giovedì 28 luglio 2016

Taipei indaga le fortune occulte del Guomindang


«Una pietra miliare per la democrazia di Taiwan». O la morte della stessa. Una nuova legge volta a far luce sulle ricchezze dei partiti acuisce la spaccatura che divide l'indipendentista Democratic Progressive Party (Dpp), uscito vincente dalle elezioni di gennaio, dallo sconfitto filocinese Guomingdan (Kmt). Sullo sfondo, le frizioni che oggi più che mai sfilacciano i rapporti tra le due sponde dello Stretto.

Taipei si accinge ad avviare un'indagine sulle fortune occulte dei partiti. Il 25 luglio lo Yuan Legislativo (ovvero il parlamento taiwanese) ha approvato una legge lungamente attesa che autorizza la realizzazione di controlli ed eventualmente la confisca di beni illeciti accumulati dai vari gruppi politici. Dopo 14 anni di ostruzionismo nazionalista, e una seduta parlamentare di 11 ore, lo «Statute on Handling the Inappropriate Assets of Political Parties and Their Affiliated Organizations»prevede l'istituzione di una commissione speciale sotto la supervisione dello Yuan Esecutivo (il gabinetto) con il compito di indagare l'origine degli asset accumulati dal Kmt prima della fine dell'era della legge marziale (1987), compresi i beni di tutte quelle organizzazioni su cui il partito ha esercitato un controllo sostanziale.

Considerato uno dei partiti più ricchi al mondo, il Guomindang vanta tra, partecipazioni in agenzie di stampa, imprese edili, ospedali e karaoke, beni pari a 18,96 miliardi di dollari di Taiwan (TWD), contro i 478,72 milioni del Dpp, tornato al governo con le elezioni dello scorso gennaio. Parte delle ricchezze risale a prima che i nazionalisti scappassero dalla mainland per rifugiarsi oltre lo Stretto alla fine della guerra civile; un'altra fetta deriva dagli asset nazionalizzati dai giapponesi, quando Taiwan era ancora una colonia nipponica (1895 - 1945). Ma il brusco svuotamento dei forzieri ha nel corso degli anni suscitato diversi dubbi sulla gestione finanziaria degli eredi di Chiang Kai-Shek, sopratutto durante l'amministrazione dell'ex presidente Ma Ying-Jeou: secondo Wealth Magazine (Caixun), nel 2000 gli asset dei nazionalisti si aggiravano ancora intorno alla cifra sbalorditiva di 600 miliardi TWD, circa 17 miliardi di euro.

Mentre la somma è stata spesso additata dai partiti rivali come fonte di «un vantaggio sleale» in campagna elettorale, negli ultimi anni non di rado accuse di appropriazione indebita contro Ma - leader del Guomindang dal 2009 al 2014 - sono partite nientemeno che dalle fila del partito stesso;sintomo di un «conflitto interno più che della reale corruzione» dell'ex numero uno di Taipei, spiega Brian Hieo sul magazine online New Bloom.

Cionondimeno, un lungo passato di corruzione, che risale ai tempi del Generalissimo, offre alla coalizione indipendentista pan-verde spunti per varie accuse. I detrattori sostengono che gran parte delle fortune accumulate dai nazionalisti derivino dai monopoli commerciali e dai contatti politici tessuti durante quasi sessant'anni di governo monopartitico. Dopo la sconfitta ad opera dei comunisti e la fuga sull'ex Formosa, il Kmt ha governato manu militari sino al 1987, rimanendo saldo al potere fino al 2000 quando per la prima volta il Dpp ha assunto le redini del paese. Salvo poi tornare all'opposizione nel 2008, in seguito alla nomina di Ma Ying-jeou alla guida della Repubblica di Cina; un ricambio - cominciato con l'arresto per corruzione del Capo di Stato progressista Chen Shui-bian - che ha segnato l'inizio di un periodo di distensione tra le due sponde dello Stretto durato sino al recente turnover politico e alla bagarre sull'interpretazione del concetto «una sola Cina», su cui la neopresidente e leader del Dpp Tsai Ing-wen continua a mantenere una posizione ambigua con grande disappunto di Pechino.

In base alla nuova legge, tutti gli asset di un partito, con l'eccezione di quote associative, donazioni politiche e sussidi governativi ottenuti dal 15 agosto 1945 - quando il Kmt ha rimpiazzato il Giappone sull'isola - sono considerati illeciti e devono essere restituiti al governo. Tutti i gruppi politici dovranno rendere conto dei propri beni alla commissione appositamente istituita entro un anno dall'entrata in vigore della legge. I trasgressori rischiano pene pecuniarie tra 1 e 5 milioni TWD.

Mentre qualcuno rimarca l'abilità con cui il Dpp è riuscito a sbloccare i processi decisionali del granitico parlamento taiwanese, la nuova leader del Kmt Hung Hsiu-chu ha definito l'Act «scorretto e antidemocratico». Stando a quanto riportava ieri il Taipei Times, i nazionalisti «chiederanno un'interpretazione costituzionale da parte del Consiglio dei Grandi Giudici per salvaguardare gli interessi del partito, ma hanno assicurato che onoreranno la promessa di donare tutti i beni in beneficenza, indipendentemente dall'esito». Lo scorso 14 luglio Hung aveva reso nota l'intenzione di «cedere tutto, a parte gli spazi per uffici acquistati legalmente e i fondi per coprire le spese personali».

(Pubblicato su China Files)

martedì 26 luglio 2016

Pazzia e superstizione nella Cina rurale


«Faccio quel che posso, e se non funziona non resta che rivolgersi a un tempio più grande con divinità più potenti. E' come per gli ospedali: se uno piccolo non riesce a curare il problema, tocca provare con uno più grande». Tao ha ottant'anni e da otto pratica rituali taoisti in un tempio incastonato tra le montagne dello Hunan, nella Cina centrale; comunica con gli dei e cura le malattie fisiche e mentali prescrivendo sacri rimedi.

Nelle campagne cinesi, le superstizioni, la medicina tradizionale, l'agopuntura, e il Tai Chi giocano ancora importanti ruoli complementari nel trattamento di pazienti con disturbi mentali, tutt'oggi considerati alla stregua di semplici sbilanciamenti energetici o di influssi demoniaci. Uno studio del 2007 condotto nella zona rurale di Liuyang dai ricercatori della Central South University di Changsha mostra che il 67 per cento degli schizofrenici cinesi preferisce ricorrere a cure popolari prima di rivolgersi agli istituti mentali, e non è detto lo faccia. Delle oltre 61mila persone intervistate in 23 villaggi, 220 avevano manifestato diversi gradi di schizofrenia.

Secondo un rapporto di Lancet, la Cina è uno dei Paesi con il più elevato tasso di malattie psichiatriche, attorno al 17,5 per cento nel 2009, contro il 26,4 per cento degli Stati Uniti in testa alla classifica mondiale. Si parla di 100 milioni di malati (16 milioni giudicati gravi) di cui solo il 20 per cento gode di un trattamento medico. La rivista scientifica avverte che il numero di tossicodipendenti e malati mentali con disturbi neurologici è destinato ad aumentare del 10 per cento nel periodo 2015-2025. Tuttavia, il 40 per cento dei pazienti con disturbi psicotici non si è mai rivolto a professionisti della salute mentale; la percentuale tra le persone soggette ad ansia e alterazione dell'umore scende al 6 per cento.

«I pazienti scelgono di cercare l'aiuto della medicina tradizionale cinese, perché - soprattutto i meno istruiti - non ritengono che il "cattivo umore" sia una malattia mentale», spiega a Sixth Tone un professore della Xiangya School of Public Health at Central South University. «Vanno dai praticanti di Tcm per problemi fisici, come l'insonnia, la stanchezza, e la letargia, che in realtà sono proprio i sintomi della depressione». Un malessere che - stando ad una ricerca condotta dall'ateneo - è responsabile per il 40 per cento dei suicidi tra gli anziani residenti nelle campagne.

Ma se l'ignoranza costituisce la principale causa «dell'allergia» all'aiuto di specialisti, in realtà i fattori ad allontanare i cittadini dalle strutture sanitarie sono molteplici. Nella seconda economia mondiale «malattia mentale» fa rima con corruzione, disonore e spese insostenibili. Oltre alla reticenza nel riconoscere l'esistenza di un problema avvertito a livello sociale come fonte di vergogna, pratiche discutibili concorrono ad alimentare la diffidenza generale verso gli ospedali psichiatrici. Nel corso degli ultimi anni non sono mancate storie di detenzioni coatte ai danni di attivisti, petizionisti e «nemici del regime», rinchiusi in centri psichiatrici dalle autorità locali intenzionate a sbarazzarsi di scomodi detrattori. A causa dell'inaccuratezza dei controlli medici, è capito che persone perfettamente sane siano state ricoverate su pressione dei parenti in seguito a dispute famigliari, venendo «sottoposte ad abusi continui». Un fenomeno noto con il nome di bei jingshen bing, «essere trasformati in malati mentali». Nel 2013, il direttore del quarto ospedale del popolo di Urumqi, capitale provinciale dello Xinjiang, ha riconosciuto che tra il 70 e l'80 per cento dei malati presenti nella struttura erano stati ammessi forzatamente.

Nelle aree rurali, volenti o nolenti, per molti il ricorso a santoni e divinatori risulta ancora l'unica opzione possibile. Gravi carenze di risorse mediche sono state rilevate nelle 832 contee più povere del Paese, dove i bassi salari faticano ad attrarre personale qualificato. Per ovviare al problema, nel 2004 Pechino ha varato il «686 Project» (secondo Harvard «il più vasto e importante progetto sulla salute mentale a livello mondiale») mirato ad assicurare assistenza sanitaria «low cost», mentre dallo scorso anno il National Mental Health Working Plan 2015-2020 lavora con l'obiettivo di raddoppiare il numero degli psichiatri rispetto agli attuali 20mila.

