lunedì 31 ottobre 2016

Rassegna: Dispacci dalla Silk Road Economic Belt





Una crescente intolleranza cinese sta costringendo il Pakistan ad adottare una posizione più dura nei confronti di gruppi radicali anti-India come Jaish e Lashkar. Il governo pakistano valuta l'implementazione di misure volte a smembrare i gruppi e a inserire gli elementi riabilitati nelle truppe regolari. (SCMP)

Quattordici funzionari kirghisi del ministero degli Interni e del servizio frontaliero sono stati arrestati in riferimento il recente attentato che ha colpito l'ambasciata cinese a Bishkek. L'accusa è di traffico d'armi. (CRI)

Dal 2 al 9 novembre il premier cinese Li Keqiang si recherà in visita in Kirghizistan (che ospita la 15esima conferenza tra i capi di governo dei membri della Shanghai Cooperation Organization), Kazakistan, Lettonia e Russia per rilanciare la cooperazione lungo la nuova via della seta. (Xinhua)

Pechino ha pubblicato il primo Data Report sulla One Belt One Road. Dalle statistiche ufficiali trapela che Russia, Kazakistan, Thailandia, Pakistan e Indonesia sono i paesi più attivi nel progetto, mentre a livello domestico le provincie ad essere più coinvolte non sono quelle occidentali come preannunciato dal governo cinese, bensì Guangdong, Zhejiang, Shanghai, Tianjin, Fujian, Jiangsu, Shandong, Henan, Yunnan e Pechino. (People's Daily)

Lo scorso ottobre il vice premier cinese Wang Yang e il suo omologo russo Yury Trutnev hanno concordato di accrescere la cooperazione nel Far East russo. L'impegno è stato preso nell'ambito della secondo incontro sulla cooperazione regionale tra il nordest cinese e l'estremo oriente russo. (Xinhua People)

Secondo i media giapponesi, l'AIIB arriverà a coinvolgere 80 paesi membri, superando per adesioni l'Asian Development Bank, a quota 67. (china.com)

Xiahe è nota sopratutto per ospitare Labrag uno dei monasteri del buddhismo tibetano più famosi nel mondo. Poco si sa invece della sua comunità musulmana. Come spiega Timothy Grose, come in altre parti del Gansu, la comunità islamica di Xiahe attinge alle tre principali sette dell'Islam cinese (san da jiaopai 三大教派) e le quattro tariqa sufi (si da menhuan 四大门宦). Dal momento che ad aver spinto gli hui verso la regione sono state motivazioni commericiali più che di proselitismo, le varie etnie locali convivono piuttosto pacificamente. Infatti la moschea di Labrang è l'unica nella contea di Xiahe a non essere affiliata a una specifica tariqa (confraternita) ed è definita ufficilamente una "moschea si da menhuan" (Sound Islam Chian)

China Ocean Strategic Industry Investment Fund to promote ‘Belt and Road’ initiative: Entro la metà del 2017, 30 miliardi di yuan (4,43 miliardi dollari) verranno iniettanti nell'iniziativa OBOR. Lo ha annunciato il presidente del think tank International Ocean Forum il 22 ottobre, in occasione dell'inaugurazione dello China Ocean Strategic Industry Investment Fund (COSIIF), nato per esplorare opportunità di investimento e fornire servizi finanziari alle imprese cinesi nei mercati esteri. Tra i partner principali del fondo compare Elyseum Capital Partners, con base a Dubai. (People's Daily)

Sono in corso i controlli finali sul telaio e i vagoni ferroviari di un treno che partirà la prossima settimana da Lanzhou, la capitale della provincia nordoccidentale del Gansu, verso Minsk, dove sorgerà il China-Belarus Industrial Park. Il servizio inaugurato il 23 settembre copre una distanza di 7000 chilometri. (People's Daily)

Si ricomincia a parlare di una free trade area per i membri della Shanghai Cooperation Organization. La proposta, non nuova, è stata rilanciata dal vice ministro del Commercio cinese Qian Keming durante l'ultimo SCO economic forum. Qian ha inoltre rinnovato la richiesta dell'istituzione di una banca di sviluppo incaricata di finanziare i progetti regionali in tandem con fondi multilaterali e altri istituti (Xinhua)
Esercitazioni militari cina Tajikistan, lungo il confine con l'Afghanistan. Alla fine di ottobre Pechino ha affiancato le forze armate tagiche nel corso di esercitazioni congiunte nella regione autonoma di Gorno Badakhshan, al confine tra il Tajikistan e l'Afghanistan. L'operazione antiterrorismo ha coinvolto 10.000 soldati tajiki, insieme a blindati, artiglieria e aerei. L'operazione prende le mosse dalla creazione di un accordo di cooperazione congiunto tra Tajikistan, Cna, Pakistan e Afghanistan. Resta da vedere se la nuova alleanza riuscirà a funzionare nonostante la rivalità tra Islamabad e Dushambe. (The Diplomat)


Le autorità della municipalità di Shihezi, Xinjiang, hanno richiesto ai residenti di etnia uigura di consegnare i loro passaporti a partire dal prossimo anno, ennesima misura volta a controllare il flusso in uscita dallo Xinjiang verso ipotetici centri di addestramento in Asia Centrale e Medio Oriente. Simili provvedimenti erano stati adottati nel 2015 nella prefettura autonoma di Ili, che lo scorso giungo hanno introdotto nuove richieste per i richiedenti, come impronte digitali, campioni di DNA, immagine scannerizzata del corpo in 3D e registrazione audio della voce.(Dawn)

Le acciaierie dello Xinjiang hanno perso oltre 10 milioni di tonnellate di capacità produttiva - circa un decimo della produzione americana di un anno. La produzione dello Xinjiang è crollata del 39 per cento a 7,40 milioni di tonnellate. (The Australian)

Dal bilaterale Cina-Russia a margine del vertice Brics è emerso l'allineamento dimostrato dai due paesi riguardo i principali dossier internazionali. Tuttavia, Zheng Yu, senior researcher presso la Chinese Academy of Social Sciences ha dichiarato che "abbiamo spiegato ai russi che per ora la Cina è soltanto una potenza economica mondiale, non una superpotenza geopolitica. Sino ad oggi siamo intervenuti selettivamente su alcune questioni internazionali principali. Per la Cina, il Medio Oriente è ancora un campo di battaglia con attori globali sconosciuti". (Japan Times)

Anche se i progressi nella risoluzione delle controversie territoriali vanno a rilento, il ruolo dell'India come partner regionale della Cina si rafforza di pari passo con l'aumento dell'instabilità in Afghanistan. Inoltre una più stretta cooperazione sul triangolo Mosca-Pechino-New Delhi neutralizzerebbe gli sforzi degli Stati Uniti per isolare l'India dall'orbita di Cina e Russia. (Sputnik)

Secondo la National Development and Reform Commission, entro il 2020, tra Cina ed Europa viaggeranno almeno 5000 treni merci all'anno. Al momento sono meno di 2000. (Xinhua) Secondo il piano quinquennale della China Railway Express, la ferrovia rappresenta un nuovo tipo di commercio che si adatta alla catena di distribuzione moderna, caratterizzata da ordini più piccoli, spedizioni multiple e consegne più frequenti. (Global Times)




Rassegna: Dispacci dalla Silk Road Economic Belt



Una crescente intolleranza cinese sta costringendo il Pakistan ad adottare una posizione più dura nei confronti di gruppi radicali anti-India come Jaish e Lashkar.
Il governo pakistano valuta l'implementazione di misure volte a smembrare i gruppi e a inserire gli elementi riabilitati nelle truppe regolari. (SCMP)

Quattordici funzionari kirghisi del ministero degli Interni e del servizio frontaliero sono stati arrestati in riferimento il recente attentato che ha colpito l'ambasciata cinese a Bishkek. L'accusa è di traffico d'armi. (CRI)

A breve il premier cinese Li Keqiang si recherà in visita in Kirghizistan per rilanciare la cooperazione tra i due paesi. (Xinhua)

Pechino ha pubblicato il primo Data Report sulla One Belt One Road. Dalle statistiche ufficiali trapela che Russia, Kazkistan, Thailandia, Pakistane Indonesia sono i paesi più attivi nel progetto, mentre a livello domestico le provincie ad essere più coinvolte non sono quelle occidentali come preannunciato dal governo cinese, bensì Guangdong, Zhejiang, Shanghai, Tianjin, Fujian, Jiangsu, Shandong, Henan, Yunnan e Pechino. (People's Daily)
Lo scorso ottobre il vice premier cinese Wang Yang e il suo omologo russo Yury Trutnev hanno concordato di accrescere la cooperazione nel Far East russo. L'impegno è stato preso nell'ambito della secondo incontro sulla cooperazione regionale tra il nordest cinese e l'estremo oriente russo. (Xinhua People)

Secondo i media giapponesi, l'AIIB arriverà a coinvolgere 80 paesi membri, superando per adesioni l'Asian Development Bank, a quota 67. (china.com)

Xiahe è nota sopratutto per ospitare Labrag uno dei monasteri del buddhismo tibetano più famosi nel mondo. Poco si sa invece della sua comunità musulmana. Come spiega Timothy Grose, come in altre parti del Gansu, la comunità islamica di Xiahe attinge alle tre principali sette dell'Islam cinese (san da jiaopai 三大教派) e le quattro tariqa sufi (si da menhuan 四大门宦). Dal momento che ad aver spinto gli hui verso la regione sono state motivazioni commericiali più che di proselitismo, le varie etnie locali convivono piuttosto pacificamente. Infatti la moschea di Labrang è l'unica nella contea di Xiahe a non essere affiliata a una specifica tariqa (confraternita) ed è definita ufficilamente una "moschea si da menhuan" (Sound Islam Chian)

China Ocean Strategic Industry Investment Fund to promote ‘Belt and Road’ initiative: Entro la metà del 2017, 30 miliardi di yuan (4,43 miliardi dollari) verranno iniettanti nell'iniziativa OBOR. Lo ha annunciato il presidente del think tank  International Ocean Forum il 22 ottobre, in occasione dell'inaugurazione dello China Ocean Strategic Industry Investment Fund (COSIIF), nato per esplorare opportunità di investimento e fornire servizi finanziari alle imprese cinesi nei mercati esteri. Tra i partner principali compare Elyseum Capital Partners, con base a Dubai.
(People's Daily)

