mercoledì 24 dicembre 2014

La Cina e il Risiko europeo


I Balcani come scorciatoia nella 'lunga marcia' del Dragone verso l'Europa. L'idea, non del tutto nuova, ha ricevuto un ulteriore impulso in occasione del Central and Eastern European (CEE) – China Summit, evento ospitato la scorsa settimana dalla capitale serba Belgrado. L'incontro, finalizzato a completare quanto messo sul tavolo durante l'edizione dello scorso anno tenutasi a Bucarest, si basa sulla formula 16+1, ovvero i 16 Paesi dell'Europa centro-orientale più la Cina. Per il Premier cinese Li Keqiang, frequente visitatore del Vecchio Continente, la missione ha fornito l'occasione per ribadire l'impegno cinese a creare un ponte tra Est e Ovest. Un concetto esposto poche ore prima nell'ambito di un meeting della Shanghai Cooperation Organization ad Astana, in Kazakistan, prima tappa del suo viaggio verso Occidente. Cosa c'entra il Kazakistan? C'entra. Pare infatti che, agli occhi del Dragone, il minimo comune denominatore tra Asia Centrale ed Europa centro-orientale sia il potenziale sommerso e l'arretratezza delle infrastrutture.

Secondo stime dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico, nei prossimi due decenni il fabbisogno mondiale di infrastrutture raggiungerà un costo di 50 trilioni di dollari, mentre l'Asian Development Bank calcola che le economie asiatiche emergenti necessiteranno di 8 trilioni di dollari nella decade 2010-2020 per tenere il passo con le loro esigenze infrastrutturali. Un problema che la Cina si sta apprestando ad alleviare con una serie di progetti, prima fra tutti quello per riportare in auge l'antica Via della Seta. Che nella sua versione moderna dovrebbe prendere le forme di una cintura economica attraverso l'Eurasia con il doppio scopo di facilitare il passaggio dell'export cinese e regalare dinamismo ai Paesi sospesi tra regno di Mezzo ed Europa. La parola 'integrazione' è ormai diventata il nuovo mantra dello 'sviluppo pacifico' cinese nel 'vicinato allargato', vale a dire in tutte quelle aree in cui l'ascendente del gigante asiatico si era estinto da secoli e che Pechino vuole riportare entro la propria sfera di influenza. 'Integrazione' da intendersi come connessione logistica del tessuto produttivo (rigorosamente win-win) ma anche come interrelazione 'people-to-people', per utilizzare un'espressione molto in voga tra la stampa cinese.

Nel corso del summit di Belgrado, Cina, Serbia, Ungheria e Macedonia hanno raggiunto un'intesa per l'istituzione di un corridoio economico finalizzato a collegare l'ex Impero Celeste al Mediterraneo. Si tratta di una 'linea veloce terra-mare' che andrà a connettere Budapest (Ungheria), Belgrado (Serbia), Skopje (Macedonia), Atene (Grecia) e il porto del Pireo, il principale scalo marittimo commerciale del Vecchio Continente e porta d'ingresso per il 'Made in China' in Europa. Qui il colosso cinese della logistica marittima COSCO opera dal 2009 con una concessione di 35 anni per lo sviluppo di due moli. Con la gestione cinese il traffico di container nello scalo greco è triplicato nel giro di cinque anni e i tempi di spedizione si sono abbreviati di una settimana. Nel frattempo, le ambizioni marittime del Dragone si sono estese anche ai porti di Tessalonica (Grecia) e Bar (Montenegro), in barba al nostro Gioia Tauro.

L'agenzia di stampa Xinhua descrive la 'linea veloce mare-terra' come «una versione più estesa e aggiornata» della ferroviaria Budapest - Belgrado -che dovrebbe vedere la luce entro il 2017 grazie ai finanziamenti di Pechino e al lavoro di compagnie cinesi- andando ad agganciare il Pireo alla capitale ungherese. L'area interessata dal progetto, che prevede anche una riduzione delle barriere doganali, copre una superficie di 340mila chilometri quadrati e coinvolge 32 milioni di persone. Per facilitare gli investimenti nella regione, Li Keqiang ha annunciato la creazione di un fondo da 3 miliardi di dollari che si va a sommare alla linea di credito speciale da 10 miliardi istituita due anni fa proprio per supportare i progetti Cina-CEE. Dal 2010, Pechino è attivo in Serbia, Bosnia e Montenegro con la costruzione di ponti, autostrade e centrali elettriche. Secondo Zhao Junjie, ricercatore di studi europei presso l'Accademia cinese delle Scienze sociali, il nuovo corridoio costituisce un'alternativa alla rotta settentrionale che connette Cina ed Europa passando attraverso la regione autonoma cinese del Xinjiang, la Russia e la Polonia giungendo infine in Spagna: ovvero la tratta Yiwu- Madrid, entrata in funzione lo scorso novembre. Una linea merci di 13mila chilometri (la più lunga al mondo) che permette di raggiungere il Vecchio Continente in soli due giorni contro i precedenti ventuno. La portata dei progetti a trazione cinese è rivoluzionaria se si considera che il 90% del commercio globale avviene ancora via mare, spesso attraverso canali difficili come lo Stretto di Malacca.

Normalmente si dice che l'espansione cinese all'estero si espliciti in tre forme: progetti infrastrutturali, accordi commerciali e sfruttamento delle risorse. In linea di principio, nei Balcani, Pechino può contare su tutti e tre. Quando nell'aprile 2012 l'allora Primo Ministro cinese Wen Jiabao si recò in missione a Varsavia (prima visita di un Premier cinese in Polonia dal 1987), parlò di hi-tech, energia verde e infrastrutture per rilanciare i rapporti virtuosi tra Cina e Stati CEE. Pressoché inesistente fino a qualche anno fa, dal 2000 il commercio tra la Repubblica popolare e le nazioni dell'Europa centro-orientale è cresciuto annualmente di oltre il 30% arrivando a toccare i 50 miliardi di dollari. Non solo. Come fa notare, su 'The Diplomat', Valbona Zeneli, docente presso il George C. Marshall European Center for Security Studies, la regione è ricca di risorse naturali. Il settore energetico locale, troppo rischioso per i partner occidentali, può servire alla Cina per sfoggiare il proprio expertise nell'energia pulita rafforzato dalla Green Credit Directive, politica introdotta nel 2012 che impone alle banche cinesi di valutare la sostenibilità dei progetti all'estero prima di concedere finanziamenti. Oltre alla Serbia, dove il Dragone ha stretto con l'ente nazionale per l'energia elettrica EPS un accordo da 2 miliardi di euro, anche la Bosnia-Erzegovina ha ricevuto capitali cinese attraverso il finanziamento della centrale termoelettrica Stanari per la cui costruzione China Development Bank ha sborsato 350 milioni di euro. Ed è già nell'aria una cooperazione tra Pechino e Praga per lo sviluppo dell'industria nucleare nella Repubblica Ceca, così come società cinese sono in lizza per la costruzione di una centrale a carbone in Montenegro.

 Secondo Zaneli, tuttavia, non è per assicurarsi una fonte di commodities che il Dragone si sta dando tanto da fare negli 'squattrinati' Balcani. La scarsa produttività della regione farebbe pensare ad una strategia sul lungo periodo a fronte di profitti immediati minimi. Per la Cina si tratta di un mercato appetitoso dalle potenzialità ancora inespresse: l'area offre «una forza lavoro qualificata in cambio di salari relativamente bassi, ha un tasso di crescita abbastanza buono ed è prossima per posizioni politiche e collocazione geografica all'Europa occidentale», dove poter rivendere i prodotti finiti. Qualcuno suggerisce anche che, grazie agli accordi di libero scambio tra gli Stati della regione e l'Unione europea, la Repubblica popolare potrebbe accedere direttamente ad un mercato di 800 milioni di persone aggirando le restrizioni commerciali messe in atto da Bruxelles.

La CEE ospita Paesi molto diversi tra loro per grado di sviluppo, dimensioni, trascorsi storici, tradizioni culturali e religiose, ma accomunati da un passato socialista interrotto, nel 1989, con l'inizio di un processo di trasformazione del sistema economico, politico e sociale in cui Europa occidentale e Stati Uniti hanno rivestito un ruolo cruciale. Il gigante asiatico, al contrario, gode di un'estraneità storica' percepita localmente con favore. Quello che ha fatto la Cina è stato essenzialmente allungare la mano ad una regione complessata a causa della propria marginalità politica che, ancorata la propria ripresa economica all'Occidente, si è ritrovata di riflesso impantanata nella crisi del 2008. Come spiega al 'China Daily' Ljiljana Smajlovic, Presidente dell'Associazione dei Giornalista della Serbia («un Paese traumatizzato»): «siamo contenti di avere con la Cina relazioni senza complicazioni emotive o uno sgradevole bagaglio politico. Concessioni, ferrovie ad alta velocità...sapete che anche soltanto sentir parlare di treni ad alta velocità è un piacere per le nostre orecchie? Ci piacerebbe molto vedere tutto questo diventare realtà».

Eppure l'avvicinamento della Cina ai Paesi CEE (di cui 6 sono candidati all'Ue e 11 ne fanno già parte) viene visto diffusamente come una minaccia per la coesione del blocco dei 28. Qualcuno suggerisce che Pechino stia volontariamente erodendo l'autorità di Bruxelles nella regione, secondo il detto 'divide et impera'. Non convince nemmeno l'atteggiamento ondivago degli Stati CEE, dal collasso dei regimi comunisti protesi verso l'Occidente filo-americano e ora pronti a 'tradire' per assicurarsi i finanziamenti cinesi. C'è da avere paura? No, secondo Richard Turcsányi, visiting fellow presso l'European Institute for Asian Studies. La Cina -come scrive Turcsányi- sembra più propensa a stringere cordiali rapporti con i Paesi già membri dell'Unione europea (non con quelli 'ribelli'), così come l'interesse cinese verso l'Europa centro-orientale è aumentato proprio con l'ingresso nell'Ue di buona parte dei Paesi della regione. Un interesse che, al di là delle implicazioni più strettamente economiche, potrebbe nascondere vantaggi di ordine strategico. Come spiegato in un'intervista da Adrian Severin, politico rumeno nonché membro del Parlamento Europeo, il gigante asiatico starebbe cercando di assicurarsi uno spazio d'importanza geopolitica cruciale tra Russia e Germania, in caso l'incapacità Ue nel contenere le intemperanze di Mosca si traducesse in un'ascesa russa nella regione.

"Una delle teorie più diffuse è quella che la Cina stia cercando di incrementare lo sviluppo dei Paesi CEE per affrancarli da un'eccessiva dipendenza da Mosca", racconta a 'L'Indro' Turcsányi, "dopo la crisi del 2008 l'attivismo dell'Occidente nella regione ha cominciato a scemare così che ora questi Paesi sono in cerca di un sostituto. Le alternative sono proprio la Russia o la Cina".

(Pubblicato su L'Indro)

mercoledì 17 dicembre 2014

Quella sottile linea rossa tra Stato e privato


«Il mercato sarà decisivo nell'allocazione delle risorse». Lo ha promesso la leadership cinese lo scorso anno in occasione del Terzo Plenum del Partito, annunciando «riforme senza precedenti» volte a scardinare i monopoli e ribilanciare la partecipazione tra Stato e privato nello sviluppo nazionale. Nella transazione da un'economia pianificata, più che a smantellare le grandi imprese di Stato (State-Owned Enterprises, SOEs) Pechino punta a renderle più efficienti favorendo l'ingesso di capitali privati attraverso un 'sistema di proprietà misto'. Alle grandi SOEs verrà chiesto di «restituire il trenta per cento» (finora era circa il quindici) dei loro profitti da reinvestire «per migliorare la vita delle persone». Si tratta di un compromesso tra una privatizzazione 'pura' (osteggiata dall'ala più conservatrice del Partito) e il sistema attualmente in vigore che non funziona più.

