sabato 22 dicembre 2012

Il 'Word power' vi conquisterà


Continua l'avanzata del Dragone nel Continente Nero. Questa volta non si tratta di miniere, elargizioni governative, né di ambiziosi progetti infrastrutturali, ma di un altro mattoncino che va ad ampliare l'impero mediatico cinese, sempre più tentacolare e internazionale.

E' con grande orgoglio che il China Daily, principale quotidiano cinese in lingua inglese, la scorsa settimana ha annunciato la nascita della sua versione africana, con base a Nairobi, capitale del Kenya. Il China Daily Africa Weekly, che sarà disponibile anche in formato digitale, si propone di spiegare "il rapporto tra la Cina e il continente africano", andando a integrare il lavoro già svolto dalla televisione statale CCTV e dall'agenzia di stampa Xinhua, anch'essa controllata dal governo.

"Il rapporto tra Cina e Africa è tra i più significativi al mondo" ha commentato il caporedattore Zhu Ling " è complesso e in crescita, ma non sempre compreso...speriamo di riuscire a fornire questo diritto". Il nuovo giornale costituirà una piattaforma in grado di migliorare la conoscenza reciproca tra i due Paesi, secondo l'augurio del ministro dell'Informazione keniota Samuel Poghisio, citato dai media locali.

Alcuni mesi fa, quando fu inizialmente diffusa la notizia del progetto, il vice-caporedattore del China Daily, Gao Anming, dichiarò che la nuova edizione ha lo scopo di "introdurre la Cina al mondo e raccontare le notizie da una prospettiva cinese". Forse presagendo le reazione che le sue parole avrebbero potuto suscitare, Gao si è affrettato ad aggiungere che, sebbene di proprietà del governo, la testata segue una politica editoriale indipendente e che i membri del consiglio interno non sono funzionari statali. "Facciamo anche circolare report contro il governo e suggeriamo alcune misure per migliorarli" ha spiegato.

Come riporta City Press, il China Daily vende in patria 250 mila copie al giorno, alle quali vanno aggiunte le 170 mila edizioni settimanali distribuite in America e le 150 mila in Europa. Secondo le stime iniziali, la versione africana dovrebbe riuscire a vendere 10 mila copie, grazie alla presenza sempre più massiccia di cinesi espatriati nel Continente Nero, il cui numero si aggira ormai attorno al milione.

L'arrivo del China Daily in Africa è stato accolto con entusiasmo anche da Jinghao Lu, analista a Johannesburg presso il desk della società di consulenza Frontier Advisory, il quale ha notato come "i giornalisti cinesi in questo continente siano ancora relativamente pochi". "E' una buona cosa che i cinesi sappiano di più di quello che accade in Africa, dato il crescente coinvolgimento della Cina qui" anche se -ha spiegato Jinghao- molti dei lettori saranno probabilmente gente del posto.

Gli scambi tra mezzi di comunicazioni cinesi e africani si sono intensificati negli anni 2000, con la distribuzione di supporto tecnico, forniture dei contenuti, sino all'offerta di una formazione giornalistica da parte di Pechino. All'inizio di quest'anno la China Central Television ha lanciato CCTV Africa, con quartier generale in Kenya, mentre Xinhua e China Radio International, già presenti nel continente dagli anni '50, continuano a consolidare la propria posizione.

Proprio la CCTV africana, che trasmette giornalmente un telegiornale della durata di un'ora, un talk show e diversi documentari alla settimana, "ha fatto incetta di presentatori noti a livello locale e personale vario di altre emittenti televisive" riporta eXpressionToday, rivista pubblicata da The Media Institute, ong che si batte per la libertà d'espressione in Kenya. Circa cento i dipendenti assunti dalla tv di stato cinese, molti dei quali kenioti.

Nonostante la dinamica dell'insediamento siano poco trasparenti, come sottolinea l'ong 'watchdog', "fonti del ministero degli Esteri e dell'Informazione rivelano che l'ingresso della CCTV in Kenya è stato sancito dal Forum della cooperazione sino-africana (Focac) del 2006"; occasione che ha visto il presidente Mwai Kibaki volare a Pechino accompagnato da una delegazione di 40 capi di Stato e di Governo africani per cementare le relazioni tra i due Paesi.

Se all'inizio la penetrazione dei mass media d'oltre Muraglia ha avuto lo scopo di esportare la 'fabbrica del consenso' di Pechino e dare supporto ai movimenti di liberazione africani, adesso il ruolo degli organi d'informazione cinesi è, piuttosto, quello di un 'cavallo di Troia'; una testa di ponte del 'soft power' con il quale il Dragone punta a scalzare colossi internazionali quali CNN e BBC.

"Questa espansione arriva in coda al flusso" commentava a maggio Tom Rhodes, del Comitato per la tutela dei giornalisti "la maggioranza dei media occidentali si stanno ritirando dall'Africa orientale: la BBC è stata costretta a licenziare molti corrispondenti e France 24, per contenere i costi, ha reso nota la fusione con France Internationale".

Così, mentre l'informazione 'made in Occidente' batte in ritirata, la Cina ne approfitta per fare il proprio gioco e dare una nuova immagine di sé. Lo confermano le parole di Song Jianing, direttore di CCTV Africa il quale tempo fa ha criticato apertamente la cattiva pubblicità messa in giro dai big dell'informazione internazionale. "I media internazionale descrivono costantemente la Cina come un monolite, ne denunciano le ambizioni coloniali ed enfatizzano alcune circostanze, con scarse spiegazioni storiche del rapporto China-Africa" ha commentato Song.

Per combattere la diffamazione nel Continente Nero, Pechino sembra aver intrapreso una strategia ben nota in patria: quella del bavaglio. Lo dimostra il generoso sostegno fornito alle emittenti statali, (piuttosto che a quelle private) molte delle quali, come la radio nazionale della Guinea Equatoriale e la Zimbawe Broadcast Holdings Company, sono note per la loro scarsa libertà di stampa. Non solo. In Etiopia la multinazionale cinese ZTE sta investendo 1,7 miliardi di dollari per effettuare una revisione del sistema delle telecomunicazioni, dal quale -secondo uno studio dell'Università di Oxford- trarranno grande giovamento i censori locali.

Ma le vie del 'soft power' sono infinite e, come riporta la BBC, Pechino avrebbe già provveduto a piazzare un maxischermo ad Addis Abeba, in Etiopia, oltre ad aver promosso migliaia di borse di studio per giornalisti africani. La Xinhua ha, inoltre, collaborato con una società di telefonia mobile keniota per la distribuzione di news service sui cellulari. Chiari segnali che il Dragone non si accontenta più di essere 'soltanto' il primo partner commerciale dell'Africa.

