martedì 31 luglio 2018

Economia nordcoreana ai minimi da 20 anni



Dopo mesi di speculazioni, i numeri sembrano confermare l’efficacia delle sanzioni imposte dalla comunità internazionali contro il regime nordcoreano. Secondo stime della Banca centrale sudcoreana, nel 2017 l’economia nordcoreana è cresciuta al ritmo più lento da vent’anni a questa parte. Il Pil del Regno eremita ha riportato una contrazione del 3,5% su base annua, il calo più netto dopo il crollo del 6,5% registrato nel 1996, anno della grave carestia costata la vita a circa 1 milione di persone.

La produzione industriale, che rappresenta un terzo del prodotto interno lordo, è diminuita dell’8,5%, il calo più marcato dal 1997 imputabile alle restrizioni sull’acquisto di petrolio e altre risorse energetiche. Contestualmente, il commercio estero si è assottigliato del 15%, scendendo a quota 5,6 miliardi di dollari, mentre le esportazioni sono diminuite complessivamente del 37,2%.

“Il volume del commercio estero è diminuito in modo significativo con il divieto sulle esportazioni di carbone, acciaio, prodotti ittici e tessili. È difficile calcolare i numeri esatti, ma (il divieto) ha bloccato la produzione industriale,” spiega Shin Seung-cheol, direttore del National Accounts Coordination Team presso la Bank of Korea.

Le statistiche — desunte, in mancanza di dati ufficiali, dalle informazioni ottenute dal governo sudcoreano attraverso i disertori e il monitoraggio diretto di parametri come l’intensità del traffico e l’estensione delle risaie nelle aree di confine — sembrerebbero confermare — come sostenuto da Washington ma negato dal regime del Nord — la funzionalità delle sanzioni nella sospensione dei test nucleari e missilistici annunciata dal leader Kim Jong-un lo scorso aprile. Complice la peggiore siccità degli ultimi 16 anni riportata lo scorso anno dagli osservatori internazionali.

“Finché le esportazioni di minerali — di gran lunga l’elemento più redditizio dell’export nordcoreano — sono incluse nelle sanzioni, Pyongyang non avrà altra scelta che continuare i suoi attuali negoziati con gli Stati Uniti”, commenta ai microfoni della Reuters Kim Byeong-yeon, professore di economia presso la Seoul National University. Soprattutto considerando che l’incremento delle sanzioni durante il 2017 fa presagire un ulteriore deterioramento dei dati economici per l’anno in corso.

Gli scambi con la Cina, primo partner commerciale di Pyongyang, sono crollati di quasi il 60% nei primi sei mesi dell’anno. Nel 2017, Pechino ha sospeso le importazioni di carbone, fiore all’occhiello dell’export nordcoreano, così come la vendita di prodotti petroliferi, causando una temporanea impennata dei prezzi di gasolio e benzina. Secondo l’esperto, se a risentirne sarà innanzitutto l’establishment politico, abituato a standard di vita sopra la media, il colpo di coda non risparmierà nemmeno i jangmadang,i mercati informali che — stando all’Institute for Korean Integration of Society — contano ormai per il 60% dell’economia locale.

Ciononostante, le valutazioni dell’impatto sui consumi internirimangono in balia della discrezionalità con cui la Cina si attiene al regime sanzionatorio. Solo alcuni giorni fa il ministero degli Esteri cinese si è difeso contro le accuse intentate dalle Nazioni Unite riguardo alla presunta violazione del bando sulle importazioni di carbone nordcoreano. Da alcuni mesi le attività commerciali sul lato cinese del fiume Yalu — la frontiera naturale che separa i due vecchi alleati comunisti — evidenziano un fermento che non è passato inosservato nemmeno all’amministrazione Trump, sempre più occhiuta nei confronti del riavvicinamento tra la leadership del Nord e Pechino. Sospetta è la regolarità mantenuta dai prezzi dei beni di prima necessità come riso e mais, sebbene recenti sopralluoghi delle Nazioni Unite abbiano evidenziato la “chiara necessità di aiuti umanitari.”

I morsi delle sanzioni internazionali cominciano a farsi sentire proprio ora che Kim Jong-un punta a spostare il focus della propria agenda politica dal nucleare allo sviluppo economico. Negli ultimi giorni il giovane leader è stato visto perlustrare siti industriali e zone economiche speciali al confine con il gigante della porta accanto. Non sono mancati rimbrotti per la lentezza con cui procedono i lavori di costruzione e l’ammodernamento degli impianti di produzione.

Aiuti economici in cambio della rinuncia all’atomica è quanto propongono Washington e Seul. Il compromesso non sembra dispiacere a Pyongyang, purché preveda una graduale rimozione delle sanzioni in corso d’opera. Un punto su cui finora la Casa Bianca si è dimostrata irremovibile.

Appena un paio di giorni fa il Rodong Sinmun, quotidiano ufficiale del partito dei Lavoratori, ha invitato la popolazione a “tirare la cinghia” e proseguire lungo “la strada del socialismo”.