La nuova riforma del sistema sanitario si inserisce nel piano con cui Pechino ambisce a liberare dallo stato di povertà 12 milioni di persone l'anno, da qui al 2020. Secondo un recente rapporto rilasciato congiuntamente dalla Banca Mondiale e dai ministeri cinesi della Finanza e della Sanità, oltre la Muraglia le spese mediche crescono dell'8,4 per cento l'anno, un trend in buona parte trainato dalla prescrizione eccessiva di farmaci, attrezzature troppo costose e inutili, e dal sovraffollamento degli ospedali di prima categoria. Stando alle stime dell'istituto bancario, una pronta attuazione delle riforme in agenda si tradurrebbe in un risparmio dei costi pari al 3 per cento del Pil entro il 2035. Un contributo prezioso per il raggiungimento di una «società moderatamente prospera» (xiaokan shehui), termine mutuato dalla precedente amministrazione e inserito nei «quattro comprensivi» firmati Xi Jinping.

Dati ufficiali rivelano che in Cina il 44 per cento degli impoveriti deve il proprio stato di indigenza alle spese mediche troppo alte. Sebbene negli ultimi anni il governo cinese abbia ampliato le assicurazioni per coprire le malattie gravi, tuttavia circa la metà delle spese per le cure continua a ricadere sui malati e le loro famiglie. Una situazione che rischia di aggravarsi considerato che - secondo stime del Boston Consulting Group - entro il 2025 il costo dell'assistenza sanitaria personale dovrebbe crescere quattro volte, tanto da raggiungere gli 1,9 trilioni di dollari. Ecco che in alcuni casi appellarsi ai santi taoisti non aiuta soltanto a salvare la faccia, ma anche svariate migliaia di yuan.

(Pubblicato su China Files)

sabato 23 luglio 2016

Rassegna: Dispacci dalla Silk Road Economic Belt



L'agenda estera 2016 di Li Keqiang si è aperta con l'11esimo summit Asem di Ulambataar, primo viaggio di un premier cinese in Mongolia da sei anni a questa parte. La trasferta è giunta a a pochi giorni dall'insediamento del novo governo di Jargaltulga Erdenebat, eletto primo ministro l'8 luglio. L'incontro è stato coronato dalla firma di 10 contratti in settori che vanno dal commercio all'energia. Inoltre le due parti si sono impegnate a cancellare il debito mongolo pari a 18,83 miliardi di dollari. Secondo gli esperti gli accordi facilitano nuove sinergie tra la One Belt One Road, il progetto mongolo Steppe Road e il Trans-Eurasian Belt Development di Mosca, che consisterebbe in un network di trasporti, gasdotti, oleodotti e condotte idrche dall'Atlantico al Pacifico. China, Russia e Mongolia avevano già siglato un piano di cooperazione in occasione dell'11esimo summit SCO a Tashkent, lo scorso mese. (Montsame) (Global Times)

Xi Jinping in Ningxia per promuovere la tolleranza religiosa e l'unità del paese. Il presidente cinese ha invitato le autorità locali a promuovere una religiosità "che meglio si adatti alle caratteristiche di un paese socialista" (Xinhua). La visita è servita anche a ribadire alcuni concetti cardine del nuovo modello di sviluppo varato da Pechino, che deve essere rigorosamente "green". Il Presidente cinese ha osservato che il Ningxia costituisce un'importante barriera per la sicurezza ecologica del nord-ovest della Cina, e ha chiesto un potenziamento della costruzione di "barriere verdi". (Xinhua)

L'European Council on Foreign Relations dedica un report alle possibili sinergie tra Ue, One Belt One Road e Unione economica eurasiatica. Nel maggio 2015 - in seguito all'isolamento in cui si è trovata Mosca per i fatti di Crimea- di fatto la Russia ha evidenziato un'inversione a U nei confronti dell'OBOR. Adesso Mosca spera di aumentare la legittimità dell'Uee rendendola la partner privilegiata dell'OBOR. In realtà, per il momento la cooperazione tra i due blocchi è a livello simbolico. I paesi dell'Uee non sono veramente maturi per un'integrazione in stile Ue. Le principali economie del gruppo hanno profili che sono troppo simili tra loro per beneficiare da un'integrazione. I membri Uee commerciano tra loro meno che con i partner esterni, e negli ultimi anni il crollo dei prezzi del petrolio e il rallentamento dell'economia russa hanno causato un'ulteriore diminuzione del commercio interno. (Ecfr)

Il fallito golpe turco come monito per i governi di Kazakistan e Kirghizistan. Entrambi negli ultimi mesi hanno rischiato di capitolare per mano di gruppi d'opposizione guidati rispettivamente dal businessman kazako Tokhtar Tuleshov e da Bekbolot Talgarbekov, ex ministro dell'agricoltura kirghiso. (The Time of Central Asia)

Lo scorso anno, la tansiberiana ha trasportato un volume di merci quasi pari a quello traghettato da una sola nave. Se ancora fosse necessario, ecco l'ennesimo dato che conferma la supremazia degli scambi marittimi sulle vie terrestri. Per qualcuno è un dato sufficiente a mettere in dubbio l'intera Silk Road Economic Belt. (Bloomberg)

Negli ultimi cinque anni, 300 famiglie dello Xinjiang sono state trasferite dalle zone rurali alle città, nell'ambito del XII Piano quinquennale. 20 milioni di dollari erano stati allocati per il piano di delocalizzazione volto a mobilitare 6 milioni di persone tra pastori e contadini, ma secondo RFA il governo locale avrebbe stanziato una cifra più alta per proseguire le operazioni durante il XIII Piano quinquennale (2016-2020). (Radio Free Asia)

NAC Kazatomprom e CITIC Group hanno discusso di future collaborazioni tra Cina e Kazakistan nel settore nucleare, sopratutto per quanto riguarda il transito di uranio dal paese centroasiatico all'ex Impero Celeste e la costruzione di impianti di conversione in Kazakistan. (Trend)



Cooperazione Uzbekistan-Cina lungo la nuova via della seta
La linea ferroviaria Angren-Pap, inaugurata a giugno durante la visita uzbeka di Xi Jinping, trasporterà 6000 passeggeri e 4-6 milioni di tonnellate di merci l'anno. Ma si tratta soltanto di un piccolo passo nel processo di miglioramento della connettività nella valle di Fergana, un'area divisa amministrativamente tra Uzbekistan, Kirghizistan e Tajikistan, che costituisce uno snodo fondamentale per i trasporti tra Cina e Asia Centrale. Mentre è stata completata una strada che collega Kashgar (Xinjiang) Osh (Kirghizistan) e Andijian (Uzbekistan), rimane ancora soltanto su carta il progetto per una ferrovia tra Cina, Kirghizistan e Uzbekistan. Migliorare la sinergia tra i progetti già realizzati e quelli ancora in agenda risulta di importanza cruciale per fluidificare gli scambi tra l'Asia Centrale, Asia Meridionale e Orientale attraverso le rotte Uzbekistan-Afghanistan-Iran, Uzbekistan-Afghanistan-Pakistan e Uzbekistan-Turkmenistan-Iran-Oman-Qatar (China.org)


Una sintesi grafica dei principali progetti lanciati da Pechino in Asia Centrale nell'ambito della nuova via della seta (Financial Times)








venerdì 22 luglio 2016

Rivelato l'identikit dei foreign fighters uiguri


[AGGIORNAMENTI 25 luglio: Il Wall Street Journal mette a confronto il report della New America Fondation con uno precedente del Combating Terrorism Center di West Point. Entrambi gli studi esaminano il profilo delle reclute entrate in Siria dalla Turchia tra la metà del 2013 e quella del 2014]

Le politiche restrittive attuate da Pechino nella regione autonoma dello Xinjiang stanno spingendo musulmani insoddisfatti tra le braccia dell'Isis. A sostenerlo è un recente studio condotto dalla New America Foundation, think tank «non partisan» con base a Washington, che offre un identikit dettagliato dei foreign fighters uiguri sulla base di una serie di documenti fatti trapelare da un disertore dello Stato Islamico.

Portando ad esempio una serie di restrizioni - dalle limitazioni sull'osservanza del Ramadan al divieto per le donne di indossare il velo e per gli uomini di portare la barba - il report sostiene che l'atteggiamento liberticida mantenuto dal governo cinese è da considerarsi «tra i fattori ad aver spinto le persone a lasciare il paese per cercare un senso di 'appartenenza' altrove». Conclusione tratta dall'analisi di circa 4000 moduli di registrazioni appartenenti a reclute straniere approdate tra le truppe di Daesh tra il 2013 e il 2014, di cui almeno 114 provenienti proprio dallo Xinjiang; o meglio dall'East Turkestan, l'antico nome della regione ancora utilizzato dai separatisti e con cui tutti i miliziani uiguri citati nello studio hanno preferito identificarsi. I numeri rendono lo Xinjiang la quinta fonte di foreign fighters tra le provincie e le regioni riportate nella documentazione, preceduto soltanto da tre aree dell'Arabia Saudita e una della Tunisia.

Secondo il think tank statunitense, gli aspiranti jihadisti provengono più facilmente da «regioni con un passato irrequieto e rapporti federali a livello locale tesi». E la «disparità economica», che differenzia l'etnia maggioritaria han (i cinesi doc) e gli uiguri, concorre con la campagna repressiva a soffiare sul fuoco del malcontento popolare. Sopratutto a partire dalla fondazione della Repubblica popolare (1949), la provincia del «Far West» cinese, per usi e costumi più vicina all'Asia Centrale di quanto lo sia al resto del Paese, è stata interessata da un'ondata colonizzatrice di matrice han che non ha mancato di innescare reazioni violente a livello locale e non solo. Nella primavera del 2014, negli stessi giorni in cui il presidente Xi Jinping si trovava nello Xinjiang, un attentato dinamitardo presso la stazione ferroviaria di Urumqi ha indotto Pechino ad intensificare la campagna antiterrorismo dando il via a processi di massa ed esecuzioni multiple. Pochi mesi prima, nel marzo dello stesso anno, 31 persone erano decedute in un attacco per mano di presunti uiguri armati di coltelli a Kunming, nella provincia meridionale dello Yunnan, in quello che il governo ha definito «l'11 settembre cinese».