Sono in corso i controlli controlli finali sul telaio e i vagoni ferroviari di un treno che partirà la prossima settimana da Lanzhou, la capitale della provincia nordoccidentale del Gansu, verso Minsk, dove sono in corso i lavori del China-Belarus Industrial Park. Il servizio inaugurato il 23 settembre copre una distanza di 7000 chilometri. (People's Daily)

Si ricomincia a parlare di una free trade area per i membri della Shnaghai Cooperation Organization. La proposta, non nuova, è stata rilanciata dal vice ministro del Commercio cinese Qian Keming durante l'ultimo SCO economic forum. Qian ha inoltre rinnovato la richiesta dell'istituzione di una banca di sviluppo incaricata di finanziare i progetti regionali in tandem con fondi multilaterali e altri istituti (Xinhua)

Esercitazioni militari cina Tajikistan, lungo il confine con l'Afghanistan. Alla fine di ottobre Pechino ha affiancato le forze armate tagiche nel corso di esercitazioni congiunte nella regione autonoma di Gorno Badakhshan, al confine tra il Tajikistan e l'Afghanistan. L'operazione antiterrorismo ha coinvolto 10.000 soldati tajiki, insieme a blindati, artiglieria e aerei. L'operazione prende le mosse dalla creazione di un accordo di cooperazione congiunto tra Tajikistan, Cna, Pakistan e Afghanistan. (The Diplomat)
Le autorità della municipalità di Shihezi, Xinjiang, hanno richiesto ai residenti di etnia uigura di consegnare i loro passaporti a partire dal prossimo anno, ennesima misura volta a controllare il flusso in uscita dallo Xinjiang verso ipotetici centri di addestramento in Asia Centrale e Medio Oriente. Simili provvedimenti erano stati adottati nel 2015 nella prefettura autonoma di Ili, che lo scorso giungo hanno introdotto nuove richieste per i richiedenti, come impronte digitali, campioni di DNA, immagine scannerizzata del corpo in 3D e registrazione audio della voce.(Dawn)
Le acciaierie dello Xinjiang hanno perso oltre 10 milioni di tonnellate di capacità produttiva - circa un decimo della produzione americana di un anno. La produzione dello Xinjiang è crollata del 39 per cento a 7,40 milioni di tonnellate. (The Australian)

Dal bilaterale Cina-Russia a margine del vertice Brics è emerso l'allineamento dimostrato dai due paesi riguardo i principali dossier internazionali. Tuttavia, Zheng Yu, senior researcher presso la Chinese Academy of Social Sciences ha dichiarato che "abbiamo spiegato ai russi che per ora la Cina è soltanto una potenza economica mondiale, non una superpotenza geopolitica. Sino ad oggi siamo intervenuti selettivamente su alcune questioni internazionali principali. Per la Cina, il Medio Oriente è ancora un campo di battaglia con attori globali sconosciuti". (Japan Times)

Anche se i progressi nella risoluzione delle controversie territoriali vanno a rilento, il ruolo dell'India come partner regionale della Cina si rafforza di pari passo con l'aumento dell'instabilità in Afghanistan. Inoltre una più stretta cooperazione sul triangolo Mosca-Pechino-New Delhi neutralizzerebbe gli sforzi degli Stati Uniti per isolare l'India dall'orbita di Cina e Russia. (Sputnik)

Secondo la National Development and Reform Commission, entro il 2020, tra Cina ed Europa viaggeranno almeno 5000 treni merci all'anno. Al momento sono meno di 2000. (Xinhua) Secondo il piano quinquennale della China Railway Express, la ferrovia rappresenta un nuovo tipo di commercio che si adatta alla catena di distribuzione moderna, caratterizzata da ordini più piccoli, spedizioni multiple e consegne più frequenti. (Global Times)




giovedì 27 ottobre 2016

Big data e «società armoniosa» in Cina


«Nei film i cattivi si riconoscono con un'occhiata, ma come si fa a scovarli nella vita reale? Nell'era dei big data ci dobbiamo ricordare che anche il nostro sistema legale e di sicurezza, che raccoglie milioni di membri, non potrà essere separato da internet». Con queste parole Jack Ma, fondatore del colosso dell'e-commerce cinese Alibaba, si è rivolto a milioni di funzionari di sicurezza in un recente discorso ripreso sull'account ufficiale della Commissione per gli Affari politici e legali. Tema centrale: la prevenzione del crimine attraverso la sorveglianza online in tandem con i colossi dell'hi-tech Made in China. Niente di più attuale.

L'idea di Ma sembra infatti ammiccare a quanto esposto dal governo cinese nelle Linee guida per la costruzione di un sistema di credito sociale (2014-2020), definito in una nota del Consiglio di Stato «un'importante componente del sistema dell'economia di mercato socialista e della governance sociale». Sebbene i dettagli pratici del piano siano ancora vaghi, le finalità sono piuttosto chiare: raccogliere tutte le informazioni ricavabili online concernenti individui e società, in modo da indicizzare ogni soggetto sulla base dei crediti totalizzati in riferimento alla credibilità commerciale, politica, legale e sociale.

Risorsa primaria sarà il flusso di dati generati online dai 700 milioni di utenti cinesi - che ormai acquistano e comunicano perlopiù in rete e lo fanno via mobile -, con l'eventuale sussidio di archivi giudiziari e di polizia, registri bancari e documenti fiscali. La filosofia che anima il piano prevede premi per i «bravi» e punizioni per i «cattivi». Ergo, i punti accumulati influenzeranno l'accesso di una persona a una vasta gamma di servizi. Ti serve un prestito bancario? Vuoi comprare un biglietto aereo business? Sogni di mandare i tuoi figli nelle scuole migliori del paese? Non è detto tu possa farlo, dipende dal tuo «credito sociale». Certamente, l'inadempienza davanti a un debito, un atteggiamento critico verso il Partito-Stato o persino l'inosservanza della «pietà filiale» potrà costare ai «bad elements» un'erosione del punteggio finale. Similmente, un'azienda segnalata per aver infranto la fiducia dei consumatori verrà sottoposta a una sorveglianza quotidiana o a ispezioni random.

L'obiettivo conclamato è quello di portare a compimento lo sviluppo di una cultura della «sincerità» e di una «società socialista armoniosa», in cui «mantenere la fiducia è glorioso». «La creazione e il completamento di un sistema di credito sociale rappresenta un passo importante nella rettifica e standardizzazione di un'economia di mercato, così come nella riduzione dei costi di transazione e nell'aumento della prevenzione dei rischi economici», recita il comunicato rilasciato dal Gabinetto nell'aprile 2014. E' in questo contesto che si inseriscono i «crediti sesamo», progetto pilota creato dal braccio finanziario di Alibaba per controllare in tempo reale i consumi e le abitudini di spesa dei singoli utenti in modo da accertarne l'affidabilità alla richiesta di un prestito.

Ma se l'interesse primario del governo cinese è quello di monitorare i big data per prevenire reati, sventare frodi o smascherare la vendita di prodotti nocivi e nuovi casi di corruzione, c'è già chi denuncia a gran voce le finalità repressive del piano. Non solo il sistema richiama alla lontana la divisione in «cinque categorie nere» teorizzata da Mao Zedong per individuare i controrivoluzionari durante la Rivoluzione Culturale, ma si aggiunge anche ad una serie di controverse leggi (la Cybersecurity Law e l'Anti-terrorism Law), che dando al governo pieno accesso alle informazioni degli user, puntano a rafforzare la sicurezza nazionale a discapito della privacy dei cittadini. Una questione che certamente non riguarda soltanto il gigante asiatico, ma che proiettata in un paese in cui l'ossessione per la stabilità è già all'origine di una censura serrata e un instancabile giro di vite sulla società civile, non può che scatenare svariate alzate di sopracciglio. Specie per quanto riguarda la posizione remissiva mantenuta dai colossi dell'hi-tech d'oltre Muraglia - da Tencent a Baidu - esortati dal presidente Xi Jinping a «mostrare un'energia positiva nel purificare il cyberspazio».

«Il mio account sui social media è stato cancellato parecchie volte, quindi il governo deve considerarmi una persona disonesta. Questo vuol dire che non potrò più andare all'estero o prendere un treno» ha commentato sarcasticamente ai microfoni del Washington Post lo scrittore Murong Xuecun, noto per le sue analisi velenose sulle distorsioni della società cinese.

Mentre la fattibilità del piano incontra ovvi ostacoli tecnici - dovuti in parte alla numerosità dei citizen (1,4 miliardi contro i 700 milioni dei netizen), in parte alla vulnerabilità del sistema, ghiotto boccone per hacker e cybercriminali - l'incognita emotiva sembra costituire un ulteriore possibile fattore di insuccesso. Lo sanno bene le autorità della contea di Suining (Jiangsu), che nel 2010 hanno provato a rubricare la popolazione locale in quattro livelli sulla base del comportamento mantenuto al volante, così come sul web o in famiglia. Il programma è parzialmente deragliato dopo che i residenti hanno paragonato il sistema alla «tessera del buon cittadino» introdotta sotto l'occupazione nipponica negli anni '30, accusando il governo di aver «ribaltato i ruoli sociali»: sono i cittadini che devono valutare i funzionari non viceversa, hanno protestato sui social.

(Pubblicato su China Files)

sabato 22 ottobre 2016

La spritualità elitaria della classe media cinese


Quando nella primavera del 2012 la polizia del Guangdong fece irruzione nella «Villa dei cuori tranquilli», la setta dello «psicoterapista» Qin Mingyuan contava ormai 12 sedi e diverse centinaia di adepti provenienti da Zhengzhou, Shanghai, Changsha e persino Macao. Tutti rapiti dalle parole del grande Maestro che, raggiunta l'illuminazione precipitando da un albero all'età di otto anni, ha affinato gli studi nientemeno che con il mistico indiano Osho per poi dedicare il resto della sua vita a insegnare una forma di Tantra a base di esoterismo e pratiche licenziose, dall'accoppiamento tra confratelli allo scambio delle mogli. «Si parte dal sesso, e poi una volta trasceso il sesso si può finalmente raggiungere l'orgasmo dell'Universo», predicava Qin, invitando i propri protégés ad eseguire il training liberi dall'ansia e dai vestiti.