[Pubblicato su Il Fatto quotidiano online]

Le ambizioni ferroviarie cinesi incontrano la tecnologia futuribile made in Usa



C'è un vecchio detto cinese che recita “se vuoi diventare ricco, prima di tutto costruisci una strada”. La provincia del Guizhou, una delle più povere del paese, sembra essere in procinto di riadattare la saggezza cinese ai tempi moderni. Lo scorso 19 luglio, il governo locale ha annunciato il raggiunto accordo con la società californiana Hyperloop Transportation Technologies (HTT)per la costruzione di un tracciato ferroviario nella cittadina da Tongren, che prevede l’utilizzo della tecnologia futuribile hyperloop vagheggiata dal Ceo di Tesla Elon Musk fin dal 2012.

“L’iperanello” prevede il trasporto ad alta velocità all’interno di tubi a bassa pressione in cui le capsule sono spinte da motori lineari a induzione e compressori d’aria. Un sistema che dovrebbe riuscire ad assicurare una velocità di percorrenza di oltre 1.200 chilometri orari. Fantascienza anche per il Paese che vanta la rete ad alta velocità più capillare al mondo. Con un’estensione che nel 2017 ammontava a circa 25mila chilometri, le ferrovie intercity cinesi al momento supportano una velocità massima di appena 350 chilometri orari, anche se progettate per raggiungere 400 chilometri orari. Quanto riescono a toccare le due maglev (treni a levitazione magnetica) al momento in funzione a Shanghai e Changsha.

Lo scorso anno la statale China Aerospace Science and Industry Corp (CASIC) aveva annunciato l’inizio di studi di fattibilità per la realizzazione di una maglev con tecnologia hyperloop nella città di Wuhan. Prima azienda cinese — e terza a livello mondiale dopo HTT e Hyperloop One — a lanciarsi nella produzione dei “treni volanti“. L’ultimo stadio del piano dovrebbe vedere l’utilizzo delle conoscenze acquisite per la costruzione di un network internazionale da 4.000 chilometri all’ora. Chiaro riferimento all’amata Belt and Road, la cintura economica con cui la leadership cinese ambisce a rilanciare l’economia delle remote province centro-occidentali agganciandole al resto del mondo grazie alla costruzione di infrastrutture all’avanguardia.

Il progetto in corso nel Guizhou — di cui si ignorano le tempistiche — prevede l’istituzione di una partnership tra il governo della città di Tongren e HTT, che contribuiranno economicamente ognuno per il 50% del costo iniziale: 10 miliardi di yuan (1,5 miliardi di dollari). Le due sussidiarie della statale China Railway Construction Corp, China Railway Maglev Transportation Investment and Construction Co e China Railway Fifth Survey and Design Institute Group, parteciperanno a loro volta ai lavori di costruzione, che verranno divisi in due fasi: la prima, di 10 chilometri, interesserà il collegamento tra la città e l’aeroporto. La seconda — che verrà realizzata solo in caso di successo della prima tratta — si estenderà per 50 chilometri dal centro cittadino al monte Fanjing, una delle località turistiche più famose di Tongren.

Un bel colpo per il Guizhou, una delle province più arretratedella Cina ma con conclamate ambizioni tecnologiche grazie alle sue temperature fresche e all’abbondanza di risorse idriche.Proprio qui la Apple ha stabilito il propio data center per allinearsi alle politiche nazionali sulla cybersicurezza, che impongono l’archiviazione dei dati degli utenti cinesi entro i confini della Repubblica popolare. Lo stesso è in procinto di fare WeChat. Ma per Pechino c’è in gioco molto di più. Come spiega al Global Times Sang Baichuan, direttore dell’Institute of International Business presso la University of International Business and Economics, il caso di HTT dimostra come molte aziende americane ambiscano a ritagliarsi uno spazio nel ciclopico progetto Belt and Road. “Purtroppo spesso non sono in grado di farlo a causa della strategia del governo americano,” chiosa il tabloid in lingua inglese, ricordando come i tentativi di realizzare un supertreno hyperloop tra San Francisco e Los Angeles siano falliti.

La partnership tra la compagnia californiana e il Guizhou giunge mentre sull’altra sponda del Pacifico infuriano le polemiche sul presunto trasferimento di tecnologia a cui sarebbero obbligate le società statunitense operanti oltre la Muraglia. Le politiche industriali disinvolte messe in atto da Pechino sono alla base della guerra tariffaria in corso tra le due superpotenze. Oltre alla negata reciprocità per il business d’oltremare, a indispettire Washington è soprattutto la famigerata strategia industriale nota con il nome di “Made in China 2025” e con cui la Cina punta a creare un’economia interna in grado di trainare il Paese attraverso l’innovazione e l’utilizzo di nuove tecnologie oggi appannaggio degli Stati Uniti. Con intenti amichevoli, da qualche tempo l’establishment cinese ha spostato il focus sulla possibilità di sfruttare il piano per avviare nuove sinergie con “l’Inc. globale”. HTT non se l’è fatto ripetere due volte.