Le autorità puntano il dito contro i separatisti radicalizzati dello Xinjiang, alludendo a influenze d'oltreconfine e condannando la narrazione faziosa dei media occidentali restii a rimuovere il virgolettato dalla parola «terroristi» quando gli attentati avvengono entro la Grande Muraglia. Accusato numero uno è l'East Turkestan Islamic Movement (ETIM), la sigla con quartier generale in Pakistan ed estensioni in Cina, Siria, Asia Meridionale e Centrale, che secondo vari esperti non esiste più da tempo, secondo altri si sarebbe riorganizzata sotto il nome di Turkistan Islamic Party (TIP)/Hizb al-Islami al-Turkistani. Il TIP, già rubricato nella «Terrorist Exclusion List (TEL)» statunitense e bandito dall'Onu, in settimana è stato incluso nel novero delle organizzazioni terroristiche dall'Home Office britannico. Nel luglio 2014, lo stesso leader dell'Isis al-Baghdadi aveva speso parole di sostegno in favore dei musulmani oppressi da Pechino, mentre lo scorso anno era stato fatto circolare un video propagandistico ritraente bambini e un miliziano ottantenne di etnia uigura tra le fila siriane dello Stato Islamico.

Oltre a tracciare un'analisi quantitativa dell'adesione uigura al Califfato (precedentemente il Global Times aveva parlato di circa 300 miliziani tra Iraq e Siria), l'inchiesta della New America Foundation fornisce elementi qualitativi piuttosto rilevanti: le reclute uigure pare non abbiano alcun precedente nel jihad (il che smentirebbe un'affiliazione all'ETIM/TIP) e presenterebbero, rispetto alla media degli altri foreing fighters, minore esperienze all'estero, un grado di istruzione inferiore e uno scarso livello di indottrinamento religioso. Ben il 73 per cento di loro si è rivolto a Daesh dopo la presa di Mosul del giugno 2014, una vittoria che ha dato maggior lustro all'immagine del Califfato tra la comunità islamica internazionale. I moduli analizzati dal think tank rilevano inoltre la presenza di bambini fino a dieci anni d'età e persone anziane intorno agli ottant'anni. Un particolare che, come nel caso delle «jihad family» provenienti dall'Asia Centrale, parrebbe suggerire una radicalizzazione frequentemente indotta da necessità di ordine economico più che da una reale ispirazione ideologica. Anche se ormai sempre più spesso il coinvolgimento di interi nuclei famigliari viene utilizzato dai jihadisti per depistare i controlli durante il tragitto verso i teatri di guerra mediorientali.

(Pubblicato su China Files)

Rivelato l'identikit dei foreign fighters uiguri


[AGGIORNAMENTI 25 luglio: Il Wall Street Journal mette a confronto il report della New America Fondation con uno precedente del Combating Terrorism Center di West Point. Entrambi gli studi esaminano il profilo delle reclute entrate in Siria dalla Turchia tra la metà del 2013 e quella del 2014]

Le politiche restrittive attuate da Pechino nella regione autonoma dello Xinjiang stanno spingendo musulmani insoddisfatti tra le braccia dell'Isis. A sostenerlo è un recente studio condotto dalla New America Foundation, think tank «non partisan» con base a Washington, che offre un identikit dettagliato dei foreign fighters uiguri sulla base di una serie di documenti fatti trapelare da un disertore dello Stato Islamico.

Portando ad esempio una serie di restrizioni - dalle limitazioni sull'osservanza del Ramadan al divieto per le donne di indossare il velo e per gli uomini di portare la barba - il report sostiene che l'atteggiamento liberticida mantenuto dal governo cinese è da considerarsi «tra i fattori ad aver spinto le persone a lasciare il paese per cercare un senso di 'appartenenza' altrove». Conclusione tratta dall'analisi di circa 4000 moduli di registrazioni appartenenti a reclute straniere approdate tra le truppe di Daesh tra il 2013 e il 2014, di cui almeno 114 provenienti proprio dallo Xinjiang; o meglio dall'East Turkestan, l'antico nome della regione ancora utilizzato dai separatisti e con cui tutti i miliziani uiguri citati nello studio hanno preferito identificarsi. I numeri rendono lo Xinjiang la quinta fonte di foreign fighters tra le provincie e le regioni riportate nella documentazione, preceduto soltanto da tre aree dell'Arabia Saudita e una della Tunisia.

Secondo il think tank statunitense, gli aspiranti jihadisti provengono più facilmente da «regioni con un passato irrequieto e rapporti federali a livello locale tesi». E la «disparità economica», che differenzia l'etnia maggioritaria han (i cinesi doc) e gli uiguri, concorre con la campagna repressiva a soffiare sul fuoco del malcontento popolare. Sopratutto a partire dalla fondazione della Repubblica popolare (1949), la provincia del «Far West» cinese, per usi e costumi più vicina all'Asia Centrale di quanto lo sia al resto del Paese, è stata interessata da un'ondata colonizzatrice di matrice han che non ha mancato di innescare reazioni violente a livello locale e non solo. Nella primavera del 2014, negli stessi giorni in cui il presidente Xi Jinping si trovava nello Xinjiang, un attentato dinamitardo presso la stazione ferroviaria di Urumqi ha indotto Pechino ad intensificare la campagna antiterrorismo dando il via a processi di massa ed esecuzioni multiple. Pochi mesi prima, nel marzo dello stesso anno, 31 persone erano decedute in un attacco per mano di presunti uiguri armati di coltelli a Kunming, nella provincia meridionale dello Yunnan, in quello che il governo ha definito «l'11 settembre cinese».

Le autorità puntano il dito contro i separatisti radicalizzati dello Xinjiang, alludendo a influenze d'oltreconfine e condannando la narrazione faziosa dei media occidentali restii a rimuovere il virgolettato dalla parola «terroristi» quando gli attentati avvengono entro la Grande Muraglia. Accusato numero uno è l'East Turkestan Islamic Movement (ETIM), la sigla con quartier generale in Pakistan ed estensioni in Cina, Siria, Asia Meridionale e Centrale, che secondo vari esperti non esiste più da tempo, secondo altri si sarebbe riorganizzata sotto il nome di Turkistan Islamic Party (TIP)/Hizb al-Islami al-Turkistani. Il TIP, già rubricato nella «Terrorist Exclusion List (TEL)» statunitense e bandito dall'Onu, in settimana è stato incluso nel novero delle organizzazioni terroristiche dall'Home Office britannico. Nel luglio 2014, lo stesso leader dell'Isis al-Baghdadi aveva speso parole di sostegno in favore dei musulmani oppressi da Pechino, mentre lo scorso anno era stato fatto circolare un video propagandistico ritraente bambini e un miliziano ottantenne di etnia uigura tra le fila siriane dello Stato Islamico.

Oltre a tracciare un'analisi quantitativa dell'adesione uigura al Califfato (precedentemente il Global Times aveva parlato di circa 300 miliziani tra Iraq e Siria), l'inchiesta della New America Foundation fornisce elementi qualitativi piuttosto rilevanti: le reclute uigure pare non abbiano alcun precedente nel jihad (il che smentirebbe un'affiliazione all'ETIM/TIP) e presenterebbero, rispetto alla media degli altri foreing fighters, minore esperienze all'estero, un grado di istruzione inferiore e uno scarso livello di indottrinamento religioso. Ben il 73 per cento di loro si è rivolto a Daesh dopo la presa di Mosul del giugno 2014, una vittoria che ha dato maggior lustro all'immagine del Califfato tra la comunità islamica internazionale. I moduli analizzati dal think tank rilevano inoltre la presenza di bambini fino a dieci anni d'età e persone anziane intorno agli ottant'anni. Un particolare che, come nel caso delle «jihad family» provenienti dall'Asia Centrale, parrebbe suggerire una radicalizzazione frequentemente indotta da necessità di ordine economico più che da una reale ispirazione ideologica. Anche se ormai sempre più spesso il coinvolgimento di interi nuclei famigliari viene utilizzato dai jihadisti per depistare i controlli durante il tragitto verso i teatri di guerra mediorientali.

(Pubblicato su China Files)

martedì 19 luglio 2016

Il golpe turco visto da Pechino


Il fallito colpo di Stato messo in atto dall'esercito turco, in Cina ha ricevuto un'attenzione limitata sui social, ma non è passato del tutto inosservato. Nella giornata di sabato, il ministro degli Esteri Wang Yi ha invitato Ankara a ristabilire l'ordine non appena possibile, smentendo la presenza di cittadini della Repubblica popolare nel computo delle vittime. Normalmente Pechino si tiene alla larga dal prendere posizioni troppo nette davanti a questioni che riguardano la politica interna degli altri Paesi, tuttavia negli ultimi tempi non ha esitato ad esternare le proprie preoccupazioni davanti ai repentini cambi di regime nelle regioni in cui gli interessi cinesi sono più accentuati. Medio oriente e Maghreb in primis.

Mentre al di qua la Muraglia la foto simbolo del mancato golpe, quella di un uomo che fronteggia un carrarmato vicino all'aeroporto Ataturk di Istanbul, veniva accostata al «rivoltoso sconosciuto» dipiazza Tian'anmen, a circolare su Weibo, il Twitter cinese, erano sopratutto informazioni di carattere pratico per i connazionali in Turchia. E se l'analista politico Fang Shaowei ha dichiarato sul suo account che, con sommo dispiacere dei liberali, «la possibilità che un golpe avvenga in Cina è pari a zero», un altro utente ha ringraziato l'ateismo di Stato per aver salvato l'ex Impero Celeste dalla trappola della «fede religiosa», responsabile dell'ondata di radicalismo vissuta oggigiorno dal mondo arabo.

Ma, come fa notare qualcuno, negli ultimi giorni la rete cinese è stata rapita da tematiche ben più
frivole. «Weibo è tutto preso dall'attrice Zhao Wei. L'attacco terroristico di Nizza e il colpo di Stato militare in Turchia non sono riusciti ad offuscare la sua popolarità! Spero davvero che lei rimarrà sempre nel mio cuore, mia dolce, gentile Pei Rong», scrive un utente riferendosi ad uno dei personaggi interpretati dalla star cinese finita recentemente nell'occhio del ciclone per aver assoldato nel cast del suo ultimo film da regista un attore taiwanese filo-indipendentista.

