel 2014 con l’obiettivo di assicurare una maggiore trasparenza del sistema, da sempre soggetto a interferenze esterne e strettamente controllato dal Partito comunista.

[Pubblicato su Il fatto quotidiano]

martedì 23 ottobre 2018

Dispatches from the Silk Road Economic Belt



A new China-Europe freight train line was launched Tuesday, linking Delingha, northwest China's Qinghai Province, with Russia. 
The first train, loaded with chemical containers, will leave China through the Alataw Pass in Xinjiang and pass through Kazakhstan before reaching Barnaul in Russia. (xinhua)

Chinese premier calls for more pragmatic cooperation with Tajikistan
Chinese Premier Li Keqiang on 10 October called on China and Tajikistan to continue to consolidate mutual political trust, promote pragmatic cooperation and safeguard regional peace and stability. Li made the remarks in a signed article for a Tajik newspaper prior to his official visit to Tajikistan and attendance at the 17th meeting of the Council of Heads of Government of the Shanghai Cooperation Organization (SCO). Xinhua

India, China launch joint training for Afghanistan, plan more projects
China’s ambassador to India said the joint training of 10 Afghan diplomats at the Indian Foreign Service Institute was the first step in China-India-Afghanistan cooperation that was agreed at a summit between President Xi Jinping and Indian Prime Minister Narendra Modi this year. (Reuters)

China in Afghanistan: A Reluctant Leader with Growing Stakes
A piece from late last week as part of a short dossier ahead of the Afghan election done for a new outlet of an excellent Italian think tank called Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI). My contribution focused on China’s role in Afghanistan, a common theme which there should be more work on later in the year.

Pakistan, IMF to Discuss Bailout Terms
The International Monetary Fund’s managing director, Christine Lagarde, said a team will soon visit Islamabad to discuss a new financial assistance package for Pakistan, reportedly up to $8 billion. Pakistan has received more than a dozen financial support packages (Dawn) from the IMF, including a $6.4 billion bailout that concluded in 2016.

Greater transparency is needed to dispel Xinjiang concerns
Like any nation, China is obligated to respond proactively to extremism and terrorism in the autonomous region. Just as essential is being more open to foreign journalists and rights groups (scmp)

CENTRAL ASIA 

President Shavkat Mirziyoyev met with his French counterpart, Emmanuel Macron, in Paris this
week. Mirziyoyev, who has promoted gradual reforms in his long isolated country, reportedly signed partnership agreements (AP) with French energy firms during the trip.

Putin, Mirziyoyev launch project for Uzbekistan’s first nuclear plant
Russian President Vladimir Putin and Uzbek counterpart Shavkat Mirziyoyev on October 19 pressed a symbolic button together to launch a project to build Uzbekistan’s first nuclear power plant. Given that the Soviet-era nuclear plant in Kazakhstan was decommissioned in 2001 and is unlikely to be restored to operation, the facility is likely to be Central Asia's first new-era nuclear plant. (intellinews)

Turkmenistan profile - Media

The Turkmen government has an absolute monopoly of the media. The authorities monitor media outlets, control printing presses, block websites, monitor internet use and lay down editorial policies.
Reporters Without Borders has called Turkmenistan "an ever-expanding news black hole". (bbc)

mercoledì 10 ottobre 2018

Meng Hongwei. caso politico o corruzione?


E’ ufficiale. Il capo dell’Interpol Meng Hongwei, sparito negli scorsi giorni dopo essere partito per la Cina, è stato trattenuto dalle autorità cinesi con l’accusa di corruzione. Lo ha annunciato lunedì il ministero della Sicurezza Pubblica (di cui Meng è viceministro), chiarendo le affermazioni con cui, poco prima della mezzanotte di domenica, la potentissima agenzia anticorruzione, la National Supervisory Commission, aveva fatto riferimento a generiche “gravi violazioni della legge dello stato”. L’Organizzazione internazionale con base a Lione ha ricevuto le dimissioni de funzionario con “effetto immediato” nella serata di ieri.

Fornendo i primi dettagli del caso, un comunicato ufficiale pubblicato sul sito del dicastero definisce l'inchiesta sulle tangenti e le sospette violazioni della legge “molto tempestiva, assolutamente corretta e piuttosto saggia." “Non esistono privilegi né eccezioni di fronte alla giustizia" chiosa il ministero, aggiungendo che Meng sconta le conseguenze di “aver voluto fare le cose a modo suo.” Le forze di polizia provvederanno ad istituire una task force per perseguire i suoi alleati politici.

La conferma dell’arresto arriva al termine della “golden week”, uno dei periodi vacanzieri più lunghi nella Repubblica popolare, e a circa un giorno dalla richiesta formale di chiarimenti da parte dell’Interpol. Meng si era volatilizzato nel nulla lo scorso 25 settembre dopo aver lasciato Lione alla volta della Cina. Da allora, le sorti dell’alto funzionario erano diventate motivo di apprensione per la famiglia, residente in Francia e al momento sotto la protezione delle autorità locali. L’ultimo messaggio recapitato dalla moglie - corredato dall’emoji di un coltello - faceva riferimento a un’imminente telefonata mai più ricevuta.

Non è inusuale che Pechino faccia sparire alti dirigenti per accertarne l’integrità politica e morale. Da quando il presidente Xi Jinping ha assunto la guida del paese nel 2012, più di un milione di funzionari è stato sottoposto a qualche forma di sanzione, tanto che la prigione dell’elite comunista, la Qincheng, risulta ormai affetta da sovraffollamento. Ma le diramazioni internazionali del caso di Meng creano un nuovo allarmante precedente, gettando nuove ombre sulle ambizioni del gigante asiatico sullo scacchiere globale. Può un paese con il debole per le detenzioni extragiudiziali pretendere di riformare la governance globale?

Da anni Pechino si batte per una maggiore rappresentanza dei paesi emergenti negli istituti internazionali e la nomina di Meng ai vertici dell’Interpol nel 2016 era stata interpretata tanto come una vittoria cinese quanto come una sconfitta per la difesa dei diritti umani. Su richiesta del governo comunista, nell’aprile 2015  l’organizzazione con base a Lione ha pubblicato una lista di 100 ricercati per corruzione, termine che oltre la Muraglia spesso funge da paravento per lotte di potere e purghe politiche. Il caso di Meng non fa eccezione.

