sabato 23 aprile 2016

Rassegna: Dispacci dalla Silk Road Economic Belt


Secondo fonti del Financial Times i primi progetti dell'AIIB saranno in Asia Centrale. Si tratta nello specifico di un'autostrada in Pakistan, una superstrada tra la capitale tagica Dushambe e il confine con l'Uzbekistan, e un anello stradale ad Almaty, in Kazakistan. L'istituto si unirà all'ADB nel finanziarie una strada tra Shorkot e Khanewal (Pakistan). Come fa notare il Diplomat, in Pakistan l'ADB ha modificato i termini del progetto per permettere l'ingresso dell'AIIB. In Tagikistan affiancherà l'European Bank for Reconstruction and Development (EBRD) e in Kazakistan la World Bank e l'EBRD. In tutti i progetti la banca a guida cinese sarà complementare agli altri enti e non sostitutiva. (Diplomat)

Già entro l'anno, l'Asian Infrastructure Investment Bank finanzierà progetti di sviluppo per un valore di 1,2 miliardi di dollari, di cui una "quota considerevole" (quasi una dozzina) in joint venture con la Banca Mondiale. Acqua, energia e trasporti i settori interessati, Asia Centrale, Meridionale e Orientale le aree coinvolte (SCMP)

E' partito venerdì 15 da Dongguan (provincia dal Guangdong) il primo treno diretto a Duisburg (Germania). L'arrivo è previsto in 19 giorni, 15 in meno rispetto a quanto impiegato dalla tratta marittima. La linea ferroviaria -la più lunga in assoluto tra Cina ed Europa- passa attraverso Russia, Bielorussia e Polonia. (People's Daily)

Cina e Commissione Europea hanno ultimato i lavori tecnici che permetteranno a Pechino di convogliare negli European Fund for Strategic Investments una cifra pari a 5-10 miliardi di euro attraverso il Silk Road Fund. La Cina è il primo paese esterno all'Unione Europea ad annunciare il suo contributo al piano Juncker, ed è anche in assoluto quello che per il momento ha stanziato la cifra più alta. (EuroActive)

I lavori preliminari per la costruzione della rotta orientale del gasdotto Cina-Russia sono giunti a conclusione. Entro fine agosto Mosca dovrebbe approvare le ultime modifiche al design. Lo scorso anno, Pechino aveva cominciato ad erigere la propria parte a Heihe, nello Heilongjiang, (Xinhua)

Potrebbe essere la cinese State Power Investment Corporation ad assumere la guida dei progetti idroelettrici lungo il fiume Naryn (Kirghizistan), un tempo di competenza della russa Inter RAO UES. Il cambio, motivato dai ripetuti ritardi, lascerà Bishkek con 37 milioni di dollari di debiti (Eurasia.net)

Se si affronta "il terrorismo con un doppio standard, ci saranno gravi conseguenze non soltanto per i nostri due paesi, ma anche per la comunità internazionale nel suo insieme". A dirlo è stata il ministro degli Esteri indiano, Sushma Swaraj, in occasione di un incontro con gli omologhi di Cina e Russia tenutosi lunedì a Mosca. Il commento si innerva sulle proteste indiane seguite all'imposizione del veto con cui Pechino ha bloccato in sede Onu il riconoscimento di Masood Azhar (capo di Jaish-e-Mohammad) come terrorista, probabilmente, per non dispiacere Islamabad (Ndtv). Intanto durante una visita del ministro della Difesa indiano a Pechino, i due paesi hanno annunciato i lavori per l'istituzione di una hotline tra le rispettive forze armate con lo scopo di ridurre le schermaglie lungo il confine. (Reuters)

La Cina comincerà ad incoraggiare l'utilizzo della rotta Artica sfruttando ciò che di buono c'è nel riscaldamento globale: ovvero lo scioglimento dei ghiacci. Il Passaggio a Nordovest permette di tagliare i tempi di percorrenza da Shanghai ad Amburgo di 2800 miglia nautiche. Proprio questo mese la Maritime Safety Administration ha rilasciato una guida di 365 pagine in cinese che offre una guida dettagliata della rotta dalle coste del Nord America al Pacifico settentrionale. (Reuters)

I lavori per il progetto petrolifero di Kashagan, Kazakistan, cominceranno nel 2017. Lo ha reso noto in settimana la statale China National Petroleum Corporation. (Reuters)




Hong Kong si dà al Prono, la Cina sbircia


Luci soffuse, kimono, tappetini di bambù e corde. Sono le armi del mestiere del bondage erotico giapponese con cui Tracy Wong e gli animatori del collettivo culturale Goooood Secrets hanno aperto le danze dell'Orgasmo Festival 2016, una prima assoluta per Hong Kong.

Lo scorso 2 aprile circa un centinaio di giovani compresi tra i 20 e i 30 anni si sono riuniti in un piccolo teatro per ammirare l'esibizione della poco conosciuta arte del shibari-kinbaku. Giusto un assaggio di quanto seguirà nei prossimi giorni e che - dopo le esibizioni danzerecce della coreografa francese Alice Rensy - dovrebbe culminare il prossimo 14 maggio nella proiezione di una pellicola a luci rosse per cui è attesa la presenza di circa 1000 persone. La location è segretissima, il costo: 200 dollari di Hong Kong, di cui metà da devolvere alla ricerca contro l'AIDS.

«Chi ha detto che i film che trattano di sesso non sono dei buoni film? È arrivato il momento di aprire il dibattito sul sesso», si legge nel comunicato di apertura dell'evento. Nei piani di Goooood Secrets, il festival punta a restituire dignità al cinema erotico asiatico. «Negli anni '90 la nudità sullo schermo non faceva tanto clamore, ma oggi i film di categoria III (ovvero vietati ai minori) sono considerati scandalosi», racconta Tracy al South China Morning Post, sottolineando che lo scopo dell'evento è sopratutto quello di spostare la fruizione del porno dal solitario smanettamento su internet al dibattito pubblico. Hong Kong è molto meno aperta di quanto non sembri, spiega.

Secondo le leggi locali, la pornografia è illegale solo quando venduta a o condivisa con minori di 18 anni, se mostrata in pubblico (eccezion fatta per l'esposizione in gallerie e musei), o se commerciata senza richiami «facilmente visibili» a contenuti offensivi e non distribuibili ai minori. Lo scorso luglio, 75mila dvd a luci rosse sono stati triturati dagli pneumatici dei blindati della polizia hongkonghese in «un'esecuzione pubblica» ripresa dall'Associated Press.