[Pubblicato su Il Fatto quotidiano online]

domenica 29 luglio 2018

In Cina e Asia



Forte esplosione davanti all’ambasciata americana a Pechino

Una forte esplosione e poi una nube di fumo. E’ quanto mostrano i primi video amatoriali dell’incidente avvenuto quest’oggi intorno alle 13.00 davanti all’ambasciata americana di Pechino. Le riprese mostrano agenti della polizia ispezionare una macchina parcheggiata. Secondo Radio Free Asia, un uomo avrebbe tentato di lanciare un ordigno rudimentale contro la sede diplomatica di Chaoyang. Il congegno gli sarebbe esploso accanto inavvertitamente. Non ci sono feriti a parte il sospettato, che la polizia ha identificato come un 26enne della Mongolia Interna. Su Weibo ogni riferimento all’evento risulta censurato.

Facebook arriva in Cina. Anzi no


Per la prima volta, Facebook sbarca ufficialmente in Cina. Anzi no. Giorni fa la compagnia fondata da Mark Zuckerberg — e bandita dalla Repubblica popolare dieci anni or sono — aveva registrato una sussidiaria a Hangzhou, la città che ospita anche Alibaba. Il progetto, del costo di 30 milioni di dollari, prevedeva l’istituzione di un centro di ricerca per “per supportare gli sviluppatori, innovatori e le start-up cinesi”. Un ingresso soft considerando che per app e altri servizi l’azienda dovrebbe scendere a compromessi con il governo cinese e le sue politiche in materia di archiviazione dei dati personali attirandosi nuovi grattacapi oltre a quelli già accumulati in patria. Ma, anche così, l’arrivo in Cina sembra aver già toccato un nervo sensibile. Secondo ilNYT, sui social media locali alcuni riferimenti alla nuova filiale sono stati censurati, mentre la registrazione dell’azienda è già sparita dal sito web del National Enterprise Credit Information Publicity System in seguito a divergenze tra i funzionari provinciali e la potentissima Cyberspace Administration. Ma c’è anche chi imputa il dietrofront cinese alla guerra commerciale con Washington.

La Commissione disciplinare chiede maggiori diritti per i detenuti


Un trattamento equo per gli indagati. E’ quanto chiede la Commissione per centrale l’ispezione della disciplina, facendo riferimento al nuovo sistema di detenzione (liuzhi) introdotto con l’istituzione della nuova Commissione nazionale di supervisione, un superministero con poteri superiori a quelli della magistratura ed equiparabile al Consiglio di Stato. Dalla sua nascita la Commissione è già balzata agli onori della cronaca per un decesso in fase di interrogatorio. Oggi il principale organismo anticorruzione del Partito ha annunciato una serie di regole per prevenire il ricorrere di abusi durante il periodo detentivo. Tra le altre cose si legge che gli indagati sotto liuzhu“devono avere accesso a cibo e bevande, riposo e cure mediche garantite.” Secondo il Scmp nel 2016 la procura suprema del popolo ha chiesto la revisione di 27 casi di corruzione gestiti in maniera dubbia.

Filippine: Duterte pronto a combattere la povertà con il federalismo

“Non solo Sabah, ma anche lo Scarborough, il Benham Rise e le isole Spratlys”. Si allunga la lista dei territori contesi con la Cina e la Malaysia che Aquilino Pimentel Jr, l’advisor di Duterte incaricato di visionare la Costituzione delle Filippine del 1987 in vista di un piano federale, propone di aggiungere ai 12 nuovi stati autonomi. La proposta di Pimentel prevede già una suddivisione in Luzon settentrionale, Luzon centrale, Luzon meridionale, Bicol, Visayas orientale, Visayas centrale, Visayas occidentale, Minparom, Mindanao settentrionale, Mindanao meridionale e Bangsamoro, con Metro Manila a fungere da “capitale federale”. Cavallo di battaglia di Duterte in campagna elettorale, l’istituzione di un sistema federale dovrebbe regalare maggiore autonomia alle regioni agricole come Visayas e Mindanao in modo da ridurre il gap con il nord industriale. Ma finora il progetto si è scontrato con l’opposizione di quanti mettono in dubbio la possibilità di un’autosussitenza delle zone periferiche. A far discutere è anche la rimozione dalla nuova costituzione del limite presidenziale di un unico mandato di sei anni, da sostituire con la possibilità di due mandati quinquennali consecutivi.

venerdì 27 luglio 2018

Il delta dello Yangtze è a corto d’acqua



Non c’è nemmeno un goccio d’acqua“. E’ difficile credere alle parole di Hui Chunjie, la trentacinquenne intervistata dalla rivista digitale Sixth Toneche lo scorso inverno ha deciso di lasciare il villaggio d’origine per trasferirsi nella contea di Si, nella provincia centrale dello Anhui, zona orientale della Cina. Ogni giorno Hui è costretta a trasportare un contenitore di acqua filtrata per quattro rampe di scale per far fronte alla carenza di risorse idriche che talvolta lascia a secco la zona anche per dieci giorni di fila. Pensare che trent’anni fa la contea, situata nel delta dello Yangtze in prossimità del lago Hongze, il quarto bacino d’acqua dolce più grande del Paese, aveva scorte sotterranee in grado di riempire 420mila piscine olimpioniche.