Quella di «Villa dei cuori tranquilli» è soltanto una delle tante storie che negli ultimi anni hanno calamitato l'attenzione su un'insolita conversione «spirituale» della Cina urbana. Astrologia, chiromanzia, ipnotismo, meditazione e culti esoterici si sono fatti strada nelle città di prima e seconda fascia, da Pechino a Guangzhou, come panacea per i mali che affliggono la società del benessere. Non a caso a cavalcare la nuova moda è soprattutto la classe media, che oggi conta 225 milioni di membri. Le categorie professionali più permeabili: «colletti bianchi, dipendenti di multinazionali, persone di successo, imprenditori e manager», proprio come recita l'annuncio pubblicitario di una scuola di Tantra. Età media: sotto i 39 anni, se diamo per buona il primo sondaggio completo sulle credenze religiose pubblicato nel 2006.

«Molte persone sentono il bisogno di trovare un modo per allentare il peso della loro vita lavorativa e famigliare. Per questo trovano tali pratiche interessanti ed eccitanti», spiegava al Global Times il Cui Lijuan, docente presso la School of Psychology and Cognitive Science della East China Normal University. In un paese passato alla velocità della luce dal bagno ideologico dei tempi di Mao Zedong al vuoto valoriale dell'«arricchirsi è glorioso» di Deng Xiaoping si avverte sempre più spesso l'esigenza di attingere a una nuova sensibilità «new age», ch'essa sia “made in China» o d'importazione.

In un'intervista rilasciata tempo fa al New York Times, John Osburg, autore di Anxious Wealth: Money and Morality among China’s New Rich, spiegava che in Cina «qualcuno è sinceramente interessato ad un accrescimento spirituale e morale per diventare una persona migliore. Ma esiste anche un aspetto legato alla volontà di rimarcare una distinzione sociale. Se anche l'amante di un signorotto del carbone dello Shanxi può permettersi di comprare qualsiasi cosa, ormai cosa resta da fare per emergere dalla massa? Se non si riesce a differenziarsi rimanendo nel regno dei consumi, tocca cercare altrove".

Ecco che quell'agognata esclusività immateriale la si scova nell'esoterismo, una passione non per tutti, ci ricorda il listino prezzi di Qin Mingyuan: 100mila yuan (15mila euro attuali) per 20 giorni di lezioni presso lo squallido resort incastonato sulla montagna Luofu (altro che «Villa» !); 15mila a seduta per i corsi avanzati in Thailandia.

La componente di classe sfocia non di rado in una competizione che vede danarosi imprenditori fare a gara a chi conquista le grazie del mentore religioso più influente. Succede sempre più spesso con i lama tibetani invitati nei salotti buoni delle megalopoli costiere e adulati con elargizioni generose. Un'offerta per una vita migliore nell'Aldilà, ma anche per assicurarsi che tutto proceda al meglio nell'Aldiqua, business compreso. Questo non vale soltanto per il Buddhismo, s'intende. Già da alcuni anni nel sud del paese, a Wenzhou (aka la «Gerusalemme cinese»), «imprenditori cristiani» stanno facendo lo stesso finanziando la costruzione di chiese e sostenendo la comunità locale. Come spiegava Osburg, spesso le persone che si avvicinano ad un determinato culto sono passate per un periodo di sperimentazione sincretista, mosse da una generica attrazione per il misticismo. Ché praticare il Taoismo non preclude la possibilità di «assaggiare» un po' di Confucianesimo, Buddhismo e altre dottrine esoteriche di più dubbia provenienza.

Va da sé che la liaison tra spiritualità e potere politico-economico turba non poco il Partito-Stato laico, impegnato in una lotta senza quartiere contro il malcostume e le stravaganze tra la gerarchia comunista. Ufficialmente la classe dirigente cinese riconosce quattro dottrine (Buddhismo, Taoismo, Confucianesimo e Islam) e tollera - talvolta incoraggia a denti stretti - la religione fintanto che aiuta a disciplinare una «società armoniosa». Ma la reprime senza pietà quando minaccia di sfidare il regime.

Dopo il caso della «Villa dei cuori tranquilli», le autorità hanno chiuso almeno altre tre scuole di Tantrayoga oltre ad aver intimato alla Natural Evolution Origin (NEO) di Shenzhen la sospensione di tutti i corsi. Nel giugno 2014, all'indomani della brutale uccisione di una donna da parte di alcuni membri della setta fuorilegge del Dio Onnipotente, l'agenzia di stampa statale Xinhua ha rilasciato una lista di 14 culti e religioni ritenuti «malvagi», tra cui spicca la Falun Gong, una pratica basata su esercizi di respirazione combinati all'osservanza dei principi universali di verità, benevolenza e tolleranza.

Molti sono i casi eccellenti che hanno visto noti maestri di qigong intrattenere relazioni poco limpide con alti funzionari e famigliari, dallo zar della sicurezza Zhou Yongkang alle sorelle degli ex presidenti Hu Jintao e Jiang Zemin, fino al capo del Procuratorato Supremo del Popolo passando per l'attore marziale Jeti Li e il fondatore di Alibaba Jack Ma. Storie di mazzette, morti sospette e diffusione di documenti riservati, costate alla leadership cinese il disseppellimento di uno dei peggiori scandali dai tempi del processo alla Banda dei Quattro. Già questo basterebbe a motivare il pugno di ferro che tra maggio e agosto ha portato all'arresto di circa 1000 membri della Chiesa del Dio Onnipotente. Ma c'è di più. Otto delle quattordici sette «diaboliche» snocciolate dalla stampa cinese parrebbero provenire da oltre Muraglia, un fattore che alimenta la retorica nazionalista imperniata sui rischi derivanti dalla degenerazione morale «made in Occidente». Un concetto che il Quotidiano del Popolo, organo del Partito, si è preso la briga di sintetizzare in una frase inequivocabile: «Gli Stati Uniti sono la vera roccaforte e incubatrice dei culti».


Gli 11 culti «demoniaci» più attivi in Cina, secondo la China Anti-Cult Association:

1) Falun Gong: Nata negli anni '90 dal leader Li Hongzhi, è stata bandita nel '99 quando il numero di praticanti (all'epoca 70 milioni) aveva cominciato a minacciare il potere del Partito unico.

2) Chiesa del Dio Onnipotente (Quan neng shen): nata negli anni '90 da una costola del gruppo spirituale degli Urlatori sotto la leadership di Zhao Weishan, la setta è autrice di diversi crimini violenti. Chi la professa crede che l'unico vero Dio si sia rivelato nelle sembianza di una donna asiatica per salvare la nazione cinese. Zhao è fuggito negli Stati Uniti nel 2000.

3) La Setta degli Urlatori (Huhan pai): istituita nel 1962 negli Stati Uniti dal cittadino americano Li Changshou, ha collegamenti con altri culti e diramazioni in giro per il mondo. Deve il suo nome all’abitudine dei fedeli di urlare in continuazione l’invocazione «Oh, Signore Gesù!», mentre battono i piedi per terra all’unisono.
4) La Società del Discepolo (Men Tu Hui): fondata nel 1989 da Li Sanbao, un contadino dello Shaanxi, si considera una setta cristiana e profetizza la distruzione della terra a causa di una terribile inondazione.

5) La Chiesa dell'Unificazione (Tongyi jiao): nata in Corea del Sud nel 1954 per opera del Reverendo Moon professa la redenzione dell'umanità attraverso la realizzazione di una «famiglia ideale» dove le persone vengono legate in matrimonio dai membri più anziani.

6) Il metodo Guanyin (Guanyin Fa Men): è stato fondato a Taiwan nel 1988 da una donna di nome Shi Qinghai che si considera una sorta di «maestro supremo» alla stregua di Gesù Cristo, Allah e Siddharta.

7) Setta dello Spirito sacro sanguinario (Xueshui Shangling): creata nel 1988 a Taiwan da Zuo Ku, poi fuggito negli Stati Uniti. Negli ultimi anni ha acquisito popolarità e ricchezza anche nella Cina continentale.

8) La Chiesa di tutti i campi (Quan Fanwei Jiaohui): istituita nel 1984 da Xu Yongze, fuggito negli Stati Uniti nel 2000. Il culto si basa sui concetti chiave di grandezza, ampiezza e profondità e prevede riunioni tra membri caratterizzate da forti pianti e dalla confessione dei peccati.

9) I Tre Gradi dei Servi: (San Ban Puren Pai): nata nel 1986 per opera di Xu Wenku, un estimatore del Vangelo di Matteo, con cui ha portato avanti attività di evangelizzazione nella Cina nordorientale. La setta è considerata responsabile di 21 omicidi.

10) La Scuola del Vero Buddha (Lingxian Zhen Fozong): ha quartier generale a Seattle ma è nata a Taiwan nel 1879 per volere del sino-americano Lu Shengyan, che si professa un «Buddha vivente».

11) Stazione amministrativa del Diacono della Cina continentale (Zhonghua Dalu Xingzheng Zhishi Zhan): fondata nel 1994 da un ex membro della Setta degli Urlatori, prevede l’imminente fine del mondo e ha per scopo la sconfitta del regno di Satana.

(Pubblicato su il manifesto/China Files)

giovedì 20 ottobre 2016

Cina e Tibet, uno scontro aperto da oltre mezzo secolo




Combattere l'influenza del Dalai Lama continua ad essere una priorità per le politiche etniche della regione autonoma del Tibet. A pochi giorni dall'assunzione dell'incarico, il nuovo capo del partito locale Wu Yingjie lo scorso 30 settembre ha ribadito la linea dura adottata da Pechino nei confronti di Tenzin Gyatso, fin dalla «liberazione pacifica» del Tibet. «Dobbiamo mostrare a fondo la natura reazionaria del XIV Dalai Lama, reprimere le attività separatiste e sovversive, e sforzarci di eliminare alla radice gli elementi nocivi che danneggiano l'unità etnica».

Il tempo non è bastato a sbiadire i sospetti nutriti nei confronti del leader religioso dai tempi della grande rivolta del 1959 con cui il popolo tibetano si oppose alle violenze e alle intolleranze dell'esercito cinese sancendo il fallimento dell'accordo dei 17 punti - stipulato otto anni prima tra Lhasa i comunisti, in base al quale i tibetani riconoscevano la sovranità cinese e permettevano l'ingresso in città di un contingente dell'esercito per programmare la graduale implementazione delle riforme modernizzatrici volte ad annettere il Tibet al resto del Paese. L'insurrezione fu duramente repressa nel sangue dalle truppe dell'Esercito popolare di liberazione, con un bilancio finale di 65.000 vittime e 70.000 deportazioni. Il Dalai Lama fuggì in India insieme al suo governo, a una parte dell'élite feudale e ad alcuni monaci, spalancando le porte all'occupazione integrale del Tibet storico, parzialmente smembrato nell'omonima regione autonoma e nelle province di Qinghai, Gansu, Sichuan e Yunnan.