Dal suo arrivo in Francia, infatti, il 64enne aveva continuato a mantenere parallelamente la carica (assunta nel 2004) di viceministro del Ministero della Sicurezza pubblica, l'agenzia governativa preposta all'azione di vigilanza in territorio cinese nota per i frequenti abusi e la scarsa trasparenza. Questo lo aveva portato a collaborare in passato con l’ex zar della sicurezza Zhou Yongkang condannato tre anni fa all'ergastolo con le accuse di corruzione, abuso di potere e rivelazione di segreti di Stato. Secondo indiscrezioni mai confermate, l’alto funzionario avrebbe altresì tramato per cambiare l’esito della successione al potere culminata durante il XVIII Congresso del Partito con la nomina di Xi Jinping.

Mentre il comunicato ufficiale non fornisce una collocazione temporale dei crimini commessi da Meng, il ministero è stato molto chiaro nel collegare il suo arresto alla necessità di “eliminare risolutamente la perniciosa influenza di Zhou Yongkang." Proprio nella mattinata di lunedì, arringando il comitato di Partito interno al dicastero, il ministro della Sicurezza Pubblica Zhao Kezhi aveva espresso “massimo supporto” nei confronti delle indagini, promettendo assoluta lealtà politica alla leadership e a Xi.

D’altronde, come spiegano ai microfoni del South China Morning Post alcuni analisti, un normale caso di corruzione non avrebbe richiesto un intervento tanto spericolato. “La politica estera cinese deve innanzitutto servire gli interessi del Partito comunista,” chiarisce Steve Tsang direttore del China Institute presso la SOAS di Londra, "Pertanto, mentre l'immagine della Cina nel mondo e il suo avanzamento all’interno delle organizzazioni internazionali sono importanti per il governo cinese, rimangono comunque questioni secondarie rispetto alle considerazioni del Partito."


[Pubblicato su Il Fatto quotidiano online]

giovedì 4 ottobre 2018

I costi ambientali della carne di maiale



Il lago Dianchi, nella provincia cinese sud-occidentale dello Yunnan, è famoso per almeno tre motivi: la sua estensione (quasi 40 km), la caratteristica forma a mezzaluna e il colore verde brillante assunto dalla superficie nel periodo estivo a causa della formazione massiccia di alghe. Un fenomeno noto come eutrofizzazione, causato da nutrienti in eccesso nell’acqua, quali l’azoto e il fosforo, che oggi colpisce le zone interessate da un rapido processo di urbanizzazione o da forme di coltivazione e allevamento intensivo, con tutte le conseguenze annesse: dal rilascio di sostanze chimiche e fertilizzanti nel suolo e nell’acqua fino allo smaltimento illegale di rifiuti animali non trattati.

Nel caso dello Yunnan, il dito punta contro l’alta concentrazione di allevamenti di suini, che forniscono il 77% della carne assunta dalla popolazione locale. Nel solo 2017, nella provincia, il consumo pro capite di maiale ha raggiunto i 127 chili, circa due volte la media nazionale.

Con il miglioramento della qualità della vita, nelle ultime quattro decadi il consumo di carne oltre la Muraglia è aumentato in maniera esponenziale dai 10 chili l’anno per persona del 1980 ai 54 chili registrati nel 2013, dei quali circa il 73% costituito proprio da carne suina, quella più a buon mercato. Tanto che oggi nel paese asiatico si contano circa 700 milioni di suini, pari al 50% del totale mondiale. Le ripercussioni ambientali, sebbene non immediatamente intuibili, sono ben documentate in una ricerca pubblicata nel 2016 sul trimestrale scientifico Environmental Research Letters. Qui si mette in evidenza come il processo di accorpamento delle piccole realtà in fattorie e allevamenti di più grandi dimensioni, avviato nel 2000, ha visto schizzare fino al 70% l’utilizzo di pratiche di smaltimento occulte – quali lo scarico dei liquami nei corsi d’acqua -, fino agli anni ’70 attestato solo nel 5% dei casi.

Questo perché mentre il passaggio è stato accompagnato dalla diffusione di informazioni su razze, tecnologie e prevenzione delle malattie, tutt’oggi manca una regolamentazione del processo di trattamento dei rifiuti. Con il risultato che, secondo statistiche ufficiali del governo cinese, ormai l’80% delle falde acquifere del paese sono troppo inquinate per il consumo umano. Nel 2013, 16mila carcasse di maiali furono viste galleggiare sul fiume Huangpu in direzione di Shanghai dopo che gli allevatori avevano deciso di disfarsi degli animali morti per uno sbalzo climatico e ormai non più vendibili.

Come spiega al Guardian Wang Jing di Greenpeace East Asia la ristrutturazione del settore “ha stravolto il ciclo agricolo preesistente in Cina, basato sul riciclo dei rifiuti animali in fertilizzanti con metodi tradizionali. Alcune delle più grandi aziende agricole hanno convertitori industriali sul posto, ma sono disincentivati a utilizzarli perché non sono legalmente obbligati. Perdipiù il costo di gestione della macchina è più alto del valore del fertilizzante prodotto.”

Secondo Rachel Stern, esperto di leggi ambientali presso la UC Berkeley, il problema è proprio di natura economica: “i governi locali non hanno il coraggio di imporre dispendiosi requisiti di riduzione dell’inquinamento alle aziende agricole che non possono permetterseli.”

A questo punto non resta che sperare in un miglioramento delle abitudini alimentari dei cinesi. D’altronde, stando ai dati di Euromonitor, grazie a una maggiore attenzione per le pratiche salutari, nel 2017 il consumo di carne oltre la Muraglia è sceso a 40, 85 milioni di tonnellate, il livello più basso in tre anni.

[Pubblicato su Il Fatto quotidiano online]

Dispatches from the Silk Road Economic Belt





China says it is helping Afghanistan with defense, counterterrorism
BEIJING (Reuters) - China’s defense ministry said on Thursday that it was supporting Afghanistan’s
defense and counterterrorism efforts, a day after Beijing denied a plan to build a base in Afghanistan and to send Chinese forces to the war-torn country. (reuters)

‘Father of the Taliban’ calls on China to aid Afghan peace talks

Maulana Samiul Haq says China would be welcomed as an arbitrator in negotiations and shouldn’t ‘l
eave matters of such a great importance solely to the US’ (Scmp)

Pakistan invites Saudi Arabia to join China's Belt and Road corridor

Islamabad has invited Saudi Arabia to become the third partner in the Beijing-funded Belt and Road corridor of major infrastructure projects inside Pakistan, Pakistan’s information minister said on Thursday. (Reuters)

“Pakistan plans to review or renegotiate agreements reached under China’s Belt and Road Initiative, joining a growing list of countries questioning the terms of their involvement in Beijing’s showpiece infrastructure investment plan,” according to the (FT.)