Stando ad un recente studio, al momento, le società a proprietà mista costituiscono il 40% dell'industria cinese. L'ulteriore arrivo di capitali privati ha il duplice scopo (a livello locale) di coprire i conti in rosso e (a livello nazionale) di aumentare la produttività dei colossi di Stato, che detengono il monopolio in alcuni settori chiave -come finanzia, energia e telecomunicazioni- e sono ricettacolo di sprechi e corruzione. Vendendo partecipazioni all'interno delle SOEs Pechino spera di aiutare le amministrazioni locali (che controllano due terzi delle 155mila compagnie statali cinesi) a pagare un debito che si aggira ormai sui 3 trilioni di dollari, pari al 58% del Pil nazionale. Secondo il People's Daily, il valore complessivo delle compagnie statali centrali e locali è di 16,33 trilioni di dollari, ma mentre, come dicevamo, le SOEs controllate direttamente da Pechino operano prevalentemente in settori 'strategici', quelle locali si estendono in quasi ogni tipo di comparto, seppur con un rendimento degli assets ben inferiori (di circa l'1,2% rispetto al 2,5% per quanto riguarda le società non finanziarie).

Il problema affonda le radici nelle misure adottate dal Governo cinese nel 2008, quando Pechino varò un maxi pacchetto di stimoli da 4 trilioni di yuan (586 miliardi di dollari) per pararsi dalla crisi finanziaria mondiale. Incoraggiate dai prestiti bancari facili, le imprese statali hanno investito massicciamente in attività fisse (sopratutto infrastrutture e real estate) con guadagni al di sotto delle aspettative è un debito corporate che è passato dal 96% al 142% del Pil, nel periodo 2007-2012. Opere che alzano i valori dei bilanci di aziende e governi provinciali, ma che spesso si rivelano cattedrali nel deserto finendo per gonfiare la bolla immobiliare. "Le imprese private si sono tenute fuori da questo tipo di investimenti perché, a differenza delle SOEs che avevano un accesso al credito agevolato, si sarebbero dovute rivolgere al sistema bancario ombra pagando tassi d'interesse tre, quattro, cinque volte superiori a quelli ottenuti dalle compagnie statali," spiega a 'L'Indro' Marshall W. Meyer, Professore emerito di Management presso la University of Pennsylvania e co-autore di "Making Ownership Matter: Prospects for China's Mixed Ownership Economy".

Dalla deflagrazione della crisi finanziaria, il divario di produttività tra gruppi statali e privati è aumentato, con un rendimento medio delle aziende statali di circa il 4,6 % contro il 9,1 % delle imprese private, secondo le stime di Gavekal Dragonomics, società di ricerca economica con base a Pechino. Numeri che preoccupano se si considera che, stando al censimento economico del 2008 (l'ultimo disponibile), le società statali controllano il 30% degli assets del settore non agricolo sebbene contino soltanto per il 3% del totale delle imprese. Migliorandone performance e servizi, Pechino spera di rendere le SOEs più competitive nel processo di 'go global', mentre l'introduzione di un management professionale dovrebbe andare a rimpiazzare la vecchia usanza che vede alti funzionari al timone delle principali società statali, sradicando i vari gruppi di interesse ritenuti d'ostacolo alle riforme.

"Ma il vero problema è il debito", ci dice Michael Pettis, "la gente ovunque pensa che un Paese con un pesante debito basta che introduca delle riforme e ricomincia subito a crescere. La storia ci insegna che questo succede solo in rarissimi casi. In Spagna, dove sono nato, Mariano Rajoy ha attuato una serie di riforme incredibili, ma la crescita continua a rallentare pericolosamente e in ultima analisi, credo, il Paese si troverà stretto in una crisi del debito. Due anni fa, Shinzo Abe (il Premier giapponese, ndr) ha promesso che con la strategia di riforme nota come 'Abenomics' il Giappone sarebbe tornato a crescere, invece ha continuato a frenare. Nel 1988 Domingo Cavallo ha implementato riforme profonde e dolorose in Argentina, ma la crisi è continuata fino a quando l'Argentina non ha ridotto il suo debito. Solo allora ha cominciato a godere degli effetti delle riforme. Gli economisti sono sempre molto sorpresi davanti al fallimento dei Paesi indebitati, ma la verità è che sono tutti fallimenti più che prevedibili. Questo è esattamente il rischio che corre la Cina, dove il livello del debito è altissimo eppure l'establishment sembra più preoccupato a introdurre le riforme piuttosto che a risolvere il problema dei conti in rosso".

Se per Meyer sarà proprio l'arrivo di capitali privati ad alleviare il debito cinese, sorge tuttavia spontanea una domanda: perché mai gli investitori dovrebbero comprare quote in società improduttive, indebitate e sulle quali non è ancora ben chiaro in che misura riuscirebbero ad esercitare la propria influenza? La partecipazione mista è il prodotto di un lungo e non indolore processo di evoluzione dal modello anni '70-'80, «quando ogni cosa di una certa rilevanza era di proprietà dello Stato». Negli anni a seguire, il primo step è stato quello di separare le SOEs dal Governo; poi è stata creata una struttura ibrida chiamata 'entità legale distinta' ('legal personal entity') che ha permesso allo Stato di ridurre la sua comproprietà, pur continuando a mantenere il controllo delle varie società. Non è un caso che tutt'oggi l'idea di un sistema di proprietà misto incontri numerose perplessità. Secondo una ricerca citata da Meyer, il 90% dei leader del 'private business' cinese ritene che una compartecipazione darebbe ugualmente troppo poco potere ai privati nel consiglio d'amministrazione; oltre la metà ha riferito di non avere intenzione di prendere parte al programma di privatizzazione.

Durante gli ultimi anni '90 e i primi del Duemila, la ristrutturazione delle imprese statali ha coinciso con la rapida crescita di quelle private. Secondo dati di 'China Economic Review', tra il 1998 e il 2010, la quota delle aziende di Stato è scesa dal 37% a meno del 5% per numero di imprese, e dal 68% al 44% per valore di assets. Dopo un primo tentativo di riforme negli anni '80, a distanza di un decennio il governo Jiang Zemin-Zhu Rongji ha introdotto una nuova radicale ristrutturazione del programma per la chiusura, fusione e privatizzazione di decine di migliaia SOEs inefficienti, culminata nel licenziamento di più di 30 milioni di lavoratori, che privati della cosiddetta 'ciotola di ferro' (tiefanwan, il posto statale non ampiamente retribuito ma sicuro), «assistettero allo scandaloso processo di arricchimento dei loro precedenti capi attraverso la manipolazione del processo di ristrutturazione». Il 'restyling' delle imprese statali, che prima del 2003 non aveva mai goduto di una politica di governo unificata, è stato al centro di accese proteste e arresti nei primi anni Duemila. Al drammatico diminuire delle assunzioni da parte delle SOEs, quelle nel settore privato hanno visto un progressivo incremento (China Labour Bullettin, 'Un decennio di cambiamento'). L'erosione dei posti di lavoro è una preoccupazione che ritroviamo nella nuova ondata di 'privatizzazione'. Secondo Meyer, "quello che occorre è prendere parte di quei soldi -altrimenti destinati a impianti e attrezzature- e utilizzarli per migliorare la forza lavoro. Insomma, metterli in capitale umano invece che in capitale fisico".

Per quanto il fenomeno della partecipazione mista, in Cina, renda il confine tra pubblico e privato nebuloso, vale la pena considerare quanto raccontato in un'intervista a China Files da Nicholas R. Lardy, economista e autore di 'Markets Over Mao'. In sostanza, secondo Lardy, il settore privato incide sull'economia cinese molto più di quanto non vorrebbe far credere la vulgata dominante. «Lo Stato contribuisce solo per il 20% dei posti di lavoro, che scende al 13% se si considerano i lavoratori urbani», mentre «lo share dello Stato nella produzione industriale è alto per quanto riguarda le utilities e il settore minerario, ma bassissimo nelle manifatture», solo il 26%. Già nel 2005, stando al China Private Economy Development Report, l'economia privata contava per il 65% del Pil e forniva l'84,1% delle opportunità d'impiego nel settore secondario e terziario. Si tratta di un trend che, nonostante il pensare comune, è stato avviato sotto la precedente amministrazione Hu Jintao - Wen Jiabao, spesso accusata di aver ostacolato la lunga marcia del Dragone verso il mercato. Addirittura sta prendendo piede una teoria che rintraccia i germogli del 'miracolo cinese' in un tessuto imprenditoriale precedente al 'capitalismo di Stato' inteso come prodotto delle riforme e dell'apertura fine anni '70. Senza contare che -sottolinea Lardy- il 70% del boom economico del gigante asiatico è stato finanziato «da soldi venuti da fuori», veicolati dalla diaspora cinese nel mondo (vale a dire da privati) o fatti entrare attraverso Hong Kong e Taiwan, vie d'accesso per i capitali occidentali nella Repubblica popolare.

Stando così le cose, nel corso dei prossimi 5-10 anni è possibile che Pechino si trovi a dover far fronte ad un problema inedito: quello di una crisi di successione nell'imprenditoria privata, che in Cina ha prevalentemente una struttura famigliare. Secondo le stime del magazine 'Fortune Generation', soltanto l'8% delle aziende cinesi sarebbe riuscito a trasferire con successo la propria attività ai discendenti. La questione si fa più spinosa via via che gli imprenditori di prima generazione, entrati nel mondo degli affari tre decadi fa, si fanno avanti con l'età. Molti dubitano che i rampolli, formatisi perlopiù nelle rinomate università d'oltremare, abbiano una conoscenza adeguata del business 'con caratteristiche cinesi' o che abbiano ereditato la caparbietà dei genitori, temprati dalle privazioni della Cina maoista. I figli vorrebbero introdurre sistemi manageriali occidentali e svincolarsi dalla consuetudine che vede affari e politica procedere a braccetto; i genitori, dal canto loro, guardano con sospetto alla modernizzazione d'oltre Muraglia e sono restii a cedere il controllo delle aziende ai giovani. Il tiro alla fune si fa particolarmente serrato quando si parla di manifatturiero. 'Fortune Generation' stima che oltre il 65% dei rampolli di aziende manifatturiere non voglia avere niente a che fare con le attività di famiglia. Un rifiuto che rischia di colpire pesantemente la produzione nella culla del boom cinese. Secondo quanto riportato nel 2010 dalla Camera di Commercio della provincia del Zhejiang, tra le più industriose della Cina, ben l'80% delle società private locali si troverà ad affrontare un problema di successione.