Gli scambi bilaterali sono cresciuti dai 10,6 miliardi di dollari del 2000 ai 160 miliardi del 2001. Lo scorso luglio, durante il quinto Focac, il governo cinese ha stanziato prestiti di natura concessionale per 20 miliardi di dollari da erogare nei prossimi tre anni, mentre il presidente uscente Hu Jintao ha chiesto una maggior cooperazione con gli stati africani anche sul piano delle relazioni internazionali.

Pechino non bada a spese per propagare la propria voce nel mondo. Dall'inaugurazione di CCTV America, all'apparizione del China Daily come supplemento pubblicitario nel New York Times e Washington Post. Sino al debutto a Broadway. Nel maggio 2011 la Xinhua si è aggiudicata uno degli spazi più esclusivi della Grande Mela: l'ultimo piano di un grattacielo nel cuore di Times Square, sul quale campeggia uno schermo al LED di 18 metri per 12. Il tutto, pare, per 400 milioni di dollari al mese.

(Leggi anche Ombre cinesi sul Continente Nero)
(Pubblicato su Dazebao)
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giovedì 20 dicembre 2012

Maya, sette religiose e persecuzioni


La fine del mondo è vicina. In Cina sono in molti a pensarlo. Troppi per il Partito che ha già proceduto all'arresto di circa 1.000 membri della 'Chiesa di Dio Onnipotente', setta che va predicando l'imminente giorno del giudizio universale e la reincarnazione di Gesù Cristo nel corpo di una donna cinese.

Il gruppo, come riportano i media locali, è stato accusato di diffondere messaggi apocalittici, apparentemente, ricollegandosi alla predizione dei Maya che individua nel prossimo 21 dicembre l'ultimo giorno per il pianeta Terra. Secondo la profezia della 'Chiesa di Dio Onnipotente', considerata una congregazione cristiana eretica, seguiranno tre giorni di buio totale e una nuova Era, scandita da calamità naturali quali terremoti e tsunami, avrà inizio. Una sorte -avvertono i seguaci- alla quale si può sfuggire soltanto eliminando 'il Grande Drago Rosso', che nella simbologia della setta starebbe a indicare niente meno che il Partito, caricando di forti significati sovversivi il movimento. 

La diffusione di questo 'culto malvagio', come è stato bollato dalla stampa d'oltre Muraglia, ha innescato un giro di vite su tutto il territorio nazionale. 350 sono finiti dietro le sbarre nella provincia sud-ovest del Guizhou, oltre 400 nel Qinghai, regione nord-occidentale, dove sono stati confiscati più di 5000 oggetti illegali, tra dvd, volantini, libri, pc e cellulari, ai quali vanno aggiunti arresti di minore entità anche in altre aree del Paese. Per evitare che il culto si propaghi ulteriormente, la macchina della propaganda ha impartito ai media nazionali l'ordine di "rafforzare una guida positiva delle notizie e di evitare la diffusione di rumors, cercando inoltre di lavorare sui sentimenti di panico", come scandisce un leak intercettato e pubblicato dal sito China Digital Times. Le parole 'Dio Onnipotente' e 'Lampo d'Oriente', altro nome con il quale è conosciuta la setta, risultano bloccate sul Twitter cinese Sina Weibo.

Gli organi d'informazione statali, tra i quali il China Yought Daily, hanno condannato il gruppo, sottolineando come esso faccia uso di pratiche spaventose, come la richiesta ai membri femminili di "sfoderare tutto il loro sex appeal per attrarre nel gruppo nuovi adepti". Tra le esche adottate anche promesse di droga e denaro.

Nata nei primi anni '90 nella provincia dello Henan, la 'Chiesa di Dio Onnipotente' è rimasta nell'ombra per lungo tempo data l'intolleranza dimostrata dal governo verso le congregazioni religiose non ufficiali. Tanto da spingere il suo padre fondatore Zhao Weishan a lasciare la Cina dodici anni fa per cercare asilo negli States. 

"Dicono che la Bibbia sia superata" ha spiegato al Guardian uno dei leader di una chiesa di Pechino non riconosciuta dal governo "sono convinti che la loro interpretazione meglio si adatti alla cultura cinese, cosicché risulta più facile per i cinesi comprendere ciò che vanno predicando". 
Per Hu Xingdou, esperto di società cinese  ed economista presso il Beijing Institute of Technology, come si esce dalle grandi città è piuttosto frequente riscontrare la formazione di piccoli gruppi religiosi. Colpa del vuoto etico creato dal degrado morale e della corruzione dilagante. "La corruzione è terribile, il divario di ricchezze enorme: tutti vogliono soltanto fare più soldi. Queste brutte cose stabiliscono le condizioni ideali per la diffusione di un culto" ha spiegato Hu. 

Alla proliferazione di credenze, ritenute minaccia per la stabilità politica e sociale del Paese, il Partito  risponde da sempre con il pungo di ferro. Nel caso della 'Chiesa di Dio onnipotente' non è ben chiaro quale dipartimento governativo abbia orchestrato la catena di arresti degli ultimi giorni. Secondo quanto denunciato dalle organizzazioni per la difesa dei diritti umani, le autorità cinesi gestiscono una rete capillare di agenzie extragiudiziali che agiscono in maniera poco trasparente nella repressione di dissidenti e gruppi religiosi. Più nota tra queste l'Ufficio 610, istituito nel 1999 per tenere sotto controllo la setta spirituale della Falun Gong, ritenuta illegale dopo una protesta silenziosa che radunò migliaia di seguaci davanti a Zhongnanhai, quartier generale del Pcc. 

"Sebbene la Falun Gong rimanga l'obiettivo primario, a questa ora si sono aggiunte la 'chiesa sotterranea', i buddhisti e altre sette religiose e spirituali" si legge nel rapporto sull'Ufficio 610 stilato nel 2011 dalla Jamestown Foundation, think tank con base a Washington "oggi, sulla base di quanto estrapolato dai siti web delle amministrazioni locali a livello distrettuale, crediamo che l'Ufficio impieghi almeno 15mila funzionari". 

Il Regno di Mezzo ha una lunga tradizione di movimenti millenaristi in chiave antigovernativa. Verso la metà del XIX a scuotere il Paese fu il 'Regno Celeste della Grande Pace', setta cristiana sincretista guidata da Hong Xiuquan, autoproclamatosi fratello minore di Gesù Cristo. Il movimento, impegnato in una radicale riforma sociale, viene comunemente ritenuto uno dei fattori destabilizzanti che hanno condotto alla caduta dell'ultima dinastia cinese, quella dei Qing. 

Una pagina della storia nazionale che il regime cinese deve aver tenuto bene a mente nella sua maniacale ricerca della 'stabilità a tutti i costi', perseguita rinforzando l'apparato di sicurezza interna, il cui budget nel 2011 ha superato quello destinato all'Esercito. 