L'esilio di Tenzin Gyatso a Dharamsala e la notorietà da lui riscossa tra le democrazie occidentali non ha mancato di accrescere i sospetti nutriti dalla leadership cinese, che lo considera una pedina nelle mani dei detrattori del regime cinese fin da quando, tra 1951 e il 1959, il simbolo mondiale della non violenza si assicurò la protezione del Pentagono attraverso l'elargizione di armi leggere e aiuti finanziari per puntellare il movimento di resistenza tibetano.

Pechino ritiene la questione tibetana un problema domestico, si oppone all'ingerenza delle potenze straniere, blinda la maggior parte della regione autonoma alle visite da oltreconfine e al contempo punta a stabilizzarla spingendo sul pedale dello sviluppo economico. Gli esiti mostrano una crescita del Pil locale a doppia cifra da ben 23 anni, accompagnata tuttavia da un annacquamento delle peculiarità culturali tibetane, sempre più minacciate da un progresso di matrice han, l'etnia maggioritaria in arrivo dalla Cina orientale. La lunga scia di autoimmolazioni in corso dal febbraio 2009 sull'altopiano tibetano è la forma di resistenza pacifica messa in atto dalla popolazione locale in risposta all'ingerenza cinese. Come fa notare Free Tibet, «sebbene molti monaci e monache si siano dati fuoco, la maggior parte delle autocombustioni non partono da istituzioni religiose e includono piuttosto insegnanti, studenti, mandriani, madri e padri». Per Pechino, tuttavia, le responsabilità del Dalai Lama sono fuori discussione.

«Le auto-immolazioni sono argomento di grande dibattito tra la comunità tibetana; non sono mancate aspre critiche da parte di intellettuali che le ritengono inutili perdite di vite. Tuttavia, la posizione ambigua assunta dal Dalai Lama -che non ha mai chiesto apertamente l’interruzione delle immolazioni- ha vanificato gli sforzi del governo tibetano in esilio per fermare il protrarsi della pratica», ci diceva tempo fa Robbie Barnett, direttore del Modern Tibet Studies Program presso la Columbia University.

Lasciato ogni incarico politico, dal 2011 Sua Santità Tenzin Gyatso continua a mantenere esclusivamente il ruolo di leader religioso promuovendo la risoluzione degli attriti con Pechino attraverso l’implementazione di una ‘via di mezzo’; una politica moderata che reclama per il Tibet «autonomia sotto un’unica amministrazione», quella cinese. Ufficialmente i rapporti tra autorità comunista e tibetane sono congelati dal 2010, il Dalai Lama non mette piede in Cina dal ’59, ma voci sulla ripresa di contatti a livello informale si rincorrono ormai da un paio di anni. Ovvero da quando il futuro della più alta carica spirituale tibetana risulta quantomai incerto.

Mentre, infatti, Tenzin Gyatso ha ormai superato gli 80 e sulla successione pesano alcune sue affermazioni su una possibile non reincarnazione, Pechino sta promuovendo in ogni modo una figura con cui rimpiazzare il vecchio leader: il 26enne Gyaltsen Norbu, Panchen Lama (seconda carica tibetana funzionale alla nomina del Dalai Lama), insediato dal governo cinese negli anni '90 in sostituzione al prescelto dal Dalai Lama, un bambino di 6 anni fatto sparire dai servizi cinesi e diventato il prigioniero politico più giovane del mondo. Di lui si sono perse le tracce, mentre Gyaltsen Norbu ha raggiunto negli ultimi tempi una notevole visibilità, specie dopo aver presieduto un'importante cerimonia tibetana lo scorso luglio, celebrata in pompa magna dai media di Stato.

Che la strategia di Pechino riesca a conquistare la fiducia del popolo tibetano è tutto da vedere. All'estero, tuttavia, il tradizionale benvenuto riservato per anni al Dalai Lama è diventato inversamente proporzionale all'ingerenza economica esercitata dal governo cinese sullo scacchiere internazionale. Se è vero che soltanto di recente Sua Santità è stato ricevuto presso il Parlamento europeo e dalla dirigenza di Slovacchia e Repubblica Ceca (irritando Pechino), tuttavia, le porte sprangate sono sempre di più.

Come fa notare il Guardian, pesa come il piombo fuso l'assenza di Tenzin Gyatso all'incontro interreligioso che lo scorso settembre ha riunito nella cittadina umbra di Assisi circa 500 leader spirituali di 9 fedi differenti. Un'esclusione che letta attraverso il prisma della graduale distensione tra Cina e Vaticano ha l'aria di essere tutt'altro che casuale.


(Pubblicato su China Files)




martedì 18 ottobre 2016

Astronauti cinesi in orbita tra hard e soft power


Lunedì alle 7:30 ora locale è partita la più lunga spedizione spaziale con equipaggio mai avviata dalla Cina, una delle 20 missioni spaziali previste per quest'anno. Decollato dalla base spaziale del deserto del Gobi, il modulo Shenzhou-11 con a bordo due astronauti si aggancerà tra due giorni al laboratorio Tiangong-2, messo in orbita il mese scorso con l'obiettivo di creare, entro sei anni, una stazione spaziale abitata; requisito essenziale per poter avviare «missioni con equipaggio a scadenza regolare, più volte l'anno invece che una volta ogni parecchi anni».

I due astronauti Jing Haipeng, 49 anni (già protagonista di altre due esplorazioni nel 2008 e nel 2013), e Chen Dong, 37, rimarranno in orbita un mese, periodo durante il quale condurranno una serie di esperimenti medico-scientifici mantenendo contatti con la terra attraverso l'invio di testi, audio e video attraverso l'agenzia di stampa Xinhua.

Sino ad oggi, Pechino ha già messo in orbita cinque veicoli spaziali e dieci astronauti, coronando un sogno che risale ai tempi tempi del progetto segreto 714, vagheggiato da Mao Zedong alla fine degli anni '60. Nel 2003, il gigante asiatico è diventato il terzo paese a effettuare un volo spaziale umano dopo l'Unione Sovietica e gli Stati Uniti, mentre alla fine del 2013 ha completato il primo allunaggio morbido mai effettuato dal 1976, nell'ambito della missione Chang'e-3. Il prossimo traguardo dovrebbe consistere nell'invio su Marte di lander e rover «made in China» entro il 2020. E se tutto andrà come da copione nel 2036 il primo astronauta cinese potrebbe persino raggiungere la Luna.

Per Pechino è una questione di hard e soft power. Congratulandosi con gli astronauti a mezzo stampa, il presidente Xi Jinping ha infatti dichiarato che la nuova missione «aiuterà ulteriormente la Cina a diventare una potenza spaziale», compiendo un grande balzo in avanti nella realizzazione del «sogno della nazione cinese». Sul versante interno, la lunga marcia verso la Luna permette dunque alla leadership comunista di riscuotere consensi facendo leva sul ben noto patriottismo dei cinesi. Al contempo, in un momento in cui le rivendicazioni nel Mar cinese meridionale mettono in cattiva luce l'assertività di Pechino, sul versante internazionale i successi spaziali permettono alla Cina di impiegare la propria potenza economica in un contesto apparentemente meno minaccioso. Ovvero al fine di accrescere la conoscenza dell'umanità, anziché perseguire esclusivamente i propri interessi nazionali.

Fin dai primi anni 2000, il gigante asiatico ha affiancato Russia ed Europa nello sviluppo di esplorazioni spaziali con l'esperimento Mars-500, volto a simulare le condizioni di un viaggio verso Marte. Ma nel 2011 preoccupazioni sulla sicurezza hanno portato all'allontanamento della Cina dall'International Space Station e dall'aprile di quell'anno una legge approvata dal Congresso americano sbarra l'ingresso di scienziati cinesi presso le strutture della NASA.

A destare preoccupazione è l'ufficiosa valenza militare del programma spaziale cinese, rintracciabile a partire dall'appartenenza degli astronauti all'Esercito popolare di liberazione. A livello pratico, secondo gli esperti, Pechino sta già valutando un modo per espandere la natura dual-use delle sue esplorazioni astronautiche. Per esempio, lo sviluppo di interferometri con atomi ultra-freddi, installabili sulle stazioni spaziali, potrebbe facilitare il rilevamento di sottomarini nucleari attraverso la misurazione di piccole variazioni del campo gravitazionale. Un obiettivo tecnicamente difficile da raggiungere ma a cui la China Academy of Space Technology guarda come a un possibile futuro primato cinese.

Senza bisogno di arrivare a tanto, a giugno il razzo Long March 7 ha messo in orbita un piccolo vettore che - munito di un braccio meccanico - dovrebbe ripulire lo spazio dei detriti artificiali, ma che alcuni dicono potrebbe essere utilizzato da Pechino in tempi di guerra come arma antisatellite. Ogni anno la Cina investe tra i 2 e 3 miliardi di dollari per il suo programma spaziale, con una buona fetta destinata allo sviluppo di tecnologia antisatellite. Un trend che impensierisce non poco Washington il quale affida proprio ai satelliti gran parte del lavoro di intelligence e di comunicazione.