(Pubblicato su L'Indro)

mercoledì 10 dicembre 2014

La Cina conferma lo 'sviluppo pacifico'


E' incredibile. Più la Cina tenta di descriversi come un Paese pacifico, emergente (sic!) e rispettoso di un nuovo ordine multipolare, più la comunità internazionale agita il fantasma di una Cina assertiva, diplomaticamente sfrontata, 'rissosa' nell'esercizio della propria sovranità su territori contesi, subdola nel concedere assistenza ai Paesi in via di sviluppo. Così è stato anche alcuni giorni fa, quando i leader cinesi si sono riuniti per il Central Conference on Work Relating to Foreign Affairs, meeting con ricorrenza dilatata nel tempo (l'ultimo si era tenuto sotto la precedente amministrazione nel 2006) al quale hanno preso parte membri del Politburo, militari di alto rango e persino svariati diplomatici appositamente richiamati dall'estero. A giudicare dalla copertura riservata dai media di Stato, l'evento rientra a pieno titolo tra i «big deals». Si tratta, in effetti, di una dichiarazione d'intenti per la politica estera cinese sotto la guida del Presidente Xi Jinping, che tra i suoi numerosi incarichi riveste anche la carica di capo della Commissione Militare Centrale, il più alto organismo direttivo militare. Considerato il sospetto con cui viene percepita l'avanzata del gigante asiatico sullo scacchiere internazionale, vale la pena leggere con attenzione il resoconto dell'incontro così come viene riportato dalla Xinhua, agenzia di stampa subordinata al Consiglio di Stato.

L'attacco coglie il nocciolo della questione: «Come può la Cina, la seconda economia del mondo, garantire che non seguirà le orme delle grandi potenze che, una volta assunto il potere, hanno perseguito l'egemonia?». Xi sembra avere la risposta: «Tenendo alta la bandiera della pace, dello sviluppo e di una cooperazione win-win; perseguendo in maniera equilibrata gli interessi nazionali e internazionali, lo sviluppo della Cina e le sue priorità in fattore di sicurezza; concentrandosi sull'obiettivo prioritario di uno sviluppo pacifico e di una rinascita nazionale; confermando la sovranità, la sicurezza e gli interessi di sviluppo della Cina; incoraggiando un ambiente internazionale per uno sviluppo pacifico; mantenendo e sostenendo l'importante periodo che offre opportunità strategiche per lo sviluppo della Cina». Prosegue rimarcando come il meeting sia mirato a «implementare le decisioni prese nell'ambito del Diciottesimo Congresso del Partito (che ha sancito il ricambio di leadership, ndr) e del Terzo e del Quarto Plenum (punto di snodo delle varie riforme, ndr), continuando a seguire la dottrina di Deng Xiaoping, le importanti teorie delle Tre rappresentanze e dello Sviluppo scientifico».

Ritorna spesso l'allusione ad «una nuova era», all'«evoluzione degli sviluppi internazionali e del contesto esterno»; all'«evolvere dell'architettura internazionale" e alla necessità di «instaurare un nuovo tipo di relazioni sorrette da cooperazioni win-win». Nessuna stilettata bellicista, dunque. Anzi. Il Presidente ha dichiarato che «dobbiamo riconoscere pienamente le incertezze della situazione nei Paesi vicini, ma dobbiamo anche capire che l'andamento generale di prosperità e stabilità nella regione Asia-Pacifico non dovrà subire mutamenti (...) bisogna promuovere la democrazia delle relazioni internazionali e sostenere i Cinque Principi di Coesistenza pacifica (vedi sotto)». Fermo restando che «mentre seguiremo lo sviluppo pacifico, non permetteremo mai che i nostri diritti e interessi fondamentali vengano compromessi». Come ben sappiamo, questo è vero sopratutto quando si parla di 'interessi nazionali vitali', ovvero di questioni che toccano l'unità nazionale e l'integrità territoriale quali l'indipendenza di Taiwan, Tibet e Xinjiang, così come le dispute nel Mar Cinese. E', probabilmente, in quest'ottica che Xi ha chiesto in più occasioni all'Esercito di prepararsi a «combattere e vincere una guerra» in un momento in cui il moltiplicarsi delle sfide regionali mette in dubbio l'effettiva efficacia delle forze armate cinesi. Ma bisogna intendersi su quali sono le priorità della dirigenza.

La Central Conference on Work Relating to Foreign Affairs ha riconfermato il principio che vede la politica estera servire lo sviluppo economico. Secondo quanto messo nero su bianco dalla leadership, «due obiettivi centenari» vanno sommati al raggiungimento del «Sogno cinese di una rinascita nazionale» annunciato da Xi Jinping appena assunta la carica di Segretario Generale del Partito: 1) «Raddoppiare il Pil e il reddito pro-capite del 2010 nelle aree urbane e rurali, e raggiungere una società moderatamente prospera entro il centenario del Partito (2021)»; 2) «Rendere la Cina un Paese socialista moderno che sia prospero, forte, democratico, avanzato culturalmente e armonioso entro il centenario dalla fondazione della Repubblica popolare (2049)». Due questioni che evidentemente hanno ben poco a che fare con le relazioni diplomatiche, ma che segnano una virata nel modo di relazionarsi con l'esterno. Come fa notare Dingding Chen su 'The Diplomat', a differenza degli Stati Uniti, la Cina, per tradizione, non ama rivelare al mondo esterno i propri obiettivi strategici. Si noti che nel corso della Central Conference on Work Relating to Foreign Affairs del 2006 non fu fatta allusione ad alcun «strategic goal». Fattore che sembrerebbe denotare una Cina più sicura di sé, forte di una politica estera che, a partire dal 2012, ha acquisito toni rodomonteschi ma che - nonostante le critiche della comunità internazionale - l'establishment cinese giudica 'vincente'. Sopratutto alla luce di un nuovo ordine multipolare in cui la regione Asia-Pacifico assume una posizione di rilievo nella geopolitica economica globale, lasciando all'ex Impero Celeste ampio spazio per riappropriarsi della propria storica centralità come Regno di Mezzo (Zhongguo). Quello in corso è «un periodo di opportunità strategiche», ha scandito Xi. Una condizione che il Center for Strategic & International Studies stima durerà almeno fino al 2020, grazie alla quale il Dragone può comodamente focalizzarsi sulle questioni interne (riforme in primis) in base al principio secondo il quale tutto il mondo trarrà beneficio da una Cina più forte e prospera.

"La crescita economica è alla base dello status internazionale ottenuto dalla Cina", ci spiega Xuanli Liao, docente in International Relations and Energy Security presso la University of Dundee, "Da questo punto di vista Xi sembra seguire il pensiero di Deng Xiaoping: migliorare le condizioni interne del Paese prima di imbarcarsi nella politica estera. Allo stesso tempo i leader cinesi succeduti a Mao hanno messo abbastanza in evidenza il loro 'strategic goal', sebbene in maniera meno dettagliata, dal 'mantenere un basso profilo' di Deng Xiaoping (ampiamente ripreso dal Presidente Jiang Zemin), al 'mondo armonioso' di Hu Jintao. La Cina non ha gestito la questione come gli Stati Uniti, che hanno parlato di 'ritorno in Asia', perché la Cina fino ad oggi non si è vista come una 'potenza globale' e non aveva quel senso di 'missione' della controparte americana."

Altresì, il riferimento ad un «network di partnership globale» ribadisce l'impegno a creare una «comunità di interessi condivisi» attraverso progetti a guida cinese quali la nuova Via della Seta, la Via della Seta Marittima e la 'politica della Marcia verso Ovest' (xijin), sostenuti economicamente con l'istituzione della AIIB (Asian Infrastructure Investment Bank) e di fondi d'investimento ad hoc. Fonti della rivista economica 'Caixin' rivelano il progetto per una cooperazione sino-araba finanziata dalla China Development Bank e da Abu Dhabi Investment Authority, fondo sovrano negli Emirati Arabi Uniti. Il Dragone pianifica, quindi, un ritorno al centro del continente asiatico. Non solo: punta ad estendere la propria influenza verso territori più remoti su modello indiano, ovvero attraverso la creazione di un network di «partner strategici» più che di veri alleati. Ottica in cui, secondo l'analista Ankita Panda, andrebbe letta la liaison con Mosca e il rinnovato attivismo in Asia Centrale. «Dove il nemico avanza, noi ci ritiriamo. Dove il nemico si ritira, noi avanziamo»: tenendo bene a mente la massima di Mao Zedong, Pechino mira a riempire il vuoto lasciato dagli Stati Uniti nel 'cuore dell'Asia', in risposta al pivot di Obama che prevede un ribilanciamento nell'Asia-Pacifico.

Nel cementare la propria presenza oltre i confini della galassia sinocentrica (recente), il Dragone si rifà alla propria tradizione strategica. Letteralmente: «Dobbiamo farci più amici rimanendo fedeli al principio del non allineamento e costruendo un network di partnership globali». Nonostante venga ormai considerata la seconda potenza mondiale, la Cina continua a servirsi di una retorica dai toni dimessi. La Repubblica popolare ha sempre amato presentarsi all'esterno come un Paese del Terzo mondo, in via di sviluppo, indipendente, estraneo alla dialettica tra i due blocchi guidati da Stati Uniti e Unione Sovietica. La sua politica estera si basa sui i Cinque Principi di Coesistenza pacifica (rispetto dell’integrità territoriale e della sovranità, non aggressione, non ingerenza negli affari interni, uguaglianza e reciproco vantaggio negli scambi commerciali e coesistenza pacifica), affermati nel 1954 dall'allora Primo Ministro Zhou Enlai in occasione di una visita in India e Birmania, e riaffermati con la conferenza di Bandung (1955). Alla fine degli anni '90, i Cinque Principi sono stati affiancati dal New Security Concept che prevede il perseguimento di una strategia di sicurezza basata sui contatti diplomatici ed economici come soluzione agli antagonismi da guerra fredda. Intorno al 2002 tale concetto ha finito per essere inglobato alla più nota dottrina dell'ascesa pacifica (heping jueqi) nel corso di un processo di maggiore istituzionalizzazione della politica estera di Pechino e ad una maggiore collegialità decisionale in seno al Partito. Tutto questo costituisce il sostrato ideologico su cui basare la «grande rinascita della Nazione» sotto la guida di Xi Jinping. Con qualche comprensibile riserva per quanto riguarda la politica del «tenere un basso profilo» (tao guang yang hui), promossa dal padre delle riforme, Deng Xiaoping, nei primi anni '90. Attuale forse nel pieno della crisi diplomatica innescata dal massacro di piazza Tian'anmen; alquanto obsoleta oggi che la Repubblica popolare studia da Superpotenza.

Come fanno notare Andrew Nathan e Robert Ross in 'The Great Wall and the Empty Fortress: China’s Search for Security' (New York: W.W. Norton, 1997), mantenendo vivi i Cinque Principi (di cui recentemente è stato ricordato in pompa magna il 60esimo anniversario), Pechino tenta di offrire un'alternativa al concetto di un nuovo ordine mondiale di imprinting americano «in cui regimi e istituzioni internazionali, spesso riflettendo gli interessi e i valori degli Stati Uniti, limitano il diritto degli Stati sovrani a sviluppare e vendere armi di distruzioni di massa, a reprimere l'opposizione e violare i diritti umani, perseguire politiche economiche mercantilistiche che interferiscono con il libero commercio, e a danneggiare l'ambiente». La versione alternativa proposta dalla Cina prevede «l'inviolabile e uguale sovranità di tutti gli Stati, grandi e piccoli, occidentali e non-occidentali, ricchi e poveri, democratici e autoritari; tutti liberi di attuare il proprio sistema come meglio credono, anche se questo sistema non si accorda agli standard occidentali». Una prospettiva che ha permesso al gigante asiatico di continuare ad arricchire le proprie amicizie indiscriminatamente, senza provare remore nell'attingere dall'Asse del male. Proprio ai Cinque Principi ha fatto riferimento Xi Jinping per delineare la propria visione di un nuovo ordine pan-asiatico nell'ambito del summit CICA (Conference on Interaction and Confidence-Building Measures in Asia) dello scorso maggio. In quell'occasione l'uomo forte di Pechino ha ricordato come «lo sviluppo pacifico della Cina è cominciato in Asia, ha trovato il suo supporto in Asia, e offre tangibili benefici all'Asia». Dunque, cosa pensa l'Asia?