Il golpe non ha comunque lasciato indifferente la stampa governativa. «L'Instabilità della Turchia potrebbe causare un effetto a catena» titolava domenica il semiufficiale Global Times, riferendosi all'attacco sferrato a Erevan contro una stazione di polizia dal gruppo d'opposizione «Nuova Armenia» a poche ore dall'escalation turca. L'editoriale, dai toni insolitamente pacati, continua commentando l'opera di pulizia messa in atto dal presidente turco Erdogan per eliminare i traditori, non senza criticare tra le righe i limiti tanto del leader quanto dell'esercito. Definendo la Turchia «il perno dell'Asia occidentale», il tabloid nazionalista ricorda che «i Paesi islamici del Medio Oriente sono spesso governati da una figura autoritaria, sia questa un re, un leader politico eletto dal popolo, o un leader religioso. Da quando ha aderito alla NATO, la Turchia non ha più avuto una figura politica potente come il padre fondatore Mustafa Kemal Atatürk. L'esercito turco, suscettibili all'influenza della NATO, è considerato come la forza principale dietro al consolidamento del processo di secolarizzazione della Turchia. I precedenti colpi di Stato [tre dal 1960 a oggi con scadenza decennale] sono riusciti a interrompere la crescita del potere conservatore». D'altronde, Pechino ha sperimentato sulla propria pelle quanto Ankara sia esposta alle pressioni dell'Alleanza dei 28, culminate lo scorso inverno nell'annullamento della gara d'appalto internazionale sulla fornitura dei sistemi di difesa missilistica precedentemente vinta dalla China Precision Machinery Import and Export Corporation.

In un editoriale a caldo, sabato il quotidiano aveva attribuito alla rivolta militare «significati di vasta portata»: «la Turchia è ben lungi dall'aver completato il movimento secolare che ha avuto inizio un secolo fa. Il Paese è ancora in bilico tra l'accettazione delle istituzioni politiche occidentali e la difesa della cultura islamica tradizionale». Poi aggiungeva che «in questo fallito colpo di stato, l'esercito ha perso contro il governo democraticamente eletto e i carri armati non sono stati in grado di conquistare il pubblico inerme. Questo potrebbe suggerire che il Medio Oriente sta attraversando una fase di cambiamento fondamentale. Invece di riuscire a innescare una rivoluzione colorata, i militari hanno incassato un duro colpo. La resa dei soldati braccia alzate ai cittadini è senza precedenti».

All'indomani del fallito colpo di Stato, l'Economic Observer ha proposto un'analisi di Qin Hui, professore della Tsinghua University, sulle difficoltà incontrate da Ankara nella lunga marcia verso l'Unione Europea. Secondo l'esperto la forte impronta islamica costituisce il principale freno ad un processo di piena integrazione nel blocco europeo, che dagli anni '80 in poi ha visto una diversificazione della membership con l'ingresso della Grecia ortodossa, ma che ancora non include nessuno Stato musulmano. Questo nonostante «la Turchia vanti un livello di sviluppo superiore a quello di altre Nazioni dell'Europa orientale e dell'Ue, come la Bulgaria, e una condizione finanziaria di gran lunga migliore rispetto ad altri Paesi dell'Europa meridionale».

Dal 2010, Cina e Turchia sono blindate da un partenariato strategico e scambi commerciali pari a 24 miliardi di dollari annui. Ma un anno fa esatto i rapporti tra i due Paesi si erano fatti tesi - in concomitanza con la festività del Ramadan - dopo i commenti solidali del governo turco a favore della minoranza uigura, di lingua turcofona e fede musulmana, che abita la regione autonoma cinese dello Xinjiang. La Turchia rappresenta un punto di arrivo per gli uiguri in fuga dalla Cina a causa delle tensioni etniche che scuotono periodicamente la regione. E talvolta le prese di posizione di Ankara sulla questione indispettiscono il regime cinese, come nel caso delle proteste turche innescate dal rimpatrio di 109 cittadini uiguri scappati in Thailandia e riconsegnati nelle mani di Pechino. All'epoca dei fatti Erdogan aveva solennemente assicurato che non avrebbe mai permesso «a nessuno di usare il territorio turco per fare qualsiasi cosa capace di recare danno agli interessi nazionali e alla sicurezza della Cina». Ma fonti diplomatiche continuano a sostenere la tesi di un coinvolgimento di Ankara nel rilascio di passaporti turchi agli uiguri riparati nel Sud-est asiatico.

Come spiegava puntualmente il Global Times, «per la Cina la Turchia è uno dei Paesi più forti del Medio Oriente, una porta d'accesso all'Europea meridionale nonché un collegamento cruciale per l'iniziativa 'One Belt One Road'. Gli interessi economici in comune sono il fattore più importante in grado di mantenere i legami tra i due Paesi sul giusto binario». In quest'ottica, la stabilità del governo di Ankara è di cruciale importanza per la buona riuscita del progetto Nuova Via della Seta. Meglio un «sultano atlantico» che un'altra primavera araba.

(Pubblicato su China Files)

mercoledì 13 luglio 2016

Mar cinese meridionale: Pechino condanna la sentenza dell'Aja


Non solo la Cina non possiede diritti storici nel Mar cinese meridionale. Ma ha anche violato la sovranità delle Filippine, conducendo esplorazioni in prossimità del Reed Bank, all'interno della zona economica esclusiva (zee) di Manila. Seppur ampiamente preannunciato, il verdetto della Corte permanente di arbitrato dell'Aja (12 luglio) non ha mancato di adirare Pechino che ancora prima dell'ufficializzazione della sentenza aveva annunciato, in segno di avvertimento, la buona riuscita di test di atterraggio in due nuovi aeroporti nell'arcipelago delle Spratly, conteso con Vietnam, Filippine, Malesia, Taiwan e Brunei. Altrettanto sospetto il tempismo con cui il ministero della Difesa cinese ha rivelato la commissione di un nuovo cacciatorpediniere lanciamissili ad una base navale sull'isola-provincia di Hainan, nel profondo sud cinese. In un breve comunicato giunto a ridosso del verdetto, il dicastero si è impegnato a «salvaguardare fermamente la sovranità nazionale, la sicurezza, i diritti e gli interessi marittimi, a sostenere la pace e la stabilità, e ad affrontare ogni tipo di sfida e minaccia». In base alla minaccia avvertite, il governo cinese si avvarrà della possibilità di istituire una zona di difesa aerea, come già avvenuto nel Mar cinese orientale.

Secondo il tribunale, Pechino avrebbe violato non meno di 14 disposizioni dell'UNCLOS (Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare) , 6 del COLREG (Regolamento internazionale per prevenire gli abbordi in mare) e una regola generale del diritto internazionale. Volendo sintetizzare le 500 pagine di documentazione, i punti salienti sono sostanzialmente cinque:

1) La «linea dei nove tratti» (che abbraccia quasi il 90 per cento del Mar cinese meridionale) e i «diritti storici» reclamati dalla Repubblica popolare non hanno alcun fondamento giuridico.

2) Le Spratly, rivendicate dalla Cina, non possono, né individualmente né collettivamente, generare una zona economica esclusiva.

3) La Cina ha violato la sovranità delle Filippine, ha interferito illegalmente con i diritti di pesca tradizionali delle Filippine, e ha creato gravi rischi di collisione, impegnandosi in pratiche di navigazione non sicure e ostruendo le navi filippine.

4) La Cina ha violato gli obblighi di preservare e proteggere l'ambiente marino, conservare le riserve ittiche, e prevenire la raccolta su larga scala delle specie in via di estinzione. Gli esperti hanno rilevato gravi danni alle scogliere.

5) Le attività di costruzione portate avanti dalla Cina sulle isole artificiali violano gli obblighi durante il procedimento di risoluzione delle controversie e non conferiscono alcun diritto legale aggiuntivo alle formazioni marine stesse.


Poco dopo l'annuncio dell'Aja, una lettera di condanna firmata da oltre 20mila persone, e redatta da giovani studiosi cinesi di stanza nei Paesi Bassi, è stata inoltrata alla divisione per gli Affari e la Legge del Mare presso l'Ufficio legale delle Nazioni Unite, oltre che ad altri organi giudiziari internazionali. «Le vere dispute nell'arbitrato sono quelle che riguardano il territorio e le delimitazioni marittime», recita il testo, «per quanto riguarda la giurisdizione, l'Unclos non affronta le dispute territoriali e le dispute di delimitazione sono state escluse dalle procedure obbligatorie secondo quanto dichiarato dalla Cina ai sensi dell'articolo 298». Nel 2014, la Cina ha rifiutato la giurisdizione della corte sostenendo che non abbia competenza sui casi che riguardano la sovranità, eccezione sollevata in passato anche da altri Paesi. Secondo quanto affermato dai media di Stato, sarebbero oltre 70 le nazioni a sostenere la posizione cinese in merito alla sovranità nelle acque contese.

La questione è stata ripresa anche dal leader cinese Xi Jinping durante un incontro con il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk e il capo della Commissione europea Jean-Claude Junker a Pechino per presenziare all'annuale China-EU Summit. «Insistiamo fermamente a mantenere la stabilità nel Mar cinese meridionale, e a negoziare direttamente con gli Stati coinvolti per trovare una risoluzione pacifica alle controversie, nel rispetto della storia e del diritto internazionale». Tanto Tusk quanto il Dipartimento di Stato americano hanno espresso l'augurio che entrambe le parti rispettino i loro obblighi. In tutta risposta il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha definito l'arbitrato «una farsa politica sostenuta con il pretesto legale» e manipolata da forze straniere, vago riferimento all'indigesta interferenza di Washington al fianco degli alleati asiatici nelle acque agitate. Negli scorsi giorni la stampa cinese aveva messo in dubbio la neutralità dei cinque giudici incaricati di valutare il caso quando, nel 2013 Manila si rivolse alla corte dell'Aja per mettere fine alle angherie subite dai pescatori filippini presso lo Scarborough Shoal; a suscitare diffidenza soprattutto il ruolo di Shunji Yanai, esponente della destra giapponese, incaricato di formare il collegio arbitrale.