In teoria la Costituzione cinese garantisce la libertà di culto, ma dagli anni '50 le relazioni tra il Dragone e la Chiesa hanno visto un rapido declino con l'espulsione del nunzio apostolico Antonio Riberi: i rapporti diplomatici tra Pechino e il Vaticano sono congelati dal 1951, anno in cui la Santa Sede riconobbe l'indipendenza di Taiwan, per Pechino nient'altro che una 'provincia ribelle'. Da quel momento il governo cinese dide il via alla pratica delle ordinazioni autogestite. In altre parole, l'Associazione patriottica cattolica cinese, incaricata di gestire i rapporti tra la Cina e i cattolici, riconosce l'autorità spirituale del Papa ma non il suo potere di nominare i vescovi. Fattore che ha innescato un lungo braccio di ferro con il Vaticano, culminato alcuni giorni fa nell'esautorazione di Mons. Taddeo Ma Daqin, uscito dall'Associazione il giorno della sua ordinazione dopo aver rifiutato, in obbedienza al Papa, la comunione con un vescovo scomunicato.

La stretta sui movimenti religiosi si è fatta più serrata a partire dalla primavera del 2011, sulla scia della psicosi post-rivolta dei gelsomini cinesi; una protesta ispirata a quanto avvenuto nei Paesi del Maghreb, ma di fatto ridottasi ad un gruppo di manifestanti anonimi e ad alcuni appelli su internet. Secondo quanto riportato da AsiaNews, il 10 aprile dello scorso anno circa 200 cristiani sono finiti in manette nel distretto pechinese di Haidian, per aver tentato di celebrare una liturgia in una piazza pubblica. L'episodio diede il via ad una lunga sequela di arresti per la Chiesa di Shouweng, una delle diocesi più importanti del Paese che conta oltre mille membri.

Un comunicato di sedici pagine, emesso il 15 maggio 2011, ma reso noto solo questo mese dall'ong texana ChinaAid, utilizza un linguaggio da guerra fredda nel denunciare una cospirazione attuata da "forze ostili d'oltremare". Queste 'talpe', infiltrate nei campus universitari cinesi con il pretesto di semplici scambi culturali, utilizzerebbero in realtà la religione per "occidentalizzare e dividere la Cina". Come suggerisce il documento -citato dal Washington Post- nonostante i timidi segnali di una crescente tolleranza religiosa negli ultimi decenni, il Partito continua a nutrire forti sospetti verso ogni tipo di culto, considerato una potenziale leva volta a scardinare l'autorità del regime. Ancora più pericolosa se maneggiata dall'Occidente.

Nel 1999 il Dipartimento di Stato americano ha definito la Cina "un paese particolarmente preoccupante" per quanto riguarda "gravi violazioni della libertà religiosa". E con una transizione del potere in pieno svolgimento e una nuova leadership in cerca di credibilità/stabilità, sono molti a credere che la politica della repressione non smetterà in tempi brevi.


martedì 18 dicembre 2012

Il perdono può esacerbare la corruzione


                     
(Anche la polizia protesta contro la corruzione. Succede nello Shandong. Video comparso su Shanghaiist)

Sin dai primi passi come segretario generale del Partito Comunista Cinese, Xi Jinping ha subito dedicato molta attenzione alla lotta contro la corruzione, da lui paragonata a "vermi che si nutrono di sostanze in decomposizione". Nelle scorse settimane sono stati varati provvedimenti per evitare gli sprechi dei manager delle imprese di Stato, ai quali è stata aggiunta una norma "anti-stravaganze" per evitare le spese inutili dei funzionari durante i loro viaggi all'interno del Paese. Il tutto per evitare che gli stravizi della casta possano alimentare lo sdegno popolare mettendo a repentaglio la stabilità sociale e politica. Senza pietà la Xinhua che in un editoriale del 18 dicembre, ripreso da altre testate cinesi tra cui , non concede il perdono ai quadri depravati.


(Non riesco più a ritrovare il testo sul quale mi sono basata, che non era quello della Xinhua. Alcune cose all'inizio sono differenti..).


Di fronte lotta alla corruzione, la ricerca di un perdono come compromesso, volto a promuovere progressi sostanziali nella riforma politica, può essere considerato un inutile "lambicarsi il cervello per trovare un soluzione". Non si può negare che il più grande ostacolo alla pubblicazione delle ricchezze dei funzionari provenga da quei funzionari che hanno qualche inganno da nascondere e abbattere questo ostacolo, evitando di diffondere timori nelle retrovie, può essere accettato come una sorta di 'politica dello struzzo' pragmatica. Ma ciò che potrebbe scaturire da questa strategia dei compromessi è sostanzialmente un danneggiamento del principio di imparzialità dello Stato di diritto. Il metodo discriminatorio utilizzato nell'amministrazione del potere pubblico mina quella lotta alla corruzione ormai da tempo intrapresa.

Promettere il perdono a chi ha infranto la legge non porterà giovamenti, anzi, rafforzerà il senso di fiducia dei funzionari, arrivando persino a causare la diffusione a macchia d'olio di casi di corruzione 'legalizzata'.
Ma, allora, la lotta alla corruzione ha o no bisogno della 'politica dello struzzo'? Sarebbe necessario dare un ampio giudizio sulle condizioni del Paese, restando fedeli ai criteri di base dello Stato di diritto. Il 'debito della corruzione' accumulato dalla Cina ha raggiunto livelli preoccupanti, le scorte ammassate, sempre maggiori, rischiano di rendere le proteste via via più agguerrite. In questo contesto, dare una via d'uscita a quei funzionari corrotti e avidi, tornati sulla retta via, potrebbe sembrare essere utile a mitigare la loro resistenza alla lotta alla corruzione. Il problema è che un pensiero così positivo in realtà finisce per sovrastimare la consapevolezza dei quadri corrotti. Per il momento non parliamo di quanti funzionari, raggiunta la redenzione, decidono di tornare alla giustizia, ne è importante nello specifico il modo in cui viene applicata l'amnistia. Partendo dall'analisi delle cause, a creare un terreno difficile per la lotta alla corruzione sono state principalmente l'assunzione di punizioni morbide e la mancanza di rigore e universalità nell'applicazione del codice penale. Alla luce delle falle emerse durante l'applicazione della legge, come la strategia del 'lasciare una via d'uscita' (ai quadri corrotti ndr) potrebbe non rivelarsi irrealistica?

La negligenza dimostrata nella supervisione della giustizia, così come nella gestione di casi di corruzione, ha condotto lo Stato di diritto ad una perdita di autorità e credibilità. Tollerare una volta il perdono, può minare alla base la lotta alla corruzione fino a spingere i funzionari a chiedere un 'sollievo temporaneo' per portare avanti le loro malefatte. Questa promessa di perdono, non migliorerà la situazione, anzi accrescerà il senso di fiducia dei funzionari, dando origine a sempre più casi di corruzione 'legalizzata'.