Come già sottolineato su queste colonne, a novembre il vertice Apec (Asia-Pacific Economic Cooperation) si è concluso con i piatti della bilancia sostanzialmente in equilibrio: se è vero che Pechino ha ceduto alle pressioni di Washington siglando un importante accordo sul clima, è anche vero che l'avvio di un piano di studio sulla FTAAP (Free Trade Area of the Asia Pacific) di per sé assegna alla Cina una vittoria a valanga. La FTAAP è l'area di libero commercio dell'Asia-Pacifico che Pechino propone in alternativa alla TPP (Trans-Pacific Partnership) americana - dalla quale Cina e Russia sono escluse. Il consenso ottenuto dal Dragone la dice lunga su almeno due questioni: innanzitutto, la bagarre su isole e confini contesi non sembra aver minato la leadership cinese nel quadrante regionale (la Cina ha influito per il 50% della crescita economica asiatica ed è il primo partner commerciale per molti Paesi del Pacific Rim). In secondo luogo, pare evidente come i dossier di Iraq, Siria e Ucraina, oltre allo scandalo Prism, abbiano messo in luce una certa fragilità americana con relativo calo di appeal tra gli storici alleati asiatici, non più tanto sicuri di poter contare sull'aiuto di Washington contro le angherie cinesi.

Alcuni giorni fa, in occasione di una tavola rotonda con vari imprenditori americani, Obama ha riconosciuto con insolita schiettezza l'impressionante velocità con la quale Xi Jinping ha consolidato il suo potere, a poco più di due anni dall'investitura a Segretario del Partito (l'ex Presidente Hu Jintao aspettò quasi il doppio del tempo per annunciare le linee guida della propria politica estera al Central Conference on Work Relating to Foreign Affairs del 2006). Fattore che lo renderebbe, secondo un cliché ormai assodato, il leader cinese più potente dai tempi del Piccolo Timoniere. Ma non vuole essere un complimento. Nell'accezione attribuita dal Presidente americano, reduce dalla debacle alle elezioni di mid-term, lo strapotere di Xi Jinping non è un bene né per la Cina né per i suoi vicini. Sul versante diritti umani, il cambio al vertice ha coinciso con un più serrato giro di vite ai danni di attivisti e dissidenti. Sul proscenio internazionale, l'ascesa di Xi ha visto un'inasprimento delle tensione con i vari attori regionali che -secondo Pechino- minacciano la sovranità cinese nel suo cortile di casa. Entrambe questioni sulle quali Washington continua a mettere bocca, ma che la Cina considera blindate dai Cinque Principi e pertanto off-limits.

(Pubblicato su L'Indro)

sabato 6 dicembre 2014

A Marshall Plan with Chinese Characteristics


In the fear of being a new target for Obama’s selective engagement strategy, Bejing is attempting to counterbalance the US president’s aim to shift his diplomatic focus to the Asia-Pacific. The immediate action is a repositioning of China in the voids the United States has so far left uncovered.

South America is attracting more and more Chinese investments while Washington is losing ground in what has always been considered its backyard. As Antonio C. Hsiang, Director of the Center for Latin America Economy and Trade Studies, noted on 'Want China Times', while the TPP (Trans-Pacific Partnership) is the cornerstone of American assertiveness in the East Asia-Pacific, the resistance advanced to the project by Japan might instill some doubt in South American partners about the strength of Washington in the region. It is not a coincidence that Mexico and Peru - albeit participating in the TPP negotiations - have spoken out at the annual conference of the Boao Forum for Asia 2013, the Davos of the East.

“The era of the Monroe Doctrine is over”, Secretary of State John Kerry officially announced at the top OAS (Organization of American States) meeting in November. A statement supported by the unequivocal reconfiguration of power in Latin America that sees the OAS joined by new federations -like the Community of Latin American and Caribbean States and the Pacific Alliance-, perceived as counterpoints to the dominance of the United States. In parallel to those Asia-Pacific countries, with several outstanding territorial disputes with Beijing, who gravitate closer to Washington in an anti-China function.

China has extended its influence on a global scale by implementing its own 'Marshall Plan'. As the developed West sank into the Great Recession, in 2009 the economist Xu Shanda advised that Beijing would have to use its forex reserves to finance infrastructure projects in emerging countries, whereas the governor of the People's Bank of China, Zhou Xiaochuan, proposed the creation of a "super-sovereign wealth fund." In more recent times, the concept was revived by the President of Ethiopia, Mulatu Teshome. Literally: "China is carrying out the same sort of role in Africa as to what the EBRD (European Bank for Reconstruction and Development) did after World War II in Europe under the Marshall Plan."

In July, on his second trip to Latin America as President, Xi Jinping announced the agreement reached for the construction of a railway which should extend for 3000 km connecting the East and the West Coast, starting in Brazil and ending in Peru. This is the largest railway project launched by Chinese leaders during their overseas trips, but not completely unexpected. Last summer, Beijing had signed a memorandum of understanding with Honduras to build a line between Amapala, on the Pacific, and Puerto Castilla, a port city on the Caribbean Sea. Since 2011, the Dragon is also in contact with Colombia for a railway expected to cross the country and unite the two oceans. According to Want China Times',"the July announcement didn't give details for the railway project, but what can be certain is that the project aims to break the monopolistic position of the Panama Canal controlled by the United States, making the railway the 'Panama Canal on land' to help China take a more active position in linking with Africa, Latin America and the Pacific Ocean".

Currently, international trade has only three solutions: Strait of Malacca, the Suez Canal and the Panama Canal and all three fall in the economic and geopolitical system created by Washington. The 'made in China' railroads and the project for the Nicaragua Canal (funded by a mysterious Chinese businessman allegedly linked to Beijing leaders) aim to rewrite the flows of a significant share of global trade. Last year, Colombia pointed the finger at China accusing it of pressuring the U.N. International Court over the assignment of 13-years-long maritime disputes to Managua. If the verdict had been in favour of Bogotá, the Nicaragua Canal would never see the light. The lack of diplomatic relations between Beijing and Managua -that still recognizes Taiwan as an independent state- is one of the few issues PRC can still use to silence the gossips on its implication in the project.

Beijing hopes that the soft power and economic support put in place in South America will be rewarded with political loyalty, a strategy already used effectively in Africa. This stance is confirmed in the July speech delivered by Xi Jinping to the National Congress of Brazil, in which  he made references to a 'new security concept' as well as to the hope for a greater cooperation between the two countries in international issues, urging mutual support in "sovereignty, security and territorial integrity". A question that Xi did not hesitate to speak of also during his visit to Buenos Aires, confirming that the Chinese firmly support Argentina's claim of sovereignty over the Falkland/Malvinas Islands (disputed with London) and the restart of negotiations based on relevant UN resolutions to solve the issue in a peaceful way. The statement has strategic value in the light of ongoing disputes between China and its Asian neighbors; a subject that Beijing cyclically brings into play at international summits.

mercoledì 3 dicembre 2014

La rivoluzione rurale di Alibaba


(Pubblicato su L'Indro)
Ogni 11 novembre, in Cina, si festeggia il Singles Day, festa speculare a San Valentino in cui le pene d'amore vengono attenuate riversando i propri risparmi nello shopping online. E' una tradizione che va avanti dal 2009, ma pare che quest'anno i cinesi c'abbiano dato giù che neanche gli americani al Black Friday o al Cyber Monday. Soltanto nella prima ora, il gigante dell'e-commerce Alibaba ha superato i 2 miliardi di dollari di vendite attraverso la sua app Alipay. La notizia è di quelle che bucano la Grande Muraglia raggiungendo le nostre latitudini. Se non altro perché appena un paio di mesi fa, la società fondata da Jack Ma aveva già polverizzato un primo record sbarcando a Wall Street con un'offerta pubblica iniziale di 25 miliardi di dollari, la più consistente nella storia della finanza Usa.

Mentre i media mainstream erano intenti a magnificare i successi del colosso dell'internet retail, soltanto pochi si sono resi conto di come il Single Day scattati una foto sul mastodontico processo di riforma attraversato dalla seconda economia mondiale. Stando ai dati rilasciati dalla società, il 10% dei 9,3 miliardi di dollari incassati l'11/11 è arrivato dalle campagne cinesi. Il dettaglio non è trascurabile. Se infatti è vero che la popolazione cinese è ancora largamente rurale (i cittadini in senso proprio costituiscono solo il 53% della popolazione), è altrettanto vero che sono ancora sopratutto i residenti urbani a smanettare con le tastiere. Il risultato rimane, dunque, più che apprezzabile. Cosa ha comprato questo 10%? Nella top ten redatta da 'TechInAsia' compaiono: 1) cellulari; 2) televisori a schermo piatto; 3) stivali; 4) cappotti di lana; 5/6) piumini da donna e da uomo; 7) scarpe da ginnastica; 8) lenzuola; 9) creme per il viso; 10) lavatrici. Articoli che si differenziano molto dai desiderata dei cinesi urbani, per i quali il televisore non è più una priorità, e lasciano intendere che, sì, nelle campagne si comincia a consumare di più, si comincia a consumare sul web ma lo si fa (comprensibilmente) in modo diverso.

Secondo un rapporto rilasciato dal gruppo, nel primo trimestre del 2014 le campagne contavano per il 9,11% del totale degli acquisti su Taobao - il sito dello shopping online fondato da Alibaba dieci anni fa-, segnando un +7,11% rispetto al secondo trimestre del 2012. Addirittura il Vicepresidente della società, Gao Hongbing, ipotizza un'espansione del mercato rurale a 460 miliardi di yuan (74 miliardi di dollari) entro il 2016. Come? A metà ottobre, il colosso internet ha annunciato di voler investire oltre 10 miliardi di yuan (1,6 miliardi di dollari) nell'arco dei prossimi cinque anni per cementare la propria presenza nelle campagne cinesi. Si parla di «1000 centri operativi a livello di contea» e «100mila stazioni di servizio a livello di villaggio». Un progetto con il quale Alibaba prevede di agganciare un terzo delle contee e un sesto delle zone rurali dell'ex Celeste Impero, partendo dalla provincia del Zhejiang dove la creatura di Jack Ma ha la sua sede. Intendiamoci: non si tratta di un'intuizione geniale di Alibaba.

Da un paio di anni concorrenti locali, come JD, stanno tentando di mettere in pratica qualcosa di molto simile con il beneplacito del governo cinese. Negli stessi giorni in cui a Wuzhen, nella provincia del Zhejiang, i leader delle grandi imprese IT cinesi, come Alibaba e Tencent, incontravano i boss dei colossi internazionali high-tech nell'ambito della World Internet Conference, il Premier cinese Li Keqiang si aggirava per Qingyanliu, villaggio che dal 2010 ospita il quartier generale di svariati trader attivi su Taobao. Qui, dove i residenti possono usufruire di una rete wireless completamente finanziata dal Governo, si contano oltre 2800 negozi e-commerce per oltre 4 milioni di spedizioni all'anno verso destinazioni domestiche e internazionali. Le vendite per il 2014 dovrebbero toccare i 4 miliardi di yuan (652 milioni di dollari). Qingyanliu rappresenta un modello da replicare su scala nazionale. Il perché lo ha spiegato Li Keqiang ai microfoni dell'agenzia di stampa Xinhua: nonostante l'e-commerce appartenga al mondo 'virtuale', la sua espansione può giovare all'economia reale fornendo «uguali possibilità di business ai residenti urbani e rurali, assottigliando il gap che separa le due categorie in termini di standard di vita».