Nonostante la portata quasi «storica» che gli organizzatori attribuiscono all'evento, l'Orgasmo Festival sarebbe tranquillamente potuto rimanere relegato nelle colonnine dei rotocalchi locali se non avesse attirato l'attenzione di tal Wei Xi, giornalista del Global Times, spinoff del Quotidiano del Popolo, la testata che più di ogni altra viene considerata bocca, lingua e gola del Partito comunista cinese. Un giornale che viene spesso associato alle invettive caustiche contro l'Occidente e ai suoi elogi sperticati delle politiche firmate Xi Jinping, anche quando caratterizzate da sottili sfumature liberticide e spinte conservatrici. Strano, dunque, che il tabloid stavolta si sia astenuto dai consueti giudizi tranchant per dare invece voce alle aspirazioni «pornorivoluzionarie» di Goooood Secrets. Lo ha fatto con sobrietà, ma l'ha fatto.

Intendiamoci, la Cina è tutt'altro che un Paese puritano come vorrebbero i suoi leader. O meglio, lo è in superficie, mentre dietro le quinte si nasconde una società che fatica a conciliare la sfera pubblica, dominata dalla ferrea disciplina confuciana, con quella privata, in cui prevale la celebrazione taoista degli impulsi naturali, della fisicità e dell'irrazionale.

A livello pratico troviamo da una parte il rigore delle istituzioni, con le cicliche campagne di pulizia informatica che lo scorso febbraio hanno portato alla chiusura di 200 siti e oltre 6000 account per pornografia, terrorismo e altre attività ritenute illegali; un rigore che riscuote consensi a livello famigliare (la famiglia è la colonna portante della società, diceva Confucio), come dimostra il progetto Mum Judges, sito gestito da mamme-sentinelle incaricate di riportare alle autorità i contenuti osceni rilevati sulla base delle segnalazioni online dei netizen.

Dall'altra, c'è la trasgressione del privato. È lontano dai riflettori che avviene la riscoperta del «Tao», nei club delle megalopoli dove luci basse e alcol di scarsa qualità ispirano intrecci di lingue, baci saffici, palpate e tutto ciò che meno ci si aspetterebbe di vedere nell'ex patria dell'erotismo come patologia della «decadenza borghese e capitalista» (Mao Zedong).

Perché malgrado tutto, la Cina della censura spietata e della campagna antistravaganze è anche quella che vede decollare dating app quali Momo, 100 milioni di utenti nel 2014 di cui buona parte animati da desideri di natura scopereccia. È la «fabbrica del mondo» che con oltre 1.000 stabilimenti operanti su suolo nazionale conta per l'80 per cento della produzione mondiale di sex toy e annovera una serie di iniziative imprenditoriali «piccanti» tutte rigorosamente al femminile.

Se fino al 1997 il sesso prima del matrimonio veniva ritenuto illegale, una ricerca condotta dalla sessuologa Li Yinhe dimostra che il numero dei ragazzi ad aver fatto esperienze prima delle nozze è salito dal 15,5 per cento del 1989 al 71 per cento di due anni fa.

L'anno di partenza non è casuale. C'è tutta una scuola di pensiero che individua nel massacro di Tian'anmen una data spartiacque per la liberalizzazione dei costumi, in coincidenza con la necessità avvertita dalla leadership di trovare un più indolore sfiatatoio davanti alle crescenti richieste delle nuove generazioni. Quelle che sulla scia delle riforme e dell'apertura cominciavano ad ambire alle stesse libertà dei loro coetanei occidentali. A reclamare una rivalutazione del corpo inteso non più come la parte più infima dell'Io, ma come la diretta espressione dell'individuo dopo decenni di collettivismo maoista. Sino agli anni '80 la pubblicazione di contenuti pornografici poteva facilmente costare la pena capitale, ora male che va si finisce con le manette ai polsi. È già qualcosa (si scherza).

Ma torniamo al Global Times. Nella Repubblica popolare la stampa, pur essendo strettamente controllata dall'alto, non di rado riesce a prendere vie traverse spingendo il dibattito pubblico ai limiti del consentito. D'altronde, se l'omosessualità - rubricata tra le malattie mentali fino al 2001- risulta ormai un topic di cui si può parlare persino in una corte di giustizia, lo dobbiamo proprio grazie al lavoro portato avanti in questi anni dai mass media. Nel 2011 era stato il China Daily ha prodursi con un pezzo bonario sul Gay Pride. Magari il Global Times ha già inconsapevolmente creato un precedente per le tematiche osé. O magari, come spesso accade, nel giro di qualche ora ogni traccia dell'Orgasmo Festival verrà ripulita dal web cinese come se nulla fosse.

(Pubblicato su China Files)

mercoledì 20 aprile 2016

Sicurezza dello stato e propaganda animata


Sei straniero, vivi in Cina e ami adescare le ragazze locali con doni e lusinghe. Se sì, allora potresti essere una spia. È quanto emerge da sedici fumetti formato cartellone spuntati lo scorso 15 aprile nel quartieri centrale di Xicheng, a Pechino, con il titolo eloquente di «Dangerous Love». La data non è casuale dal momento che proprio venerdì scorso è stato lanciato il National Security Education Day, giornata dedicata alla sensibilizzazione dei cittadini verso la sicurezza nazionale.

Le vignette che compongono la storia (tradotte da China Translate Law) raccontano la parabola di Xiao Li, una giovane impiegata nell'amministrazione pubblica che sedotta da David, un ricercatore universitario di un imprecisato paese, finisce per consegnargli dei documenti sensibili credendo di aiutarlo nella sua ricerca accademica. Solo l'intervento della polizia svelerà la vera identità della spia David, spezzando il cuore a Xiao Li.

Come spiegato dal governo distrettuale in un comunicato, il poster serve sopratutto a educare i dipendenti a mantenere riservate le informazioni segrete e a segnalare alle agenzie di sicurezza eventuali attività di spionaggio. L'iniziativa - che non serve dirlo ha suscitato l'ilarità della rete - si inserisce in una più ampia «vocazione pop» della (ormai neanche più tanto) nuova leadership cinese.

Sempre in occasione del 15 aprile, il ministero della sicurezza dello stato ha rilasciato cinque cartoni animati con lo scopo di rendere più accessibile la comprensione popolare di due controverse leggi: la Counter-Espionage Law (del 2014) e la National Security Law (introdotta lo scorso luglio) che - insieme alla Counter-Terrorism Law e ad una legge sulle no profit straniere ancora al vaglio dei legislatori - formano lo «scudo spaziale» con cui Pechino spera di difendere l'integrità nazionale dalle minacce interne ed esterne.