Il giusto corso della lotta alla corruzione consiste nel somministrare al malato la medicina appropriata, rimodellando l'autorità dello stato di diritto. E' bene risolvere il problema delle sacche di corruzione,  e lo è anche contenere la diffusione di nuovi casi, ma il punto centrale sta nel riuscire a tornare sulla via dello Stato di diritto, cosicché una legge penale ben ponderata e senza zone d'ombra possa dare una logica inevitabile a corruzione e responsabilità penali.
Forse grazie a questo potere dello stato di diritto che consiste "nell'afferrare la mano di chi ha rubato", quegli elementi corrotti saranno in grado di soppesare vantaggi e svantaggi. Allora alcuni decideranno spontaneamente di rigettare i profitti acquisiti con mezzi illegali.


 突破法治原则的“赦免”许愿,弄不好反会强化官员的侥幸心理,甚至衍生出更多“合法腐败”的漏洞来。
  基于当前严峻的反腐形势,“有条件赦免”企图以一种有限妥协的方法,推进政治体制改革的实质进展,可谓用心良苦。不可否认,官员财产公开最大的阻力来自有猫腻的官员,通过免除部分官员的后顾之忧来分解这种阻力,不失为务实的“鸵鸟政策”。但是这种妥协的背后,在根本上容易伤害法治的公平性原则,法律对公权治理区别对待,给长远的法治反腐带来损害。

  反腐究竟需不需要“鸵鸟政策”?这需要充分的国情判断,也需要坚守法治的底线标准。如建议者所言,我国的“腐败呆账”比较严重,存量越来越大致使抵抗也越来越顽强。在这种背景下,对那些将全部贿赂匿名清退的贪官“网开一面”,看似能减轻他们对反腐败的抵抗。问题是,如此良好的愿望似乎高估了腐败官员的自觉性。暂且不谈有多少官员会自觉清退,也不论“赦免”的具体可操作性;单从原因分析,造成今日反腐严峻形势,根本上就是由于惩治偏软,没有确立起刑事执法的普遍性、严密性。在执法已存偏漏的情况下,再行“网开一面”的方案,岂不是“与虎谋皮”?

  对权力缺乏常态化的法治监督,对腐败案件查处的疏漏让法治缺乏权威性和公信力。一旦容忍“赦免”,便会在社会上造成反腐底线的突破,甚至怂恿更多的官员为求“一时之需”而先行贪腐。这种突破法治原则的“赦免”许愿,弄不好反会强化官员的侥幸心理,甚至衍生出更多“合法腐败”的漏洞来。

  反腐的正途就是对症下药,重塑法治的权威。解决旧的腐败存量也好,遏制新的腐败增量也罢,关键是要回归到法治轨道上,以严密无缺的刑事执法确立起腐败与罪责的必然逻辑。或许在这种“伸手必被捉”的法治威力下,那些腐败分子才会权衡利弊,生出几分主动退赃的自觉性来。(傅达林)

mercoledì 12 dicembre 2012

Usa e Manila, una "rinascita"


Un ritorno di fiamma tra due vecchi alleati (Washington e Manila) e un convitato di pietra (Pechino) che da lontano sbuffa e mette in mostra i propri muscoli. L'incontro ai vertici di Stati Uniti e Filippine, tenutosi mercoledì nella capitale dell'arcipelago asiatico, ha avuto lo scopo di cementare i rapporti tra i due paesi in un momento di grandi tensioni per le nazioni della regione Asia-Pacifico, la cui stabilità è continuamente minacciata dalle schermaglie territoriali con il Dragone nel Mar cinese meridionale. Carlos Sorreta, alto funzionario del ministero degli Esteri filippino, ha dichiarato che i due paesi sono molto vicini alla conclusione di un accordo che aumenterà consistentemente la presenza di navi, truppe e portaerei Usa nell'ex colonia.
Un piano di esercitazioni congiunte della durata di cinque anni dovrebbe essere approvato entro questa settimana. Non è chiara l'entità della mobilitazione militare americana sull'isola, ma Pio Lorenzo Batino, vice ministro della Difesa filippino ha affermato che si sono tenute "importanti discussioni" sull'eventuale presenza armata di Washington nel paese del sud-est asiatico: "Non c'è stato ancora nessun accordo specifico" ha spiegato Batino durante una conferenza stampa "si è trattato di consultazioni politiche; i dettagli verranno stabiliti da gruppi tecnici di lavoro".

Meno tiepide le affermazioni di Kurt Campbell, assistente del Segretario di Stato Usa per l'Asia Orientale e il Pacifico, il quale si è pronunciato sulle relazioni con Manila parlando esplicitamente di una "rinascita".
I colloqui con l'alleato filippino coronano un periodo di rinnovato attivismo degli Stati Uniti in Estremo Oriente. Quel connubio di politica estera, economica e di sicurezza in salsa orientale -annunciato in pompa magna da Barack Obama lo scorso anno- che porta il nome di "Pivot to Asia".
Pechino avverte l'assertività americana come una manovra di contenimento ai propri danni e diffida dalle nuove amicizie Usa nella regione. Soprattutto quando si tratta di paesi con i quali da tempo è ai ferri corti per via delle dispute pendenti sul Mar cinese meridionale. Vietnam, Brunei, Filippine, Taiwan e Malaysia hanno messo gli occhi proprio su quelle acque (racchiuso entro la 'linea dei nove tratti' che per il Dragone delimita la propria sfera d'influenza, sino quasi a lambire Singapore), crocevia di rotte marittime tra le più lucrose al mondo ed Eldorado di risorse naturali ed energetiche.

Allarmato forse un po' per le recenti provocazioni dei cugini asiatici, forse un po' per il progressivo spostamento delle truppe americane dal Medio Oriente a quello che considera il proprio giardino di casa,  Pechino è corso ai ripari. A poco meno di un mese dalla sua nomina a Segretario generale del Partito e capo della Commissione Militare Centrale, Xi Jinping, durante un'ispezione presso la guarnigione militare del Guangdong, sabato ha chiamato agli ordini l'Esercito popolare di liberazione spronandolo a portare avanti "i preparativi per una guerra armata". Taciuta l'identità del/i nemico/i, il presidente in pectore ha parlato di "modernizzazione" delle truppe, facendo eco a quanto già espresso dal presidente uscente Hu Jintao durante il Diciottesimo Congresso.

Per Washington il riavvicinamento all'ex colonia non dovrebbe destare le preoccupazioni della Cina.  Non ci sarebbe, infatti, in programma nessuna nuova base militare permanente: l'ultima è stata smantellata nel 1992. Trattasi piuttosto di un allungare la mano ad una popolazione sovente vittima di disastri naturali, come nel caso del il tifone Bopha che ha portato via oltre settecento vite.