Mentre non tutto il paese vive lo stato d’emergenza dello Anhui, secondo gli esperti, circa due terzi delle città cinesi sono costantemente minacciate dalla carenza d’acqua. Il problema è più evidente a Nord. La pianura settentrionale, al cui margine nord-orientale si trova Pechino, ospita il 42% della popolazione nonostante abbia appena il 7% delle riserve d’acqua nazionali. Di contro, la Cina meridionale si avvale di quattro quinti delle risorse idriche complessive, di cui la maggior parte localizzata proprio attorno al bacino dello Yangtze.

Oggi però il livello dei pozzi locali è sceso dagli 80mila litri del 2005 agli attuali 10mila, tanto che la contea si trova a gestire un deficit di 20 milioni di litri d’acqua, pari alla domanda di due terzi della popolazione locale. Nei mesi estivi, quando la richiesta aumenta, le risorse vengono razionate e rese disponibili due ore alla mattina, a mezzogiorno e alla sera. Ma per chi, come Hui, abita al quinto piano lo scenario è anche più tragico a causa del crollo della pressione dell’acqua, che di fatto lascia a secco i piani alti.

Mentre i residenti aggirano il problema ricorrendo a taniche e pompe elettriche, ospedali e scuole hanno cominciato a scavare i propri costosi e poco efficaci pozzi da circa 15mila dollari l’uno. Con il risultato che “anche scendendo a una profondità di 150 metri non è detto si riesca a ottenere forniture stabili”, spiega a Sixth Tone Zhang Yue, il funzionario incaricato di gestire l’impianto idrico di Si.

La carenza d’acqua affligge da tempo la contea, soggetta a sporadici periodi di siccità. Ma è soltanto dallo scorso anno che il problema ha raggiunto trasversalmente tutta l’area. Il motivo va ricercato parzialmente nell’impossibilità di attingere a fiumi e falde acquifere più superficiali a causa dell’alto grado di contaminazione. Il rapido processo di urbanizzazione, ravvisabile nelle onnipresenti file di condomini in costruzione, concorre ad aggravare la penuria. Un tempo abitata da circa 35mila persone, la contea ha visto lievitare la propria popolazione di dieci volte dal 1996 a oggi sulla scia delle politiche governative che individuano in cemento e mattoni il volano della crescita economica.

Le città sono sinonimo di produttività e incremento dei consumi interni. Con il risultato che se nel 1978 un cinese su cinque viveva nelle zone urbane, oggi a risiedervi è quasi il 60% della popolazione. Va da sé che all’aumento demografico corrisponde uno sfruttamento più intensivo delle risorse. Secondo He Shouyang, professore associato dell’Università del Guizhou, nel 2016 le campagne hanno consumato giornalmente soltanto un terzo dei 220 litri di acqua utilizzati nelle città. Lo scarto va attribuito all’impiego di docce ed elettrodomestici, come lavatrici e lavastoviglie.

Ecco che proprio l’assetato Nord diventa fonte d’ispirazione per le autorità della contea di Si. Entro il prossimo giugno, un impianto per il trattamento delle acque dovrebbe collegare Suzhou, il centro amministrativo locale, alle risorse del fiume Huai, più a Sud, attraverso un sistema di condotte. Riproduzione in scala minore del ciclopico progetto di diversione delle acque (il South North Water Transfer Project), avviato nel 2002 per dissetare le zone industriali del paese, grazie a una serie di canali e acquedotti, che andrà a servire quasi 500 milioni di persone. Un’opera mastodontica, paragonata da molti alla Grande Muraglia, che pomperà 44,8 miliardi di metri cubi d’acqua all’anno dal letto dello Yangtze verso l’arido Nord per 4.350 chilometri.

Le critiche non mancano. Ad oggi due delle tre tratte previste dal progetto sono già in funzione ma con costi due volte superiori a quanto preventivato inizialmente. Senza contare che al momento la capacità delle condotte è in grado di rispondere soltanto a un ottavo delle esigenze della Cina settentrionale. Interrogativi analoghi offuscano il progetto di Suzhou. Una volta sborsati gli 1,36 miliardi di yuan necessari, la contea tornerà veramente a vedere l’acqua?




[Pubblicato su Il Fatto quotidiano online]

Pechino minimizza l’esplosione davanti all’ambasciata Usa. Il web ironizza


"Un caso isolato”. Così le autorità cinesi cercano di minimizzare l’esplosione avvenuta questa mattina alle 13.00 ora locale in prossimità dell’ambasciata americana a Pechino.

Secondo l’account Weibo del dipartimento della sicurezza pubblica della municipalità, il colpevole sarebbe un 26enne della Mongolia Interna, visto da alcuni testimoni oculari detonare inavvertitamente l’ordigno — fabbricato con dei fuochi d’artificio — mentre cercava di scagliarlo contro la sede diplomatica Usa. Il sospettato, di cui si conosce solo il cognome (Jiang), è stato portato in ospedale per il trattamento di una lesione alla mano. “A parte l’attentatore, nessun’altra persona è rimasta ferita e l’edificio dell’ambasciata non ha riportato danni”, si legge nel comunicato rilasciato dal portavoce della delegazione statunitense. L’episodio, che ha coinvolto l’angolo sud-occidentale del compound localizzato nel distretto di Chaoyang, ha portato alla chiusura temporanea della Tianze Road e all’interruzione delle regolari operazioni di rilascio dei visti, riprese intorno alle 15.00.