Prendendo in prestito alcuni tra i più noti supereroi, uno degli episodi (video in cinese) trasmessi dalla Cctv insegna a identificare le spie nella vita di tutti i giorni. «Oltre alle forze speciali, come l'Fbi e la Cia, si potrebbe pensare che siano spie anche Superman, Batman, Iron Man, l'Uomo Ragno e Capitan America», scandisce la voce narrante. «Ma, in realtà, anche all'estero lo spionaggio costituisce soltanto una minima parte della sicurezza nazionale. Quelli che difendono la sicurezza [del proprio paese contro la Cina] non sono uomini muscolosi con i superpoteri».

Alla voce di sottofondo si aggiungono le immagini degli eroi in lacrime associati ai caratteri cinesi per «licenziato», «disoccupato» e «pensionato» a suggerire che soltanto i cittadini scontenti e gli stranieri rappresentano un elemento di destabilizzazione sociale. Un richiamo particolarmente azzeccato alla luce del crescente malcontento popolare che cova sotto le ceneri della «nuova normalità», il paradigma di crescita medio-alta con cui si cercano di giustificare licenziamenti e riduzione degli stipendi nell'ambito di una più ampia ristrutturazione economica.

I video - che vantano anche «l'arresto» di Joker e un cameo di Hitler- non chiariscono, tuttavia, il concetto di «sicurezza nazionale» né quella di «segreto di Stato», un termine che abbraccia un vasto assortimento di informazioni riservate, dagli indici della produzione industriale alla data di nascita degli alti papaveri.

Il Tredicesimo Piano Quinquennale (2016-2020) approvato dal Parlamento lo scorso marzo comprende un capitolo interamente dedicato alla «Costruzione di un Sistema di Sicurezza Nazionale», curato dall'apposita National Security Commission; uno dei tre gruppi di lavoro presieduti dal presidente Xi Jinping, che gli osservatori ritengono ormai concorrente (in termini di accentramento del potere) al ministero della Sicurezza dello Stato in violazione alla tradizionale separazione dei ruoli tra Partito e agenzie statali.

Mentre la Cina ha un ragguardevole passato di sentenze impietose in merito alla divulgazione di notizie sensibili (giustappunto martedì un tecnico informatico del Sichuan è stato condannato alla pena di morte per aver reso pubblici oltre 150mila documenti riservati), da qualche tempo va ampliandosi la gamma degli episodi inerenti alla diffusione di informazioni top secret e a comportamenti lesivi per l'ordine pubblico.

Sempre più spesso Pechino cerca di giustificare l'incarcerazione di attivisti, avvocati e dissidenti, chiamando in causa un'indefinita «minaccia alla stabilità dello Stato», come avvenuto per Peter Dahlin, il cittadino svedese arrestato - e infine espulso dalla Cina - a causa delle presunte attività criminali portate avanti dalla Ong da lui fondata, la China Action. Minimo comune denominatore degli ultimi casi: l'accusa di provocare disordini, la diffusione di notizie false e tendenziose, i soldi che arrivano dall'estero lasciando supporre un complotto di «forze ostili» e l'influenza di fattori esogeni. Una versione poco convincente anche - e soprattutto - quando corredata da strampalate autocritiche a telecamere accese.

È così che la versione animata delle nuove politiche securitarie ha prodotto reazioni contrastanti. «Diretta, facile da comprendere e vicina al popolo» per qualcuno, semplicemente ridicola per qualcun'altro. «Anche io voglio denunciare un report! Secondo alcuni giornali stranieri, molte spie stanno trasferendo i nostri asset nazionali all'estero», scrive un blogger ironizzando sulle fortune occulte dei leader cinesi scoperchiate dai Panama Papers.

(Pubblicato su China Files)

lunedì 18 aprile 2016

Cina: 3 milioni di mazzette possono costare la pena di morte


Sì alla pena di morte per corruzione. A patto che la cifra intascata dai trasgressori ammonti ad almeno 3 milioni di yuan (463mila dollari). E' quanto stabilito lunedì dalla Corte Suprema del Popolo, la massima autorità giudiziaria della Repubblica popolare cinese. Azioni avvenute in "circostanze estremamente gravi e che abbiano causato un impatto sociale ignobile, nonché perdite significative allo Stato e all'interesse pubblico possono essere sanzionate con la pena capitale", spiega l'agenzia statale Xinhua, chiarendo che, comunque, la sua applicazione rimane soggetta alla discrezionalità dei tribunali - sotto il controllo del Partito unico.

Mentre l'esecuzione era già opzionabile in caso di corruzione, tuttavia la nuova soglia di 3 milioni di yuan risulta, ben più alta rispetto a quella dei 100mila yuan stabilita nel 1997 e abolita lo scorso anno. L'intento è quello di punire la corruzione "con severità e in accordo alla legge", recita la Xinhua. Sempre lunedì, la stampa cinese ha inoltre annunciato che quanti ritenuti responsabili di gravi infrazioni della disciplina, o eventualmente condannati all'ergastolo, non potranno più essere rilasciati su cauzione, una condizione fino ad oggi possibile in caso di buona condotta del detenuto.

Da quando il presidente Xi Jinping ha assunto la guida del Paese, il Partito è stato falcidiato da una serie di arresti più o meno eccellenti mirati a ripulire la gerarchia comunista di tutti gli elementi "dissoluti", dall'ex zar della Sicurezza interna Zhou Yongkang ai vari quadri locali. 300mila le persone finite dietro le sbarre solanto nello scorso anno; 82mila quelle sottoposte a sanzioni pesanti come il demansionamento o l'espulsione dal Partito. Tra questi compaiono i nomi di 16 alti dirigenti e 22 ex ufficiali di livello ministeriale o superiore.

Sinora, i casi più gravi si sono conclusi con la pena di morte sospesa - che normalmente viene commutata in ergastolo dopo due anni-, come avvenuto con l'ex ministro delle Ferrovie Liu Zhijun, condannato nel 2013 per aver incassato 60 milioni di yuan in mazzette. La pena capitale è stata sostituita in reclusione a vita lo scorso anno.

Storicamente sostenuta dalla scuola Legista, ma stemperata dai Confuciani, la pena di morte è stata incoraggiata sotto il Comunismo da Lenin, per poi venire severamente osteggiata da Marx ed Engels come riflesso di una società "feudale" e simbolo dell'"oppressione capitalista". Per Mao era necessaria in una fase transitoria, ma la si doveva applicare soltanto contro un numero limitato di controrivoluzionari. Addirittura Deng Xiaoping si oppose ad una sua abolizione chiedendo che venisse comminata senza pietà contro i recidivi e i corrotti.