Un funzionario Usa, citato dalla Reuters, avrebbe escluso un intervento americano immediato nel Mar cinese meridionale, ipotizzando piuttosto un rinvigorimento dei rapporti di sicurezza con gli amici di lunga data. Le controversie territoriali con la Cina dovranno essere risolte dagli stessi Paesi implicati. Magari grazie a quel Codice di condotta marittimo sul quale gli ultimi vertici Asean (l'Associazione delle nazioni del sud-est asiatico della quale Pechino e Washington sono 'dialogue partners' ) non sono ancora riusciti a trovare un accordo.

(Articoli correlati: Clinton in Asia: gli Usa non cedono sul Pacifico
 La 'guerra dei passaporti' e la 'nuova' politica estera di pechino
Anniversario dell'incidente di Mukden, sale la tensione tra Cina e Giappone)



La Corea del Nord festeggia il lancio del missile

                                    (Dal Telegraph)


(Special news bulletin broadcast at just before 12:05pm local time on December 12, 2012, announcing launch of an Unha 3 rocket carrying a satellite.)


                                    (Da Al Jazeera)

martedì 11 dicembre 2012

Ricchi e poveri, un binomio che spaventa Pechino


In Cina la forbice tra ricchi e poveri ha superato la soglia di rischio (rivolte). Lo rivela una ricerca pubblicata lo scorso 9 dicembre dal Centro Ricerche e Statistiche di China Household Finance, promossa dall'Istituto di Ricerche Finanziarie di People's Bank of China e dalla Southwestern University. Effettuato su 8.438 famiglie, lo studio mostra un coefficiente di Gini -che misura la diseguaglianza del reddito- allo 0,61 nel 2010, con uno 0,56 per i residenti urbani e gli abitanti delle zone rurali che si attestano allo 0,60.

Il coefficiente di Gini calcola il divario di ricchezza su una scala da 0 a 1. Maggiore è il valore, maggiore è l'ineguaglianza tra i redditi. Normalmente un indice al di sopra dello 0,4 contrassegna una forte disuguaglianza; quando arriva a 1 indica che tutte le ricchezze sono nelle mani di una sola persona. La totale riserbatezza adottata da Pechino sulla questione non consente di effettuare un confronto con i dati ufficiali, ma per avere un'idea basta considerare che la media di tutti i paesi monitorati dalla Banca Mondiale (BM) nel 2010 si è attestata allo 0,44. Sempre la BM nel 2005 aveva stimato l'indice per la Cina al 42,48, in questo caso riferendosi ad un scala di valutazione tra 0 e 100. Quanto a Pechino, nasconde i propri numeri dal 2000, quando il coefficiente si piazzò allo 0,412, anche se lo scorso marzo l'ex segretario di Chongqing, Bo Xilai, aveva rivelato una leggera lievitazione sino a 0,46. Nel 2011 l'Ufficio nazionale di Statistica si era tenuto sul vago, accennando ad un leggero aumento del gap tra ricchi e poveri rispetto all'anno precedente, senza rivelare le cifre esatte.

Negli ultimi venti anni il coefficienti di Gini è cresciuto nel Regno di Mezzo più che in qualsiasi altra nazione asiatica, aveva fatto notare a febbraio Murtaza Syed, rappresentante del Fondo Monetario Internazionale in Cina. All'inizio del 2012 il Centro di Ricerca e Statistiche aveva evidenziato che il 57% di tutto il reddito disponibile è detenuto dal 10% delle famiglie cinesi. A livello regionale, secondo il rapporto, l'indice è più alto nei luoghi in cui la concorrenza di mercato è più forte. Il reddito complessivo di tutte le famiglie residenti nelle provincie orientali è risultato circa 2,7 volte quello degli abitanti nelle regioni dell'ovest e del centro del Paese, come sottolinea la rivista economica cinese Caixin. A fare luce sul divario tra famiglie urbane e suburbane sono soprattutto i redditi pensionistici. Nel 2010 solo il 34,5% della popolazione rurale ha beneficiato dell'assicurazione per la vecchiaia, ricevendo 12 milioni di yuan all'anno (poco meno di 2 milioni di dollari), contro l'87% delle città per le quali è stato stanziato un budget annuo di 33 milioni di yuan (circa 5 milioni di dollari). Il rapporto suggerisce che rafforzare i sussidi alle famiglie a basso reddito potrebbe aiutare nel breve periodo a ridurre le disparità.

"In Cina il gap tra provincie, diversi settori, città e campagne è talmente predominante da rendere impossibile ipotizzare un calo del coefficiente di Gini in tempi brevi" ha spiegato Gan Li, direttore del Centro Ricerche e Statistiche, il quale ha anche sottolineato come il problema non potrà essere risolto soltanto attraverso le forze di mercato. Urge, piuttosto, "cambiare la struttura della distribuzione del reddito, basandosi su massicci trasferimenti fiscali". Maggiori entrate fiscali e una quota più rilevante dei profitti delle imprese statali "potrebbero fornire al governo circa 3,8 trilioni di yuan (610 miliardi di dollari) all'anno da spendere per la ridistribuzione del reddito." Nel lungo periodo "la Cina ha bisogno di rinforzare i finanziamenti per l'istruzione e ridurre le disuguaglianze di opportunità per diminuire il divario reddituale". D'altra parte, "un alto coefficiente di Gini è molto comune nei processi di sviluppo rapidi" ha aggiunto Gan.

Nella sua relazione, il Centro Ricerche e Statistiche ha inoltre fatto luce su un preoccupante incremento del tasso di disoccupazione nei centri urbani, passato dall'8% del luglio 2011 all'8,05% dell'anno in corso; circa il doppio rispetto al 4,1% dichiarato dal governo cinese a settembre, valore di poco inferiore al 4,3% riscontrato nel 2009, al culmine della crisi finanziaria mondiale. Ancora più allarmante la situazione dei migranti senza lavoro -estromessi dalle valutazioni ufficiali che risultano pertanto sottostimate- saliti dal 3,4% del luglio 2011 all'attuale 6%. Una bella gatta da pelare per Pechino che si era riproposto di mantenere il tasso di disoccupazione al 4,6% nel 2012. Giusto nelle scorse settimane l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico aveva visto a ribasso le stime per la crescita del 2013 e del 2014. Ad incidere sulla revisione proprio il tasso di disoccupazione, oltre all'andamento poco incoraggiante dell'export cinese che risente della crisi della Eurozona e della stagnazione Usa.

L'allargamento della forbice tra ricchi e poveri rischia di alimentare il malcontento di chi sospetta che i benefici dell'iperbolica crescita economica degli ultimi vent'anni siano andati a gonfiare le tasche dei soliti noti. Le conseguenze potrebbero essere disastrose, alla luce della crescente insofferenza manifestata dal popolo nei confronti della corruzione e dell'ingiustizia dilaganti tra i ranghi del Partito comunista cinese. Situazione alla quale dovrà far fronte Wang Qishan, nominato capo della commissione per la disciplina in seguito al turnover politico sancito dall'ultimo Congresso del Pcc. Secondo Sun Liping, professore di sociologia presso l'Università Tsinghua di Pechino, gli 'incidenti di massa' -termine con il quale Pechino etichetta scioperi, tumulti e proteste varie- sarebbero raddoppiati tra il 2006 e il 2010, raggiungendo almeno quota 180 mila.