China and Pakistan have decided to speed up and extend the USD 50 billion China-Pakistan Economic Corridor towards Afghanistan during Foreign Minister Wang Yi's recent visit to Islamabad, the Chinese Foreign Ministry said on Monday. (Economic Times)

Tajikistan, China discuss security on Afghanistan border
President of Tajikistan Emomali Rahmon and Colonel General Xu Qiliang, Deputy Chairman of the Central Military Commission of the People's Republic of China (PRC) have announced at a meeting in Dushanbe the priority of bilateral cooperation in military sphere, the press service of the Tajik president stated Sept. 6, Interfax reported. (Azernews)

SCO’s Peace Mission 2018 drill in Russia
Some 3,000 people and 500 vehicles from SCO countries including China and India participated in the "Peace Mission 2018" anti-terror drill in Russia's Chelyabinsk. (xinhua)

Kazakhstan seeks sweet spot in US-China-Russia power game

Nazarbayev further boasted that these ports have direct railway and road links to the Khorgos dry port on the Kazakh-Chinese border, which, in turn, is linked to the Chinese port of Lianyungang on the Yellow Sea. Kazakhstan has also built thousands of kilometers of railways and motorways to improve connectivity. (Nikkei)

China's Belt and Road Is Full Of Holes
Five years since it was announced, China’s massive Belt and Road Initiative (BRI) has yet to materialize on the ground as promised. According to Chinese officials, the BRI includes six economic corridors that will carry goods, people, and data across the Eurasian supercontinent. But a statistical analysis of 173 infrastructure projects finds that Chinese investment is just as likely to go outside those corridors as within them. The BRI appears to be less coordinated than Beijing hopes and some critics fear. (CSIS)

The Belt and Road in Europe: 5 Years Later
Europe is essential for the BRI as initially envisioned by Beijing. But what do European countries think about the initiative, five years after its launch? (The Diplomat)


Silk Road passenger train planned between Antwerp, Shanghai
The program, called Diamond Silk Road, aims to connect Antwerp and Shanghai by a passenger train that will run through 10 other cities including Brussels, Moscow, Ulan Bator and Beijing, thus forming the world's largest space for free trade and manufacturing. (Xinhua)

It is considering Xi'an, Chongqing and Wuhan as potential terminals in China, as well as Duisburg in Germany. All are located far from container ports, so the new freight train service could significantly cut shipping times. For example, a shipment from Xi'an to Poland would take just 12 to 13 days on a train, compared with roughly 40 days by sea, including ground transportation to and from shipping ports. But the train will likely cost 1.5 to two times as much.

My soul, where are you?': families of Muslims missing in China meet wall of silence
An estimated 1 million Muslims are being held in re-education camps in XinjiangAcross the border in Kazakhstan, there’s a desperate wait for news of Uighurs, Kazakhs and other minorities (Guardian)

Majority of foreign migrants in Kyrgyzstan are Chinese 
79% of foreign migrants in country. 8,679 Chinese citizens have registered with the authorities and obtained work permits in Kyrgyzstan (AKiPress)

Kyrgyzstan starts repaying its debt to China this year: Kyrgyzstan started repaying its 3bn some ($43mn) loan to China this year. 2021 is a peak of debt payments, the 'energy sector must pay 102bn soms of budget loans' ( Akipress)


CENTRAL ASIA


Is Kazakhstan Preparing for a Post-Nazarbayev Era?

Since he turned 78 in July, Kazakh President Nursultan Nazarbayev has appointed a number of new ministers to his Cabinet, fueling speculation about whether he will run for another term in elections scheduled for 2020.

Europe’s Security Stake in Central Asia
The European Union is traditionally seen as a non-security focused actor. Given member state capitals’ preference to lead on national security and defence, there is a tendency to see the EU solely through the lens of non-security and to focus instead on economic questions when engaging with Brussels. Yet, this view misses a vast range of activity which is already going on as well as the fact that some key European security questions are intimately tied to Central Asia.The European Union is traditionally seen as a non-security focused actor. Given member state capitals’ preference to lead on national security and defence, there is a tendency to see the EU solely through the lens of non-security and to focus instead on economic questions when engaging with Brussels. Yet, this view misses a vast range of activity which is already going on as well as the fact that some key European security questions are intimately tied to Central Asia.(Seneca)

Dealing with the Saudis
The long-standing strategic alliance between Pakistan and Saudi Arabia has taken on a new dimension with prospects of the kingdom participating in CPEC projects. (Dawn)

martedì 25 settembre 2018

I molti dubbi sull’accordo Cina-Vaticano



All’indomani dello storico accordo tra Pechino e Vaticano sulle nomine episcopali, non si placano le polemiche sull’opacità dei contenuti, motivo di apprensione per buona parte della comunità cattolica. Nel pomeriggio di sabato si è svolta a Pechino una riunione tra il monsignor Antoine Camilleri, sotto-segretario per i Rapporti della Santa Sede con gli Stati, e Wang Chao, viceministro degli Affari Esteri della Repubblica Popolare Cinese, rispettivamente Capi delle Delegazioni vaticana e cinese. L’incontro si è concluso con una vaga intesa sulla scelta dei vescovi cinesi, fino a oggi principale punto di frizione per le relazioni tra il governo comunista e le autorità vaticane, che dagli anni ’50 esercitano il proprio controllo su due Chiese distinte più o meno numericamente equivalenti: quella “patriottica“, riconosciuta da Pechino (con i propri vescovi), e quella sotterranea, vicina al Vaticano e costretta a operare in clandestinità per sfuggire alla repressione del governo, ostile a qualsiasi forma di condivisione del potere.

Secondo Vatican Insider, l’accordo – di cui non è stato pubblicato il testo – viene definito “provvisorio” “perché contempla un tempo di verifica – presumibilmente, almeno un paio d’anni – per sperimentarne sul campo il funzionamento e gli effetti, così da modificarne e migliorarne la codificazione testuale”. Trattasi di “accordo non politico ma pastorale”, precisa la Santa Sede, smentendo tra le righe un’imminente rottura dei rapporti diplomatici con Taiwan (istituiti nel 1951 in seguito al divorzio dalla Cina continentale comunista), ma senza fornire i dettagli procedurali per l’effettuazione delle nomine.