Il ministero degli Esteri ha sottolineato la prontezza con cui le forze di polizia hanno gestito l’accaduto, sorvolando sulla matrice dell’ “attentato”. Ma, secondo fonti del New York Times, il ragazzo avrebbe messo in atto il gesto estremo per attirare l’attenzione su un caso di violazione dei diritti umani. Un copione a cui spesso ricorrono petizionisti in cerca di giustizia. Nel 2013, un uomo rimasto paralizzato dopo un pestaggio per mano della polizia e da anni in attesa di un risarcimento ha fatto esplodere una bomba rudimentale presso l’aeroporto di Pechino. Due anni prima, nella provincia del Jiangxi, un disoccupato di 52 anni aveva messo a segno una serie di attacchi dinamitardi contro tre uffici governativi per protestare contro l’inadeguatezza del rimborso ricevuto a seguito della demolizione forzata della propria abitazione.

Mentre il movente della rivalsa sociale è in attesa di conferme, la ricostruzione fornita dalle autorità non fa menzione di un episodio altrettanto oscuro avvenuto nella stessa zona della città due ore prima. Testimonianze riprese tanto dai media internazionali quanto dal Global Times, spinoff dell’organo di stampa del Partito comunista cinese, fanno riferimento alla detenzione di una donna dopo un tentativo di autoimmolazione, altro triste espediente cui spesso ricorrono vittime di abusi e minoranze etniche in cerca di un pieno riconoscimento culturale. Non è chiaro se i due incidenti siano in qualche modo collegati.

Nonostante il valore simbolico della location, nulla sembra invece suggerire la matrice nazionalista. Il fallito attentato giunge mentre Cina e Stati Uniti sono nel pieno di una guerra tariffaria che non sembra prossima alla fine. In passato, il deperimento delle relazioni diplomatiche con i vicini asiatici è stato talvolta accompagnato da atti dimostrativi e forme di patriottismo radicale, come nel caso dell’assalto alle automobili giapponesi in concomitanza con le schermaglie nel Mar cinese orientale. Nulla di simile è stato finora riscontrato contro obiettivi americani, complice la narrazione moderata adottata dai media di stato per evitare un’escalation in previsione della ripresa dei colloqui con Washington. Piuttosto, rischi per la sicurezza del personale diplomatico americano sono stati sollevati recentemente in seguito al verificarsi di misteriosi “attacchi sonori” presso le sedi diplomatiche Usa in Cina. Un caso — ancora irrisolto — che ricorda molto quanto sperimentato nel 2017 dai funzionari statunitense di stanza a Cuba.

Mentre scriviamo, la notizia dell’esplosione non è presente sulle home page di nessuno dei due principali portali governativi in lingua cinese. Secondo il sito web What’s on Weibo, mentre le prime informazioni sull’incidete sono rimbalzate sull’omonimo Twitter cinese totalizzando circa un milione di visualizzazioni, la scure della censura ha provveduto ben presto a limitare la conversazione. Sebbene non del tutto. Uno dei commenti più popolari recita con sarcasmo: “Gli americani [staranno pensando]: ‘è soltanto una scoreggia rispetto alle sparatorie nelle nostre scuole”.


[Pubblicato su Il Fatto quotidiano online]  

lunedì 23 luglio 2018

Dazi: Pechino prepara gli ammortizzatori



La Cina risponderà in maniera proporzionata alle “angherie” americane. Lo ha annunciato il ministero del Commercio cinese all’indomani dall’annuncio di nuove possibili tariffe made in Usa nell’ambito dell’indagine sul presunto furto di proprietà intellettuale perpetrato contro le aziende statunitensi. La guerra commerciale tra le due superpotenze è entrata in una nuova fase martedì scorso, quando il US Trade Representative, Robert Lighthizer, ha reso nota una lista di oltre 6.000 prodotti cinesi — dai frutti di mare al propano passando per la carta igienica — su cui Washington sta pensando di imporre dazi del 10%. Il valore complessivo delle merci colpite è di circa 200 miliardi di dollari. L’amministrazione Trump ha due mesi di tempo per raggiungere un accordo con Pechino prima che le nuove misure diventino effettive.

L’escalation segue a stretto giro l’applicazione di dazi del 25% su 34 miliardi di dollari di made in China, a cui il gigante asiatico ha già reagito venerdì scorso con barriere commerciali equivalenti. L’ultima provocazione di Washington — che in caso di reticenza cinese potrebbe salire a 500 miliardi — verrà arginata con non meglio precisate “misure qualitative”. Dicitura che, secondo fonti interne alla leadership cinese ascoltate dal Wall Street Journal, preannuncia tempi duri per l’imprenditoria a stelle e strisce operante sul mercato d’oltre Muraglia e non solo. Ritardi nell’approvazione di fusioni e acquisizioni e un’intensificazione dei controlli doganali contro l’import in arrivo dall’altra sponda del Pacifico sono alcune delle ritorsioni al vaglio di Pechino, a cui potrebbe aggiungersi l’imposizione di un tappo ai flussi turistici verso gli States. Un business che oggi vale 115 miliardi di dollari.