Non è un caso che alcuni giorni fa Jack Ma abbia deciso di rimettere piede nello Xinjiang dopo quattro anni d'assenza. Lo Xinjiang è quella remota regione della Cina occidentale scenario di violenze che Pechino attribuisce a forze islamiche separatiste. Altresì, nei piani della dirigenza cinese, lo Xinjiang dovrebbe diventare il principale hub commerciale dell'Asia Centrale nell'ambito della Nuova Via della Seta fortemente voluta dal Presidente Xi Jinping. Tanto per capirci, sebbene la regione disti da Pechino grossomodo quanto New York da Seattle, ha un fuso orario tutto suo ed è legata alla confinante provincia del Gansu da un'unica linea ferroviaria e una sola autostrada. Le cose dovrebbero cambiare nell'arco di qualche anno, ma per il momento il flusso di merci in entrata e in uscita non ha vie di trasporto alternative. A livello pratico tutto questo si traduce in attese estenuanti. Gli ordini online effettuati dallo Xinjiang vengono considerati come spedizioni internazionali, spiega sul suo blog Josh Summers imprenditore residente a Urumqi, la capitale provinciale. «Non potremo dire che l'industria logistica cinese è veramente sviluppata fino a quando il tempo di spedizione di un pacco nello Xinjiang non sarà lo stesso di grandi città come Pechino e Shanghai», ha scandito Jack Ma annunciando l'apertura di tre shopping mall online specializzati in prodotti xinjianesi. Per comprendere il potenziale nascosto si consideri che, nei primi sei mesi del 2014, la vendita di prodotti locali via internet ha già registrato un aumento del 68,7% su base annua. Parliamo di 1,3 miliardi di yuan di vendite (212 milioni di dollari) sulla piattaforma T-mall, costola di Taobao.

Tutto questo si accorda perfettamente con il nuovo paradigma di sviluppo delineato dalla nuova leadership al potere dal marzo 2013. Mentre il manifatturiero locomotiva dell'iperbolica crescita cinese continua a rallentare, il Dragone sta cercando di affrancare la propria dipendenza dai settori tradizionali voltando lo sguardo verso l'immenso bacino di consumatori; quelli 'cibernetici' non fanno eccezione. Al momento la Cina vanta 632 milioni di utenti internet di cui 527 su piattaforme mobile. Le quattro principali aziende cinese (Alibaba, Tencent, Baidu e JD) valgono oggi 510 miliardi di euro. Il commercio online è cresciuto del 18% nei primi tre trimestri dell'anno toccando i 240 miliardi, mentre l'economia legata a internet è arrivata a coprire il 4,4% del pil del paese, contro il 3,3% del 2010.

Ad avvalorare i numeri del Singles Day, uno studio della Tsinghua University rileva un crescente attivismo dei lavoratori migranti (mingong) -ovvero quanti lasciano il villaggio d'origine per cercare un impiego in città- sulle piattaforme online, sopratutto per quanto riguarda l'acquisto di vestiti. Non si tratta di un fenomeno locale, ma di un trend che comincia ad interessare molte economie emergenti; oltre a Cina e India anche Sudafrica, Russia e Messico. L'Emerging Consumer Survery 2014 del Credit Suisse Research Institute fa addirittura riferimento ad una «middle classe rurale» come nuovo catalizzatore dei consumi a livello globale. Nella fattispecie cinese, un ribilanciamento dell'economia verso le campagne va di pari passo con quanto promesso dai leader.

Dopo trent'anni di crescita trainata dall'export, la crisi finanziaria che ha azzoppato i principali mercati di sbocco del Made in China ha costretto il gigante asiatico a puntare sui consumi interni come volano per una crescita più sostenibile. Una transizione che richiede come condizione base un innalzamento del potere d'acquisto della pancia del Paese. Pechino vuole che i cittadini spendano di più, ma perché questo avvenga è necessario assicurare welfare e benefit in modo che quel denaro sborsato fino ad oggi dai cinesi per i servizi di base possa presto andare ad oliare la ripresa dell'economia nazionale. Da qui la necessità di riformare il sistema dell'hukou e concedere ai contadini più margine di manovra nella vendita, l'affitto e l'ipoteca della propria terra, senza tuttavia intaccare il sistema della proprietà collettiva. L'obiettivo è quello di permettere agli agricoltori di beneficiare da un apprezzamento del valore dei terreni lasciando loro più risparmi da destinare alla spesa discrezionale. Il processo è in corso da alcuni anni, ovvero da quando, nel 2003, la precedente amministrazione Hu Jintao-Wen Jiabao decise di abolire la tassa sull'agricoltura, ampliare la copertura sanitaria e aumentare il prezzo minimo dei cereali.

Risultato: nel 2010 il reddito pro-capite nelle aree rurali ha cominciato a crescere più velocemente che nelle città per la prima volta dal 1997. Un'accelerata che Bloomberg attribuisce all'incremento dei guadagni accumulati dai contadini emigrati nelle zone urbane per cercare lavoro. Questa tendenza sembra trovare conferma in una recente ricerca riportata dal 'Nanfeng Chuang', in cui si dimostra il delinearsi di una 'migrazione in senso inverso', ovvero che dai nuclei urbani procede a ritroso verso le campagne. Pare, infatti, che sempre più giovani decidano di ritornare nelle cittadine di nascita una volta riscontrata la difficoltà di inserimento sociale e professionale nelle caotiche megalopoli cinesi. Al loro rientro, questi migranti 'pentiti' portano con loro un bagaglio di esperienza fondamentale per lo sviluppo delle città di seconda e terza fascia. Proprio quelle che i leader cinesi puntano a rendere zoccolo duro della nuova espansione urbana. Una chengzhenhua ('townizzazione'), contraltare della precedente chengshihua, urbanizzazione sfociata in una crescita ipertrofica di metropoli tentacolari e ingestibili.

La direzione è quella giusta, ma la strada ancora lunga e lastricata di ostacoli. Nel 2012 il reddito rurale pro-capite era ancora un terzo di quello urbano (rispettivamente 7917 yuan e 24.565 yuan). Proprio lo scarto tra i salari percepiti nei grandi e piccoli centri rientra tra le micce scatenanti di un'ondata di proteste che da alcuni mesi coinvolge il ceto insegnante nelle città minori e nelle regioni della Cina interna, quelle più arretrate.

venerdì 28 novembre 2014

Think tanks with Chinese Characteristic


(Published on Asia Sentinel - FRI,28 NOVEMBER 2014)

In June, Communist Party officials accused the Chinese Academy of Social Sciences, famously devoted to the study of Marxism-Leninism, of hosting "foreign forces" and lacking loyalty to the party.

In early September, three of China’s most famous universities vowed to strengthen ideological control over students and teachers, while rumors of a new wave of repression against NGOs continue to arrive from Guangdong, the province that first opened its doors to the West.

That puts into question aspirations on the part of President Xi Jinping, who was quoted in October as saying that "intellectual resources are the most important for a nation, playing a crucial role in governing a country successfully. The more arduous the reform, the more intellectual support is needed."

Xi appealed to all government departments and even non-governmental onese to develop a new generation of thinktanks – but led by the Communist Party and tasked to “adhere to correct direction. They should also demonstrate Chinese characteristics and style."

Can such a rigid system build the intellectually stimulating and effective system of intellectual inquiry that Xi appears to want in these circumstances? It is a troubling question. According to a recent University of Pennsylvania study, China has the the largest number of think tanks in the world after the United States, but none can compare to Western ones such as the Rand Corporation and the Brookings Institution in the US. Only six ranked among the top 100 worldwide in the report, with the Chinese Academy of Social Sciences highest placed at 20th. How long it can hold that position in the current atmosphere is debatable.

That manifests itself in high tech as well as governance. In August, Peter Fuhrman, Chairman, Founder & CEO of China First Capital, wrote in a report that “For all the hype, the government policies and cash, China remains a high-tech disappointment, more dud than ascending rocket. As a banker living and running a business in China, I very much wish it were otherwise. But I see no concrete evidence of a major change underway.”

Intellectually rigorous research is an oxymoron in regimented society.  Singapore has been attempting to do so for decades and largely has failed. The country’s education system, despite the money spent, continues to e criticized for its lack of innovation. And Sigapore is fare more technically advanced than China.

This is not the first time that Xi has urged the establishment of new types of think tanks. At the 2013 Third Plenum, a year after the political reshuffle that brought him to power, Xi raised the need to "create a think tank with Chinese characteristics, to help improve the decision-making in the formulation of public policy."

Nicoletta Ferro, an Italian expert on sustainability in China, commented on her blog a few months ago: "It is the first time that [Chinese government] has made explicit reference to the two terms 'country's governing system' and 'governing capabilities' that correspond to our concept of government of the country as a single entity and governance of relations between a number of social and economic actors."

China, she says, is facing new imperative: "There is talk of thinktanks' independence  from the government as a necessary perspective (perhaps to get rid of the deadly embrace of vested interests that traditionally influence policy making and implementation) and the possibility that they may learn from those existing in other countries."

The willingness to strengthen the thinktanks is combined with the idea of a "modernized governance," a concept that has not yet been officially defined, but which – according to the South China Morning Post – would seem to allude to practices currently in use in Western countries: transparency, accountability and effective policy formulation combined with an efficient implementation. All requirements become necessary to tackle challenges from an increasingly complex economic, social and political development environment.

In the 1950s think tanks existed in the form of rigid networks modeled on Soviet research and inextricably linked to specific ministries. Thirty years later, the need to keep pace with the rapid rise of China has facilitated the emergence of a "new generation." The Chinese establishment started to need advice and options less empirical and ideological, more innovative and in step with the growing global trends.

But if on the one hand the recognition of a certain autonomy was essential to ensure genuinely innovative products, on the other hand the leadership did not hide its opposition to creating overly independent institutions with the risk of losing control of them.

"The major think tank was born and grew up, in many cases, as emanations of informal groups of opinion centered on an important leader and formed by a number of intellectuals linked to him, reflecting a strong dose of customization of the structure,” wrote Guido Samarani in his book China in the 21st Century [Cina, ventunesimo secolo].

After the 1989 crackdown at Tiananmen Square, existing networks were disbanded and silenced to be replaced, once the crisis was over, by a "third generation" less tied to ministerial structures and dynamics of patronage.

Beijing felt the needed to strengthen key areas such as economic policy and international finance. Meanwhile interest groups linked to the business world, began to perceive greater economic and sociopolitical pluralism as a chance to influence public opinion and official policy.

Li Wei, the Minister for the Development Research Center of China’s state council, its top governing body, said in a report that think tanks lag behind beccause “there is no institutional guarantee for think tanks as an important part of China's soft power; second, their influence on national policy is unstable; third, because most Chinese think tanks are fully or partially government-funded, they find it difficult to do independent policy research; fourth, they need to improve research quality in view of their insufficient role in strategic planning and studies, and they need a better connection between research results and policy-making for social benefits; and, finally, there are many institutional obstacles in the way of Chinese think tank development, such as training suitable people, funding, and reasonable salaries."