Stando alle indiscrezioni trapelate sulla stampa internazionale nel corso delle negoziazioni, i vescovi verranno scelti per elezione da parte dei rappresentanti cattolici della diocesi (i sacerdoti, più i rappresentanti delle suore e dei laici) e approvati dalle autorità politiche cinesi, prima di essere sottoposti alla valutazione della Santa Sede per l’approvazione decisiva. Ma del potere di veto papale non sembra più esserci traccia. Intervistato dal New York Times nel weekend, l’arcivescovo Claudio Maria Celli, direttamente coinvolto nei negoziati, si è limitato ad assicurare “un intervento del Santo Padre” nelle nomine, schivando la richiesta di un chiarimento sull’entità dei poteri lasciati al capo della Chiesa cattolica.

Ugualmente abbottonata la reazione cinese, sintetizzata in uno scarno comunicato del ministero degli Esteri in cui si fa menzione di un “accordo temporaneo” mirato a facilitare il “miglioramento delle relazioni bilaterali.” Nessuno indizio in più sulla stampa statale spesso trainata dalle affermazioni incendiarie del Global Times. Il quotidiano bulldozer della politica estera cinese si è limitato a riportare il commento conciliatorio di Marcelo Sanchez Sorondo, cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze, sulla marginalità dell’opposizione schierata da parte della comunità cattolica, che ha nel cardinale Joseph Zen, ex arcivescovo di Hong Kong, il suo più loquace portavoce.

A preoccupare i detrattori sono soprattutto le misteriose premesse alla base della firma, che comprendono il riconoscimento da parte della Santa Sede di sette vescovi nominati da Pechino e precedentemente scomunicati dalla Chiesa di Roma. L’intesa prevedrebbe inoltre la sostituzione degli attuali rappresentanti “sotterranei” delle diocesi di Shantou e Mindong con due vescovi prescelti dal governo cinese. Il tutto mentre invece rimane incerto il futuro dei 36 vescovi ordinati con mandato papale e fino a oggi disconosciuti dal governo cinese.

A stretto giro dalla firma dell’accordo, la Chiesa cattolica cinese ufficiale – rappresentata dall’Associazione patriottica cattolica cinese (CPCA) e dalla Conferenza episcopale della Chiesa cattolica in Cina (BCCCC) – ha riaffermato il proprio sostegno al Partito comunista, promettendo di gestire le attività religiose “in maniera indipendente, attraverso un percorso di sinizzazione che si adatti a una società socialista.” Un messaggio che difficilmente aiuterà a dissipare le preoccupazioni innescate dalle ripetute violazioni della libertà religiosa sotto l’amministrazione Xi Jinping, responsabile di una recente stretta su tutte le comunità religiose presenti oltre la Grande Muraglia nel segno di un processo di indigenizzazione delle fedi.

È dunque l’inizio del totale assoggettamento della Chiesa alle autorità comuniste? Non per Francesco Sisci, sinologo che per Asia Times intervistò Bergoglio nel 2016. Secondo quanto riferisce l’esperto all’agenzia SIR, con l’accordo per la prima volta “Pechino ha ammesso l’ambito religioso del Papa in Cina“, una concessione che in epoca imperiale i missionari gesuiti non ottennero mai.

[Pubblicato su Il Fatto quotidiano online]

Il calo delle nascite mette in crisi l’esercito giapponese



Il calo delle nascite non fa male solo all’economia giapponese. A risentire negativamente dei numeri è anche il suo esercito: le cosiddette Jieitai, ovvero le Forze di autodifesa giapponesi (SDF) create dopo la fine della seconda guerra mondiale – “ufficialmente” – con l’unico scopo di mantenere la pace e, di questi tempi, difendere il paese dalle provocazioni nordcoreane.

Secondo recenti dati del governo, oltre il 28% della popolazione nipponica è da considerarsi vecchia – con gli over 65 ormai a quota 35,6 milioni -, la percentuale più alta al mondo. Un trend spiegabile alla luce delle migliori aspettative di vita ma soprattutto del costante calo delle nascite, ferme da due anni sotto il milione. Una popolazione ingrigita comporta pesi notevoli per il sistema pensionistico giapponese, costretto a fare affidamento su un minor numero di contribuenti. Ma non solo.

A causa del basso tasso di natalità, il numero di giapponesi nella fascia di età per il reclutamento (tra 18 e i 26 anni) è sceso a 11 milioni rispetto ai 17 milioni del 1994. Ed entro i prossimi trent’anni si prevede toccherà i 7,8 milioni. D’altronde è dal 2014 che l’esercito non riesce a raggiungere le quote di reclutamento previste, tanto che nell’anno terminato a marzo è arrivato a riempire appena il 77% dei 9.734 posti aperti tra le cariche di rango più basso.

Gli esperti la chiamano “crisi silenziosa”. Il Sol Levante è costantemente minacciato da centinaia di missili nordcoreani a medio raggio in grado di raggiungere il territorio nipponico. Una situazione – che l’ultimo libro bianco della Difesa definisce “un nuovo livello di pericolo” -, a cui si aggiungono le mai sopite rivalità territoriali con Pechino nelle acque contese del Mar Cinese orientale.

Stando a quanto proposto dal ministero della Difesa, la spesa militare giapponese per il 2019 dovrebbe sfiorare i 50 miliardi di dollari, cifra record, pari a un aumento del 2,1 per cento rispetto a quanto stanziato nel 2018, con la difesa balistica a fare la parte del leone. Peccato però che manchino le risorse primarie. “A meno che non si riesca a sostituire un numero considerevole di persone con dei robot, tra vent’anni sarà difficile riuscire a mantenere l’attuale livello di capacità belliche”, spiega alla Reuters l’ex vice-ministro della Difesa Akihisa Nagashima, “e allora la situazione per il Giappone non sarà più pacifica.”

Con il miglioramento dell’economia giapponese, la disoccupazione è scesa ai minimi da circa 25 anni e il numero degli iscritti all’università è aumentato. Certamente un bene secondo molti punti di vista ma non per le sue capacità difensive. Nonostante fosse stato stanziato un budget sufficiente a retribuire complessivamente 247.154 dipendenti (quanto contavano le forze di autodifesa nel 2016), nel 2018 l’esercito ha impiegato solo 226.789 persone. Con il margine più ridotto registrato tra i ranghi inferiori, circa il 26% in meno di quanto preventivato. Che fare?