Questo darebbe al governo di Xi Jinping la possibilità di contrattaccare equamente, nonostante il valore delle importazioni cinesi di merchindise statunitense sia nettamente inferiore a quello del made in China colpito dai dazi di Trump. Le frecce nella faretra di Pechino sono molte così come gli escamotage con cui l’establishment cinese si appresta ad ammortizzare gli effetti nefasti della guerra commerciale con Washington. Tanto più che oltre Muraglia sono in molti a inserire la controffensiva trumpiana nell’ambito di una più ampia strategia contenitiva volta a contrastare l’ambiziosa agenda industriale nota con il nome di “Made in China 2025”, con cui il gigante asiatico ambisce a divenire una superpotenza tecnologica.

Non si parla solo di dirottare le proprie attenzioni verso partner alternativi — come Brasile, Russia e nazioni del Sudest asiatico — in grado di fornire a condizioni più convenienti quanto oggi Pechino acquista massicciamente negli Stati Uniti. Soia in primis. Il peculiare modello politico-economico del gigante asiatico (leggi: capitalismo di Stato) permette alla seconda potenza mondiale di intervenire con misure di sostegno in risposta all’innalzamento delle barriere americane più velocemente ed efficacemente di quanto non sia in grado di fare l’amministrazione Trump, rallentata da frizioni interne. Secondo un sondaggio della Camera di Commercio americana a Shanghai, il 70% delle società statunitensi si è detto contrario alle ultime disposizioni.

Il ministero del Commercio ha già annunciato di voler utilizzare quanto ricavato dai dazi sull’import statunitense per mitigare i costi delle industrie cinesi più penalizzate. Altre azioni correttive potrebbero includere l’introduzione di incentivi economici, mentre saranno previsti rimborsi per le importazioni di soia destinate alle riserve statali gravate dai precedenti dazi del 25%. “Il governo cinese ha la capacità di intervenire e molti fondi a cui attingere”, ha dichiarato a CNBC Joshua Meltzer, senior fellow del Brookings Institution.

Se a livello centrale si parla di sussidi, i governi locali ripiegano su misure anche più ingegnose. Nella provincia del Guangxi, al confine con il Vietnam, è al vaglio l’istituzione di zone economiche speciali cross-border in cui le aziende cinesi saranno in grado di assemblare i loro prodotti destinati all’export etichettandoli come “made in Vietnam”, così da dribblare i dazi americani. La manodopera a basso costo vietnamita, unita ad alcune politiche preferenziali — come sgravi fiscali e riduzione dei costi logistici — , dovrebbe invogliare le manifatture del Guangdong a delocalizzare nella cittadina di frontiera Pingxiang.

L’efficacia degli ammortizzatori cinesi sono, tuttavia, ancora oggetto di dibattito. A far discutere è soprattutto la decisione prettamente politica di colpire la soia, e conseguentemente gli Stati produttori, che rappresentano la base elettorale di Trump. A oggi, circa la metà dell’export statunitense finisce proprio oltre la Muraglia. “La Cina ha chiesto agli importatori di soia e agli allevatori di prepararsi a consumare tra il 15 e il 20% in meno di soia l’anno prossimo “, ha spiegato John Baize, consulente del U.S. Soybean Export Councili, “aspettiamo che i maiali abbiano fame….non ci sono molte alternative alla farina di soia come integratore proteico.”

[Pubblicato su Il Fatto quotidiano online]

venerdì 20 luglio 2018

In Cina e Asia



Pechino mette gli occhi sull’Africa francese


Dopo aver cambiato il volto di infrastrutture e manifatturiero dell’Africa orientale, gli investimenti si stano gradualmente spostando nelle ex colonie francesi. Secondo i dati compilati dalla China Africa Research Initiative presso la Johns Hopkins University, nei primi cinque anni dell’ultimo decennio i prestiti dalla Cina alla Costa d’Avorio sono aumentati del 1400% toccando quota 2,5 miliardi di dollari. Il Senegal segue un percorso analogo con un incremento del 1,268% per un totale di 1,4 miliardi. Memore di quanto avvenuto altrove, tuttavia, questa parte del continente vincola l’ingresso dei capitali cinesi ad alcune misure autodifensive: la lingua sul posto di lavoro è il francese, i materiali utilizzati sono locali, mentre la manodopera cinese coinvolta nei progetti infrastrutturali non può superare il 20% del totale. Il Senegal, insieme a Rwanda e Sud Africa, sarà tappa intermedia dell’imminente missione di Xi Jinping, nel continente per presenziare al vertice dei Brics.