(Pubblicato su China Files)

venerdì 14 ottobre 2016

Rassegna: Dispacci dalla Silk Road Economic Belt


Il viceministro degli Esteri cinesi Li Baodong ha affermato che la Cina appoggia la Russia nelle questioni internazionali più importanti, compresi i dossier Siria e Afghanistan. I due paesi continuano a collaborare all'interno del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, di cui sono gli unici due mebri permanenti non occidentali. Sabato 8 ottobre l'ambasciatore cinese al palazzo di vetro ha espresso rammarico per la mancata approvazione delle risoluzione proposta da Mosca per mettere fine al conflitto siriano. (RT)

Sebbene il governo cinese abbia cominciato a redarre una legge sull'industria halal nel 2002, la Cina è ancora sprovvista di una normativa che abbia valenza nazionale. L'idea è deragliata nuovamente durante l'ultima Assemblea nazionale del popolo. Il fatto è che le frange più conservative temono che assecondare le richieste delle minoranze musulmane possano un giorno portare alla legalizzazione della sharia in Cina. Intanto a livello locale si tenta di regolamentare il settore. Recentemente le autorità dello Xinjiang hanno introdotto una legge antiterrorismo che mir a punire chi "sovraccarica" le norme sull'halal. (Economist)

Dire che la Nuova Via della Seta è un prodotto di Xi Jinping è vero a metà. Il progetto è stato invocato a gran voce dai vari leader centroasiatici fin dagli anni '90. Peraltro, treni merci tra Cina ed Europa viaggiano dai primi anni 2000. (Forbes)

Per la prima volta residenti di Baramulla, nello stato federato indiano del Jammu e Kashmir, hanno sventolato bandiere cinesi (e pakistane) in protesta contro la morte del miliziano Burhan Wani di Hizbul Mujahideen, ucciso dalla sicurezza indiana durante un'operazione antiterrosimo nel luglio scorso. (India Express) Intanto, sui social indiani è partita la campagna #BoycottChinaProducts in risposta all'appoggia dimostrato da Pechino al Pakistan in sede Onu con l'imposizione del veto al riconoscimento del ribelle pakistano Masood Azhar come terrorista. La campagna risulta parzialmente incoraggiata dal Bharatiya Janata Party di Modi. (SCMP)

Pechino ha varato un piano quinquennale per lo sviluppo del China Railway Express fino in Europa. Il programma mira a velocizzare le pratiche doganali e a migliorare le infrastrutture lungo la rotta. Ormai sono 39 le linee ferroviarie che collegano città cinesi e europee. (Reuters)

Nel villaggio di Bianjiang, nella provincia dello Heilongjiang, 300 residenti discendono dai russi fuggiti dalle purghe sovietiche e dalla carestia degli anni '30-'40. Eppure, nonostante del loro origini straniere, queste persone risultano registrate come etnia han da quando durante la Rivoluzione culturale la loro provenienza è diventata motivo di sospetti in Cina. Molti hanno deciso di unirsi in matrimonio a gente del posto affinché i propri figli perdessero il più possibile le loro caratteristiche russe. Quanti hanno deciso invece di non chiedere la cittadinanza cinese si trovano tuttora senza assistenza sanitaria. La situazione al confine sino-russo è ben diversa da quella riscontrabile a Yili (Xinjiang) dove vive l'altra comunità russa cinese. Qui, al contrario, i discendenti dei sovietici sono riusciti a conservare la propria identità nel corso degli anni. (Sixht Tone)

Nel mese di settembre il volume del trasporto merci su rotaia ha mostrato segnali di ripresa, grazie al giro di vite lanciato da Pechino sui veicoli (su gomma) sovraccarichi. China Railway Corp. ha registrato un aumento del 4,6 per cento nel volume dei carichi, prima volta in oltre due anni che la crescita prosegue per più mesi di fila. A Urumqi, nel Xinjinag ricco di carbone, i volumi del trasporto merci è aumentato del 24,5 per cento, il valore più alto tra tutte le sussidiarie di CRC. (Caixin)

I contatti tra la Cina e l'Europa sono antecedenti alla via della seta e risalgono alla prima dinastia cinese, quella dell'imperatore Qing Shi Huangdi. Secondo un nuovo studio, il celeberrimo esercito di terracotta di Xi'an sarebbe ispirato alla scultura greca e addirittura artisti balcanici avrebbero insegnat le loro tecniche ai cinesi. (BBC)

Nonostante l'accordo sul nucleare iraniano abbia allentato la stretta imposta dalle sanzioni, la reticenza tutt'ora dimostrata dalle compagnie occidentali nell'avvio di nuovi progetti continua a spingere l'Iran tra le braccia di Pechino. Questo sopratutto perché le clearing bank occidentali temono di contravvenire alle sanzioni ancora in vigore concedendo finanziamenti. "La Cina sa che Teheran non ha altre alternative". Ormai i commerci tra il gigante asiatico e l'Iran sono pari a cinque volte il volume scambiato tra Iran e Unione europea nel 2014. A gennaio Xi Jinping è diventato il primo leader mondiale a visitare il paese dopo la sospensione delle sanzioni. Tuttavia le pressioni esercitate dagli Stati Uniti, con cui Pechino tenta di mantenere cordiali rapporti nonostante le frizioni, hanno innescato più volte una ritirata delle aziende cinesi. Inoltre il laissez-faire dell'ex presidente Ahmadinejad è stato sostituito dal rigore di Rouhani, più incline verso una strategia multivettoriale volta a scongiurare un'eccessiva dipendenza cinese. (Bloomberg)

Secondo la stampa turkmena, lo sviluppo della ferrovia China-Kazakhstan-Turkmenistan-Iran è in mani cinesi. La rotta è lunga 10mila chilometri e può essere compiuta per esteso in due settimane. (Trend)

giovedì 13 ottobre 2016

Duterte e gli angeli della morte


«Non siamo cattive persone. Siamo angeli della morte incaricati di riportare le anime impure in cielo». Protetto dall’anonimato, un alto funzionario della polizia filippina (PNP) confida al Guardian il ruolo svolto dalle forze dell’ordine nella lotta al crimine, responsabile di oltre 3.600 morti dallo scorso 1 luglio, ovvero da quando Rodrigo Duterte ha assunto ufficialmente l’incarico di presidente. Nel retro di un postribolo di Manila, l’uomo, che appartiene a uno dei dieci team speciali (ognuno composto da sedici membri) istituiti recentemente per colpire tossici, trafficanti e criminali, descrive nei minimi dettagli il modus operandi della polizia e il sistema con cui i cadaveri vengono fatti sparire. «Neutralizzare i parassiti» è il termine preferito dagli addetti ai lavori per descrivere la lunga scia di uccisioni.

Non si tratta di uccidere per piacere. Un obiettivo più elevato, non distante dal patriottismo, spinge i funzionari ad eseguire gli ordini. Ordini che vengono da molto in alto, spiega l’uomo responsabile in prima persona di 87 esecuzioni. Mentre insinuazioni sul ruolo svolto da Duterte si sono rincorse per mesi, è la prima volta che a tracciare un nesso tra le migliaia di morti e il governo è un membro delle forze dell’ordine direttamente coinvolto. Ufficialmente, secondo la PNP, delle 3.600 uccisioni portate a termine sinora, 1.375 sarebbero stata eseguite durante operazioni di polizia, 2.233 e più da ignoti vigilantes, ovvero criminali, signori della droga e altri fuorilegge impegnati una resa dei conti trasversale. La fonte del Guardian parla di una tripartizione degli incarichi: oltre alla polizia e agli ignoti «giustizieri», ci sono poi gli «squadroni della morte» altamente addestrati, la categoria più minacciosa, stando ai racconti particolareggiati dell’insider, che ricorda perfettamente il giorno in cui i sui superiori annunciarono l’inizio della una nuova «strategia».

La «neutralizzazione» funziona con un meccanismo a cascata. I leader dei team operativi ricevono una lista di obiettivi comprensivi di foto e dossier sui criminali da identificare. Poi uno o due membri della squadra si recano presso l’abitazione dei sospettati per effettuare accertamenti sul presunto coinvolgimento in attività illegali. «Così li studiamo e decidiamo in caso se portare a compimento la nostra giustizia. Ovviamente è il governo che ci ordina di farlo», spiega la fonte, che aggiunge: «Non ci limitiamo a uccidere per piacere, ma se riteniamo di avere a che fare con un criminale incallito che si guadagna da vivere come un parassita a discapito degli altri, non abbiamo pietà. Gli somministriamo la peggiore delle fini».

Gli angeli della morte operano di notte incappucciati e vestiti completamente di nero. In due-tre minuti identificano il bersaglio e lo freddano sul posto. Veloci, precisi e lontano da occhi indiscreti. Poi si sbarazzano del corpo, abbandonandolo in una città vicina o sotto a un ponte. Talvolta legano attorno alla testa un cartello in modo da identificare il cadavere come «pusher» al fine di disincentivare ulteriori investigazioni giornalistiche. Sebbene il Guardian sia stato in grado di confermare l’identità della fonte, il racconto non trova conferma in alcuna ricostruzione indipendente. Ma basta ad affilare gli strali avvelenati che da tre mesi colpiscono Duterte di pari passo con la moltiplicazioni di immagini splatter apparse sulla stampa locale.

Appena assunto il potere il «Giustiziere» – come è stato ribattezzato il presidente filippino – si è dato sei mesi per debellare il narcotraffico dall’arcipelago del Sudest asiatico. Un obiettivo perseguito attraverso l’estensione a livello nazionale del «modello Davao», il metodo controverso con cui Duterte ha amministrato l’omonima città per diversi anni tra il 1988 e il 2016, e che implica la concessione di ampie libertà alle forze dell’ordine, compresa l’amnistia per i poliziotti finiti «dalla parte sbagliata della legge» per portare a compimento la loro missione.

Già nel 2009, Human Rights Watch aveva espresso la propria preoccupazione per la campagna anticrimine, pubblicando il rapporto You Can Die At Any Time con la speranza di ispirare più approfondite indagini sull’operato dell’ex sindaco. Ma da allora nessun progresso è stato fatto. Al sopraggiungere di una recente testimonianza sulle esecuzioni extragiudiziali presentata davanti al Senato, a settembre il nuovo numero uno della PNP, Ronald dela Rosa, – ex capo della polizia di Davao promosso al nuovo incarico da Duterte stesso – ha categoricamente negato l’esistenza degli «squadroni della morte» e di un’alleanza informale tra vigilantes e forze dell’ordine, bollandoli come «invenzioni dei media». Una versione che finora non è bastata a zittire le condanne della comunità internazionale. Nazioni Unite, Stati Uniti e associazioni per la difesa dei diritti umani hanno reso note le proprie preoccupazioni per «il clima di illegalità» che avviluppa il paese asiatico, già reso instabile dalle annose minacce dei separatisti islamici che scuotono le province meridionali.