Hence the need to create a new kind of institution to improve communication between the PRC and the rest of the world. The standoff between the two largest economies crossed into the cultural sphere five years ago, when China began to consider shaking off its reputation as the world's factory by exporting values and entertainment with Chinese characteristics.

It seems that Beijing now feels the need to stimulate the metamorphosis by promoting an upgrade of its institutions in the hope of making them competitive even by American standards. Given the emphasis placed by Xi Jinping to a “great rejuvenation of the Chinese nation" on the global stage, experts expect a lift of the research spending in a distinctly nationalist perspective.

In the meantime, according to a Hoover Insititution study, China should already start benefiting from the return of young people trained abroad (the so-called hai gui) who "find thinktanks to be ideal institutional springboards from which to reintegrate into the Chinese political establishment and play a role in shaping the public discourse."

Their experience away from home -- in most cases just in the United States – is all China thinks it needs to make its soft power more attractive to foreign audiences. It is still unclear, however, how the modernization can be reconciled with the party’s authoritarian predilectons, especially considering the recent crackdown on academic freedom.

mercoledì 26 novembre 2014

Pescatori nazionalisti


Non c'è pace tra Cina e Giappone. Stavolta a seminare zizzania tra i due cugini asiatici non è l'annosa rivalità per le famigerate isole Senkaku, rivendicate da Pechino con il nome di Diaoyu. O almeno non direttamente.

Nel mese di ottobre, appena pochi giorni prima dell'atteso incontro tra il Presidente cinese, Xi Jinping, e il Premier nipponico, Shinzo Abe, a margine del summit Apec, centinaia di pescherecci battenti bandiera cinese sono stati avvistati in prossimità delle isole Ogasawara, un migliaio di chilometri a sud di Tokyo, nel Pacifico Occidentale. Un'area sin'ora intoccata dalle dispute territoriali tra i due Paesi asiatici. Nel corso di operazioni indipendenti, sei capitani cinesi sono stati fermati per presunte violazioni delle norme sulla pesca in acque territoriali o nella zona economica esclusiva (ZEE) del Giappone. Raccoglievano corallo rosso. In un caso le attività illegali erano state portate avanti a largo di Ishigaki, una delle isole più a sud del Sol Levante, non distante dalle Diaoyu/Senkaku. Tutti i colpevoli, tranne uno, sono stati rilasciati su cauzione dopo l'esecuzione di una pena pecuniaria il cui importo non è stato reso noto.

Operazioni di questo tipo erano già state rilevate all'inizio dell'anno, ma è soltanto a partire da settembre che il numero delle imbarcazioni cinesi nell'area in questione è lievitato. Se in precedenze la pesca del corallo veniva praticata sopratutto nei pressi della prefettura di Okinawa - di cui le Senkaku/Diaoyu fanno parte -, recentemente le incursioni si sono concentrate attorno alle Osagawara che amministrativamente appartengono a Tokyo. Gli esperti non escludono che un'intensificazione dei controlli nel tratto di mare tradizionalmente più colpito, quello tra Okinawa e l'isola Miyakojima, abbia spinto i bracconieri verso nuovi lidi.

All'inizio della primavera, il perdurare delle attività illegali a Okinawa aveva indotto il Governo nipponico a richiedere la collaborazione della controparte cinese per emendare un accordo bilaterale sulla pesca nell'ambito della Japan-China Joint Fisheries Commission. Mentre, secondo le leggi nazionali, la guardia costiera giapponese ha in teoria il diritto di fermare i bracconieri, una clausola dell'accordo sulla pesca datato 1997 ( Japan-China Fishery Agreement) esenta le imbarcazioni cinesi che operano a sud dei 27 gradi di latitudine e a nord dei confini del Mar Cinese Orientale. Un punto che il Giappone vorrebbe sottoporre a revisione una volta ottenuto il consenso di Pechino. Stando al Japan-China Fishery Agreement, le acque del Mar Cinese Orientale risultano divise in quattro aree: 1) acque territoriali indiscusse; 2) zone di pesca esclusive all'interno delle rispettive ZEE; 3) una zona di pesca intermedia condivisa all'interno delle ZEE che si trova a cavallo di un'ipotetica linea mediana; 4) alto mare. Mentre nelle prime due zone vige la giurisdizione dello Stato costiero, nelle ultime due prevale la giurisdizione dello Stato di bandiera. Tutto questo non vale per le Diaoyu/Senkaku, escluse dall'applicazione dell'accordo sulla pesca del '97, e ancora soggette al Japan-China Fishery Agreement del 1975 che le rubrica come parte integrante dell''high seas'. Motivo per il quale, secondo Sourabh Gupta, ricercatore del Samuels International Associates, «non soltanto le navi cinesi sono autorizzate a operare lungo le coste delle isole contese -salvo limitazioni normative senza dubbio imposte da una Commissione permanente bilaterale sulla pesca-, ma sono anche coperte dalle normative sull'alto mare e quindi soggette alla giurisdizione dello Stato di bandiera (in questo caso della Cina)».

"Bisogna tenere presente che, nel caso degli arresti/incidenti ricorrenti entro la ZEE generata dalle Diaoyu/Senkaku (che si estende fino a 200 miglia nautiche dalle linee di base), Pechino crede di essere dalla parte del giusto", spiega all''Indro' Ian Storey, Senior Fellow presso l' Institute of Southeast Asian Studies di Singapore, "infatti, non riconoscendo la sovranità giapponese sulle isole, ritiene di operare legalmente in acque cinesi." Nonostante la guardia costiera giapponese non sia stata in grado di quantificare con esattezza le ultime incursioni, stando a quanto riferito da un funzionario, lo scorso mese gli arresti di pescatori stranieri «hanno superato notevolmente la media». Si tenga presente che nel 2013, a livello nazionale, ad essere fermati erano stati in 11, di cui solo tre di nazionalità cinese. Secondo quanto riportato dal quotidiano nipponico 'Asahi Shimbun', gran parte delle operazioni illecite parte dalla contea di Xiangshan, nella provincia cinese del Zhejiang.

La risposta della Cina è apparsa alquanto sottotono. Pechino ha invitato Tokyo a «trattare le questioni rilevanti in maniera civile, ragionevole e in accordo con la legge» , mentre ai pescatori cinesi è stato intimato di «portare avanti le operazioni marittime rispettando i regolamenti». Si è parlato dell'implementazione di misure mirate a fermare le attività illegali sottacendo i dettagli. Punto. D'altra parte, la relazione complicata tra il Governo di Pechino e i pescatori non permette l'esercizio di un controllo efficace. Come riporta il 'Diplomat', la corruzione dilagante a tutti i livelli del Partito comunista ha fatto registrare un calo della fiducia verso i funzionari governativi, sopratutto in seguito alla dozzina di arresti che hanno colpito l'Ufficio dell'Amministrazione della Pesca responsabile di aver sottratto ai pescatori i sussidi statali per il carburante.

Le multe, troppo clementi, continuano a rivelarsi un deterrente inefficace. Il Governo giapponese se ne è accorto e sta pensando di inasprire le sanzioni portandole rispettivamente a 4 milioni e 10 milioni di yen (circa 27mila e 68mila euro) in caso di accesso illegale in acque nazionali e nella zona economica esclusiva. Secondo la stampa nipponica, all'interno dell'LDP (Partito Liberal Democratico), primo partito del Giappone appartenente alla frangia conservatrice, si sta discutendo la possibilità di rinforzare i pattugliamenti con la spedizione di Forze di autodifesa. La guardia costiera, sopraffatta numericamente dai pescherecci cinesi, si è confermata inadeguata davanti all'escalation degli ultimi mesi.

Il 13 novembre le autorità di Fuan, città del provincia meridionale del Fujian, hanno multato sei persone per commercio di prodotti in via d'estinzione, dopo che a giugno erano state pizzicate con sei chili di corallo rosso sottratto a largo delle coste giapponesi. Nella stragrande maggioranza dei casi, tuttavia, la giustizia cinese preferisce ancora chiudere un occhio quando l'illegalità non intacca i propri territori. Non è da escludere che i pescatori cinesi si siano spinti fino al Giappone per sfuggire ai controlli sempre più serrati in patria, dove ormai (ufficialmente) il corallo gode di una protezione pari a quella riservata ai panda.

Come sottolinea Stephen Harner su 'Forbes', il laissez-faire delle autorità cinesi non giova all'immagine del Dragone recentemente macchiata da un rapporto dell'Eia sul coinvolgimento dell'establishment cinese nel traffico d'avorio in Tanzania, in concomitanza con la prima visita di Xi Jinping in Africa del marzo 2013.

Nell'ultimo lustro, il prezzo del corallo rosso è quadruplicato raggiungendo i 180mila yen al chilogrammo, circa 1578 dollari, alimentando un giro d'affari da 6 miliardi di yen all'anno che ha come principale interlocutore i tuhao, i nuovi ricchi cinesi amanti del lusso sfrenato. La produzione si divide tra Giappone, Italia e soprattutto Taiwan, dove il prezioso materiale viene lavorato in officine sotterranee per poi essere rivenduto per la maggior parte ad acquirenti della mainland.

Ovviamente, la fragilità delle relazioni sino-giapponesi - puntellate con un nuovo accordo in quattro punti- rende la questione più delicata di un semplice caso di contrabbando. Non per nulla Abe non ha mancato di esternare la propria preoccupazione durante il suo breve incontro con Xi, nonostante la gelida stretta di mano e gli scarsi 25 minuti a disposizione. Chi regge veramente i fili del business? Si tratta di attori indipendenti o nazionalisti prezzolati? Da qualche tempo, il Dragone sembra aver cambiato approccio nei confronti delle dispute marittime. Nel mese di luglio, 'The National Interest' descriveva nel dettaglio la nuova strategia adottata da Pechino nel Mar Cinese Meridionale di cui protagonisti non sono navi da guerra, bensì pescherecci muniti di sistemi di navigazione satellitare direttamente collegati con la guardia costiera cinese. Da settembre 2013 sarebbero oltre 50mila le imbarcazioni equipaggiate con questo nuovo strumento (largamente finanziato dal Governo) che permette di chiamare rinforzi in caso di maltempo o al sopraggiungere di problemi in acque contese. Addirittura testimonianze raccolte dalla 'Reuters' parlano della promessa di incentivi economici da parte delle autorità cinesi per incoraggiare la pesca in prossimità delle isole rivendicate da Pechino.

Proprio lunedì scorso, nove pescatori cinesi sono stati condannati dal tribunale della provincia di Palawn a pagare quasi 103mila dollari ciascuno per bracconaggio in acque filippine dopo che nel mese di maggio erano stati sorpresi con un carico di 555 tartarughe giganti e arrestati. Il fatto era accaduto in prossimità dell'Half Moon Shoal, uno scoglio del Mar Cinese Meridionale situato a 100 chilometri della costa di Palawn, e rivendicato tanto da Manila quanto da Pechino. Negli ultimi anni, le acque attorno a Taiwan, Filippine, Giappone e Corea sono state interessate da un numero crescente di incidenti in cui ad essere coinvolti sono proprio pescatori cinesi. Incidenti che - secondo molti - sono stati pianificati a tavolino dal Governo di Pechino per saggiare la risposta dei rivali regionali. Un esempio: nell'aprile del 2012, l'occupazione cinese del conteso Scarborough Shoal, nel Mar Cinese Meridionale, era stata preceduta proprio da un confronto diretto tra la marina filippina e alcuni pescherecci cinesi scoperti a raccogliere illegalmente corallo e altre specie marine.