Guerra commerciale: colpite anche le terre rare


L’ultima tornata di tariffe del 10 luglio colpisce una vasta gamma di prodotti. Accanto al pesce e alla carta igienica compaiono anche lo ittrio e lo scandio, due dei 17 elementi noti con il nome ingannevole di “terre rare”. Si tratta di minerali utilizzati in settori sensibili legati all’hi-tech e alla difesa di cui la Cina detiene un semi monopolio data la difficoltà dei processi estrattivi, contando per il 90% delle forniture mondiali. Con il 30% del’import, gli Stati Uniti costituiscono il primo acquirente di terre rare cinesi. Già utilizzate in passato come arma di ritorsione nei contenziosi con i paesi rivali, i preziosi elementi potrebbero subire un rincaro necessario a bilanciare le perdite collegate alle tariffe, mentre esperti del Global Times propongono lo sviluppo di applicazioni sul mercato interno per affrancarsi dall’export.

Il P2P è in crisi


Tra una frode e l’altra, ha raggiunto un valore di 195 miliardi di dollari in meno di un lustro. Ma oggi il nebuloso mondo del P2P (il sistema di pagamenti person-to-person) comincia a mostrare le prime profonde crepe.Nelle prime due settimane di luglio, almeno 57 operatori hanno annunciato la loro chiusura, default o l’inizio di indagini da parte delle autorità. Numeri che seguono gli 80 casi analoghi di giugno, mese record da due anni a questa parte. Ad alto rischio e poco regolamentata, quella cinese è attualmente la più grande industria P2P del mondo, una frazione del sistema del credito ombra da 10 trilioni di dollari che Pechino sta tentando di imbrigliare.

Nuove critiche contro la National Supervisory Commission

Fin da quando è nata la National Supervisory Commission — il nuovo superministero anti-corruzione con più ampi poteri rispetto ai tradizionali organi di supervisione disciplinare — è stata bersagliata dalle critiche degli esperti per l’ampia discrezionalità dei suoi poteri, che le permettono di trattenere un sospettato per sei mesi senza il coinvolgimento di un avvocato difensore. Un recente caso, che ha coinvolto il commentatore politico Chen Jieren e la sua famiglia, dimostra come le indagini della NSC rischiano di essere utilizzate anche dalla polizia per negare l’accesso ai consulenti legali anche in casi non collegati al reato di corruzione.

In Cina e Asia



Social in fermento: l’uomo più ricco d’Asia non è più cinese

Venerdì scorso, il miliardario indiano Mukesh Ambani, presidente del conglomerato Reliance Industries, ha scavalcato il patron di Alibaba Jack Ma, diventando la persona più ricca d’Asia, grazie all’espansione effettuata dalla sua società nel settore delle telecomunicazioni e dell’e-commerce. Dopo un aumento delle azioni di Reliance, il patrimonio netto di Ambani ha raggiunto i 44,3 miliardi di dollari contro i 44 miliardi di dollari di Ma. La notizia ha suscitato un polverone sui social cinesi, dove il sorpasso dell’imprenditore indiano è stato interpretato da una parte come il segno dell’imminente ascesa del subcontinente nel settore tecnologico a discapito della Cina. Dall’altra come la conferma che l’internet economy è il nuovo principale catalizzatore di ricchezza. Sono finiti i tempi dell’immobiliare e del manifatturiero.

L’Ue impone dazi sulle e-bike cinesi

Fine dell’idillio. A pochi giorni dall’amichevole vertice Ue-Cina, Bruxelles ha deciso di imporre provvisoriamente dazi antidumping tra il 21,8% e l’83,6% sulle importazioni di e-bike “made in Cina”, per evitare il “molto probabile” deterioramento dell’industria. I regolatori hanno riscontrato prove evidenti di dumping a causa del quale i produttori europei sono diventati vittime di “un grave danno”. “L’alluvioni di biciclette elettriche cinesi ha fatto crollare i prezzi”, spiega Moreno Fioravanti, segretario generale dell’ European Bicycle Manufacturers Association (EBMA), alludendo alla contrazione dell’11% registrata tra il 2014 e il 2017. Con un valore attuale di da 1,8 miliardi, il mercato europeo delle biciclette elettriche è cresciuto di oltre il 70% negli ultimi quattro anni. Le importazioni contano quasi 510 milioni di euro, di cui 295 milioni di euro provenienti dalla Cina.

Il lato oscuro del fotovoltaico

Primo investitore nelle rinnovabili (126,6 miliardi di dollari nel 2017), la Cina oggi ospita (nel Qinghai) il più grande parco fotovoltaico del mondo, nonché l’impianto galleggiante più esteso (nello Anhui). Ma la rivoluzione verde intrapresa dalla seconda economia mondiale ha un prezzo ambientale salatissimo. I pannelli fotovoltaici hanno una durata di circa 30 anni e sono fabbricati utilizzando materiali tossici, come acido solforico e gas fosfina, che li rendono difficili da riciclare. Secondo gli esperti, il deperimento di milioni di pannelli potrebbe avere impatti ambientali significativi, soprattutto perché la Cina non ha normative specifiche sul riciclo. Stando alle proiezioni dell’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili, entro il 2050 la Cina si ritroverà con circa 20 milioni di tonnellate di rifiuti, la più grande quantità accumulata dall’industria solare a livello globale.