Ma, tra un inciampo e l’altro, la difesa della campagna antidroga sta costringendo il neo-presidente filippino a equilibrismi diplomatici di rischiosa esecuzione. Replicando agli ammonimenti di Barack Obama con ingiurie pressoché quotidiane, Duterte parrebbe intenzionato a coltivare rapporti strategici con potenze regionali storicamente meno amiche ma più funzionali in tempi di realpolitik. Anche a costo di «rivedere» la storica alleanza con Washington, Manila comincia a strizzare l’occhio al gigante della porta accanto e secondo partner commerciale, la Cina, al fine di ricucire lo strappo causato dalla precedente amministrazione con la richiesta al Tribunale internazionale dell’Aja di dirimere le questioni sulla sovranità nel Mar cinese meridionale. E poi c’è la Russia, a cui le Filippine guardano – scambi virtuosi a parte – come prezioso fornitore di armi. Accomunati da una certa avversione per le paternali moralistiche di Washington, è improbabile che Pechino e Mosca mettano in discussione le politiche poco ortodosse con cui Duterte mira a fare ordine in casa propria.

Al contrario, prendendo atto del fatto che il narcotraffico rappresenta un problema anche nella Repubblica popolare – principale hub per la produzione e l’esportazione di meth e altre droghe sintetiche nel resto dell’Asia fino in Europa – il regime cinese ha espresso il proprio endorsement al «Giustiziere». Alla fine di settembre il ministero degli Esteri cinese ha dichiarato in un comunicato che «la Cina sostiene (Duterte) ed è pronta a cooperare con le Filippine per formulare un piano congiunto nella lotta alle droghe». E il sostegno non arriva soltanto dal gigante asiatico. Secondo un sondaggio della Pulse Asia Research, Duterte gode ancora dell’approvazione di ben il 91 per cento della popolazione filippina.

(Pubblicato su Il Fatto quotidiano/China Files)

mercoledì 12 ottobre 2016

Ai cinesi d'oltre Pacifico piace Trump


Mentre le affermazioni sessiste pronunciate da Donald Trump (qui il video dello scandalo) continuano a dividere il partito e l'elettorato repubblicano, le provocazioni del tycoon americano conquistano a sorpresa una fetta della popolazione normalmente poco interessata ai pirotecnici teatrini della politica a stelle e strisce: negli ultimi tempi la comunità sino-americana, specie quella emigrata sull'altra sponda del Pacifico negli ultimi vent'anni, ha mostrato un certo entusiasmo per l'eterodossia con cui Trump sta conducendo la sua campagna elettorale rigorosamente all'insegna del politically incorrect.

In controtendenza rispetto alle preferenze dei cinesi ancora nella mainland, per la maggior parte favorevoli a una vittoria di Hillary Clinton. Sono ormai oltre 200 i gruppi spuntati sull'app WeChat in sostegno al candidato repubblicano, di cui alcuni organizzati su base territoriale (ovvero a seconda dello Stato o della città di residenza degli utenti), altri su base professionale. Con oltre 1000 membri Chinese Americans for Trump si impone fermamente come una delle piattaforme privilegiate tra gli expat cinesi più impegnati, mantenendo costanti rapporti con lo staff dell'imprenditore e il partito. Come spiega al South China Morning Post Grace Su, imprenditrice emigrata negli Usa dodici anni fa e coordinatrice del movimento sino-americano filo-Trump, la «passione» dei connazionali per il biondo tycoon è cosa recente. Secondo un rapporto del Pew Research Centre, la metà degli americani asiatici simpatizza per i democratici, mentre solo il 28 per cento si identifica come repubblicano, segnando un calo rispetto al 50 per cento del 1992.

D'altronde nota è la retorica populista con cui l'imprenditore ha per mesi tentato di far leva sull'elettorato americano promettendo tolleranza zero verso le politiche monetarie e commerciali attuate da Pechino a scapito degli Usa, sebbene domenica a dominare il secondo dibattito tra Trump e Hillary Clinton siano state piuttosto le accuse incrociate tra i due; soltanto quattro le menzioni dedicate al gigante asiatico (contro le 12 del primo faccia a faccia), in riferimento sopratutto agli effetti nefasti esercitati dalla sovrapproduzione delle acciaierie cinesi sul mercato del lavoro statunitense.

Entrambi i duelli tv sono stati censurati nella mainland, dove i media di Stato si sono limitati a ironizzare sugli scandali che nell'ultimo anno hanno travolto i due contendenti alla presidenza americana. Ciononostante, alcune tendenze conservatrici repubblicane - mixate all'impopolarità delle politiche messe in campo da Obama in economia, sicurezza nazionale e immigrazione - stanno dirottando la diaspora cinese verso gli avversari della Clinton.

Grace Su imputa la brusca virata al malcontento innescato la scorsa primavera dalla condanna per omicidio colposo del poliziotto di origine cinese Peter Liang, accusato della morte di un uomo di colore durante una sparatoria andata in scena a New York nel 2004. Una sentenza che i sino-americani considerano motivata dal crescente razzismo nei confronti della comunità cinese, che negli ultimi anni si è tradotto in una revisione delle quote di accesso all'università penalizzante nei confronti degli americani di origine asiatica. Una categoria che ha ormai superato numericamente quella degli ispanici.

È dunque piaciuto il pragmatismo con cui Trump, messe da parte le sue abituali stoccate xenofobe, si è detto pronto a combattere i crimini contro le minoranze etniche. «Stiamo assistendo ad un aumento dei reati e delle violenze culturali contro i sino-americani. È per questo che il 12 ottobre protesteremo a Washington insieme ad altre comunità, come quella degli africani», ha spiegato Su. Da sempre le barriere linguistiche e culturali ostacolano la partecipazione cinese alle dinamiche locali. Nel 2012 i voti degli americani asiatici hanno contato soltanto per il 2,9 per cento del totale, evidenziando tuttavia un netto aumento rispetto all'1,7 per cento del 1996.Secondo Cliff Li, membro del neonato Asian Pacific American Advisory Committee e direttore esecutivo del National Committee of Asian American Republicans, ad affascinare le nuove generazioni di immigrati cinesi è proprio lo stile anticonvenzionale di Trump, in grado di attrarre elettori normalmente poco favorevoli all'agenda repubblicana. Dello stesso parere Gal Luft, direttore dell'Institute for the Analysis of Global Security di Potomac, Maryland, che prevede un maggior supporto tra gli americani asiatici.

Discriminazioni etniche a parte, «il motivo è che Trump incarna il successo professionale in cui le persone ambiziose e laboriose possono immedesimarsi».

(Pubblicato su China Files)

martedì 11 ottobre 2016

Arte e corruzione in Cina


Circa 1200 ritratti su sfondo rosa, il colore dei biglietti da 100 yuan, il taglio più grande in circolazione oltre la Muraglia. Al posto del volto rubicondo di Mao si susseguono gli sguardi vitrei di alcuni funzionari corrotti. Era il 2011 e l’artista Zhang Bingjian pennellava la decadenza tra i ranghi del Partito comunista cinese in un’installazione dal titolo Hall of Fame: un’opera senza fine, così come senza fine pare essere il numero dei quadri finiti nelle maglie dell’anticorruzione da quando Xi Jinping ha assunto la guida del Paese un anno più tardi – 740.000 ad oggi.

Da allora l’arte ha talvolta potenziato le retrovie della denuncia sociale, talvolta ha finito per schierarsi dalla parte dei “cattivi”. Il rallentamento di settori tradizionalmente permeabili alla speculazione e l’intensificarsi dei controlli sulle spese pazze della nomenklatura hanno trasformato l’arte in una sobria forma d’investimento per quei nuovi ricchi poco inclini a sperimentare i rischi dei mercati azionari. Ma anche in uno strumento di «corruzione elegante» (yahui) con cui adulare le frange più depravate del Partito. Dalla pregevole calligrafia allungata al superiore in alternativa alle costose bottiglie di Moutai, fino alle aste truccate in combutta con i cupidi funzionari al fine di gonfiare il valore dei pezzi. E a poco è servito scoperchiare casi eclatanti come quello che ha visto l’ex vicecapo della polizia di Chongqing, Wen Qiang, finire al patibolo per i crimini commessi. Certo, lì c’erano di mezzo corruzione e rese dei conti tra faide politiche nella Ghotam City cinese: ma anche una collezione da oltre 100 reperti non dichiarati, tra cui fini statuette in avorio e la testa di un Buddha in pietra.

Gli introiti delle case d’asta hanno riportato una crescita del 900 per cento rispetto al 2003. Non male per un paese che fino a non molti anni fa condannava il collezionismo come degenerazione borghese.

Secondo l’European Fine Art Market, nel 2011 il mercato cinese dell’arte ha raggiunto la sua massima espansione per un valore pari a 19,5 miliardi di dollari, il 30 per cento del settore a livello mondiale. Gli introiti delle case d’asta hanno riportato una crescita del 900 per cento rispetto al 2003: 8,9 miliardi contro gli 8,1 miliardi degli Stati Uniti. Non male per un paese che fino a non molti anni fa condannava il collezionismo come degenerazione borghese. Nonostante una prima liberalizzazione agli inizi degli anni ’90, è soltanto intorno al 2004, con l’aumento dei redditi e la nascita di una classe media urbana, che il mercato dell’arte ha cominciato a girare a pieno regime. Nel 2013 si contavano 350 case d’asta – di cui le due principali Poly International Auction e China Guardian loscamente prossime all’élite «rossa» – mentre più di 20 programmi televisivi fornivano consigli agli aspiranti collezionisti su come riconoscere gli antichi cimeli dalle patacche. Si moltiplicavano le spedizioni patriottiche dei collezionisti nel Vecchio e Nuovo Continente per riportare le opere cinesi nella mainland, con tanto di furti nei musei.

C’è da giurarci che non era questo che intendeva Xi Jinping quando un paio d’anni fa, in un discorso celebrato in pompa magna dai media statali, auspicava la rinascita di un’arte al servizio del popolo cinese, marxista eppure scevra da eccessive contaminazioni occidentali. Sembra invece andare incontro alle attese del regime la rinnovata reverenza per i maestri del ‘500 e i loro seguaci moderni, declinazione retrò del nazionalismo «rosso» che rimbalza dai comunicati ufficiali ai social network. In un momento in cui la leadership spinge per spostare il baricentro del proprio appeal dalla mera superiorità economica ad una più sofisticata offensiva culturale, per Pechino anche l’arte diventa una questione di soft power. Gli esiti, tuttavia, non sono sempre quelli sperati, e capita spesso che a passare sotto il martelletto del battitore sia un’opera spuria.