In un rapporto di gennaio la Banca Mondiale aveva messo la riduzione delle ineguaglianze sociali in cima all'agenda della nuova leadership del Dragone. Lo stesso presidente in pectore Xi Jinping al suo debutto da Segretario generale aveva posto l'accento sul problema, facendo un uso generoso delle parole "popolo" e "corruzione" nel suo discorso in chiusura del XVIII Congresso.

Il nuovo modello di sviluppo delineato nell'11° Piano quinquennale (2006-2011) doveva comprendere una riduzione del divario reddituale tra città e campagna, nonché una ristrutturazione delle istituzioni sociali nelle aree rurali. In generale, il progetto prevedeva la ricostruzione del sistema di welfare andato in pezzi durante il processo di riforma economica cominciato alla fine degli anni '70. L'amministrazione Hu Jintao-Wen Jiabao, dal canto suo, ha provveduto al supporto dell'istruzione primaria rurale, intraprendendo i primi passi verso un sistema di assistenza sanitaria pubblica nelle campagne, il tutto grazie ad un sostanzioso aumento delle risorse allocate alla creazione del welfare (con budget per i servizi sociali più che raddoppiato nel periodo 2005-2010).
D'altra parte, l'innegabile discrepanza tra gli obiettivi inseriti nei piani di sviluppo e gli strumenti a disposizione si è tradotta in uno scollamento crescente tra quanto promesso dal governo è quanto alla fine realizzato. Da non sottovalutare gli effetti di un potere statale fortemente centralizzato: le decisioni di natura economica sono sostanzialmente nelle mani di chi ne controlla le risorse del Paese, in un conflitto d'interessi che stritola qualsiasi 'democratizzazione economica' e un modello di crescita maggiormente inclusivo. Più welfare e meno slogan vuoti è quanto dovrà somministrare la nuova dirigenza per sanare una delle piaghe più dolenti del Dragone.

Sempre più spesso il legame indissolubile tra grandi conglomerati statali e organi politici è fonte di insoddisfazione popolare, ma anche spunto di riflessione e dibattito tra l'intellighenzia del gigante asiatico. Lo scorso anno il Quotidiano del popolo, 'lingua e gola' del Partito, ha ospitato sulle sue colonne un coraggioso editoriale a firma di Cui Peng: "L'irrazionalità estrema del sistema di distribuzione del reddito non solo ha prodotto il particolare fenomeno di un 'paese forte fatto di povera gente', ma ha fatto sì che tutta una serie di importanti misure essenziali alla trasformazione del modello di sviluppo, come l'ampliamento della domanda interna, siano diventati meri simulacri" scrive Cui "In questo senso ci troviamo davanti ad una sfida oggi simile a quella che abbiamo affrontato trent'anni fa all'inizio della riforma: se vogliamo che lo sviluppo continui, allora è essenziale eliminare dal sistema i difetti e le istituzioni che si sono stratificate in un periodo di tempo molto lungo e dobbiamo essere pronti anche ad affrontare alcuni gruppi di pressione, le cui radici sono molto profonde".

(Pubblicato su Ghigliottina)

giovedì 6 dicembre 2012

Nude contro le violenze domestiche



Il volto deformato in un urlo e il corpo nudo, cosparso di segni rosso sangue. E' una delle foto comparse sulla rete nell'ambito della campagna contro le violenze domestiche lanciata lo scorso 6 novembre da alcune ragazze cinesi. Xiong Jing, 24 anni, web editor e una laurea in studi di genere, ha firmato una petizione online indirizzata all'Assemblea nazionale del popolo (Anp), il 'parlamento' cinese, per chiedere una legge che tuteli le donne anche tra le mura di casa. Una foto senza veli carica di significato il suo messaggio, trasformando il corpo in un 'campo di battaglia'.

"Questa è un'immagine molto potente, qualcosa che infrange un tabù. Spero che possa indurre le persone a riflettere sul rapporto tra violenza domestica e corpo nudo" ha spiegato Xiong al South China Morning Post alcuni giorni fa "ho voluto utilizzare questo approccio per mostrare il mio supporto alla causa femminile e accrescere la consapevolezza sulla violenza alla quale sono sottoposte le donne".

L'iniziativa ha già raggiunto un vasto consenso con oltre 5.000 firme raccolte, ma ci si aspetta di arrivare ad ottenere circa il doppio delle adesioni. Tra le richieste delle firmatarie una maggiore trasparenza del processo legislativo per consentire una più vasta partecipazione della gente comune, un meccanismo giuridico che assicuri la responsabilità (nei confronti delle vittime di abusi) e la concessione di fondi per le Ong che si occupano dei diritti delle donne.

La decisione di ricorrere all'uso del proprio corpo in segno di protesta nasce da una scelta personale; le donne che hanno preso parte alla campagna provengono da ogni parte della Cina e spesso non si conoscono tra loro. Mostrano slogan in inchiostro rosso sul petto, senza provare imbarazzo per il  proprio aspetto fisico. "Orgogliosa di essere piatta; vergogna per le violenze domestiche", "Non picchiarla; ama il mio corpo" e "Liberate la sessualità; eliminate la violenza" sono alcuni dei messaggi espressi dalle firmatarie attraverso la propria nudità.

"All'inizio ero molto impacciata...ma quando ho visto la prima foto di una ragazza dal seno piatto ho pensato fosse veramente coraggiosa a sfidare le critiche in una società dominata dagli uomini. Ritengo sia davvero ammirevole" -ha commentato Dian Dian, una 23enne di Hong Kong che dopo le prime esitazioni ha deciso di mostrarsi senza veli- "l'utilizzo del corpo è un linguaggio potente. Posare svestite potrebbe sembrare irrilevante per il problema della violenze familiari, ma in realtà il nostro corpo è strettamente legato alla lotta."

Dopo essersi scontrati in un primo momento con i censori di Sina Weibo, principale piattaforma di microblogging in salsa di soia, gli scatti senza veli hanno ricominciato ad alluvionare il web cinese con l'aumentare delle adesioni.

Gli ultimi dati ufficiali mostrano che un donna sposata su quattro subisce qualche tipo di sopruso tra le mura di casa. Ma le violenze non si verificano soltanto tra le coppie sposate, come nel caso delle figlie omosessuali sottoposte a stupro per volere dei genitori. Secondo i risultati di un'indagine condotta da All-China Women's Federation -pubblicata dal South China Morning Post nell'ottobre dello scorso anno- nel Regno di Mezzo circa un quarto delle donne ha subito abusi durante il matrimonio, e per più del 5% le violenze familiari sono ancora una realtà di tutti i giorni. Il 24,7% è stato sottoposto ad umiliazioni verbali, abusi sessuali e restrizioni della libertà, perdendo il controllo delle proprie finanze; il 5,5% è vittima di maltrattamenti fisici, con un tasso del 7,9% nelle zone rurali e del 3,1% nelle aree urbane.