Conferme arrivano anche dal Mar Cinese Orientale, dove ultimamente è stato registrato un calo del numero delle perlustrazioni delle motovedette cinesi a fronte di un aumento della presenza di barche da pesca in prossimità delle Diaoyu/Senkaku. Il Sol Levante mostra il fianco scoperto. Nonostante la dimensione ridotta, l'arcipelago nipponico fatica ad esercitare la propria sovranità e a combattere la pesca illegale a causa della sua conformazione frammentaria. Questo è vero sopratutto per quanto riguarda i territori più a sud come le isole Ogasawara, così come per gli atolli a ovest di Okinawa. Nel luglio 2012, oltre 100 pescherecci cinesi attraccarono in un porto delle isole Goto, prefettura di Nagasaki, in quelle che l'analista giapponese, Tetsuo Kotani, ha definito ai microfoni dello 'Yomiuri Shinbun' 'prove generali' di un'occupazione delle Senkaku. Alcune delle imbarcazioni -racconta Kotani- erano state appositamente modificate per contenere milizie e veicoli trasporto truppe. Dati i precedenti, non desta stupore il no secco con il quale, all'inizio del mese, le autorità hanno respinto l'ipotesi di concedere ai pescatori cinesi un attracco presso le Ogasawara alla notizia dell'approssimarsi di un violento tifone.

"A dire il vero, non penso che il Governo cinese ordini direttamente ai pescatori di portare avanti attività illegali", ci spiega un ricercatore del National Institute for Defense Studies di Tokyo, "piuttosto credo si serva di questa situazione come leva diplomatica dal momento che ha mostrato (almeno a parole) la volontà di collaborare con il Giappone per risolvere il problema, dopo il faccia a faccia tra Xi e Abe."

Per Tokyo la questione non ha soltanto ripercussioni politiche: il corallo estratto impiega circa venti anni per rigenerarsi; cento nel caso delle formazioni più grandi. I bracconieri utilizzano reti a strascico e rampini in acciaio; setacciano il fondale danneggiando l'habitat sottomarino e la fauna che lo popola. E dove non arriva l'uomo, ci pensa la natura. Il riscaldamento globale e il relativo innalzamento della temperatura delle acque sta lentamente erodendo la barriera corallina sommersa sulla quale poggiano due atolli disabitati, 1100 miglia a sud di Tokyo. Dopo aver inutilmente tentato di proteggerle con muri di cemento, blocchi di acciaio e reti in titanio, il Governo nipponico sta cercando di salvare le isolette Okinotori promuovendo la sperimentazione della riproduzione sessuale dei coralli, un metodo sul quale gli scienziati lavorano da 20 anni. Attenzione perché qui il Giappone non si gioca soltanto importanti risorse naturali.

Trattandosi dei territori più a sud di tutto il Sol Levante, le Okinotori sono fondamentale per le rivendicazioni giapponesi su una zona economica esclusiva di oltre 1o0mila chilometri quadrati, un'area che supera per ampiezza l'intero arcipelago. Secondo la Convenzione delle Nazioni Unite sul diretto del mare, si parla di ZEE (la zona in cui uno Stato costiero ha diritti sovrani per la gestione delle risorse naturali, giurisdizione in materia di installazione e uso di strutture artificiali o fisse, ricerca scientifica, protezione e conservazione dell'ambiente marino) solo nel caso di isole abitate. Ragione per la quale, da anni, Tokyo sta cercando di assicurare agli atolli lo status di vere e proprie isole scontrandosi con le opposizioni della U.N. Commission on the Limits of the Continental Shelf, della Corea del Sud e, neanche a dirlo, della Cina.

(Pubblicato su L'Indro)

giovedì 20 novembre 2014

Alibaba rural revolution


Every year, on November 11th, China celebrates the Single's Day, an anti-Valentine's Day holiday during which Chinese netizens spend billions of dollars in products online. It is a tradition that has been going on since 2009, but this year it has handily surpassed the U.S.’ s Black Friday as the world’s most lucrative online shopping day. The Chinese e-commerce giant Alibaba exceeded $2 billion in sales volume processed through payments app Alipay within the first hour and 11 seconds of Nov. 11. Just two months ago, the company founded by Jack Ma had already pulverized a first record by landing on Wall Street with an IPO of $ 25 billion, the biggest in US financial history.

While the mainstream media were busy praising the achievements of the internet retail market leader, only a few have become aware of how the Singles Day snapped a photo of the China's complex reform process. According to data released by the company, rural consumers accounted for about 10 percent of Alibaba’s $9.3 billion haul for the day. The detail is not negligible. While it is true that the Chinese population is still largely rural (citizens in the proper sense account for only 53% of the population), it is equally true that netizens hacking away at keyboards are mostly urban residents. So even a 10% rate is quite appreciable. What did these rural online shoppers buy? A top ten products listed by 'TechInAsia'  in order of popularity are: mobile phones; flatscreen TVs; Boots; Wool coats; women’s down coats, men’s down; coats; low-top shoes; bedsheets/sets; facial skin products; washing machines. As Alibaba VP Wang Yulei noted, there are some significant differences between that list and the urban top ten, on which flatscreen TVs rated lower and washing machines didn’t rate at all, among other differences.

According to a report released by Alibaba Group, sales from rural areas on Taobao, Alibaba's major shopping platform, accounted for 9.11 percent of the total in the first quarter of 2014, rising from the 7.11 percent in the second quarter of 2012. Vice President, Gao Hongbing, predicted that the size of the rural e-commerce market will reach 460 billion yuan in 2016. How? In mid-October, the e-commerce company announced a plan to invest 10 billion yuan (1.6 billion U.S. dollars) within three to five years in order to build 1,000 "county operational centers" and 100,000 "village service stations" to tap rising demand in these areas. A project that will see Alibaba's network extend to one third of China's counties and one sixth of its rural areas, starting from the Zhejiang province, where the Group has its headquarters. Let's be clear: this is not a brilliant intuition of Alibaba. Since a couple of years, local competitors, as DJ, are trying to implement similar plans with the praise of the Chinese government.

At the end of November, on the same days leaders of Chinese IT service giant (like Alibaba and Tencent) met the boss of international high-tech companies at the World Internet Conference in Wuzhen, Zhejiang Province, the Chinese Premier Li Keqiang visited Qingyanliu. Qingyanliu is a Zhejiang village houses the headquarters of several Taobao traders. Here, where residents  villagers can log on to the Internet via a free, government-funded wireless network, there are more than 2,800 e-commerce stores with estimated annual sales of 4 billion yuan ($652 million) in 2014. Every year, more than 4 million parcels are sent out from the village to destinations across the country and even abroad. Qingyanliu represents a model to be replicated on a national scale. In fact, as Li Keqiang explained, despite the e-commerce industry is based in the virtual world, it can serve the real economy. Li said e-commerce "not only supports the economy, but also gives equal business opportunities to rural and urban residents alike and narrows the living standard gap between them".

In view of all this, it is no coincidence that a few days ago Jack Ma has decided to set foot in Xinjiang after four years of absence. Xinjiang is that remote region of western China that Beijing suspects to host Islamic separatist forces. Furthermore, in the plans of the Chinese leadership, Xinjiang should become the main commercial hub of Central Asia as part of the New Silk Road project strongly supported by President Xi Jinping. Although the distance between Beijing and Urumqi, the provincial capital, is just slightly more than the distance between New York City and Seattle, there is only one train line and one national expressway that enters Xinjiang through the Gansu province. Things will change in a few years, but at the moment all commerce in and out of Xinjiang have no alternative transport routes. On a practical level this bottleneck causes exhausting waits. The orders in the province are treated like it are being shipped internationally, explains on his blog Josh Summers, an entrepreneur resident in Urumqi. "We can only say the logistics industry in China is developed when sending a parcel to Xinjiang is as fast as sending one to big cities such as Beijing and Shanghai", said Jack Ma announcing the opening of three online shopping mall specialize in local products. The business has a huge potential to grow. The sales of products sold by sellers in Xinjiang reached 1.3 billion yuan ($212 million) on T-mall, the sister e-commerce platform of Alibaba's Taobao in the first half of 2014, an increase of 68.7 percent year-on-year.

All this fits perfectly with the new paradigm of development outlined by the new leadership in power since March 2013. While China's manufacturing continues to slow, Beijing is trying to liberate national economy from its dependence on traditional sectors, turning its gaze to the immense pool of  'cybernetic'consumers. China currently has 632 million Internet users, including 527 million mobile Internet users. The four main companies of China (Alibaba, Tencent, Baidu and JD) today are worth about $426 billion. Online commerce has grown by 18% in the first three quarters of the year, whereas the economy linked to the Internet came to cover 4.4% of China's GDP, compared with 3.3% in 2010.

Confirming the numbers of Singles Day, a study of Tsinghua University shows a growing activism of migrant workers -those who leave their villages to seek employment in town- on online platforms, especially to purchase clothes. This is not a local phenomenon, but a trend that affects many emerging economies; besides China and India, also South Africa, Russia and Mexico. The Emerging Consumer survery 2014 by Credit Suisse Research Institute makes reference to a "rural middle class" as new catalyst for consumption globally. In the case of China, a rebalancing of the economy towards the countryside goes along with what the leaders promised. After thirty years of  export-driven economic growth, the financial crisis that has crippled the main buyers of the Made in China forced Beijing to focus on domestic consumption as a driver force for a more sustainable growth. A transition that requires as a basic condition raising the purchasing power of citizens. Beijing wants citizens to spend more, but for this to happen it is necessary to ensure welfare services so that the money paid out by the Chinese for their own health may soon go to oil the recovery of the national economy. Hence the need to soften the hukou system and grant farmers the power to more freely rent, sell, and mortgage their land, but without affecting the system of collective ownership. The goal is to enable farmers to benefit from an appreciation of the land's value, leaving them more savings to be allocated to the discretionary spending. The process has been ongoing for several years, or since 2003, when the previous administration decided to abolish agriculture taxes, expanded health-care coverage and increased minimum purchase prices of grains under efforts to boost rural development. In 2010 rural per-capita net income rose more than those of urban residents for the first time since 1997, as migrant workers boosted their pay and government strengthened the social safety net.

The direction is right, but the road is still long and paved with obstacles. In 2012, rural income per capita was still less than a third of the urban disposable income (respectively 7,917 yuan and 24,565 yuan). Just the difference between the wages earned in the towns and big cities led to four months of protests involving teachers in the smaller cities and inland provinces, the most backward.


mercoledì 19 novembre 2014

Cina e Usa, tra 'schiaffi' e concessioni


Quella tra il 10 e il 17 novembre è stata una settimane densa di eventi, scandita da ben tre vertici 'asiatici' dal forum Apec (Asia-Pacific Economic Cooperation) ospitato dalla Cina, al G20 di Brisbane, Australia, passando per l'East Asia summit, accolto dalla capitale birmana Naypyidaw. Di solito si dice che questo genere di meeting abbia una funzione simbolica e manchi di sostanza. Sostanzioso, però, lo è stato quantomeno lo 'schiaffo' sferrato da Pechino a Washington, seppur edulcorato da una serie di concessioni sulla cui reale entità si sa ancora molto poco.