L’imitazione dei classici (lin mo) è una pratica consolidata, che ha visto nei secoli tramandare il gusto per la riproduzione fedele di pitture, ceramiche e giade di alta qualità. Secondo uno studio della società Artron ripreso dal New York Times, per appagare l’insaziabile richiesta del mercato interno, oltre 250mila persone in 20 città cinesi sono coinvolte nella produzione e nella vendita di falsi. Tanto che si stima che circa la metà delle creazioni del longevo pittore Qi Baishi finite all’asta siano in realtà copie, così come lo sono l’80 per cento dei lotti battuti presso case d’asta di piccola e media
grandezza.

Le conseguenze più evidenti spaziano da scandali di alto profilo (spicca la chiusura, nel 2013, di un
museo privato nello Hebei contenente 40.000 reperti quasi tutti contraffatti) a un’impasse negli acquisti. Lo dimostra il numero di pezzi venduti dai grossisti di opere d’arte e rimasti a impolverarsi nei magazzini dopo che la dubbia autenticità si è tradotta nel mancato pagamento da parte dell’acquirente: una sorte toccata al 57 per cento delle opere battute all’asta lo scorso anno, stando alle cifre fornite di recente da Arts Economics. Ma non a quelle rese disponibili dalle case d’asta stesse, che spesso riportano le transazioni abortite come felicemente concluse al fine di surriscaldare il mercato e far lievitare i prezzi.

Tra il 2008 e il 2011, il governo ha revocato o sospeso la licenza a 150 grossisti a causa di una serie di irregolarità tra cui proprio la vendita di falsi. Tutta colpa dell’inadeguatezza del corpo normativo, dicono gli esperti. L’attuale legge che disciplina il settore risale al 1997 e non tiene conto, tra le altre cose, del proliferare di piattaforme online operanti senza supervisione e che, in barba alla Cultural Relics Protection Law, mettono in vendita persino oggetti sottoposti a restrizione.

Nell’ambito di un tentativo di regolamentazione, lo scorso anno la britannica Sotheby’s è diventata la prima compagnia straniera a ricevere il placet della China Auctioneers Association e del Department of Circulation Industry Development, facente capo al ministero del Commercio. Un privilegio accolto con l’eloquente commento “saremo più che contenti di vedere in Cina un mercato delle aste più aperto, trasparente, regolamentato e diversificato, dove la competizione avviene nell’ambito di regole giuste e imparziali». Sotheby’s, che ha avviato la sua prima causa per un mancato pagamento nel 2006, nel mese di luglio ha ceduto il 13,5 per cento delle proprie azioni a Taikang Life, uno delle principali compagnie assicurative della Repubblica popolare, istituita nientemeno che dal nipote acquisito di Mao Zedong, Cheng Dongshen che, guarda un po’, è anche fondatore di China Guardian.

Negli ultimi dieci anni, i procedimenti giudiziari innescati da irregolarità durante le aste sono aumentati esponenzialmente, tanto nella Cina continentale quanto a Hong Kong. Ma a raffreddare il mercato cinese non sono soltanto gli inciampi legali e la circolazione di falsi. Secondo l’ultimo rapporto rilasciato dall’European Fine Art Fair lo scorso marzo, l’ex Impero Celeste ha ceduto il secondo posto alla Gran Bretagna dopo aver riportato un crollo delle vendite del 23 per cento nel 2015. Gli Stati Uniti, di contro, continuano a fare la parte del leone contando per il 43 per cento del mercato globale. Le cause del sorpasso britannico – come sintetizza ai microfoni del South China Morning Post Clare McAndrew di Art Economics – sono sostanzialmente quattro: crescita economica ai minimi da 25 anni, volatilità delle borse, incessante guerra alle stravaganze nel Partito e un’erosione della disponibilità di opere di alta qualità.

È dello stesso parere Oscar Ho, critico d’arte e professore associato presso la Chinese University of Hong Kong, che mi conferma la traiettoria discendente del settore, tra tangenti e riciclaggio di denaro sporco: «Stime esatte non ne abbiamo, sono pratiche ben note ma portate avanti sotto banco. C’è chi ritiene rappresentino la maggior parte delle transazioni. Alcuni atteggiamenti dubbi avvengono allo scoperto, come l’usanza da parte dei curatori di prendere una commissione o addirittura una percentuale sul numero dei pezzi come ricompensa per il loro lavoro. Altre sono accuratamente nascoste. Regalare a qualcuno un’opera d’arte che non vale nulla e poi metterla all’asta per pagarla un prezzo elevato è una forma di corruzione molto comune. Quindi, sì, indubbiamente il giro di vite sulle mazzette è alla base del rallentamento del mercato cinese. La campagna aniticorruzione ha macchiato la reputazione del collezionismo d’arte inibendo l’accesso al mercato da parte della middle class più giovane».

Risultato: sempre più amatori optano per acquistare sull’altra sponda del Pacifico. Ed ecco che le vendite negli States continuano a lievitare.

(Pubblicato su China Files/The Towner)

lunedì 10 ottobre 2016

Rassegna: Dispacci dalla Silk Road Economic Belt


La Georgia si candida a diventare principale snodo commerciale del Caucaso meridionale, con l'obiettivo di aprire una rotta alternativa a quella più settentrionale (e più battuta) passante per il Kazakistan. Epicentro delle ambizioni di Tbilisi è Anaklia, dove è in corso la costruzione di un porto di acque profonde sul Mar Nero in grado da fungere da porta di ingresso all'Europa per le merci cinesi e viceversa. Il progetto è nelle mani del consorzio georgiano-americano Anaklia Development Consortium, che ha i diritti di sfruttamento sull'area per 49 anni. Trattandosi di una rotta terrestre, e pertanto più costosa di un trasporto marittimo, lo scalo è pensato sopratutto per il passaggio di prodotti high-end in grado di ammortizzare la spesa. Il costo totale del progetto è di un po' più di 2,5 miliardi di dollari e verrà realizzato nell'arco di 25-40 anni. (Forbes)

L'ambasciatore afgano alle Nazioni Unite ha chiesto aiuto alla Cina per fermare il supporto ai talebani fornito dal Pakistan. Saikal ha inoltre fatto notare come la "Terra dei puri" sia rifugio per i membri dell'East Turkestan Movement fuggiti dal Xinjiang. (SCMP)

Secondo la stampa indiana, la decisione di Pechino di bloccare un affluente del fiume Brahmaputra per facilitare la costruzione di un progetto idroelettrico in Tibet va letta attraverso il prisma delle frizioni tra Delhi e Islamabad. Il fiume passa attraverso territori dove India e Cina si sono scontrate militarmente. Così, oltre ad essere un modo per tentare di sfidare il controllo indiano sull'Arunchal Pradesh (che Pechino rivendica con il nome di "piccolo Tibet"), la chiusura dei rubinetti potrebbe essere interpretata come una riposta alla minaccia indiana di abrogare l'Indus Waters Treaty, una delle varie misure di ritorsione con cui Delhi sta pensando di punire il Pakistan per il suo presunto sostegno ai ribelli del Kashmir. (First Post)

Politics or profits along the “Silk Road”: what drives Chinese farms in Tajikistan and helps them thrive? Irna Hofman, dell'Università di Leiden indaga le modalità con cui le grandi e piccole imprese cinesi investono in Tajikistan, specie nel settore agricolo. A differenza di quanto si pensa Hofman rileva che ad operare in tale settore sono sopratutto aziende private spinte da meccanismo di porfitto (Taylor & Francis Online)

A un mese dall'attentato all'ambasciata cinese di Bishkek non è ancora ben chiaro come siano andate le cose. Almeno tre delle 11 persone sospettate dai servizi kirghisi hanno dichiarato la loro innocenza. Il presunto finanziatore è tornato spontaneamente dalla Turchia per sostenere la propria estraneità ai fatti. L'identità dell'uomo (uiguro ma con passaporto tagico, secondo Bishkek) rimane ancora un mistero, così come il presunto apporto russo, a cui ha fatto riferimento il Federal Security Service di Mosca. (Eurasianet)

L'Asia Development Bank starebbe facendo pressione affinché la costruzione della strada Bishkek - Kara-Balta venga portata a termine dalla China Railway N.5 Engineering Group Co. LTD, una società già finita nell'occhio del ciclone in Polonia per cattiva gestione in un progetto infrastrutturale. (24KG News)

L'aumento dei costi per la sicurezza sta minando l'efficienza del progetto Cina-Pakistan. Il tabloid non ventila l'ipotesi di un'interruzione del progetto, ma fa notare che Pechino probabilmente si guarderà bene di concentrarsi troppo sulla regione. "Non sarebbe saggio mettere tutte le uova nello stesso paniere. La Cina dovrebbe considerare l'dea di rafforzare la cooperazione economica con i paesi del Sudest asiatico" dove vi è un deficit infrastrutturale e una maggiore stabilità. (Global Times) .
Sono passati 13 anni da quando Delhi ha accettato di investire nello sviluppo del porto iraniano di Chabahar, eppure il progetto è rimasto lettera morta, sopratutto a causa della burocrazia indiana. Una volta completato il porto di Chabahar renderà superflui gli scali nei paesi degli Emirati arabi, dove al momento le merci vengono imbarcate su navi più piccole. Da un punto di vista strategico, il porto non soltanto libererebbe Tehran dal collo di bottiglia dello stretto di Hormuz in caso di tensioni regionali, ma costituirebbe per Delhi un contro altare al corridoio economico Cina-Pakistan. (Bloomberg)

Il presidente bielorusso Lukashenka cerca di combattere la recessione rafforzando la partnership con Pechino. (Jamestown Foundation)

mercoledì 5 ottobre 2016

Nordcoreane vendute in Cina come spose


Combattute tra i sensi di colpa per aver abbandonato i propri figli in Cina e il timore di venire emarginate nel loro nuovo paese di adozione, la Corea del Sud, per lungo tempo sono rimaste in un riservato silenzio. Ora vogliono raccontare la loro storia al mondo affinché nessun’altra donna patisca in futuro la loro stessa sorte. Tra l’8 e il 18 ottobre quattro disertrici nordcoreane si recheranno negli Stati Uniti per chiedere aiuto alle Nazioni Unite. Parleranno a nome delle migliaia di connazionali che per fuggire dalla povertà della Corea del Nord hanno accettato di sposare uomini cinesi, ma che dopo essersi fatte una vita (ai margini della legalità) in Cina si sono trovate costrette a scappare in Corea del Sud, chi per sfuggire dagli abusi familiari, chi per scongiurare un rimpatrio forzato da parte di Pechino. Anche a costo di lasciarsi alle spalle i propri figli.