Anche il popolo del web non ha mancato di dire la sua. In un bagno di nazionalismo, l'hashtag «arbitrato Mar cinese meridionale» (#南海仲裁案) è diventato trending topic nella serata di martedì, con 360 milioni di visualizzazioni attorno alle 21.00 ora di Pechino. Mentre il Global Times, noto per i suoi editoriali piccati, ha totalizzato 21mila commenti sul suo account Weibo dopo aver lanciato una campagna di protesta contro la decisione dell'Aja. C'è chi ha invitato i propri connazionali a boicottare i prodotti filippini, chi a dichiarare guerra al vicino asiatico, chi invece si è spinto su toni tranchant. «Come osi! Un venditore di banane che ruba il Mar cinese meridionale al proprio padre!» ironizza una vignetta xenofoba circolata sul Twitter cinese. «Bu jieshou, bu chengren, bu zhixing» («non accettare, non ammettere, non eseguire») è il meme rimbalzato dalla stampa ufficiale ai social network. Sia i post contrari alla vulgata ufficiale sia quelli ultra-nazionalisti sono finiti inesorabilmente sotto la scure dei censori.

Ma a considerarsi «parte lesa» non è soltanto Pechino. A sorpresa, il tribunale internazionale ha infatti negato a Taiping/Itu Aba (l'unica formazione naturale del Mar cinese controllata da Taiwan) lo status di isola, pestando i piedi a Taipei che ambiva a vedere formalmente riconosciuti i propri diritti di sfruttamento entro le 200 miglia nautiche, estensione massima della zee - stando all'UNCLOS la zee non viene applicata a scogli e isolotti disabitati. Allineandosi alla posizione cinese, l'ufficio di presidenza taiwanese ha fatto sapere che l'arbitrato non è da considerarsi giuridicamente vincolante. D'altraparte, non potrebbe essere altrimenti considerato che la famigerata «linea dei nove tratti» si fa risalire ad una mappa stilata negli anni '40 dal governo nazionalista, prima della fuga oltre lo Stretto. Nella mattinata di mercoledì, una nave da guerra taiwnaese ha preso il largo verso Taiping per «difendere la sovranità e il territorio di Taiwan».

(Pubblicato su China Files)

martedì 12 luglio 2016

La Cina e le gemme insaguinate dei taliban


Una ricerca condotta dall'Ong Global Witness nell'arco di due anni dimostra come l'industria afgana delle pietre preziose sia sfuggita dalle mani del governo di Kabul finendo per finanziare i vari gruppi armati locali, i talebani, forse persino l'Isis. E la fetta più ampia di questo export insanguinato arriva in Cina, passando per il Pakistan. Una bella gatta da pelare per il governo di Ashraf Ghani e per la leadership cinese, intenta a cementare la propria posizione nella regione attraverso una serie di progetti infrastrutturali mirati a veicolare simultaneamente sviluppo e sicurezza.

«L'Afghanistan è seduto su depositi di minerali, petrolio e gas di un valore di oltre un trilione di dollari, che, se sviluppati adeguatamente, potrebbero fornire al governo oltre 2 miliardi di dollari di fatturato l’anno. Ma la corruzione dilagante e l'incapacità di garantire la sicurezza dei siti minerari ha spinto i giacimenti nel mirino degli insorti, rendendoli una tra le principali cause dei conflitti e dell'estremismo». E' quanto emerge dal rapporto di Global Witness, che nello specifico si concentra sulle ricchezze sperperate nel comparto delle pietre preziose. Il paese dell'Asia Meridionale vanta miniere di lapislazzuli antiche di millenni, potenzialmente in grado di risollevare l'Afghanistan dai gironi bassi cui è stato relegato nella classifica stilata in base al Pil dalla World Bank.
L'epicentro del contrabbando è localizzato nella provincia del Badakhstan, dove il settore estrattivo rappresenta una delle poche fonti d'impiego per la popolazione locale. Nella regione, un tempo nota come roccaforte della resistenza contro i talebani, da un paio di anni regna il caos. L'Ong londinese colloca l'escalation all'inizio del 2014, quando le miniere del distretto di Kuran wa Munjan sono state rilevate dal comandante Malek, un ex capo del distretto governativo della polizia locale vicino all'ex ministro degli Interni e della Difesa Bismillah Khan.

Non che le cose andassero molto meglio quando le miniere di lapislazzuli erano ancora controllate da Zulmai Mujadidi, un potente deputato afgano del Badakhshan, il cui fratello Asadullah Mujadidi ricopriva l'incarico di comandate della Mining Protection Force, sfruttando «la sua posizione per estrarre profitti per conto proprio e dei suoi alleati, piuttosto che per quello del governo afgano o della popolazione locale». Global Witness fa un altro nome: quello di Zekria Sawda, presidente della commissione delle Risorse e dell'Ambiente naturale della Camera bassa, che all'epoca gestiva una concessione di tormalina nel Badakhshan e aveva stretti legami con Zulmai Mujadidi. Negando di avere contatti tra i ribelli del Badakhshan, entrambi, Zekria Sawda e Asadullah Mujadidi, hanno puntato il dito contro i loro oppositori politici.

Stando all'Ong, nel 2014 i gruppi armati provinciali hanno intascato una cifra prossima ai 20 milioni di dollari, di cui 1 milione finito nelle mani dei talebani. Per avere un metro di paragone, si consideri che nel 2013 il governo di Kabul ha guadagnato complessivamente la stessa cifra dalle entrate estrattive ripartite su tutto il territorio afgano. Secondo il rapporto, nel corso del tempo la posizione dei barbuti nel contrabbando dei lapislazzuli si è continuata a rafforzare, raggiungendo il 50 per cento delle entrate dirette del settore minerario nella seconda metà del 2016 - lo sorso anno avevano già toccato quota 4 milioni di dollari. Numeri che rendono l'industria mineraria la seconda fonte di proventi per i taliban dopo il narcotraffico.

La situazione ha visto un netto peggioramento da quando, nei primi mesi del 2015, il governo afgano ha formalmente vietato il commercio e l'estrazione delle pietre blu. Alla chiusura della principale scorciatoia attraverso la valle di Faizabad, il commercio illegale è stato dirottato verso i passi dell'Anjuman e del Panjshir, in quella che viene considerata la provincia più sicura del paese.

Tra il 2014 e il 2015, circa 200 milioni di dollari di lapislazzuli estratti nella provincia del Badakhstan hanno preso la strada verso Oriente, transitando attraverso il Pakistan, per poi approdare nelle gioiellerie cinesi. Non capita di rado che i cosiddetti «minerali di conflitto» finiscano oltre la Muraglia grazie alla connivenza delle autorità cinesi lungo le aree di frontiera. E' quanto accade da anni negli Stati autonomi del Myanmar orientale, dove il contrabbando delle risorse naturali viene sfruttato per oliare il conflitto etnico che lacera il Paese dei Pavoni dalla fine del colonialismo britannico.

Nel caso afgano, però, le implicazioni sono preoccupanti anche per Pechino, impegnato a resuscitare le antiche vie commerciali della Via della Seta, dall'Asia Orientale all'Europa. Al momento l'Afghanistan rientra nella Silk Road Economic Belt (il ramo terrestre della One Belt One Road) più nelle parole che nei fatti; il governo cinese ha promesso a Kabul soltanto 100 milioni di dollari, contro i 45 miliardi stanziati in Pakistan e i 31 miliardi in Asia Centrale. Ma l'instabilità dell'Afghanistan - squassato da una interminabile guerra civile - costituisce ugualmente un incognita per la buona riuscita del progetto nel suo insieme, oltre che una minaccia alla sicurezza interna della Repubblica popolare, con cui condivide quasi 93 chilometri di confine. Come riporta Global Witness, - oltre ai taliban - il Badakhshan ospita un piccolo gruppo di miliziani, di varie nazionalità, simpatizzanti dello Stato Islamico: l'Islamic State of Khorasan Province (IS-K), affiliato al Daesh siriano-iracheno. Pare che la sigla non dispiaccia nemmeno agli uiguri radicalizzati dello Xinjiang, la regione autonoma musulmana della Cina occidentale, definita il «Far West» cinese non soltanto per la sua collocazione geografica, ma anche per la «guerra a bassa intensità» da cui viene periodicamente scossa.

Ecco che, mentre Pechino vaglia un maggior coinvolgimento nel «cuore dell'Asia» attraverso piattaforme di dialogo come il Quadrilateral Coordination Group (Afghanistan-Pakistan-Usa-Cina ), la lotta alle gemme illegali porterebbe vantaggi ad ambo le parti: più entrate per Kabul e maggiore stabilità per il gigante della porta accanto. Una strategia rigorosamente «win-win», come piace ripetere fino alla nausea ai leader cinesi.

(Pubblicato su China Files)

sabato 9 luglio 2016

Il debutto cinese di Tsipras


È cominciata con 19 colpi a salve la visita di Stato di Alexis Tsipras in Cina, la prima del premier greco da quando ha assunto l'incarico nel 2015 e la prima di un capo di Governo ellenico in quasi 10 anni. La missione coincide con il decimo anniversario dell'istituzione della «partnership strategica comprensiva» tra i due paesi, che vedrà in futuro nuove sinergie prendere forma grazie alla cessione di una quota di maggioranza del Pireo al gigante cinese Cosco e all'organizzazione di un comitato congiunto sull'economia e il commercio, ospitato a turno da Pechino e Atene. Il Dragone aggiunge un nuovo mattone alla Nuova Via della Seta.

Tsipras è atterrato a Pechino sabato 2 luglio, ma la trasferta è entrata nel vivo soltanto lunedì, quando il premier greco, in versione «casual» (con giacca ma senza cravatta), ha incontrato l'omologo cineseLi Keqiang nella Grande Sala del Popolo, la location prestigiosa in cui si svolgono i consessi rossi e vengono accolti gli ospiti più illustri. Astenendosi dai consueti fronzoli del diplomatichese, Tsipras si è fatto promotore di un messaggio dai toni rassicuranti. Senza giri di parole: la crisi è finita, il paese ha voltato pagina dopo anni di recessione. Ora servono «investimenti shock» per risolvere il problema disoccupazione. «Un amico vero si vede nel momento del bisogno», ha scandito il leader di Syriza. Et voilà, accontentato: domenica il primo ministro greco ha incontrato il presidente di Wanda Group(nonché l'uomo più ricco di Cina), Wang Jianlin per discutere della possibile apertura di studi cinematografici nel paese, mentre il pit stop presso il parco tecnologico di Huawei parrebbe aver ispirato Tsipras a realizzare altrettanto ad Atene, offrendo alla multinazionale cinese delle telecomunicazioni un gemellaggio con Salonicco, la «Silicon Valley» ellenica.