A partire dal 2007, Pechino ha tentato di ridurre il numero delle esecuzioni richiedendo l'approvazione della Corte suprema caso per caso. Tuttavia, rimangono ancora 55 i reati punibili con la morte, un numero molto alto per gli standard internazionali. Sebbene non vengano rilasciate statistiche ufficiali (ritenute "segreto di Stato"), si crede che il gigante asiatico mandi a morte più persone di tutto il resto del mondo messo insieme. E, secondo un sondaggio del China Youth Daily,
lo fa con il beneplacito del 73 per cento della popolazione.

Alibaba promuove il vino italiano, ma è un miraggio


«Marco Polo ha impiegato 8 anni per andare e tornare dalla Cina. Con internet possiamo impiegare 8 secondi». Non avrebbe potuto trovare parole più efficaci Jack Ma, il fondatore del colosso cinese dell'e-commerce Alibaba, intervenuto al fianco del premier Matteo Renzi in occasione della 50ª edizione del Vinitaly di Verona. Una delle fiere vinicole più prestigiose al mondo. L'obiettivo è quello di portare le vendite di vino italiano dal 6 al 60 per cento del totale delle bottiglie distribuite sulla piattaforma online, la cui costola B2C (business to consumer) Tmall conta già oltre 90 brand nostrani.

«I cinesi sono appassionati di tutto ciò che è italiano e Alibaba vuole diventare una porta d'accesso per i brand e le piccole imprese italiane in Cina», ha scandito il secondo uomo più ricco della Repubblica popolare, annunciando la nascita di un evento ad hoc per incrementare le vendite online di vino: ilWine and Spirits Festival, o meglio il 9/9. Un nome che gioca sull'assonanza della data dell'evento (il 9 settembre) e la parola «vino» che in cinese si pronuncia «jiu», proprio come il numero nove. La speranza è quella di eguagliare il successo riscosso dall'11/11, la festa dei single che in Cina cade l'11 novembre e viene celebrata con spese pazze in grado di far impallidire il Black Friday americano. Le cantine si sfregano le mani.

I vini italiani rappresentano soltanto il 5 per cento delle importazioni cinesi, per un valore di 1,8 miliardi di euro. Numeri che piazzano l'Italia al quinto posto dopo Francia, Australia, Spagna e Cile; al sesto se si considerano le vendite sul mercato di Hong Kong. Questo sopratutto a causa delle risorse ristrette dei produttori italiani - perlopiù imprese a conduzione famigliare- che complicano la penetrazione in mercati complessi come quello cinese. Secondo il rapporto annuale del Wine Monitor, su un totale di 55mila aziende nazionali, l'85 per cento produce meno di 10mila bottiglie. E dei 5,4 miliardi ricavati dall'export italiano nel mondo solo 87 milioni finiscono in Cina.

«L'unica opportunità che le piccole imprese hanno di tenere testa alla competizione globale è quella di digitalizzarsi», ha dichiarato Renzi, definendo la situazione italiana attuale in linea con gli obiettivi di export prefissati: vale a dire raggiungere entro il 2020 un fatturato all'estero di 50 miliardi di euro per l'intero food Made in Italy e di 7,5 per il solo vino. Ma si fa presto a dire digitalizzazione. La realtà dei fatti è molto più complessa.

«La Cina non è per tutti», non solo per via dell'annoso braccio di ferro sui dazi UE. A pensarlo èMassimo Ceccarelli, esperto di wine market, redattore del Corriere Vinicolo e fondatore dell'associazione culturale Eyes on China. Secondo Ceccarelli, un mix di fattori ostacola la penetrazione delle etichette italiane nel mercato cinese e non sarà Alibaba a risolvere il problema.

Cominciamo dai costi. «Il prezzo italiano medio per bottiglia è molto basso, più basso rispetto a quello di Francia, Australia e simile a quello del Cile, che però non ha problemi di dazi. Quindi possiamo anche crescere con il numero di bottiglie esportate ma se il prezzo medio è 2,7 dollari vuol dire che stiamo vendendo entry level. Il vino italiano tra i 3 euro e i 10 euro ex cellar price (ossia il prezzo per bottiglia che un importatore cinese paga) soffre tremendamente ad imporsi sul mercato cinese. I cinesi non prendono sul serio vini italiani che costino meno di quelli cileni».

L'Italia è penalizzata dalla sua ricchezza, continua Ceccarelli. «La Francia, invece, ha poche denominazioni di origine tutte riconoscibili sotto grandi nomi che identificano un territorio:Bordeaux, Borgogna, Champagne. Puoi fare anche un Bordeaux che fa schifo, ma quello si chiama Bordeaux e vince già soltanto perché ha dietro un marchio riconoscibile e una storia centenaria».

E' una questione di uvaggi. «Nel mondo si è imposto un gusto internazionale riferibile ad alcuni uvaggi che danno risultati omogenei un po' in tutti i paesi: Merlot, Sirah, Cabernet, Sauvignon, Chardonnay... Sono uvaggi, ma in un certo senso sono brand. Perché un cinese sa cosa troverà dentro una bottiglia di Cabernet Sauvignon che viene dalla Francia, dal Cile, dall'Australia o da qualsiasi altro paese che produce vino. Noi invece siamo il paese con la più grande ricchezza ampelografica al mondo ma veniamo penalizzati proprio per questo. Ci sono centinaia di doc che ai cinesi non dicono nulla, per cui, se si trovano davanti un Merlot o un Cesanese, al 99 per cento sceglieranno il Merlot».

Discorso diverso vale per i pesi massimi come il Prosecco. «Loro sì che hanno prospettive. Innanzitutto sono un marchio riconoscibile e hanno i giusti ingredienti per piacere al mercato cinese: un ottimo rapporto qualità prezzo, producono grandi quantità e sopratutto hanno soldi da investire».

Cosa consigliare ai pesi piuma? Inutile andare oltre la Grande Muraglia. I margini sulla vendita di bottiglie da 4 euro sono troppo scarsi rispetto ai 10-15mila euro necessari alla promozione online o all'organizzazione di una fiera. «Nei prossimi 10 anni ci sarà l'esplosione dei vini del Ningxia(provincia autonoma nord-occidentale, ndr), che inonderanno il mercato interno. Per cui, se dovessi consigliare uno sbocco a un produttore italiano medio-piccolo, non consiglierei certo la Cina. Piuttosto, bisognerebbe utilizzare il vino come attrazione per far venire i turisti cinesi in Italia. Ecco il vero business. Altro che vendere qualche migliaio di bottiglie. Conviene molto di più investire per l'incoming di turisti cinesi».

