giovedì 20 ottobre 2016

Cina e Tibet, uno scontro aperto da oltre mezzo secolo




Combattere l'influenza del Dalai Lama continua ad essere una priorità per le politiche etniche della regione autonoma del Tibet. A pochi giorni dall'assunzione dell'incarico, il nuovo capo del partito locale Wu Yingjie lo scorso 30 settembre ha ribadito la linea dura adottata da Pechino nei confronti di Tenzin Gyatso, fin dalla «liberazione pacifica» del Tibet. «Dobbiamo mostrare a fondo la natura reazionaria del XIV Dalai Lama, reprimere le attività separatiste e sovversive, e sforzarci di eliminare alla radice gli elementi nocivi che danneggiano l'unità etnica».

Il tempo non è bastato a sbiadire i sospetti nutriti nei confronti del leader religioso dai tempi della grande rivolta del 1959 con cui il popolo tibetano si oppose alle violenze e alle intolleranze dell'esercito cinese sancendo il fallimento dell'accordo dei 17 punti - stipulato otto anni prima tra Lhasa i comunisti, in base al quale i tibetani riconoscevano la sovranità cinese e permettevano l'ingresso in città di un contingente dell'esercito per programmare la graduale implementazione delle riforme modernizzatrici volte ad annettere il Tibet al resto del Paese. L'insurrezione fu duramente repressa nel sangue dalle truppe dell'Esercito popolare di liberazione, con un bilancio finale di 65.000 vittime e 70.000 deportazioni. Il Dalai Lama fuggì in India insieme al suo governo, a una parte dell'élite feudale e ad alcuni monaci, spalancando le porte all'occupazione integrale del Tibet storico, parzialmente smembrato nell'omonima regione autonoma e nelle province di Qinghai, Gansu, Sichuan e Yunnan.

L'esilio di Tenzin Gyatso a Dharamsala e la notorietà da lui riscossa tra le democrazie occidentali non ha mancato di accrescere i sospetti nutriti dalla leadership cinese, che lo considera una pedina nelle mani dei detrattori del regime cinese fin da quando, tra 1951 e il 1959, il simbolo mondiale della non violenza si assicurò la protezione del Pentagono attraverso l'elargizione di armi leggere e aiuti finanziari per puntellare il movimento di resistenza tibetano.

Pechino ritiene la questione tibetana un problema domestico, si oppone all'ingerenza delle potenze straniere, blinda la maggior parte della regione autonoma alle visite da oltreconfine e al contempo punta a stabilizzarla spingendo sul pedale dello sviluppo economico. Gli esiti mostrano una crescita del Pil locale a doppia cifra da ben 23 anni, accompagnata tuttavia da un annacquamento delle peculiarità culturali tibetane, sempre più minacciate da un progresso di matrice han, l'etnia maggioritaria in arrivo dalla Cina orientale. La lunga scia di autoimmolazioni in corso dal febbraio 2009 sull'altopiano tibetano è la forma di resistenza pacifica messa in atto dalla popolazione locale in risposta all'ingerenza cinese. Come fa notare Free Tibet, «sebbene molti monaci e monache si siano dati fuoco, la maggior parte delle autocombustioni non partono da istituzioni religiose e includono piuttosto insegnanti, studenti, mandriani, madri e padri». Per Pechino, tuttavia, le responsabilità del Dalai Lama sono fuori discussione.

«Le auto-immolazioni sono argomento di grande dibattito tra la comunità tibetana; non sono mancate aspre critiche da parte di intellettuali che le ritengono inutili perdite di vite. Tuttavia, la posizione ambigua assunta dal Dalai Lama -che non ha mai chiesto apertamente l’interruzione delle immolazioni- ha vanificato gli sforzi del governo tibetano in esilio per fermare il protrarsi della pratica», ci diceva tempo fa Robbie Barnett, direttore del Modern Tibet Studies Program presso la Columbia University.

Lasciato ogni incarico politico, dal 2011 Sua Santità Tenzin Gyatso continua a mantenere esclusivamente il ruolo di leader religioso promuovendo la risoluzione degli attriti con Pechino attraverso l’implementazione di una ‘via di mezzo’; una politica moderata che reclama per il Tibet «autonomia sotto un’unica amministrazione», quella cinese. Ufficialmente i rapporti tra autorità comunista e tibetane sono congelati dal 2010, il Dalai Lama non mette piede in Cina dal ’59, ma voci sulla ripresa di contatti a livello informale si rincorrono ormai da un paio di anni. Ovvero da quando il futuro della più alta carica spirituale tibetana risulta quantomai incerto.

Mentre, infatti, Tenzin Gyatso ha ormai superato gli 80 e sulla successione pesano alcune sue affermazioni su una possibile non reincarnazione, Pechino sta promuovendo in ogni modo una figura con cui rimpiazzare il vecchio leader: il 26enne Gyaltsen Norbu, Panchen Lama (seconda carica tibetana funzionale alla nomina del Dalai Lama), insediato dal governo cinese negli anni '90 in sostituzione al prescelto dal Dalai Lama, un bambino di 6 anni fatto sparire dai servizi cinesi e diventato il prigioniero politico più giovane del mondo. Di lui si sono perse le tracce, mentre Gyaltsen Norbu ha raggiunto negli ultimi tempi una notevole visibilità, specie dopo aver presieduto un'importante cerimonia tibetana lo scorso luglio, celebrata in pompa magna dai media di Stato.

Che la strategia di Pechino riesca a conquistare la fiducia del popolo tibetano è tutto da vedere. All'estero, tuttavia, il tradizionale benvenuto riservato per anni al Dalai Lama è diventato inversamente proporzionale all'ingerenza economica esercitata dal governo cinese sullo scacchiere internazionale. Se è vero che soltanto di recente Sua Santità è stato ricevuto presso il Parlamento europeo e dalla dirigenza di Slovacchia e Repubblica Ceca (irritando Pechino), tuttavia, le porte sprangate sono sempre di più.

Come fa notare il Guardian, pesa come il piombo fuso l'assenza di Tenzin Gyatso all'incontro interreligioso che lo scorso settembre ha riunito nella cittadina umbra di Assisi circa 500 leader spirituali di 9 fedi differenti. Un'esclusione che letta attraverso il prisma della graduale distensione tra Cina e Vaticano ha l'aria di essere tutt'altro che casuale.


(Pubblicato su China Files)




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