Intanto, una serie di accordi nei settori della cultura, dell'istruzione, degli investimenti e del commercio hanno messo il cappello a quella che il premier greco ha definito «la testa del Drago»: la scorsa settimana con 233 voti favorevoli (su 248 deputati presenti), il parlamento ellenico aveva approvato la concessione di sfruttamento del porto del Pireo alla China ocean shipping company(Cosco), il colosso cinese del trasporto marittimo. L'accordo, firmato ad aprile tra Cosco e l'agenzia greca per le privatizzazioni, prevede, fino al 2052, la cessione del 67 per cento della Olp, la società che gestisce il porto ateniese. I termini dell'intesa prevedevano nell'immediato un investimento di 368,5 milioni di euro e altri 350 milioni nell'arco del prossimo decennio, ma mercoledì la compagnia cinese ha promesso un'aggiunta di 500 milioni e la creazione di 31mila nuovi posti di lavoro.
Ma non tutto fila via liscio come l'olio, e mercoledì durante l'ultima tappa della missione cinese, quella di Shanghai, il presidente di Cosco, Xu Liong, ha espressamente chiesto aiuto a Tsipras per dirimere la questione degli scioperi - inscenati dai portuali in odore di licenziamento - che dalla fine di maggio hanno bloccato lo scalo per 48 ore, disturbando il regolare svolgimento delle operazioni di carico-scarico. Un intoppo che, tuttavia, non fermerà la lunga marcia di Pechino.

«La Grecia è la prima tappa del viaggio della Cina verso l'Europa e può diventare un ponte tra l'Asia e l'Europa», ha affermato Tsipras, sottolineando la posizione strategica del Pireo, pochi chilometri a sud di Atene e prossimo al canale di Suez. Fattore che lo rende una strategica porta d'accesso al Vecchio Continente, specie alla luce degli sforzi messi in capo da Pechino per implementare la connettività attraverso l'Eurasia sotto la sigla One Belt One Road. Ecco che la Grecia si presenta come un hub determinante tanto per la rotta marittima (la 21st-Century Maritime Silk Road) quanto per il ramo terrestre (la Silk Road Economic Belt). E già si parla di un possibile coinvolgimento cinese nel porto di Salonicco, il secondo principale scalo marittimo del paese a cui aspirano anche la danese APM e la filippina ICTS. «Siamo certi che il Pireo aprirà nuove prospettive per allargare la partnership sino-greca nei trasporti, nelle infrastrutture, nelle telecomunicazione e nei trasporti», ha dichiarato martedì il presidente cinese Xi Jinping ricevendo l'ospite.

Dopo la «testa», ecco che si profila il «la sagoma» del Drago. Oltre ad investire nel porto, Cosco ha deciso di finanziare un terminale ferroviario che aggancia lo scalo marittimo al resto della rete ferroviaria nazionale, mentre Atene sta spingendo per la firma di un trattato doganale in grado di facilitare il collegamento diretto tra il Pireo e la Cina attraverso la linea Belgrado-Budapest, annunciata nel novembre 2014. Obiettivo conclamato: più merci cinesi in Europa e viceversa.

Non a caso in una dichiarazione congiunta rilasciata martedì, Pechino si è detto favorevole ad un ingresso della Grecia (come osservatore) nella «piattaforma 16+1» che vede al momento partecipi i16 Paesi dell'Europa centrale e orientale più la Repubblica popolare, ma di cui i Balcani sono partner privilegiato per vicinanza geografica. E' proprio lì, sulla penisola, che la Via della Seta marittima e quella terrestre si incontrano; un secondo «cuore dell'Eurasia» meglio integrato e accessibile rispetto all'Asia Centrale - che vanta tra le infrastrutture commerciali più arretrate al mondo.

Ma, come spesso accade, il Risiko commerciale ha indiretti risvolti politici, e a sentir chiamare la Grecia «il partner europeo più affidabile che la Cina abbia» c'è da scommettere ci sia in ballo ben più che la privatizzazione del Pireo. D'altronde Pechino non ha mai nascosto un certo compiacimento per il «Greekment», il patto «col Diavolo» che nel luglio 2015 ha permesso ad Atene di ricevere credito dai vertici dell'Euro a condizioni molto severe, sconfessando l'esito negativo del referendum popolare. In un'intervista rilasciata a Sputnik, Su Hao, professore presso del Dipartimento di Diplomazia presso la China Foreign Affairs University, ha dichiarato che le relazioni tra i due paesi vanno ricollocate nello scenario post-Brexit. «Dato che la Cina vuole un'Europa unita politicamente ed economicamente, è di importanza cruciale che la Grecia riesca a rimanere nell'Ue [...] La Cina ha gli strumenti finanziari necessari ad aiutarla, se ce ne fosse bisogno», ha spiegato l'accademico, alludendo alla Silk Road e alla sua superbanca, l'AIIB.

(Pubblicato su China Files)

venerdì 8 luglio 2016

La rassegna: Dispacci dalla Silk Road Economic Belt



Il governo cinese corteggia i vicini musulmani. L'ultima vittima della propaganda cinese è l'Indonesia, il paese con la popolazione islamica più numerosa al mondo è stato invitato a verificare il rispetto delle minoranze musulmane nello Xinjinag. (Washington Post). Negli ultimi giorni anche una delegazione pakistana ha visitato la regione autonoma in riferimento alle presunte restrizioni applicate da Pechino durante la festività del Ramadan. Il risultato della missione - molto criticato dagli osservatori internazionali- sarebbe a favore della tesi di Pechino: totale rispetto delle usanze locali. (Tribune)

Secondo un'inchiesta di Global Witness, in Afghanistan l'estrazione illegale delle pietre preziose -che arrivano in Cina passando per il Pakistan- sta ingrossando le tasche dei talebani nella provincia di Badakhstan, nel nord del Paese, dove si annovera la presenza, tra gli altri, di un piccolo gruppo filo-Isis, che comprende miliziani uiguri dello Xinjiang. Secondo report diplomatici, il 50 per cento dei ricavi dal settore finisce nelle mani dei barbuti, che traggono dalle miniere la maggior parte del sostentamento, dopo il traffico di droga. Sta alla Cina, acquirente numero uno di lapislazzuli e vittima di frequenti attacchi terroristici, fare pressione sul governo di Kabul per rafforzare la regolamentazione dell'industria mineraria afghana. (China Dialogue)

La partnership tra Pechino e Astana sembra mettere in allarme i vicini dell'ex Urss. Secondo l'analista Dmitriy Frolovskiy, per esempio, l'area economica speciale di Khorgos viene vista con sospetto da Bishkek, dal momento che è cinque volte più grande del Dordoi, il bazar kirghiso considerato il più voluminoso dell'Asia Centrale. Inoltre la mancanza di una strategia regionale ben precisa potrebbe lasciare spazio a Pechino per passare da un approccio focalizzato sull'economia ad uno più improntato sulla sicurezza, con il rischio che si venga ad alterare l'equilibrio assicurato dal Tratto Collettivo sulla Sicurezza a guida moscovita. Per sgonfiare la tensione derivante da una maggiore assertività nell'area, Pechino sta puntando sul potenziamento del proprio soft powe, senza tuttavia troppo successo: secondo la Banca di sviluppo eurasiatico, solo un kazako su sei percepisce la Cina come una "nazione amica". (The Diplomat)

L'Afghanistan ha ricevuto il suo primo lotto di materiale militare cinese nell'ambito di un piano di aiuti contro il terrorismo da milioni di dollari. Il carico conteneva tra le altre cose attrezzature logistiche, parti di veicoli militari, munizioni e armi per la ANSF (VOA), ma -come specifica il Global Times - gli aiuti non comprendono armi pesanti per diminuire i rischi che seguirebbero nel caso i terroristi o dei ribelli riuscissero ad entrarne in possesso.

Durante l'ultima visita della Merkel a Pechino, Cina e Germania si sono accordate per finanziare un centro di risposta ai disastri in Afghanistan. (Asia Sentinel)

Un fotografo di Pechino, nato in una famiglia musulmana, ha documentato le tradizioni e le festività islamiche attraverso la Cina in una bella raccolta fotografica. (Shaghaiist)

Le SOE continueranno a farla da padrone, dal momento che i progetti in cantiere lungo la Silk Road sono soprattutto ferroviari ed energetici, comparti in cui i colossi di Stato sono ben radicati. Gli investimenti cinesi in infrastrutture ed energia -spalmati tra Kazakistan, Turkmenistan e Kirghizistan - ammontano a circa 45 miliardi di dollari. (CNBC)

I trasporti sono il cardine delle relazioni tra la Cina e la Russia. Lo ha dichiarato il vicepremier Liu Yandong alla cerimonia di apertura del China-Russia High-speed Rail Research Center a San Pietroburgo. Il centro è votato al supporto tecnico per la realizzazione della Nuova Via della Seta e dell'Unione economica eurasiatica. (Xinhua)

Il Global Times ha intervistato He Yiming, direttore capo del Partito del Dipartimento del Commercio dello Xinjiang. Il commercio crossborder costituisce il 56,8 per cento del totale degli scambi commerciali intrattenuti dallo Xinjiang e 27,5 per cento dell'import-export di piccolo taglio in Cina. Il settore privato costituisce ben l'83,3 per cento del volume totale. I settori tessile, dell'elettronica e della meccanica hanno tutti registrato una crescita a due cifre quest'anno. L'Unione economica eurasiatica che abbatte le barriere commerciali interne al blocco alzando al contempo quelle con i paesi non-membri ha avuto un grande impatto sullo Xinjinag: le tariffe sui commerci con kirghizistna, Armenia e Kazakistan sono aumentate con il risultato che l'export dallo Xinjinag è diminuito. Questo sta spinegndo la regione autonoma a cercare di diversificare i propri partner puntando su Sud-est asiatico, specie per il commercio di frutta. I principali partner commerciali al momento sono, in ordine, il Kazakistan, il Kirghizistan, la Russia e il Tajikistan. Gli scambi con questi quattro paesi contano per il 75 per cento del totoale del comemrcio con l'estero. Solo il Kazakistan copre il 40 per cento. (Global Times)