Lo 'schiaffo' è la FTAAP (Free Trade Area of the Asia Pacific), l'area di libero commercio regionale sponsorizzata da Pechino per frenare i lavori della TPP (Trans-Pacific Partnership), contraltare americano da cui il gigante asiatico è stato estromesso. Nonostante le (presunte) resistenze di Washington, i Paesi membri dell'Apec - un blocco che produce il 50% del pil mondiale- hanno accolto con favore l'inizio di una fase di studio del progetto della durata di due anni. Per la prima volta la Cina assume un ruolo centrale nella promozione di un accordo commerciale tra più nazioni, polverizzando le speranza di Obama che con il summit della scorsa settimana sperava di riuscire a rilanciare la propria partnership nell'Asia-Pacifico.

Le concessioni sono arrivate con la promessa di una cooperazione contro il riscaldamento globale, accordi militari, sui visti e sullo scambio di tecnologia; intese di massima suggellate tra il Presidente americano e il suo omologo cinese, Xi Jinping, nella cornice dell'Asia-Pacific Economic Cooperation, al termine della quale i due leader si sono incontrati privatamente per la seconda volta dal turnover politico cinese del novembre 2012. Accordi che, va detto, se da una parte testimoniano la presa di responsabilità della Cina come stakeholder globale, dall'altra scolorano davanti alla grandiosità dei progetti con i quali Pechino mira a rinsaldare la propria leadership nella regione. Obama ha cominciato la sua maratona asiatica ancora dolorante dopo la batosta alle elezioni di medio termine che, a due anni dalla fine del suo mandato, hanno messo il Congresso nelle mani dei repubblicani. Marginalizzato in casa, e indebolito all'estero dalle crisi irrisolte di Iraq, Siria e Ucraina, l'inquilino della Casa Bianca appare agli occhi del Dragone come un leader debole. 'Un'anatra zoppa' che fino a ora «ha fatto un lavoro insipido», come l'ha definito alla vigilia dell'Apec il 'Global Times', tabloid in lingua inglese del Quotidiano del popolo, vero e proprio megafono del Partito.

Al contrario, a due anni dalla sua nomina a Segretario generale del Pcc, Xi Jinping è riuscito ad accentrare nelle sue mani il potere necessario a lanciare riforme epocali, mentre una retorica spiccatamente nazionalista domina l'agenda estera. L'uomo forte di Pechino ha un sogno. Anzi due: il 'Chinese Dream' di una rinascita nazionale -intesa come ritorno alla grandeur persa con la stipula dei trattati ineguali a cavallo tra il XIX e il XX secolo- e l''Asia-Pacific Dream', concetto inaugurato proprio in occasione dell'Apec e che rimarca la visione di una comunità asiatica unita sotto l'ombrello protettivo di Pechino e dalla quale gli Stati Uniti risultano evidentemente esclusi. L'idea non è del tutto nuovo ma si riallaccia al principio di «un'Asia per asiatici» propagandato da Xi durante la CICA (Conference on Interaction and Confidence Building Measure in Asia), il forum sulla sicurezza ospitato a maggio dalla capitale cinese.

Stavolta però, data la sede, il Presidente cinese si è concentrato sulla necessità di ampliare la connettività e la «vivacità economica» della regione attraverso nuovi accordi di libero scambio e possibilità d'investimento. Entrambe questioni sulle quali la Cina ha già mostrato una certa determinazione prima annunciando nei giorni scorsi la creazione di un fondo da 40 miliardi di dollari pensato appositamente per sopperire al fabbisogno d'infrastrutture lungo la nuova Via della Seta, la cintura economica che taglia trasversalmente l'Eurasia, poi raggiungendo un'intesa per due storici accordi di libero scambio con Corea del Sud (arrivato dopo 30 mesi di trattative, a margine del vertice Apec) e Australia (quest'ultimo in occasione della visita di Xi Jinping nel Paese più grande dell'Oceania per il G20). Mentre il summit di Naypyidaw ha fornito l'occasione per cementare la posizione cinese nel Sud-est asiatico e in Myanmar dopo che il passaggio del testimone dal Governo militare a quello 'civile' ha reso più problematica la penetrazione di investimenti cinesi nel Paese dei pavoni. Situazione dalla quale stanno traendo giovamento Stati Uniti e Giappone, i primi facendosi promotori della transizione democratica birmana, il secondo privilegiando le relazioni commerciali e puntando sul nascente settore dell'automotive.

Nella regione, la Cina è già il primo partner commerciale - oltre che dell'Asean (Association of South-East Asian Nations) - di Corea del Sud, Australia e Sol Levante; tre Paesi chiave per la rete di alleanze ordita da Washington nell'Asia-Pacifico che il Dragone sta cercando di sfaldare facendo leva sulle proprie risorse economiche, mentre il perdurare di contenziosi territoriali tra Pechino e gli Stati bagnati dal Mar Cinese rende la presenza americana nel quadrante e il suo potere deterrente un'alternativa gradita a molti. «Date le dimensioni e la sua notevole crescita economica, la Cina ricoprirà necessariamente un ruolo molto importante nella regione. Il punto è quale ruolo deciderà di svolgere», ha scandito Obama durante un discorso tenuto lo scorso sabato presso la University of Queensland di Brisbane.

Da quando Obama si è insediato alla Casa Bianca, la politica estera degli Stati Uniti è stata dominata dal noto 'Pivot to Asia', la strategia di ribilanciamento verso il Far East che prevede un progressivo ritiro americano dai teatri di guerra mediorientali a favore di una maggiore presenza nel Pacifico. Secondo molti, tuttavia, l'avanzata dell'ISIS e i fatti di Crimea parrebbero aver sviato l'attenzione di Washington dal quadrante estremorientale. Un'eventualità respinta dallo stesso Obama sotto i riflettori del summit australiano con un tono ben più duro rispetto a quello adottato durante il vertice Apec. Letteralmente: «Sono qui per dire che la leadership americana in Asia sarà sempre un punto fondamentale della mia politica estera».

Come lamentato ai microfoni della TASS dal Presidente russo Vladimir Putin alla vigilia del G20, i due accordi commerciali di matrice americana - la TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) e la TPP - non faranno altro che creare maggiori squilibri a livello globale. In entrambi pesa l'assenza di Cina e Russia, i due giganti vicini più che mai nella promozione di nuove 'alleanze' in grado di rappresentare una geometria mondiale sempre più sbilanciata verso i Paesi in via di sviluppo: dai BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) al cosiddetto 'G7' (oltre a Cina, India, Brasile e Russia anche Turchia, Indonesia e Messico), blocchi con un Pil combinato rispettivamente di 37.4 trilioni e 34.7 trilioni di dollari.

Da tempo la TPP, cavallo di battaglia dell'amministrazione Obama che dovrebbe comprendere 12 Paesi del Pacific Rim, verte in una fase di stallo sopratutto per via delle resistenze mostrate dai democratici «profondamente preoccupati per la mancanza di consultazioni adeguate riguardo molte aree del patto che implicano l'autorità politica del Congresso». La partnership prevede la rimozione delle tariffe commerciali e degli ostacoli normativi tra i Paesi membri, ma la nebulosità di alcuni punti continua ad irrigidire i democratici preoccupati per il possibile trasferimento di buona parte del manifatturiero a stelle e strisce verso mercati in cui il costo del lavoro è più basso. Una delocalizzazione che rischia di acuire il problema disoccupazione scesa al 5,9%, il livello più basso dal luglio 2008. Molto più favorevoli al progetto i repubblicani, che forti della maggioranza alla Camera e -con le elezioni di midterm- anche al Senato, potrebbero riuscire ad accelerare le negoziazioni sull'accordo.

Le ripercussioni per la Cina sarebbero non indifferenti considerando che il blocco vanta al suo interno tra i Paesi con il manifatturiero più low cost del mondo come Vietnam e Messico, mentre nella Repubblica popolare scioperi, innalzamento degli stipendi e un'erosione della manodopera stanno mettendo in fuga le multinazionali in cerca di mercati più economici. Non solo. Una controversa proposta sulle norme in materia di origine rischia di estromettere il Dragone dall'esportazione di materiali in cui eccelle, come i filati di cotone, imponendo alle nazioni comprese nella TPP di acquistare esclusivamente i prodotti dagli altri paesi membri.


Le sorti della TPP sono ora più che mai determinanti tanto per la Cina quanto per il 'Pivot' di Obama. Come fa notare Shannon Tiezzi su 'The Diplomat', da quando John Kerry ha sostituito Hillary Clinton in qualità di Segretario di Stato, la strategia statunitense del ribilanciamento verso l'Asia ha perso il marcato accento militaresco per spostare il focus sullo 'sviluppo economico'. Il 'Pivot' americano parrebbe ormai poggiare su nuovi quattro pilastri: «crescita economica sostenibile» attraverso la TPP; una «rivoluzione dell'energia pulita» per arrestare il cambiamento climatico; sgonfiare le tensioni «rafforzando le istituzioni e le norme che contribuiscono a creare una regione stabile e basata sui regolamenti»; assicurare ai popoli dell'Asia-Pacifico una vita «con dignità, sicurezza e opportunità».

La metamorfosi sembra venire incontro alle richieste cinesi dopo le critiche dell'ambasciatore negli Usa, Cui Tiankai, che in una recente intervista a 'Foreign Policy' ha denunciato l'eccessiva enfasi posta dall'amministrazione Obama sulla sicurezza e gli aspetti militari, ignorando «le vere necessità e preoccupazioni dei Paesi della regione». Ricordiamo il tempismo con il quale, nel novembre del 2011, Washington preannunciò il suo attivismo nel Pacifico in concomitanza con il dispiegamento di aggiuntivi 2500 soldati americani nella base di Darwin, in Australia. Tutt'oggi il Dragone percepisce con sospetto la crescente intesa tra Stati Uniti, Giappone e Australia confermata dalla trilaterale dello scorso weekend, primo meeting tra i leader dei tre Paesi dal 2007.

Sia che si tratti di una svolta 'sincera', sia che si tratti di una tattica per rabbonire Pechino, un approccio più 'commerciale' e meno militare potrebbe servire a ridurre la tensione tra le due superpotenze in un momento in cui la regione sembra essere troppo stretta per entrambe. Sopratutto considerato l'elevato rischio di 'errori di valutazione' in casi analoghi a quello del 19 agosto, quando un caccia cinese intercettò «in maniera pericolosa e poco professionale» un Boeing P-8 Poseidon nello spazio aereo internazionale, 217 chilometri a est dell'isola di Hainan, sul Mar Cinese Meridionale. A margine dell'Apec, Usa e Cina hanno annunciato di aver raggiunto due accordi che miglioreranno la comunicazione tra le rispettive forze armate.

Se l'intesa rappresenta di per sé già un passo avanti nella cooperazione tra i due giganti, Robert Williams, senior fellow del China Center presso la Yale Law School, rileva buone possibilità che il processo di consolidamento dello Stato di diritto, annunciato dall'establishment durante il Quarto Plenum del Partito, venga esteso alla politica estera cinese a tutto vantaggio delle relazioni con Washington che da tempo preme affinché la Cina si attenga a «regole comuni» per quanto concerne le questioni economiche e la sicurezza regionale. Nel comunicato rilasciato al termine del consesso 'rosso', spiccano chiari riferimenti ad una «vigorosa partecipazione nella formulazione delle norme internazionali» così come nella «promozione della gestione delle questioni economiche e sociali con l'estero in accordo con le leggi». Vedremo se alle parole seguiranno i fatti. (Pubblicato su L'Indro)

Hukou e controllo sociale

Quando nel 2012 mi trasferii a Pechino per lavoro, il più apprezzabile tra i tanti privilegi di expat non era quello di avere l’ufficio ad...