(Pubblicato su China Files)












giovedì 14 aprile 2016

Bank of China nel mirino di Bankitalia


Secondo un'esclusiva della Reuters, la Banca d'Italia starebbe effettuando ispezioni in loco nelle varie sedi italiane di Bank of China, l'istituto di credito statale da alcuni anni al centro di indagini per aver facilitato presunti flussi di denaro illecito tra il Belpaese e la Repubblica popolare. Si parla di 297 persone coinvolte (sopratutto cinesi) e oltre 4,5 miliardi di euro tra il 2006 e il 2010, parte dei quali incanalato attraverso l'operatore di money transfer Money2Money. Le vicissitudini italiane arricchiscono il quadro minuziosamente tratteggiato da una recente inchiesta di Ap, che individua nella Cina la capitale mondiale del riciclaggio.

Da alcuni giorni l'Unità di Informazione Finanziaria (Uif), l'intelligence finanziaria di Bankitalia, sta passando al setaccio gli uffici italiani della Bank of China, una delle «big four», le quattro principali banche statali della Repubblica popolare. Secondo una fonte della Reuters, la task force si sarebbe mobilitata sulla base dell'inchiesta «Fiume di denaro» rilanciata dalla procura di Firenze a un anno dal rogo alla fabbrica Teresa Moda di Prato con lo scopo di tracciare i flussi illeciti tra l'Italia e la Cina. Si parla di 297 persone coinvolte (per cui è stato chiesto il rinvio a giudizio lo scorso giugno), e oltre 4,5 miliardi di euro trasferiti illegalmente oltre la Muraglia tra il 2006 e il 2010.

Parte dell'indagine fiorentina si focalizza sui rapporti tra Bank of China e l'operatore di money transfer Money2Money, un'agenzia di Bologna (non più attiva) specializzata nello spostamento di somme irrisorie per conto della comunità cinese italiana, in particolare quella residente nel distretto di Prato e Firenze. Piccoli numeri che sfuggivano al fisco, ma che presi tutti insieme diventavano miliardi.

L'ipotesi è che l'agenzia si servisse di cosiddetti «nominativi zombie» - cioè cinesi ignari di essere finiti nel giro - o prestanome del tutto consapevoli, per spezzettare grandi quantità di denaro in mano a imprenditori, sempre cinesi, e trasferirle quindi nella Repubblica popolare. Una fortuna racimolata perlopiù attraverso la contraffazione, l'immigrazione illegale e l'evasione fiscale, di cui circa la metà (2,2 miliardi di euro) pare sia passata proprio attraverso la filiale milanese di Bank of China.

Non è ancora ben chiaro se ci sia un legame tra l'agenzia di Milano e la casa madre in Cina. Tuttavia, l'istituto di credito era già finito nel mirino dell'UIF tra il 2008 e il 2009, quando le autorità di vigilanza rilevarono un primo coinvolgimento della banca cinese nelle centinaia di transazioni nebulose effettuate attraverso Money2Money. Al tempo non furono prese misure punitive, ma tra il 2011 e il 2012 tutto il materiale raccolto fu passato ai pm di Firenze. Durante l'udienza preliminare dello scorso marzo, Bank of China è stata chiamata a rispondere ai sensi della legge 231 sulla responsabilità amministrativa «per non aver segnalato le operazioni sospette». Imputati anche quattro suoi dirigenti che all'epoca dei fatti lavoravano presso la succursale di Milano.

Contattata dalla Reuters, la banca ha smentito l'esistenza di un collegamento tra l'inchiesta «Fiume di denaro» e le ispezioni di questi giorni, definite «una procedura di routine» che viene applicata ogni tre-cinque anni.

All'inizio del mese è stata la China Banking Regulatory Commission, l'authority del settore, a richiamare agli ordini gli istituti creditizi considerati troppo disattenti nei confronti dei loro branch esteri e degli affari dei propri clienti. La strigliata è giunta a pochi mesi dall'arresto di cinque direttori della sede di Madrid dell'Industrial and Commercial Bank of China, la prima banca al mondo per capitalizzazione di borsa e per profitti. Anche in quel caso si era parlato di un sospetto coinvolgimento dell'istituto nel trasferimento di fondi neri nel Paese di Mezzo.

Le vicissitudini italiane e spagnole vanno ad arricchire il quadro minuziosamente tratteggiato da una recente inchiesta dell'Associated Press, che individua nella Repubblica popolare la capitale mondiale del riciclaggio. Da qui si dipana un sistema complesso fatto di transazioni false, export e import gonfiati, «direct foreign investment» fasulli, banche illegali e passaggi di denaro contante grazie al quale una serie di organizzazioni criminali sarebbe in grado di riciclare miliardi di dollari sfruttando la reticenza delle autorità cinesi a condividere informazioni e prove con gli inquirenti internazionali. Dai narcos messicani e colombiani ai trafficanti nordafricani, passando per le gang israeliane.

Le cose, tuttavia, potrebbero cambiare ora che Pechino cerca di far fronte alle proprie beghe (leggi: emorragia di capitali in uscita e funzionari in fuga col malloppo). Tra i primi a beneficiare della nuova «policy» c'è la nota casa produttrice di giocattoli Mattel che, dopo essere finita al centro di una maxi frode con epicentro a Wenzhou (la capitale del «credito ombra» in cui tutt'oggi piccole attività operano sotto copertura come agenzie di money transfer), si è vista restituire tutta la refurtiva dall'istituto di credito locale, la Bank of Wenzhou.

D'altra parte, come spiegava tempo fa alla Reuters Mark Wightman, partner di Ernst & Young, «se si guarda alle multe a livello globale e si considerano le imprese più sanzionate in termini di anti-riciclaggio, in cima all'elenco non troveremo banche cinesi, sebbene alcune siano state invitate a rafforzare i controlli».

(Pubblicato su China Files)

mercoledì 13 aprile 2016

Pechino mette fine alla pacchia dell'e-commerce


La scorsa settimana la China Southern Airlines ha fatto il pienone: 600 tonnellate di acquisti online -più del normale carico medio - hanno preso il volo da Australia, Giappone ed Europa verso la Cina.
La ragione è da ricercarsi nello shopping serrato con cui i consumatori cinesi hanno tentato di sfruttare gli ultimi giorni prima della fine della pacchia.