La tradizione secolare del bazar sta attraversando un periodo di trasformazione, come si può notare presso il Grand Bazaar di Urumqi, -si dice- il più grande del mondo. Il bazar si sta evolvendo dal mercato fisico alla piattaforma online sulla scia del grande successo riscosso dall'e-commerce in Cina. Il cambiamento è dovuto in parte a ragioni di sicurezza: dopo gli ultimi attentati la gente è meno propensa a passare il tempo nei mercati. Poi c'è la predilezione dei cinesi per Taobao e JD, che sta spingendo i negozianti ad aprire degli store online senza tuttavia ottenere il successo sperato, dal momento che i prezzi sule piattaforme già consolidate sono molto più economici. Senza contare le difficoltà linguistiche incontrate dagli uiguri (Global Times)

Secondo le autorità di Ankara, dietro l'ultimo attacco all'aeroporto di Istanbul ci sono un russo, un tagiko e un uzbeko. La notizia è stata inserita dai media internazionali nell'ambito di una presunta radicalizzazione dell'Asia Centrale, a cui gli esperti della regione danno poco credito. (The Diplomat)

giovedì 7 luglio 2016

Le due Cine di Sesto Fiorentino


A quasi una settimana dalle proteste violente di Sesto Fiorentino, in cui sono rimasti feriti tre operai cinesi e quattro poliziotti, la ricostruzione dei fatti ha raggiunto un punto morto. Gli scontri innescati nel pomeriggio del 29 giugno da un controllo della Asl in un capannone, hanno visto i cinesi condannare le maniere brusche adottate delle autorità durante le ispezioni e rispondere a loro volta con il lancio di pietre e bottiglie. La rivolta, che ha finito per coinvolgere nella notte di mercoledì circa 300 cinesi provenienti dalle aree limitrofe, è stata guidata da ragazzi della terza generazione di immigrati e coordinata attraverso i social, proprio come ormai avviene sempre più spesso nella Repubblica popolare durante le varie manifestazioni di piazza.

Venerdì, il ministero degli Esteri cinese ha invitato il governo italiano a «portare avanti indagini eque e ad applicare la legge in maniera civile», proteggendo allo stesso tempo i diritti e la sicurezza dei cittadini cinesi residenti in Italia. Oltre la Muraglia, la notizia è stata ripresa in forma stringata anche dal Global Times, spin off del People's Daily, mentre sul web sono emersi messaggi di solidarietà verso i huaren, i cinesi d'oltremare.

«Da queste foto capiamo che i connazionali all'estero devono unirsi tra loro. Oggi a Firenze, in Italia, la polizia ha maltrattato degli immigrati cinesi. Tutti, compreso il consolato e il governo, devono intervenire. All'estero siamo diligenti e rispettosi della legge. Speriamo che la legge riesca ad assicurarci un trattamento equo, quando innalzeremo la bandiera cinese. Non siamo una persona sola, siamo una Nazione. Compatrioti, coraggio!» scrive su Weibo miki_泪, allegando un'immagine delle proteste in bianco e nero, in cui l'unica nota di colore è rappresentata dalla bandiera rossa a cinque stelle. Più riflessivi i toni dell'imprenditore Jerry Hu che fornisce una ricostruzione degli eventi - corredata di video a testimonianza delle maniere forti adottate dalle forze dell'ordine - facendo leva sul nervosismo innescato tra gli immigrati cinesi dalle frequenti rapine rimaste impunite e sulla loro ben nota natura pacifica. Non hanno mai creato problemi, perché proprio ora?

A fare da teatro alle proteste l'Osmannoro, l'area pianeggiante compressa a sandwich tra la periferia di Firenze e Prato. Lì, fra i capannoni lungo l'autostrada A11 Firenze-mare, sorge un pezzo di Chinatown dove «ditte alveari» producono borse e portafogli di pelle. E' un'area che ormai da anni è finita sotto la lente della polizia; da quando è stato avviato il piano «Lavoro sicuro» all'indomani della tragedia di Teresa Moda, in cui nel 2013 morirono sette operai cinesi impiegati in un laboratorio-dormitorio. Da allora la Regione ha ispezionato quasi seimila aziende e incassato oltre cinque milioni di euro in sole multe. Nel febbraio 2014, proprio a Sesto Fiorentino in due capannoni di circa 1.200 metri quadrati, sono state rinvenute 21 ditte, quasi tutte a conduzione famigliare, con 42 lavoratori cinesi, di cui 23 completamente in nero e 13 irregolari. Tra gli operai anche 2 minori e 1 clandestino. Insomma, i controlli sono una prassi ricorrente a Sesto, le irregolarità anche, eppure non sempre finiscono con spargimenti di sangue.

Smentendo la possibilità che quella del 29 giugno sia stata una protesta spontanea, il governatore della Toscana Enrico Rossi ha parlato di «un'organizzazione con un obiettivo preciso», alludendo all'associazione Cervo Bianco, guidata da Ye Jiandong (detto Jack) e responsabile di una serie di spedizioni punitive contro la comunità magrebina, accusata da tempo di furti ai danni dei commercianti cinesi sotto gli occhi indifferenti delle forze dell'ordine italiane. Da sabato Jack è rinchiuso nel carcere della Dogaia in seguito all'avvio di una nuova inchiesta coordinata dalla procura di Prato sulle violenze razziali che - ufficialmente - non è collegata ai fatti del 29 giugno. Ma ufficiosamente parrebbe esserlo dal momento che il pregiudicato cinese (precedentemente in stato di semilibertà) era tra gli animatori dell'adunata organizzata davanti al Palazzo di giustizia di Firenzeall'indomani degli scontri di Sesto Fiorentino.

Il 1 giugno un altro associato di Cervo Bianco, Jacopo Hsiang, 32 anni, nato a Firenze, è finito in carcere per sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione, e spaccio di cocaina e ketamina.Un curriculum non male per uno che aveva diretto le proteste dello scorso 6 febbraio al Macrolotto 0, quando duemila cinesi scesero in strada per invocare maggiore sicurezza e legalità in riferimento ai numerosi scippi di cui sono bersaglio per via dell'ingente liquidità di cui dispongono - e che parte dei pratesi imputa al lavoro in nero e all'evasione fiscale, ben documentata peraltro nell'inchiesta suimoney transfer.

Mentre al momento rimane difficile stabilire con certezza se vi sia un nesso tra i tafferugli di Sesto Fiorentino e le oscure operazioni di Cervo Bianco, dal tempismo degli ultimi blitz appare evidente che questa è la pista battuta dalle autorità nostrane, col rischio si finisca per fare di tutta l'erba un fascio.

Il fatto è che c'è una Cina integrata che -stando all'ultimo rapporto della Fondazione Leone Moressa, Studi e ricerche sull'economia dell'immigrazione - in Italia produce 6 miliardi di Pil e contribuisce all'economia locale con 250 milioni di Irpef, un aumento dell'imprenditoria del 32% in cinque anni e un calo della rimesse verso il paese d'origine. E poi c'è la Cina dell'evasione fiscale - «solo sui consumi di acqua ed energia elettrica a Prato supera il miliardo» - e «della mafia che lavora per esportare i capitali, che controlla la prostituzione, certi locali, e che soprattutto controlla la tratta umana di chi arriva e poi si trova costretto a sottostare a una condizione di sfruttamento simile alla schiavitù». Sono due realtà che coesistono, complicando la posizione di tutti quei cinesi che invece tirano a campare onestamente, barcamenandosi in un sistema in cui spesso le leggi non tutelano adeguatamente i cittadini. Almeno questo è un punto che mette tutti d'accordo, cinesi e italiani.

(Pubblicato su China Files)

lunedì 4 luglio 2016

A Bali teppisti e disoccupati contro le influenze straniere


Il programma Bela Negara («Difendi la Nazione») era stato lanciato lo scorso anno dalle forze armate per far fronte all'erosione dei valori nazionalisti e inglobare milioni di dipendenti pubblici, medici e studenti in un corpo di difesa civile. Sull'isola più frequentata dal turismo internazionale il training prevede addestramento fisico e introduzione al maneggiamento di armi con il fine di rendere gli elementi più depravati della società «bravi cittadini».

L’Indonesia armerà gangster e disoccupati di Bali contro le «influenze straniere». È quanto stabilito dal programma Bela Negara (“Difendi la Nazione”) lanciato lo scorso anno dalle forze armate indonesiane – estromesse dal governo con la fine politica del dittatore Suharto nel 1998 – per far fronte all’erosione dei valori nazionalisti e inglobare milioni di dipendenti pubblici, medici e studenti in un corpo di difesa civile. Come spiega Reuters, il nemico da sconfiggere sono le «influenze straniere» intese come comunismo, estremismo religioso e omosessualità. Non a caso il programma ha ricevuto una nuova spinta da quando il presidente Joko Widodo ha avviato un’indagine contro le purghe anti-comuniste del 1965, inimicandosi parte dell’ex giunta militare, fermamente convinta che le purghe fossero giustificate. Negli scorsi giorni oltre 2000 persone, tra adepti del Bela Negara e membri di gruppi islamici, hanno sfilato da una moschea fin sotto al palazzo presidenziale per protestare contro una presunta rinascita comunista. Nel corso della manifestazione bandiere con la falce e il martello sono state date alle fiamme.