Considerata l’incostituzionalità della coscrizione obbligatoria, rimangono aperte due strade: reclutare più donne e innalzare l’età massima per le nuove leve, che dal mese prossimo sarà portata a 32 anni. Un’Iniziativa sul Potenziamento del personale femminile, presentata lo scorso anno, mira a aumentare le “quote rosa” nelle SDF dal 6,1% del 2016 ad almeno un 9% del 2030. Numeri – ugualmente molto al di sotto rispetto a Stati Uniti (15%) e Gran Bretagna (10%) – che difficilmente faranno la differenza, soprattutto data l’usuale limitazione delle donne a impieghi per i quali non è previsto l’utilizzo delle armi.

La verità è che, sebbene il 90% della popolazione provi simpatia per l’operosità dell’esercito nelle situazioni di crisi – tifoni e terremoti non mancano nell’arcipelago – il Giappone sconta ancora il trauma della seconda guerra mondiale e 70 anni di propaganda pacifista. Secondo un sondaggio di Kyodo News, solo il 36% della popolazione si è detto favorevole alla controversa revisione della costituzione pacifista con cui il premier Shinzo Abe nel 2020 punta a dotare il paese di un esercito “normale”, in grado anche di offendere e non solo di difendere.

[Pubblicato su Il Fatto quotidiano]

martedì 11 settembre 2018

La rivoluzione tecnologica costerà alla Cina milioni di posti di lavoro



La rivoluzione tecnologica intrapresa dalla Cina costerà alla seconda potenza mondiale tra i 40 e i 50 milioni di posti di lavoro a tempo pieno nei prossimi quindici anni. Lo rivela un recente rapporto realizzato congiuntamente dal think tank governativo China Development Research Foundation (CDRF) e Sequoia Capital China sulla base dei dati raccolti dal McKinsey Global Institute. Secondo lo studio, entro il 2030, l’automazione – innescata da un più pervasivo impiego dell’intelligenza artificiale (AI) – sostituirà un quinto delle posizioni nell’industria manifatturiera. Quasi 100 milioni di lavoratori saranno costretti a cambiare professione nel caso in cui il processo di conversione alle macchine dovesse procedere a un passo più sostenuto.

Spinto dagli aumenti salariali e dal rapido invecchiamento della popolazione, quattro anni fa il governo di Pechino ha cominciato a investire massicciamente nella robotica. Tanto che, secondo l’International Federation of Robotics (IFR), dal 2016 l’ex Celeste Impero detiene il primato per numero di robot industriali, sebbene la densità sia al di sotto della media mondiale: 68 unità ogni 10mila lavoratori (dati del 2016). Le cifre macinate dall’AI non sono da meno. Se si danno per buone le statistiche tratte dal “China’s AI Development Report 2018” della Tsinghua University, oltre la Muraglia il settore vale ormai oltre 3,5 miliardi di dollari, contando per più del 15% del totale mondiale, ed è teso a superare i 22 miliardi entro il 2020 grazie a un tasso di crescita annuo del 65%, superiore alla media globale del 60%.

Robotica, automazione e intelligenza artificiale, sono i tre pilastri su cui poggia il controverso progetto “Made in China 2025” mirato a rilanciare l’industria cinese – tradizionalmente low cost – verso i segmenti più alti delle catene di produzione mondiali. Considerato da molti paravento per il saccheggio di tecnologia estera, il piano sembra tuttavia essere all’origine di grattacapi non solo per le relazioni tra Pechino e i competitor occidentali.

Negli ultimi tre anni, l’automazione ha già portato a un taglio della forza lavoro del 30–40% nel Zhejiang, Jiangsu e Guangdong, le province che negli ultimi quarant’anni di riforme economiche hanno trainato la locomotiva cinese. Stando al rapporto della CDRF, nell’ultimo decennio il gigante del beverage Wahaha con base ad Hangzhou ha ridotto tra i 200 e i 300 posti sulla catena di montaggio. Le ultime proiezioni sembrano andare oltre, arrivando a minacciare anche le mansioni ripetitive dei colletti bianchi: entro il 2027, mentre il settore finanziario cinese impiegherà 9,93 milioni di persone, l’automazione porterà una sforbiciata del 22% dei posti di lavoro in banca, del 25% nel mercato assicurativo e del 16% nel mercato dei capitali. Al contempo, le ore di lavoro per il personale fisico subiranno una riduzione del 27%.

Lo sviluppo di nuove tecnologie, unitamente allo sfoltimento della manodopera nei comparti affetti da sovrapproduzione – come acciaio e carbone -, costituisce un mix preoccupante per il ministero delle Risorse umane, che chiarisce: l’aumento della disoccupazione strutturale è il risultato dello squilibrio tra la fornitura di lavoratori poco qualificati e istruiti, e lo spostamento della domanda verso forza lavoro più qualificata.

Nonostante i progressi compiuti negli ultimi trent’anni, il paese presenta ancora una notevole diseguaglianza regionale per quanto concerne il reddito e la qualità dell’istruzione. Secondo l’Accademia delle Scienze sociali, un lavoratore migrante sotto i trent’anni compie un percorso scolastico di appena 9,8 anni, senza finire la scuola superiore. Sottolineando i limiti del sistema, proprio di recente Huang Qifan, vicepresidente del Financial and Economic Affairs Committee, ha sottolineato come la manodopera mobile non abbia accesso ai programmi statali di formazione professionale, di cui godono invece i residenti regolarmente registrati. Investire nel capitale umano è una priorità per creare lavoro nell’era dell’AI, conferma lo studio.

“L’intelligenza artificiale libererà enormemente l’umanità dalle professioni ripetitive e aiuterà a coltivare menti creative”, spiega al China Daily Neil Shen, fondatore e managing partner di Sequoia Capital China. “Questo significa che il lavoro passerà dall’essere incentrato sull’azione all’innovazione: più talenti dedicheranno il loro tempo alla scoperta scientifica e all’innovazione tecnologica, destinando i loro sforzi all’arricchimento del mondo.”

[Pubblicato su il Fatto quotidiano online]

La Marina di Pechino supera quella Usa, almeno nei numeri



Per secoli la Cina è stata una potenza continentale, agricola e con il suo centro politico ben radicato a nord. Almeno fatta eccezione per il trentennio tra il 1405 e il 1433, durante il quale la dinastia Ming finanziò sette spedizioni navali verso paesi remoti guidate dall’ammiraglio musulmano Zheng He.