Kim, 35 anni, ha sentito il suo cuore «andare in pezzi» quando ha salutato per l’ultima volta la sua figlioletta al tempo di soli 4 anni. Dieci anni fa la ragazza ha lasciato la cittadina di Longjing, nel nordest della Repubblica popolare. Oggi vive in Corea del Sud, dove si è risposata e ha avuto altri due bambini, ma non ha mai smesso di pensare sommessamente alla prima nata. La vergogna per il suo controverso passato l’ha portata a tenere nascosto il suo dramma famigliare anche una volta stabilitasi al Sud, mentre l’impossibilità di tornare in Cina per cercare la sua vecchia famiglia è motivo di grande frustrazione. Kim infatti rischierebbe l’espulsione come avviene per la maggior parte dei disertori nordcoreani pizzicati a varcare illegalmente il confine sino-coreano. Per Pechino il matrimonio consuetudinario contratto dalle fuggiasche non ha alcun valore, e il tentativo di ricongiungimento con la famiglia cinese viene visto come un «problema individuale» piuttosto che come una questione degna dell’interesse internazionale.

«Nulla può aiutarci, né la legge sudcoreana, né la legge cinese e nemmeno quella nordcoreana», spiega ad Associated Press Kim Jungah, che dopo aver abbandonato i propri bambini oltre la Muraglia, si è trasferita a sud del 38esimo parallelo dove è diventata un’attivista. È lei che guiderà la minidelegazione diretta a Washington e New York il prossimo mese. Quello del traffico delle spose nordcoreane è un business decollato negli anni ’90, quando una terribile carestia colpì il Regno eremita, facendo centinaia di migliaia di morti. Ma che ancora ben si adatta alla carenza di donne che affligge la società cinese, specialmente nelle zone rurali dove la compravendita di mogli in arrivo dal Sudest asiatico è pratica anche ben più nota. I clienti sono soprattutto contadini scapoli o vedovi avanti con gli anni e in condizioni economiche non sufficientemente brillanti da renderli un buon partito.

Fino a qualche anno fa, le nordcoreane venivano perlopiù adescate dai contrabbandieri cinesi di etnia coreana con promesse di cibo e lavoro. Altre volte venivano persino rapite e, nel caso delle più giovani e piacenti, rivendute a bar, karaoke e bordelli. Secondo una testimonianza del 2007 il prezzo variava a seconda dell’età e dell’aspetto fisico. Per le migliori si poteva arrivare a 20mila yuan, quasi 3000 dollari. «I trafficanti non vedevano le donne come esseri umani ma come merce», racconta ad Associated Press Park Kyung-hwa, scappata dalle mani dei contrabbandieri nel 2000 dopo un primo tentativo di fuga punito con 20 minuti di bastonate. Nel corso del tempo, tuttavia, è cresciuto il numero di donne disposte a svendersi con la speranza di trovare oltreconfine condizioni di vita migliori sotto la protezione di un marito cinese. E anche se negli ultimi anni la compravendita di spose nordcoreane è diminuita, si stima siano migliaia quelle ancora nell’ex Celeste Impero, di cui la maggior parte illegalmente.


(Pubblicato su China Files/Il Fatto quotidiano online)

sabato 1 ottobre 2016

Dal Fmi avvertimenti contro una Cina destabilizzante



Senza le dovute riforme, la Cina rischia di destabilizzare l'economia globale. A lanciare l'allarme è il Fondo monetario internazionale, che nel consueto rapporto trimestrale (World Economic Outlook) pubblicato lunedì invita Pechino a stabilizzare il proprio mercato finanziario per scongiurare il verificarsi di un effetto spillover, termine con cui in economichese si definisce la diffusione di una situazioni di squilibrio da un mercato all'altro. Un avvertimento che acquista significato alla vigilia dell'ingresso ufficiale (1 ottobre) dello yuan nei diritti speciali di prelievo, moneta ‘virtuale’ basata su un paniere di valute con cui Pechino gradirebbe rimpiazzare l'egemonia del dollaro nelle transazioni internazionali. Si tratta di fatto di un riconoscimento simbolico che l'istituto vorrebbe ripagato con maggiori responsabilità da parte della seconda economia mondiale. E soprattutto con più trasparenza nei processi di policy making (qualcuno forse ricorderà quando a inizio anno Pechino cominciò di punto in bianco a regolare il renminbi sulla base di un paniere di 13 valute piuttosto che unicamente sul biglietto verde, mandando nel pallone gli economisti).

Rievocando il tracollo delle borse dell'agosto 2015 e le oscillazioni registrate dallo yuan nell'ultimo anno, l'istituto diretto da Christine Lagarde auspica una piena liberalizzazione del tasso di cambio entro il 2018, salvo concedere a Pechino la possibilità di intervenire per prevenire un'eccessiva volatilità nel breve periodo. Quindi, apertura del conto capitale sì ma gradualmente, ché se la crescita economica del Dragone è stata stabile negli ultimi tre decenni (nonostante la crisi asiatica del 1997-98) lo si deve non solo alla solidità dei suoi fondamentali, ma anche alla riuscita gestione da parte del governo dei flussi di capitale oltrefrontiera.

Secondo Alfred Schipke, rappresentante del Fmi in Cina, una transizione «irregolare o incompleta» oltre la Muraglia rischierebbe di esacerbare gli effetti negativi a livello mondiale, soprattutto nei mercati emergenti. Oltre alle questioni valutarie, il rapporto aggiunge ai nodi gordiani la ristrutturazione delle imprese statali, la gestione dei crediti deteriorati, lo shadow banking e l'impennata dei prezzi immobiliari nelle città medio-grandi.

Mentre l'istituto si dice relativamente «ottimista» sul breve periodo - definendo la possibilità di unhard landing «improbabile» grazie alle adeguate riserve in valuta estera - la crescita del debito getta tinte fosche sul futuro. Stando a recenti dati della Bank for International Settlements, nei primi tre mesi dell'anno la distanza tra il credito della Cina e il suo Pil - misura che analizza l’ammontare del debito rispetto alla crescita annuale di un'economia - ha raggiunto il 30,1%, mentre il debito corporate(quello delle imprese) si aggirerebbe intorno al 145 % del Pil. Tanto che secondo Nomura, dall'inizio della crisi globale (2008) a oggi le aziende cinesi hanno più che addoppiato la percentuale del reddito utilizzato per la ristrutturazione del debito portandola al 20 per cento, il valore più alto al mondo. Numeri che Schipke definisce ancora sotto controllo ma che richiedono una valutazione qualitativa in modo da differenziare le passività «buone» da quelle «cattive».

Sulla mancata implementazione del deleveraging (riduzione del livello di indebitamento delle istituzioni finanziarie) si è espresso anche Huang Yiping, adviser della banca centrale che sul China Daily parla di high leverage trap, ovvero agli ostacoli che gli aggiustamenti sul breve periodo provocano alla risoluzione di problemi di più lungo respiro. Proprio in questi giorni, in occasione di un forum presso la Peking University, l'economista Huang Yiping ha lamentato l'inefficacia delle misure finora messe in campo, evidenziando l'estrema facilità con la quale le aziende di Stato hanno accesso agevolato al credito bancario, pur non essendo in grado di ripianare il debito contratto. Un parere pesante come il piombo fuso se a pronunciarlo è il padre del termine «Likonomics», la ricetta economica - a base di riforme strutturali, consumi interni, deleveraging e stop agli stimoli - con cui il premier Li Keqiang punterebbe a risanare l'economia cinese. Il condizionale è d'obbligo considerando l'intramontabile appeal del vecchio modello trainato dagli investimenti, che negli ultimi mesi sembrerebbe aver indispettito perfino il presidente Xi Jinping.

Analizzando i dati rilasciati martedì dall'Ufficio Nazionale di Statistica, la società di consulenza China Beige Book International mette in evidenza la sostanziale dipendenza della crescita dai vecchi catalizzatori, profitti industriali (ai massimi da tre anni) e real estate (che però non è omogeneo in tutto il paese), mentre i servizi rallentano e le vendite al dettaglio perdono fette di mercato a vantaggio dell'e-commerce.

Proprio la ristrutturazione del paradigma di crescita cinese viene citata dal Fmi tra i principali fattori di «contagio» oltreconfine. Una Cina consumption-led, secondo l'istituto con sede a Washington, avrà inevitabili ripercussioni sui partner commerciali, specie quelli che basano la propria economia sull'export di materie prime, di cui per trentanni l'economia investment-driven dell'ex Celeste Impero è stata ghiotta. Si consiglia quindi «l'utilizzo di ammortizzatori dove possibile, ma anche di piani di assestamento».

Una minore domanda cinese colpirà i paesi esportatori di materiali grezzi (come Australia e Brasile) e i fornitori asiatici di prodotti semi-finiti, mentre le nazioni dell'area euro - esportatrici di beni d'investimento (impianti, macchinari e attrezzature) - risentiranno il colpo di coda molto più di quei paesi votati all'export di beni di consumo. Chi ne uscirà vincitore - predice il rapporto - saranno gli importatori di commodity come gli Stati uniti, che gioveranno del calo dei prezzi guidato dalla contrazione della domanda cinese. E poi naturalmente tutti quei paesi del Sudest asiatico che, ricchi di manodopera a basso costo, stanno progressivamente strappando alla Cina il titolo di «fabbrica del mondo».

In un ultimo cenno agli effetti deleteri delle politiche protezionistiche, il Fondo evidenzia infine il potenziale positivo dei fenomeni migratori. Partendo da un'analisi della Cina - dove un incremento dell'1% dei lavoratori migranti può portare a una crescita del Pil del 2% - gli economisti dell'Fmi rintracciano un «legame positivo» fra performance economica e migranti, soprattutto per i paesi soggetti a un maggior invecchiamento della popolazione, che così «possono rafforzare il mercato del lavoro».

(Pubblicato su China Files)

Hukou e controllo sociale

Quando nel 2012 mi trasferii a Pechino per lavoro, il più apprezzabile tra i tanti privilegi di expat non era quello di avere l’ufficio ad...