Le violenze domestiche vengono spesso ancora ritenute un 'problema di coppia', risolvibile semplicemente attraverso il dialogo tra i coniugi, piuttosto che con il coinvolgimento delle Corti di giustizia. Le autorità competenti stanno ancora lavorando alla stesura di un progetto di legge autonomo che copra nello specifico questi crimini, al momento trattati ancora in maniera superficiale dalla legge sul matrimonio. Sebbene una normativa contro le violenze familiari compaia nell'agenda del Comitato permanente dell'Anp dall'agosto 2011, secondo Feng Yuan, presidentessa di China Anti-Domestic Violence Network, occorreranno ancora due o tre anni perché venga promulgata una legge in materia.

L'iniziativa delle 'petizioniste senza veli', giunge a pochi giorni da un'altra protesta rosa, guidata da una decina di universitarie di Wuhan, nella Cina centrale. La richiesta di informazioni sul proprio ciclo mestruale (oltre ai normali controlli fisici) per poter lavorare nell'amministrazione pubblica ha indignato non solo le candidate, ma anche buona parte della rete. Come può la regolarità del ciclo o la sua entità avere qualche influenza sulla professionalità di un'impiegata? A Xiochun e le altra la cosa non è andata giù e così si sono ritrovate davanti al Dipartimento delle Risorse umane e della Sicurezza sociale per protestare con tanto di mutandoni di carta recanti su scritto l'ideogramma jian (esaminare) barrato in rosso.

Nel mese di giugno era stata la volta delle donne di Shanghai, furibonde per il messaggio pubblicato dalla metropolitana della città sul proprio account Weibo, il Twitter cinese. Sotto alla foto di una ragazza in abiti succinti una didascalia sentenziava: "vestirsi in questo modo renderebbe insolito per una donna non essere molestata. Ci possono essere pervertiti sulla metro ed è difficile allontanarli. Per favore signore abbiate rispetto di voi stesse". Il post scatenò una raffica di commenti, pro e contro il diritto delle donne a scegliere liberamente cosa indossare, anche se estremamente sexy. "Posso essere volgare ma tu non mi puoi molestare" è stata la risposta di una delle passeggere.

Sempre durante l'estate, a Canton le manifestazioni 'femministe' avevano assunto una piega quasi paradossale con l'occupazione dei bagni maschili, a causa del numero irrisorio delle toilette per donne, mentre, in varie parti del paese, una ventina di ragazze si sono rasate i capelli per dire no agli standard discriminatori per l'ammissione universitaria, adottati ufficialmente allo scopo di bilanciare le iscrizioni.

"Le discriminazioni di genere sono molto comuni in Cina e, in un certo senso, anche istituzionalizzate" ha dichiarato al Guardian Geoff Crothall direttore per la comunicazione di China Labour Bulletin, organizzazione non governativa con base ad Hong Kong che si batte per i diritti dei lavoratori cinesi "negli ultimi anni, comunque, si è riscontrata una presenza femminile più massiccia nei gruppi di attivismo sociale per chiedere che le cose cambino".

La situazione giuridica delle cinesi dei nostri giorni -ha affermato tempo fa la nota artista performativa Li Xinmo- può essere paragonata a quella delle donne americane degli anni '70. Abusi sul lavoro e violenze in famiglia; la legge cinese non tutela sufficientemente 'l’altra metà del Cielo', in un paese in cui è assai arduo rinvenire tra le pieghe della storia tracce di un movimento femminista. "In Europa e negli Stati Uniti il femminismo esiste da cinquant’anni, ma in Cina nessuno ha il coraggio di parlare dei diritti delle donne, senza contare che i diritti umani sono ancora un tabù" ha dichiarato Li in un'intervista a margine della mostra "Bald Girls", tenutasi a Pechino la scorsa primavera presso l'Iberia Center of Contemporary Art del distretto artistico 798.
Ma femminismo non vuol dire battaglia dei sessi, né si traduce nell’odio verso la figura maschile, piuttosto – ha dichiarato l’artista – "ciò che bisogna odiare è il maltrattamento delle donne e l’incomprensione mostrata nei loro confronti".

(Pubblicato su Dazebao)

lunedì 3 dicembre 2012

Nuovo missile nordcoreano preoccupa l'Asia


Otto mesi posson bastare? Dopo il fallimentare lancio del vettore Unha-3 (Via Lattea) rimasto in volo poco più di un minuto per poi colare a picco nel Mar Giallo, la Corea del Nord ci riprova. Come reso noto da un comunicato del Comitato coreano per la tecnologia spaziale ripreso dall'agenzia di stampa statale Kcna, tra il 10 e il 22 dicembre Pyongyang procederà al lancio di un nuovo missile a lungo raggio analogo a quello precipitato nel mese di aprile. Secondo le dichiarazioni del governo nordcoreano, il razzo dovrebbe portare in orbita un satellite per l'osservazione terrestre, ma sono in molti a sospettare che dietro lo scopo conclamato si nascondano  piuttosto motivazioni militari. Il nuovo vettore, come il suo sfortunato predecessore, è in grado di portare testate atomiche a migliaia di chilometri, minacciando la costa occidentale degli Stai Uniti, e attraverso la rotta Artica, anche l'Europa.

Dopo i test atomici del 2006 e del 2009, una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu vieta alla Corea del Nord test missilistici o legati ad attività nucleari. Otto mesi fa Washington e Palazzo di Vetro si erano scagliati contro Pyongyang denunciando il test di un nuovo razzo, una versione a tre stadi del missile balistico Taepodong-2, il quale avrebbe un raggio d'azione tra i 3 mila e i 10 mila chilometri. Al tempo la Casa Bianca reagì allo sfoggio di muscoli di Pyongyang sospendendo gli aiuti alimentari e non è da escludere che la nuova provocazione sia soltanto un bluff con lo scopo di aprire i negoziati per la ripresa degli aiuti umanitari internazionali; indispensabili ad arginare il problema delle carestie che affligge il popolo nordcoreano da quando, con il crollo dell'Unione Sovietica, è rimasto orfano del benefattore russo.