Da alcuni decenni riproposta all’attenzione popolare dagli storici, oggi l’immagine del condottiero dei mari ha raggiunto persino il Ningxia, la regione autonoma islamica a 1200 chilometri dal mare, dove Pechino sta costruendo un imponente centro di cultura dedicato alla minoranza Hui, l’etnia musulmana cinese nata dalla commistione tra la popolazione autoctona e i commercianti arabi in arrivo dal Medio Oriente. Trasformata in simbolico punto di incontro tra il corridoio terrestre e quello marittimo del progetto Nuova Via della Seta (aka Belt and Road), questa remota provincia della Repubblica popolare ci ricorda come quel breve interludio marino sia più che mai vivo nell’immaginario della Cina e della sua leadership.

Negli ultimi anni, la necessità di difendere i propri interessi economici e geopolitici nonché la propria sovranità dalle mire dei vicini rivieraschi ha spinto il gigante asiatico a ricalibrare la propria potenza di fuoco in favore della marina. E’ un processo cominciato nel 2000 e velocizzato dalla nomina di Xi Jinping a presidente, segretario del Partito comunista e capo della Commissione militare centrale, l’organo che sovrintendere alle forze armate cinesi. Con lo scopo di sfoltire e ottimizzare le forze a disposizione, nel 2015 la più grande riforma militare degli ultimi decenni ha posto l’accento sulla necessità di ridurre l’esercito più numeroso al mondo – ma impigrito dalla prolungata assenza dal campo di battaglia – di 300mila unità, fino a quota 2 milioni. Al medesimo obiettivo ha concorso un’agguerrita campagna anticorruzione tra i ranghi più alti, accompagnata da un rafforzamento della marina e delle forze missilistiche per troppo tempo trascurate a vantaggio delle forze terrestri. Secondo il rapporto presentato lo scorso ottobre durante il Diciannovesimo Congresso del Partito, questo dovrebbe bastare a rendere l’esercito cinese una “potenza moderna” entro il 2035 e una “forza di livello mondiale” allo scoccare del 2050.

Sottolineando le priorità in agenda, lo scorso aprile il presidente Xi ha sentenziato che “la necessità di costruire una marina potente non è mai stata così impellente come oggi”. I numeri sembrano confermare l’impegno. Soltanto negli ultimi dieci anni la Marina dell’Esercito Popolare di Liberazione ha costruito oltre 100 nuovi sottomarini e navi da guerra, più di quanto possiedano le flotte della maggior parte dei paesi del mondo. Domenica scorsa, la seconda portaerei cinese – la prima interamente Made in China – ha lasciato la città portuale di Dalian alla volta del Mar Giallo per la sua seconda e ultima navigazione di prova, appena due giorni dopo la messa in mare del cacciatorpediniere Type 055, il più potente della regione, destinato a scortare la nuova nave da guerra una volta operativa. Accidentalmente, all’inizio dell’estete, un’immagine catturata negli uffici della China Shipbuilding Industry Corporation ha confermato l’esistenza di una terza portaerei in costruzione in un cantiere di Shanghai dal 2017.

Con 11 portaerei in servizio, nemmeno Washington è in grado di tenere testa alle ambizioni marine di Pechino. Lo scorso anno il gigante asiatico ha superato gli Stati Uniti per numero di sottomarini e navi da guerra (317 contro 283) e, per stessa ammissione del nuovo comandante del US Indo-Pacific Command Philip Davidson, “la Cina è ora in grado di controllare il Mar Cinese Meridionale in tutti gli scenari di una guerra con gli Stati Uniti”. Proprio quest’anno la seconda potenza mondiale ha istallato sulle isole Spratly missili da crociera antinave Yj-12B capaci di minacciare Filippine e Vietnam, due delle nazioni con cui la Cina ha in sospeso dispute territoriali. Ennesimo potenziamento dei propri asset A2 / AD (anti-accesso/area di diniego) – razzi, satelliti e radar-, che dal 2015 vantano i “missili killer” DF-26 impossibili da intercettare e in grado di raggiungere la base americana di Guam, per stessa ammissione del Pentagono. Tanto che, per Davidson, ormai il gigante asiatico è un “competitor alla pari” se si considerano le capacità sviluppate per far fronte a una “guerra asimmetrica”.

Questo sembra complicare non poco la tutela degli interessi strategici americani nella regione e non solo. Quest’estate, per punire l’attivismo negli arcipelaghi contesi, Washington ha bandito la Cina dal Rimpac, le più massicce esercitazioni navali al mondo. Con intenti che Washington ritiene provocatori, negli ultimi tempi le incursioni di Pechino intorno a Taiwan e alle isole nipponiche Ryukyu si sono fatte più frequenti, spingendo le mire cinesi in tratti di mare anche più remoti con scopi dichiaratamente autodifensivi, umanitari e logistici. Ne è esempio la base di Gibuti, nel Corno d’Africa, dove gli States hanno il loro unico avamposto militare permanente nel continente.

Sebbene molto dell’hardware in mani cinesi abbia origini sovietiche (vedi la prima portaerei Liaoning), negli ultimi anni – legalmente e illegalmente – Pechino ha assorbito e rielaborato tecnologia d’importazione grazie a un budget militare in continua crescita. Con 228 miliardi di dollari stanziati, la Cina è seconda soltanto agli States (610 miliardi), sebbene la percentuale destinata alla Difesa rispetto alla spesa pubblica complessiva sia progressivamente diminuita.

Secondo esperti citati dal New York Times, ormai non serve più che la marina cinese ottenga capacità belliche in grado realmente di sconfiggere gli States. Basta che il suo attivismo nel Pacifico renda un intervento americano troppo costoso per essere preso in considerazione.

[Pubblicato sul Il Fatto quotidiano online]

sabato 8 settembre 2018

La roadmap di Singapore è appesa alla parata di Pyongyang



Quando Moon Jae-in e Kim Jong-un si incontreranno a Pyongyang per il loro terzo faccia a faccia il 18 settembre, sull’altra sponda del Pacifico le parole e i gesti dei due leader saranno oggetto di minuziose analisi. A meno di tre mesi dal vertice di Singapore, lo stallo nell’implementazione dei quattro punti contenuti nel Sentosa Agreement rischia di sfaldare nuovamente lo scricchiolante fronte unito messo in piedi da Washington con l’intento primario di spingere la Corea del Nord ad abbandonare l’atomica.

Ancora inebriato dai riflettori, a giugno il presidente americano aveva salutato l’esito del summit come la fine della minaccia nucleare nordcoreana, una posizione mantenuta in barba alle critiche internazionali fino alla fine dello scorso mese, quando – giustificando l’improvvisa cancellazione della quarta visita del segretario di Stato Mike Pompeo a Pyongyang – ha mestamente cinguettato: “sul versante denuclearizzazione non stiamo facendo progressi sufficienti”.

