mercoledì 13 aprile 2016

Pechino mette fine alla pacchia dell'e-commerce


La scorsa settimana la China Southern Airlines ha fatto il pienone: 600 tonnellate di acquisti online -più del normale carico medio - hanno preso il volo da Australia, Giappone ed Europa verso la Cina.
La ragione è da ricercarsi nello shopping serrato con cui i consumatori cinesi hanno tentato di sfruttare gli ultimi giorni prima della fine della pacchia.

L'8 aprile è diventata formalmente effettiva una nuova politica fiscale sull'e-commerce che elimina le esenzioni duty-free per i beni di cui le tasse postali non superino i 50 yuan. Merci al dettaglio acquistate on-line non saranno più classificate come semplici "pacchi" e quindi non più sottoposte ad al clemente regime di tassazione che sinora le ha distinte dalle normali importazioni. Altra novità, viene stabilito un tetto di 2000 yuan per singola transazione e un massimo di 20mila yuan all'anno per persona.

L'intento è quello di rendere più esose le importazioni dall'estero con il duplice scopo di rimpolpare i consumi interni e incrementare le entrate fiscali, in un momento in cui la crescita economica è ai minimi da 25 anni. Come spiega alla Xinhua Mo Daiqing del China e-commerce research center, le nuove misure avranno ripercussioni sopratutto sui prodotti a basso costo (come alimenti e latte artificiale) e sul lusso.

Se infatti gli acquirenti cinesi contano per un terzo delle vendite globali del lusso, in realtà solo un quinto della merce viene comperata in Cina. Il resto proviene da oltreconfine attraverso tre vie principali: e-commerce su siti stranieri, shopping turistico all'estero, oppure attraverso il sistema dei daigou, privati cittadini che basano il loro business nel comprare prodotti di lusso oltremare e rivenderli in patria di persona o per mezzo dei social in cambio di un ricarico sul prezzo finale, che risulta comunque inferiore al costo del medesimo prodotto in Cina.

Secondo quanto riportava la società di consulenza Bain & Co. a gennaio, nel 2015 gli acquisti tramite daigou hanno fruttato 7,6 miliardi di dollari, di cui il 60 per cento grazie alla mediazione di social network come WeChat e Weibo. Dati che - sebbene in discesa di 43 miliardi di yuan su base annua (complici la svalutazione dello yuan e la moltiplicazione delle piattaforme online) - le autorità cinesi mirano a colpire più duramente con l'imposizione di nuove multe e l'inasprimento dei controlli doganali negli aeroporti.

Due sono le ragioni che spingono gli amanti del lusso oltre la Muraglia. La prima è dettata dalla proverbiale vocazione al risparmio dei cinesi. Anche se lo scorso anno alcuni brand, come Chanel, hanno abbassato i prezzi nella repubblica popolare, comperare una borsa di Dolce & Gabbana a Milano o a Parigi invece che a Shanghai risulta ancora il 50 per cento più conveniente. La seconda motivazione è figlia del "miracolo cinese". Ormai la nuova classe media non vuole più la cintura di Hermes taroccata, no, vuole quella vera! E, in un paese in cui la contraffazione è dura a morire, l'acquisto oltremare dà maggiore sicurezza in termini di qualità.

Così se nel 2015 lo shopping cinese in Giappone è lievitato del 251 per cento, quello in Europa del 31 per cento e quello in Sud Corea del 33 per cento, i consumi del lusso nella mainland si sono assottigliati del 2 per cento. Esattamente il contrario di quanto vorrebbe l'establishment. Come spiega alla Reuters Yating Xu, economista di HIS Global Insight, Pechino sta cercando di "riportare indietro gli acquisti in uscita e coltivare il mercato interno dei consumi del lusso, una mossa che si accorda anche al tentativo di rendere i consumi interni il traino dell'economia" dopo anni di crescita export-led.

Insomma, tutto torna o quasi. Rimane da vedere, infatti, quanti decideranno di comprare in patria piuttosto che farsi un viaggetto a Hong Kong, la storica tappa degli acquisti tax-free "caduta in disgrazia" nell'ultimo anno sulla scia dell'apprezzamento del dollaro statunitense, a cui la valuta locale è ancorata. "La nuova politica fiscale incoraggerà di nuovo la domanda di profumi e borse griffate a Hong Kong", pronostica ai microfoni del South China Morning Post Chen Bo, professore della Shanghai University of Finance and Economics.

(Scritto per Gli Italiani)









Nessun commento:

Posta un commento

Hukou e controllo sociale

Quando nel 2012 mi trasferii a Pechino per lavoro, il più apprezzabile tra i tanti privilegi di expat non era quello di avere l’ufficio ad...