L'8 aprile è diventata formalmente effettiva una nuova politica fiscale sull'e-commerce che elimina le esenzioni duty-free per i beni di cui le tasse postali non superino i 50 yuan. Merci al dettaglio acquistate on-line non saranno più classificate come semplici "pacchi" e quindi non più sottoposte ad al clemente regime di tassazione che sinora le ha distinte dalle normali importazioni. Altra novità, viene stabilito un tetto di 2000 yuan per singola transazione e un massimo di 20mila yuan all'anno per persona.

L'intento è quello di rendere più esose le importazioni dall'estero con il duplice scopo di rimpolpare i consumi interni e incrementare le entrate fiscali, in un momento in cui la crescita economica è ai minimi da 25 anni. Come spiega alla Xinhua Mo Daiqing del China e-commerce research center, le nuove misure avranno ripercussioni sopratutto sui prodotti a basso costo (come alimenti e latte artificiale) e sul lusso.

Se infatti gli acquirenti cinesi contano per un terzo delle vendite globali del lusso, in realtà solo un quinto della merce viene comperata in Cina. Il resto proviene da oltreconfine attraverso tre vie principali: e-commerce su siti stranieri, shopping turistico all'estero, oppure attraverso il sistema dei daigou, privati cittadini che basano il loro business nel comprare prodotti di lusso oltremare e rivenderli in patria di persona o per mezzo dei social in cambio di un ricarico sul prezzo finale, che risulta comunque inferiore al costo del medesimo prodotto in Cina.

Secondo quanto riportava la società di consulenza Bain & Co. a gennaio, nel 2015 gli acquisti tramite daigou hanno fruttato 7,6 miliardi di dollari, di cui il 60 per cento grazie alla mediazione di social network come WeChat e Weibo. Dati che - sebbene in discesa di 43 miliardi di yuan su base annua (complici la svalutazione dello yuan e la moltiplicazione delle piattaforme online) - le autorità cinesi mirano a colpire più duramente con l'imposizione di nuove multe e l'inasprimento dei controlli doganali negli aeroporti.

Due sono le ragioni che spingono gli amanti del lusso oltre la Muraglia. La prima è dettata dalla proverbiale vocazione al risparmio dei cinesi. Anche se lo scorso anno alcuni brand, come Chanel, hanno abbassato i prezzi nella repubblica popolare, comperare una borsa di Dolce & Gabbana a Milano o a Parigi invece che a Shanghai risulta ancora il 50 per cento più conveniente. La seconda motivazione è figlia del "miracolo cinese". Ormai la nuova classe media non vuole più la cintura di Hermes taroccata, no, vuole quella vera! E, in un paese in cui la contraffazione è dura a morire, l'acquisto oltremare dà maggiore sicurezza in termini di qualità.

Così se nel 2015 lo shopping cinese in Giappone è lievitato del 251 per cento, quello in Europa del 31 per cento e quello in Sud Corea del 33 per cento, i consumi del lusso nella mainland si sono assottigliati del 2 per cento. Esattamente il contrario di quanto vorrebbe l'establishment. Come spiega alla Reuters Yating Xu, economista di HIS Global Insight, Pechino sta cercando di "riportare indietro gli acquisti in uscita e coltivare il mercato interno dei consumi del lusso, una mossa che si accorda anche al tentativo di rendere i consumi interni il traino dell'economia" dopo anni di crescita export-led.

Insomma, tutto torna o quasi. Rimane da vedere, infatti, quanti decideranno di comprare in patria piuttosto che farsi un viaggetto a Hong Kong, la storica tappa degli acquisti tax-free "caduta in disgrazia" nell'ultimo anno sulla scia dell'apprezzamento del dollaro statunitense, a cui la valuta locale è ancorata. "La nuova politica fiscale incoraggerà di nuovo la domanda di profumi e borse griffate a Hong Kong", pronostica ai microfoni del South China Morning Post Chen Bo, professore della Shanghai University of Finance and Economics.

(Scritto per Gli Italiani)









Rassegna: Dispacci dalla Silk Road Economic Belt


Alibaba e Porter City Holding hanno in cantiere un progetto logistico, a Burgas, città costiera della Bulgaria. la collocazione geografica non è casuale dal momento che Burgas è il secondo principale porto del paese con sbocco sul Mar Nero. La città sarà la prima destinazione europea lungo la tratta ferroviaria che dalla provincia dello Henan permetterà alle merci cinesi di raggiungere la Georgia passando prima per Kazakistan e Azerbaijan. Il progetto dovrebbe essere completato in tre anni. Alibaba ci metterà 100 milioni di euro. (Balkan Insight)

La collaborazione Cina-Tajikistan-Afghanista-Pakistan "non è una NATO centroasiatica". La rassicurazione è arrivata in un'intervista rilasciata a Sputnik da alcuni funzionari militari cinesi. (Eurasia)

Il Xinjiang lancia tre rotte turistiche terrestri per ravvivare gli scambi con i paesi vicini: la China-Kazakhstan-Kyrgyzstan rote, la China-Tajikistan route e la China-Russia-Kazakistan-Mongolia route (Xinhua)

L'Asia Centrale manca di sinologi ed esperti di Cina e Pechino viene visto come un generoso finanziatore ma non come il potenziale acquirente di beni centroasiatici. Alcune osservazioni molto condivisibili che potrebbero avere diverse ripercussioni sul progetto Nuova Via della Seta. (China in Eurasia)

L'India boicotta il corridoio economico Cina-Pakistan. A dirlo (anzi, a ribadirlo giacché simili accuse non giungono nuove) è stato il capo delleo staff dell'Esercito pakistano, Raheel Sharif, nell'ambito di una conferenza tentasi a Gwadar, il porto sullo stretto di Hormuz gestito dalla cinese e vero centro del CPEC. Lo scorso mese, nella regione del Baluchistan era stato arrestato un ufficiale della marina indiana che Islamabad dice essere in realtà un ufficiale della RAW principale agenzia di intelligence esterna. Reuters

Il premier kirghiso, Temir Sariyev, è stato costretto a dimettersi sulla scia delle polemiche scaturite dall'assegnazione dell'appalto per la costruzione di una strada nei pressi del lago Issyk-Kul alla compagnia cinese Longhai. Lo scorso mese una commissione parlamentare ha scoperto che la società era sprovvista della licenza necessaria ai lavori. Sariyev era in carica dallo scorso 5 maggio (Diplomat)