Il brusco ritorno alla realtà segue mesi di dubbi e indiscrezioni sulla tenuta dell’intesa siglata dai due leader. Alcuni giorni fa, in uno dei suoi rapporti più completi sulla questione, l’International Atomic Energy Agency ha ribadito l’esistenza di prove evidenti sulla continuazione dei lavori di ampliamento e arricchimento dell’uranio presso il sito di Yongbyon. Ultima conferma delle attività occulte già messe a nudo da una corposa raccolta di rilevamenti satellitari pubblicati nei mesi trascorsi da autorevoli istituti internazionali di ricerca.

In difesa della “diplomazia paziente” intessuta da Washington, a luglio Pompeo aveva definito le negoziazioni con Pyongyang “produttive” – citando lo smantellamento della stazione missilistica di Sohae – salvo poi ammettere la mancata interruzione della produzione di materiale fissile per la realizzazione di nuovi ordigni. “La diplomazia e l’impegno sono preferibili al conflitto e all’ostilità”, aveva dichiarato il capo della politica estera americana, rispondendo alle critiche di quanti continuano a definire lo storico meeting tra Kim e Trump un inutile “reality TV summit” al servizio della propaganda trumpiana.

Nel tentativo di sbloccare l’impasse, il Dipartimento di Stato americano ha provveduto recentemente a introdurre figure ad hoc, come Stephen Biegun, ex capo degli affari internazionali di Ford, nominato inviato speciale per la Corea del Nord. Una mossa che non è bastata ad azzittire le indiscrezioni sulla sostanziale assenza di un’interpretazione unanime del termine “denuclearizzazione”, che stando a Washington dovrebbe includere la consegna del 60-70% delle testate entro sei sette mesi, oltre a una lista dei siti e delle armi nucleare. La roadmap da seguire sembra costituire un ulteriore elemento di disaccordo tra le due leadership. In particolare è la successione cronologica dei punti 2 (“costruzione di una pace stabile e duratura”) e 3 (“impegno a lavorare per una denuclearizzazione completa”) della dichiarazione congiunta a costituire il vero pomo della discordia.

Secondo un’esclusiva di Vox, in quel di Singapore, lontano dai flash, The Donald avrebbe promesso a Kim l’imminente firma di un accordo di pace. Un documento non vincolante ma con una valenza simbolica fondamentale per il giovane leader, chiamato a giustificare davanti al popolo e all’esercito nordcoreano la rinuncia al prezioso arsenale in cambio di garanzie fumose – solo pochi giorni fa il Pentagono ha ventilato la ripresa delle esercitazioni congiunte con Seul, sospese in dimostrazione di “buona fede” dopo il vertice del 12 giugno. Nonostante la parola data, tuttavia, Washington non ha ammorbidito la propria ostinazione nell’anteporre la denuclearizzazione a qualsiasi concessione, dall’allentamento delle sanzioni a una dichiarazione formale atta a sostituire l’armistizio che nel 1953 ha posto fine agli scontri ma non alla guerra. Un passo che renderebbe superflua la presenza militare statunitense nella penisola.

Secondo la CNN, la decisione di annullare il viaggio di Pompeo al Nord sarebbe stata determinata proprio dalla consegna di una lettera in cui il regime di Pyongyang minacciava nuove provocazioni missilistiche e nucleari nel caso in cui la controparte americana non avesse “soddisfatto le aspettative riguardo alla firma di un trattato di pace”. Insomma, per il Nord, dopo la distruzione del principale sito nucleare, il rilascio dei prigionieri americani e la consegna delle spoglie dei caduti in guerra, Washington si starebbe ostinando a eludere la concessione di “misure corrispondenti”. E a pensarlo non è solo Pyongyang.

L’improduttività dei negoziati sta allontanando nuovamente gli altri interlocutori asiatici – compresi gli alleati storici – mossi da agende politiche ed economiche divergenti. Il 15 agosto, nel Giorno della Liberazione nazionale dal Giappone, il presidente sudcoreano Moon, annunciando il suo terzo meeting con Kim, ha affermato che l’incontro sancirà “un passo audace verso la dichiarazione della fine della guerra di Corea e la firma di un trattato di pace “. Condizione necessaria alla finalizzazione di un piano d’investimenti – già parzialmente bloccato da Washington – che prevede, tra gli altri, la creazione di zone economiche speciali congiunte e ferrovie attraverso il 38esimo parallelo. E se Seul fa il suo gioco Tokyo non è da meno. Di pochi giorni fa la notizia di un incontro segreto a luglio tra l’intelligence giapponese e quella nordcoreana in Vietnam, chiaro segno della scarsa fiducia riposta da Tokyo nella possibilità di ottenere l’aiuto americano a tutela degli interessi nazionali, soprattutto in riferimento all’annosa questione dei cittadini giapponesi rapiti alla fine degli anni ’70.

Difficilmente gli Stati Uniti troveranno una sponda più solida in Pechino, fin dall’inizio fautore di una sospensione delle sanzioni. In tempi recenti Trump ha sparato nuove bordate contro la Cina, accusata di strumentalizzare il suo ascendete economico su Pyongyang in ritorsione alle misure tariffarie adottate nell’ambito della guerra commerciale in corso tra le due sponde del Pacifico. E’ forse per smarcarsi da tali insinuazioni che, smentendo le indiscrezioni della stampa, domenica il presidente Xi Jinping si asterrà dal visitare la Corea del Nord per il 70esimo anniversario della fondazione della Repubblica popolare democratica, mandando in sua vece il numero tre del Partito, Li Zhanshu, il funzionario cinese di rango più elevato a mettere piede a Nord dal 2012. Segno che, dopo anni di gelo, i rapporti tra i due paesi stanno vivendo un processo di distensione, ma meno rapido di quanto pensi la Casa Bianca.

Ora tutti gli occhi sono puntati sulla parata per il genetliaco del regime nordcoreano. Dopo mesi di escursioni bucoliche e visite in fabbrica, chissà che Kim non decida di tornare ai vecchi e provocatori messaggi subliminali. Come la sfilata di missili balistici intercontinentali in grado di colpire gli Stati Uniti.