Ma molte altre sono le motivazioni che potrebbero aver riacceso l'entusiasmo della Nord Corea per le 'missioni spaziali'. Le date previste per il lancio, oltre a coincidere con l'anniversario della morte di Kim Jong-Il (17 dicembre), padre dell'attuale leader nordcoreano Kim Jong-Un, cadono in concomitanza delle elezioni della Corea del Sud, in agenda per il 19 del mese. Il ministero degli Esteri sudcoreano ha bollato l'iniziativa del vicino di casa "un grave atto provocatorio", contrario alla risoluzione delle Nazioni Unite. Nel corso di un conferenza stampa, il numero uno di Seul, Lee Myung-Bak, ha chiarito che le nuove manovre della Corea del Nord non influenzeranno le presidenziali sudcoreane. "Questa non è la prima volta che la Corea del Nord tenta di distruggere la nostra transizione politica" ha affermato Lee, il quale ha anche invitato il leader in pectore cinese, Xi Jinping, a stringere il guinzaglio al 'caro alleato' che con lo sviluppo di armi nucleari rischia di destabilizzare l'intera regione.

Più cautela sui test missilistici è, invece, quanto consiglia Taiwan in una nota rilasciata dal Ministero degli Esteri che invita Pyongyang a "contribuire a mantenere la pace e la stabilità nella penisola coreana e nell'Asia Orientale, in linea con le normative in materia stabilite dalla risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu 1874." L'alt è arrivato anche da Mosca e Washington, che per bocca della portavoce del Dipartimento di Stato Victoria Nuland ha definito la decisione della Nord Corea "una grave provocazione che minaccia la pace e la sicurezza della regione".

Non si è perso in chiacchiere Tokyo: la marina militare giapponese ha già provveduto a trasferire una batteria di missili Patriot Advanced Capability-3 (Pac-3) verso la prefettura di Okinawa, la più a rischio per la prevista traiettoria del missile, mentre il Ministro della Difesa, Satoshi Morimoto, nella giornata di sabato ha emesso l'ordine di intercettare il razzo nordcoreano e, se necessario, abbatterlo. Il Giappone ha, inoltre, annunciato il rinvio dei dialoghi con l'interlocutore nordcoreano, che si sarebbero dovuti tenere mercoledì e giovedì nella capitale cinese.

Pericolo anche oltre la Grande Muraglia. Secondo quanto riportato dal quotidiano taiwanese Want China Times, un funzionario di Seul intervistato dall'agenzia di stampa sudcoreana Yonhap, avrebbe messo in guardia Pechino rivelando che i missili a nord del 38° parallelo minacciano la sicurezza nazionale della Cina: proprio il nuovo vettore è stato sistemato nella base di lancio Dongchang-ri, nel nord-ovest, a pochi chilometri dal confine con l'Impero di Mezzo. "Non ha importanza se l'Unha-3 porta un razzo o un satellite" ha affermato il funzionario che ha chiesto di rimanere nell'anonimato "ciò che conta è il fatto che il missile possa essere utilizzato per scagliare testate nucleari contro i paesi vicini, ed è pertanto da considerarsi una minaccia per la sicurezza cinese".

Nel corso di una conferenza stampa tenutasi il 2 dicembre, il portavoce del Ministero degli Esteri cinese, Qin Gang, ha dichiarato che Pechino riconosce il diritto di Pyongyang ad un uso pacifico dello spazio esterno, ma che tale uso debba essere 'armonizzato' con le restrizioni stabilite dal Consiglio di Sicurezza dell'Onu. "Speriamo che tutte le parti interessate agiscano in modo da assicurare la pace e la stabilità nella penisola coreana e mi auguro che risponderanno con calma in modo da evitare l'aggravarsi della situazione" ha affermato Qin. Apparentemente, l'alleato cinese era stato informato del nuovo lancio alcuni giorni fa, durante l'ultima visita a Pyongyang di Li Jianguo, vice presidente dell'Assemblea Nazionale del Popolo, come riporta Want China Times.

E mentre ormai sulla rampa è già stato istallato il primo stadio del missile intercontinentale, rimangono molti dubbi sul fatto che gli scienziati nordcoreani possano essere riusciti, in soli otto mesi, a correggere i difetti che in aprile fecero fallire il primo lancio. Così come altrettante incertezze permangono sul fatto che Pyongyang sia disposto a rischiare di perdere nuovamente la faccia, oltre a ricevere la condanna delle Nazioni Unite e altre pesanti sanzioni.

(Pubblicato su Dazebao)

domenica 2 dicembre 2012

Meno parole, più azioni per smuovere la Cina


La Cina ha bisogno di 'farsi sentire' rimanendo con i piedi per terra. Quello del Global Times, tabloid in lingua inglese, costola del filogovernativo Quotidiano del Popolo, è un consiglio preso a prestito dal nuovo Segretario del Partito e futuro presidente Xi Jinping. "I discorsi vuoti sono inutili, solo il duro lavoro può promuovere il rinnovamento della nazione" ha sentenziato il leader in pectore durante un discorso tenuto il 29 novembre presso il Museo Nazionale Cinese mentre era in corso la mostra "La strada verso il rinnovamento". Il concetto è stato rielaborato dal quotidiano-bulldozer, il quale si è espresso con preoccupazione sul progressivo allontanamento del popolo cinese dal proverbiale pragmatismo che da sempre lo contraddistingue. Letteralmente: "la Cina un tempo era un paese di 'facitori', ma ora sta diventando un paese di 'chiacchieroni'. Questo vuol dire che se discutere, di per sé, è sintomo di democrazia, discutere troppo può condurre la patria nella trappola della democrazia. I Paesi occidentali sono da sempre i più grandi venditori di parole, fattore che suscita molte invidie tra i cinesi". Pertanto occorre trovare un equilibrio tra 'parole' e 'azioni' -prosegue il Global Times- e sopratutto far si che internet, megafono del popolo (nel Regno di Mezzo più che altrove), eserciti un potere positivo, facendo progredire la Cina. Nel corso degli ultimi trent'anni le riforme sono avvenute a porte chiuse, senza la partecipazione dell'opinione pubblica. Oggi sono stati fatti molti passi avanti, ma continua ad esserci chi propone richieste idealiste, cercando di sfruttare la vox populi a proprio vantaggio invece che per risolvere i problemi del paese. A questo punto i 'facitori' debbono ingegnarsi se vogliono che la loro voce venga ascoltata; in caso contrario le azioni volte a promuovere la democrazia e l'uguaglianza avranno effetti opposti. Un tempo i discorsi vuoti erano prerogativa dei funzionari, adesso, invece, riempiono la bocca dell'opinione pubblica. Non siamo contro la vivacità del dibattito e il pluralismo delle idee ma, quando le parole diventano più pesanti delle azioni e quando la società viene addomesticata a suon di slogan seducenti, il rischio è quello che il paese intraprenda una strada sbagliata. La Cina ha bisogno di una modernizzazione a tutto campo e di un pluralismo di idee. Ma la Cina ha anche bisogno di restare con i piedi per terra.

(Articolo integrale: China needs more action, less talk)

Hukou e controllo sociale

Quando nel 2012 mi trasferii a Pechino per lavoro, il più apprezzabile tra i tanti privilegi di expat non era quello di avere l’ufficio ad...