A fronte di un calo dell'1,4 per cento verso l'UE, del 3,4 per cento verso gli Usa, e dell'8,5 per cento verso l'Asean, nel primo trimestre del 2016 l'export cinese ha segnato un trend positivo se si considerano i mercati lungo la "One Belt One Road", come Pakistan (+ 26,4 per cento) e Bangladesh (+ 16,6 per cento) Bangladesh. (SCMP)

Pechino vuole esportare il modello Shenzhen a Gwadar, il porto pakistano considerato il fulcro del corridoio CPEC da 46 miliardi di dollari. La sfida è quasi una "mission impossible" se tiene conto dell'impervietà del luogo affetto da scarsità idrica, carenza elettrica e minacce terroristiche. (WSJ)

Vale 2 miliardi di dollari la visita del capo del partito dello Xinjiang, Zhang Chunxian, in Pakistan. Durante la sua quattro giorni della Terra dei Puri, Zhang (accompagnato da una delegazione) ha firmato accordi, tra gli altri, per infrastrutture, progetti energetici e logistici. (Reuters)

Come Khorgos, la cittadina al confine sino-kazako, potrebbe presto prendere il posto degli storici bazaar di Karasu e Dordoi, punto di snodo delle merci cinesi in Kirghizistan. (Radio Free Europe)

giovedì 7 aprile 2016

6,5 trilioni di infrastrutture per l'Asia

Secondo il Mizuho Research Institute, l'Asia necessita 6,5 trilioni di dollari in investimenti infrastrutturali per il periodo 2015-2020. Di cui il 37 per cento da convogliare in progetti mirati ad una migliore distribuzione dell'energia elettrica - seguono i trasporti. Un deficit che gli esperti dubitano potrà essere completamente colmato dagli istituti creditizi creati ad hoc. Stando agli esperti, infatti, Asian Infrastructure Investment Bank, Asian Development Bank, New Development Bank (la Banca dei Brics) & Co. sarebbero capaci di soddisfare solo il 5 per cento dei bisogni asiatici. Per capire la portata del problema, si consideri che - secondo l'ADB - ogni anno soltanto il cattivo smaltimento del traffico rosicchia al Pil della regione un 5 per cento.

Da parte sua la Cina, si impegna a spendere 6 trilioni di yuan (500 miliardi in fixed-assets) nel 2016, di cui la metà andrà in trasporti, protezione ambientale, pianificazione urbana e turismo, riporta il People's Daily.

Fonte: Nikkei



Who's Afraid of China


mercoledì 6 aprile 2016

Rassegna: Dispacci dalla Silk Road Economic Belt


Il progetto Wanda Industrial New City (valore 10 miliardi) diventa quasi realtà con la firma del memorandum d'intesa tra il gruppo cinese e le autorità dello stato Haryana per la costruzione di un "parco industriale comprensivo di prim'ordine" nel corridoio industriale Delhi-Mumbai. (Eurasian Business)

Fatta eccezione per il Kazakistan, la rete di infrastrutture ferroviarie costruita dalla Cina in Asia Centrale non è sufficiente alla realizzazione di un collegamento capillare tra i vari "stan". Tuttavia, il calo del flusso commerciale tra la Repubblica popolare e la Russia, così come la riduzione delle capacità industriale nei settori dei materiali ferrosi e del cemento potrebbero suggerire una contrazione dell'export cinese verso i paesi dell'are ex-sovietica. In questo scenario anche l'esigenza di nuove linee di trasporto diventerebbe meno pressante, lasciando a bocca asciutta gli stati centroasitici. (The Times of Central Asia)

La costruzione del corridoio Cina-Pakistan fa un piccolo balzo in avanti. L'agenzia statale Xinhua ha annunciato l'inizio dei lavori per la realizzazione di un complesso logistico e di e-commerce nella contea tagica di Tashkurgan, nello Xinjiang, 3200 metri sopra il livello del mare. Dopo lunga attesa, lo scorso anno aveva aperto il primo e unico porto terrestre tra la Cina e il Tagikistan, quello di Karasu. (Xinhua)

Le autorità dello Xinjiang hanno lanciato una campagna di un anno per promuovere l'unità etnica. "Dobbiamo rispettare le differenze culturali creando un'atmosfera di accettazione a livello sociale e di usi e costumi tra persone diverse", ha dichiarato il capo del partito dello Xinjiang, sottolineando che le compagnie operanti nellaregione saranno tenute ad assumere più lavoratori appartenenti alle minoranze etniche.  (Reuters)

La Nuova Via della Seta strizza l'occhio ai Balcani. Intellinews riassume i principali progetti intrapresi da Pechino nella regione, ricordando che per il Dragone si tratta di un colpo grosso dal momento che i progetti finanziati dalla Cina prevedono l'assunzione di aziende, manodopera e materiali cinesi. Inoltre, la costruzione di nuovi impianti produttivi cinesi darà alle società d'oltre Muraglia una via d'accesso ad aree di libero scambio e alla possibilità di evadere misure di antidumping. (Intellinews)

Ad una settimana dalla visita del premier nepalese in Cina a recarsi nella Repubblica popolare è stato anche il capo dello staff dell'Esercito. Secondo quanto riporta il China Military Online, la trasferta di Chhetri ha portato alla firma di nuove intese sulla cooperazione militare, sopratutto riguardo l'addestramento del personale e la cooperazione in caso di catastrofi naturali. (Diplomat)

Il Free Trade Agreement tra Cina e Pakistan fa comodo sopratutto alla Cina. Lo ha dichiarato il consigliere per gli Affari Esteri pakistano, Sartaj Aziz, durante un incontro con il Comitato permanente del Senato sul Commercio. I due paesi sarebbero in trattative per la sigla di un altro accordo mirato e riequilibrare la bilancia commerciale. Per Islamabad, la Cina è ad oggi la prima fonte di import e la seconda destinazione per l'export. (Tribune)

La mappa della settimana:





martedì 5 aprile 2016

La Cina nei Panama Papers



C'è molta Cina nei Panama Papers, la maxi inchiesta sui conti segreti offshore pubblicata domenica dall'International consortium of investigative journalists (Icij) e realizzata sulla base di 11,5 milioni di documenti relativi a quarant'anni di attività dello studio legale panamense Mossack Fonseca. Si parla di oltre 200mila società offshore con sede in 21 paradisi fiscali sparsi per il globo. Decine di migliaia di clienti tra vip, politici e sportivi di 200 paesi diversi. Una valanga di dati sensibili che non ha mancato di travolgere la seconda economia mondiale, facendo scattare i gendarmi del web: nella giornata di lunedì l'hashtag «Banama » (Panama in mandarino) è risultato il secondo termine più censurato su Weibo, il Twitter cinese.