Mentre il Bela Negara ha portata nazionale e vanta 1,8 milioni di volontari iscritti, per il momento il training sull’isola di Bali è l’unico a coinvolgere teppisti di strada nell’addestramento fisico e nel maneggiamento delle armi con il fine conclamato di rendere gli elementi più depravati della società «bravi cittadini». «L’introduzione delle armi ha lo scopo di non annoiare i partecipanti, che così potranno sperimentare cosa vuol dire servire nell’esercito», ha spiegato Hotman Hutahaean, portavoce del comando militare di Bali. «Sono previsti inoltre la marcia e l’allenamento fisico, almeno così la gente capirà quali sono i diritti e i doveri, specialmente i teppisti che devono essere preparati a diventare bravi cittadini». Stando a quanto rivelato da Hotman, il piano di formazione per i gangster dovrebbe cominciare ad agosto con una partecipazione di circa 100 nuove leve. Non è, tuttavia, ben chiaro che cosa si intenda per «gangster» dal momento che il reclutamento non può essere esteso a chi ha precedenti penali.

Va da sé che l’iniziativa ha già suscitato diverse alzate di sopracciglio. Per Yohanes Sulaiman, esperto di affari militari, si finirà per dare la possibilità «a giovani con torbidi precedenti di giocare a fare i soldati». «Armare civili o persino addestrarli in questo modo non è una buona idea, a meno che non lo si faccia in maniera appropriata e nel rispetto di apposite normative», ha dichiarato a Reutersl’analista.

Resta inoltre da vedere se la stretta sulle «contaminazioni d’oltreconfine» prevista dal programma avrà qualche ricaduta sull’economia dell’isola indonesiana, una delle mete turistiche asiatiche più gettonate per via delle sue spiagge molto amate dai surfisti e non solo. Lo scorso febbraio, la reazione scomposta delle autorità locali alla notizia delle nozze tra un cittadino americano e uno indonesiano nel lussuoso resort della catena Four Seasons aveva sollevato molti dubbi sul futuro del turismo gay dell’isola, dove l’omosessualità – almeno ufficialmente – non è ritenuta illegale.

Secondo Out Now, società di ricerca, Bali è una delle dieci destinazioni preferite dalla comunità Lgbt nell’Asia-Pacifico e nel Medio Oriente con un giro di affari potenzialmente molto lucroso: a livello mondiale il mercato del turismo gay fa incassi per 200 miliardi di dollari all’anno, più o meno quanto produce il flusso di visitatori in uscita dalla Cina continentale. Un boccone al quale di questi tempi non è facile rinunciare. Tempi in cui la minaccia del terrorismo islamico è tornata ad agitare i sonni di Jakarta dopo anni di relativa quiete.

Oltre novemila funzionari della sicurezza sono stati dispiegati sull’isola dopo una serie di attacchi dinamitardi avvenuti lo scorso gennaio nella capitale indonesiana. Nel 2002 Bali era stata l’obiettivo dell’attentato terroristico più cruento della storia dell’arcipelago indonesiano. Oltre 200 persone, oltre la metà straniere, erano rimaste uccise nel distretto turistico di Kuta, mentre nell’ottobre del 2005 una ventina di persone – tra cui quattro australiani – è deceduta nell’attacco al Jimbaran Beach Resort, situato lungo l’omonima spiaggia. Di entrambi gli episodi è stato ritenuto responsabile il Jemaah Islamiyah, gruppo terroristico legato ad Al Qaeda con base nel Sud-est asiatico.

Dal 2002 a oggi, l’industria turistica di Bali ha registrato un crollo del 32%. Eppure, nonostante le fluttuazioni che hanno interessato varie aree del Paese, complessivamente l’Indonesia ha visto un aumento del numero dei visitatori, saliti a 10 milioni nel 2015 (4 milioni soltanto a Bali) per un giro d’affari pari a 80 miliardi di dollari l’anno.

(Scritto per il Fatto Quotidiano)

sabato 2 luglio 2016

Rassegna: Dispacci dalla Silk Road Economic Belt


Cina, Russia e Mongolia hanno siglato un accordo per l'istituzione di un corridoio economico. L'intesa è stata formalizzata a margine del vertice SCO di Tashkent a distanza di poche ore dall'annuncio di Xi Jinping sugli investimenti cinesi nei paesi toccati dal progetto One Belt One Road: 15 miliardi di dollari nel 2015, un 20 per cento in più rispetto al 2014. (SCMP)

La SCO rimanda l'ingresso dell'Iran sebbene caldeggiato da Mosca. Pare non ci siano state obiezioni all'idea "in linea di principio", piuttosto "sfumature tecniche" legate alla tempistica. Non è chiaro chi abbia contestato l'avvio delle pratiche. Tuttavia il ministro degli Esteri cinese ha dichiarato che per il momento Pechino preferisce focalizzarsi sull'inclusione di India e Pakistan. (Reuters). Intanto Siria, Egitto e Israele hanno formalmente avanzato la loro richiesta per un'adesione come "dialogue partner".  (Fort-Russia News

Secondo il Global Times, l'ingresso di India e Pakistan nella SCO rischia di tramutarsi in un ostacolo al regolare funzionamento dei meccanismi interni dell'organizzazione, da una parte a causa delle frizioni tra i due paesi, dall'altra a causa delle differenze linguistiche - ad oggi le lingue ufficiali della SCO sono il cinese e il russo. Negli ultimi giorni il GT è tornato sull'argomento in almeno due occasioni. (First Post)

Il budget stanziato per i progetti del 2016 potrebbe superare la soglia degli 1,2 miliardi di dollari, ha dichiarato sabato il presidente dell'Asian Infrastructure Investment Bank. Venerdì l'istituto ha stanziato 509 milioni di dollari per avviare il primo pacchetto di investimenti, energetici e infrastrutturali nell'Asia Meridonale/Centrale e del Sudest, quattro in tutto: la ristrutturazione delle slum in Indonesia, la costruzione di strade in Tajikistan e Pakistan, e l'upgrade della rete elettrica in Bangladesh. (Global Times)

L'AIIB punta a coinvolgere investimenti privati sotto forma di Private-Public Partnership (PPP) e programmi di cofinanziamento. "Possiamo anche fornire prestiti a una società privata se è coinvolta nello sviluppo delle infrastrutture di base", ha dichiarato Jin il Global Times durante la conferenza stampa. Secondo il ministro della Finanza lussemburghese, l'AIIB potrebbe trarre ispirazione dall'European Investment Bank che sta offrendo "un sistema di garanzie" in modo da incoraggiare gli investitori privati a partecipare ai progetti, assumendosi gran parte dei rischi. (Global Times) Secondo documenti interni, nonostante i 57 membri fondatori siano quasi tutti asiatici e europei, l'AIIB punta ad espandere la propria membership ad altri paesi dell'Africa e dell'America Latina, oltre i tre già presenti. Si tratta di un passaggio fondamentale considerando che l'istituto può finanziare progetti soltanto nei paesi membri. E ora che la Brexit getta tinte fosche sull'economia del Vecchio Continente il coinvolgimento di altre regione ha valenza strategica. (Financial Times)

Nonostante i numeri celebrati dalla grancassa cinese, la collaborazione economica tra Pechino e Mosca ha il fiato corto: il commercio bilaterale è sceso dai 95,3 miliardi di dollari del 2014 ai 63,6 miliardi del 2015, pari a soltanto l'1,5 per cento del commercio estero cinese. Tuttavia, Pechino ha saputo fortificare la sua posizione nella Federazione stringendo amichevoli rapporti con gli oligarchi del Cremlino. Due nomi spiccano tra tutti: Timchenko e Mikhelson, il duo grazie al quale è stata finalizzata la vendita del 9,9 per cento del sito nell'Artico russo Yamal LNG al Silk Road Fund. Si da il caso che i due siano nella lista nera degli Usa. 
(Foreign Policy)

L'export turkmeno verso la Cina ha raggiunto gli 8,65 miliardi di dollari; segue a larga distanza la Turchia con 567 milioni di importazioni. Ashgabat sta cercando di smarcarsi dall'impiccio sviluppando nuovi canali come il TAPI trans-afgano e la rotto verso l'Europa che passa per il Caspio. Il flusso commerciale tra la Cina e il Tajikistan aveva raggiunto i 300 milioni di dollari nei primi 3 mesi del 2016 e si spera entro il 2020 di portarlo a 3 miliardi annui, contro gli attuali 793 milioni. Gli investimenti diretti cinesi hanno toccato i 273 milioni, pari al 58 per cento del totale degli investimenti esteri nel paese.  (Eurasianet)

Wade Shepard spiega il valore simbolico della nuova mossa di denominare tutti i container scambiati tra Cina ed Europa con il marchio China Railway Express. Inoltre "l'uso unificato del logo CR Express indica una più rigida regolamentazione e gestione della costruzione, dell'uso e della pubblicazione del marchio". L'iniziativa è stata lanciata ufficialmente durante la recente visita di Xi Jinping in Polonia. (Forbes)

Un'ondata islamofoba mette a rischio la strategia tracciata da Xi Jinping per sfruttare le minoranze musulmane cinesi come araldi del progetto OBOR nei paesi limitrofi. Gli hui, un tempo considerati i musulmani "buoni", stanno subendo forti pressioni. Wang Zhengwei - direttore della potente State Ethnic Affairs Commission (SEAC) di etnia hui e avversario del pro-sinizzazione Zhu Weiqun (direttore dell'Ethnic and Religious Affairs Committee della Conferenza politica consultiva del popolo)- è stato fatto fuori anticipatamente in un ultima lotta interna alla leadership (Jamestown Foundation). Poco prima del suo licenziamento Wang si era distinto per un recente tentativo di regolamentare l'industria halal. Una legge sull'halal viene osteggiata da quanti temono un'erosione della capacità di supervisione dello stato sugli affari religiosi. Mentre i precedenti dibattiti costituzionali si sono concentrati su temi quali i diritti di proprietà o certe forme di detenzione, con la questione del cibo halal si è toccato per la prima volta un argomento che concerne le minoranze religiose. Allo stesso tempo, la bocciatura del progetto di legge suggerisce che le voci conservatrici hanno ancora una colta ampiamente vinto. (The Diplomat)

Hukou e controllo sociale

Quando nel 2012 mi trasferii a Pechino per lavoro, il più apprezzabile tra i tanti privilegi di expat non era quello di avere l’ufficio ad...