[Pubblicato su il manifesto]

mercoledì 29 agosto 2018

Weekly News Roundup: Dispatches from the Silk Road Economic Belt




China is ‘building a training camp in Afghanistan’ to fight terrorism
China has started building a training camp for Afghan troops in a narrow corridor that connects the two countries – a project Beijing is fully funding to help its neighbour boost counterterrorism efforts, sources close to the military said. (scmp)

Why the Muslim world isn't saying anything about China’s repression and 'cultural cleansing' of its downtrodden Muslim minority
Muslim countries have been silent over China's crackdown on its Uighurs, a Muslim-majority ethnic minority in the country's west. (businessinsider)

Imran Khan expected to stick with Chinese investment projects after Pakistan election victory
Khan’s party and other opposition parties have staged frequent protests that caused projects associated with the corridor to be delayed, but Khan stressed that the target was Sharif and not China. (scmp)

Shanghai Cooperation Organisation looking frosty from Astana
Kazakhstan is one of Russia’s closest allies in Central Asian, and the relationship between Russia and Kazakhstan plays an important role in the functioning of the SCO. But the relationship has recently become rocky. Kazakhstan–China relations are ostensibly faring better. According to the official Kazakh narrative, relations between Kazakhstan and China are exemplary and Astana is eager to capture the opportunities provided by China’s Belt and Road Initiative. China has pledged to provide more than US$600 million to support the development of transport infrastructure in Kazakhstan within the next five years, and Chinese companies are building a light rail transit system in Astana with US$1.9 billion that Kazakhstan borrowed from the China Development Bank. More than 127 projects cumulatively worth US$67 billion were signed between Kazakhstan and China in the past six years. New joint projects were also discussed during Nazarbayev’s last visit to China in areas such as energy, oil and gas, new technologies and cultural cooperation.(eastasiaforum)

Kazakhs Increasingly Hostile to Both Russians and Chinese
Kazakhstanis are increasingly skeptical of close ties with both Russians and Chinese, profoundly limiting the ability of the former to recover the influence Moscow once had there and making it far more difficult for Beijing to move in and supplant it. (Jamestown)

Sauytbay Trial in Kazakhstan Puts Astana in a Bind with China
The complexities of international relations aside, is Kazakhstan going to choose China over Kazakhs? (the diplomat)

Asylum seeker to remain in Kazakhstan in Chinese internment centre case
A Kazakh court has decided against deporting a Chinese woman of Kazakh descent back to China, where her lawyers say she faces a risk of torture after working at a secretive internment centre in China’s western region of Xinjiang (FT)

CHINESE HANDLING OF KAZAKHS A BUMP IN BELT AND ROAD
Astana’s economic ties with Beijing leave it with a headache in dealing with public anger over the internment of its nationals in Xinjiang’s ‘re-education centres’ (scmp)

Kazakh port in decline bids for slice of China trade
With the outlines of its six idle cranes obscured by thick fog and pouring rain, Kazakhstan's Caspian seaport Aktau seems an unlikely stop on China's much-hyped new silk road.
But the sleepy port, which has been badly hit in recent years by new oil routes, is vying for a slice of the pie as competition for Chinese trade warms up on the shores of the world's largest inland sea. (AFP)

Crackdown in Xinjiang: Where have all the people gone?
The impact is beginning to be felt outside the region. Once thriving trade with China’s neighbours in Central Asia and Pakistan has dried up, with foreign traders unable to receive their usual one-month visas due to heightened security screening. Inventory depots, where traders gather to make deals, offload goods and exchange currency, have seen traffic plummet. (FT)

Criminal Arrests in Xinjiang Account for 21% of China’s Total in 2017
According to Chinese government data, criminal arrests in Xinjiang accounted for an alarming 21% of all arrests in China in 2017, though the population in the XUAR is only about 1.5% of China’s total. The ratio of formal arrests made in Xinjiang has increased by 306% in the past five years compared to the previous five-year period.Of the total number of people arrested from 2013 to 2017, nearly 70% of the arrests were made in the year 2017 alone. (nchrd)

Companies help create jobs, reduce poverty in Xinjiang
Huafu Fashion Co. Ltd., the world's largest supplier of melange yarn, will invest in 100 poor villages in southern Xinjiang Uygur Autonomous Region as part of three-year poverty-relief plan. Based in east China's Zhejiang Province, Huafu plans to invest a total of 100 million yuan (around 15 million US dollars) in 100 poverty-stricken villages in developing industries to boost employment over the following three years. (Xinhua)

China's CNPC to invest more than $22 billion to boost Xinjiang oil, gas output by 2020
China’s state oil company CNPC said on Wednesday it will invest more than 150 billion yuan ($22 billion) by 2020 to boost oil and gas output in the western Xinjiang region, the latest move to replace falling output from ageing fields in northeast China. Output will exceed 50 million tonnes of oil equivalent in the Xinjiang region within two years, CNPC said. (Reuters)

Chinese Premier Li Keqiang tells Buddhist leaders to defend ethnic unity on rare trip to Tibet
Li also vows to boost infrastructure spending to improve economy, visiting tunnel construction site for railway link with Sichuan

Southern Xinjiang gets better connected
A key roadway in Hotan prefecture, in the south of the Xinjiang Uygur autonomous region, was opened to traffic for the first time on Wednesday. The four-lane highway is an important component of China's planned road network that aims to better connect the country with Central and South Asia. (China Daily)

Russia, Central Asia accept BRI gainful
The ancient Silk Road once linked China with Central Asia and Russia, as well as Europe. In the 21st century, Central Asian countries have established even closer economic and trade ties with China. In fact, a series of medium-and long-term economic development strategies devised by the Central Asian countries have much in common with the China-proposed Belt and Road Initiative, and thus have created ample room and good opportunities for strategic cooperation. (China Daily)

China-Europe freight trains make 10,000 trips
"China has accumulated abundant management experience in running container terminals. After the acquisition, we've gradually introduced an advanced operation process and management into Noatum, and improved efficiency". With the help of the Chinese management team, the company has established an operations department to increase efficiency at the ports and railway terminals. A new health, security and safety department has been set up to ensure the company meets the highest safety standards.

CENTRAL ASIA

TAJIKISTAN

The self-proclaimed Islamic State claimed the killings of four foreign tourists who were run over by a car while cycling (NYT) and then stabbed. The Tajik government blamed the attack (RFE/RL) on a banned local Islamist party and said one assailant was trained in Iran.

Tajik or Russian” jets bomb Afghanistan following border skirmish
Strike confirms willingness to engage in cross-border operations to secure southern front. (eurasianet)

Hukou e controllo sociale

Quando nel 2012 mi trasferii a Pechino per lavoro, il più apprezzabile tra i tanti privilegi di expat non era quello di avere l’ufficio ad...