A finire nell'occhio del ciclone - oltre alla star del kung fu Jackie Chan - sono i famigliari di almeno otto membri o ex-membri del Politburo, l'organismo che supervisiona il Partito comunista cinese. L'Icij, per il momento, ne ha rivelati soltanto quattro: il cognato del presidente cinese Xi Jinping, Deng Jiagui, la figlia dell'ex premier Li Peng, Li Xiaolin, la nipote dell'ex numero quattro del Comitato permanente del Politburo (il sancta sanctorum del regime cinese) Jia Qinglin, Jasmine Li, e Patrick Henri Devillers, architetto francese vicino alla famiglia di Bo Xilai, il promettente segretario del Partito di Chongqing condannato all'ergastolo per corruzione nel 2013. Nomi a cui la BBC martedì ha aggiunto, senza specificare il grado di parentela, famigliari del capo della propaganda Liu Yunshan e del vicepremier Zhang Gaoli. Alcune sono storie ben note agli amanti del gossip «rosso».

Deng Jiagui
Secondo quanto si apprende dall'inchiesta, nel settembre 2009, ovvero quando Xi Jinping era «semplicemente» uno dei nove potenti del Comitato permanente del Politburo, Deng sarebbe diventato l'amministratore e socio unico di due società di comodo registrate nelle Isole Vergini britanniche. Società diventate inattive dopo il rimpasto al vertice che ha portato Xi ad assumere la guida del partito (nel novembre 2012) e quella della Repubblica popolare in qualità di presidente nel marzo 2013.

Il nome di Deng era già comparso affianco a quello della moglie Qi Qiaoqiao (sorella maggiore di Xi) in un reportage investigativo pubblicato da Bloomberg alla vigilia del passaggio delle consegne. Allora si era parlato di centinaia di milioni di dollari in asset di varia natura, ma non si era fatta menzione delle compagnie offshore. Due anni più tardi, era stato ancora Icij a fare i nomi di circa 37mila cittadini residenti nella Greater China (Repubblica popolare, Hong Kong e Taiwan) coinvolti nell'apertura di holding, trust e società di varia natura nelle Isole Vergini britanniche. All'epoca, nei «Chinaleaks» erano comparsi i nomi di Deng Jiagui, Li Xiaolin (vedi sotto), nonché di alcuni parenti stretti del padre delle riforme Deng Xiaoping, dell'ex presidente Hu Jintao e dell'ex premier Wen Jiabao.

Li Xiaolin
Soprannominata «Power Queen», la secondogenita dell'ex premier Li Peng, ai tempi degli incarichi paterni (ovvero tra il 1987 e il 1998), risultava unica beneficiaria di una fondazione del Lichtenstein, a sua volta unica azionista di una società registrata nei paradisi fiscali inglesi. Pare che, per meglio nascondere i suoi natali, la donna si presentasse come «Xiaolin Liu-Li», nome che appare anche sul suo passaporto di Hong Kong, la vera capitale dell'offshore secondo i Panama Papers. Nella sua carriera Li vanta anche i ruoli di vicepresidente della statale China Power Investment Corp. e di delegato della Conferenza politica consultiva del popolo, massima istituzione cinese con funzioni, appunto, consultive. Secondo Hurun, il Forbes d'oltre Muraglia, nel 2013 il patrimonio personale di Li ammontava a 550 milioni di dollari.

Jasmine Li
Ancora adolescente, nel 2010 Jasmine Li diventa unica azionista della Harvest Sun Trading Ltd., compagnia registrata alle Isole Vergini l'anno precedente e trasferitale per la cifra simbolica di 1 dollaro da Zhang Yuping, fondatore dell'azienda leader degli orologi di lusso Hengdeli. Grazie al controllo di Harvest Sun e di un'altra società offshore, Li è riuscita a mantenere la proprietà di due società di consulenza registrate a Pechino senza risultarne la titolare. Nulla, tuttavia, riconduce direttamente al nonno, uno dei potenti del Comitato permanente del Politburo tra il 2002 e il 2012.

Patrick Henri Devillers
Il nome di Devillers non è nuovo alle cronache. Nel 2000 l'architetto francese aveva aiutato la moglie di Bo Xilai, Gu Kailai, a registrare una compagnia nelle Isole Vergini risultando come azionista in sua vece. Secondo i fascicoli processuali relativi al «dossier Bo Xilai», la compagnia in questione fu poi utilizzata per l'acquisto segreto di una villa nel sud della Francia. Proprio la villa è stata presentata dagli inquirenti come la «pistola fumante» della corruzione dei coniugi Bo. Una storia dai contorni ancora fumosi, in cui lotte di potere e affari sporchi si intrecciano in un legame perverso.

Non è ancora ben chiaro in che misura la campagna anti-corruzione - di cui Xi Jinping si è fatto promotore fin dal primo giorno del suo mandato - sia effettivamente volta a mondare il Partito dalle «mele marce», e quanto, invece, sia finalizzata all'epurazione degli elementi ostili al presidente. Di certo, le inchieste degli ultimi anni confermano un'opacità che interessa trasversalmente tutti i gradini della gerarchia comunista senza eccezione. In che termini, però, non è dato sapere.

Sebbene la maggior parte dei servizi offerti dall'industria offshore sia perfettamente lecita quando usata nel rispetto delle leggi e dichiarata al fisco, i documenti esaminati dall'Icij mostrano che banche e studi legali non avrebbero seguito le norme necessarie all'individuazione di clienti coinvolti in attività illegali, come l'evasione fiscale o il riciclaggio di denaro. La stessa costituzione cinese scoraggia funzionari e parenti dallo sfruttare le proprie posizioni con finalità economiche. Ma nulla finora prova l'esistenza di un coinvolgimento diretto degli alti papaveri cinesi negli affari di famiglia.

Al contrario, un documento del dipartimento di Stato Usa risalente al 2007 - e portato a galla da Wikileaks - parrebbe dimostrare l'estraneità di Wen Jiabao agli «inciuci» famigliari sviscerati quattro anni fa dal New York Times. Stando a quanto riportava il cablaggio, l'allora primo ministro si sarebbe detto addirittura «disgustato» dalle attività portate avanti dai suoi consanguinei.

(Pubblicato su China Files)


Hukou e controllo sociale

Quando nel 2012 mi trasferii a Pechino per lavoro, il più apprezzabile tra i tanti privilegi di expat non era quello di avere l’ufficio ad...