L’economia nordcoreana ai minimi da 20 anni

Nel 2017 l’economia nordcoreana è cresciuta al ritmo più lento in vent’anni. Lo riporta la banca centrale sudcoreana, secondo la quale il Pil del Regno eremita ha riportato una contrazione del 3,5% su base annua, il calo più netto dopo il crollo del 6,5% del 1997, anno della grave carestia che è costata la vita a circa 1 milione di persone. La produzione industriale, che rappresenta circa un terzo della produzione totale della nazione, è diminuita dell’8,5% e ha segnato il calo più marcato dal 1997 per via delle restrizioni sui flussi di petrolio e altre risorse energetiche verso il paese. Anche la produzione agricola e il settore edile sono diminuiti rispettivamente dell’1,3% e del 4,4%. Contestualmente gli scambi con la Cina, primo partner commerciale, sono crollati di quasi il 60% nei primi sei mesi dell’anno. Le sanzioni internazionali cominciano a farsi sentire proprio ora che Kim Jong-un punta a spostare il focus della propria agenda politica dal nucleare allo sviluppo economico.

martedì 17 luglio 2018

Weekly News Roundup: Dispatches from the Silk Road Economic Belt


China development banks expand links with foreign lenders
China’s development banks — the biggest lenders in the sector worldwide — are ramping up co-operation with overseas financial institutions after problems with their international investment projects. The China Development Bank (CDB) and the Export-Import Bank of China (Ex-Im Bank) are seeking to spread the burden of funding international projects, officials and executives said. (FT)

How the China-US trade row might pave the way for the soybean Silk Road
China already imports nearly 100 million tonnes of the crop a year, accounting for about 60 per cent of the world’s market. Last year roughly half of those imports came from Brazil and a third from the United States, with suppliers in places like Russia, Ukraine and Kazakhstan together contributing less than 1 per cent of the total. (scmp)

Is China’s US$62 billion investment plan fuelling resentment in Pakistan?

China-Pakistan Economic Corridor will stir up political tensions if Islamabad and Beijing cannot resolve existing concerns, NGO says. “While it is too early to assess if CPEC can deliver the economic gains Islamabad promises, the project risks inflaming long-standing tensions between the centre and smaller federal units, and within provinces over inequitable economic development and resource distribution,” the report said. (Scmp)

Kyrgyzstan grows wary of China amid corruption probe Kyrgyzstan is growing increasingly wary of China as details of a corruption case involving a project linked to Beijing are revealed. The country is heavily indebted to China and is now working to rebalance its diplomacy, moving closer to its neighbors. (Nikkei)

China targets vehicle pollution with pledge to deliver 30 per cent more goods by rail by 2020
China will boost rail freight capacity by 2020 and raise the volume of goods delivered by trains by as much as 30 per cent, an environment ministry official said on Thursday, as the country grapples with rising vehicle pollution. (Scmp)

China, Uzbekistan to deepen law enforcement, security cooperation
Chinese State Councillor Zhao Kezhi held talks with Uzbek Minister of Internal Affairs Pulat Bobojonov on 5 July on law enforcement and security cooperation. Zhao, minister of public security, said the two sides should implement consensus reached by leaders of the two countries, further improve security cooperation mechanism for Belt and Road projects, and strengthen pragmatic cooperation in crackdown on the "three evil forces" of terrorism, separatism and extremism and cross-border crime, as well as in law enforcement training to create a safe and stable environment for prosperity and development in both countries. (Xinhua)

China’s ‘prison-like re-education camps’ strain relations with Kazakhstan as woman asks Kazakh court not to send her back
Secretive “re-education camps” allegedly holding hundreds of thousands of people in a Muslim-majority region in western China are the focus of an explosive court case in Kazakhstan, testing the country’s ties with Beijing. (Scmp)

Opinion: A triple win for the EU, CEECs and China?
Compared with bilateral ties, this mechanism of multilateral cooperation between China and the sixteen CEECs has two advantages. First of all, it can facilitate policy coordination between the two sides in an efficient way. Chinese leader does not need to visit all the sixteen countries one by one, thus economizing diplomatic resources. Secondly, many projects go beyond one country’s boundary. Therefore, it is imperative to discuss ways and means of cooperation from a wider perspective among more partners. Challenges come from Berlin and Brussels. Out of the 16 CEECs, eleven are members of the European Union. So the EU accuses China of using the “divide and rule” tactics. In his State of the Union address in September 2017, Jean-Claude Juncker, President of the European Commission, said, “If a foreign, state-owned, company wants to purchase a European harbor, part of our energy infrastructure or a defense technology firm, this should only happen in transparency, with scrutiny and debate. It is a political responsibility to know what is going on in our own backyard so that we can protect our collective security if needed.” (cgtn)

Pakistan seeks more loans from China to avert currency crisis
"The main issue is that once we are locked in an IMF programme, we will have to make full disclosure of the terms on which China has agreed to build the CPEC.” (FT)

Xinjiang relocates 460k residents
Authorities in the Xinjiang Uyghur Autonomous Region in Northwest China relocated 461,000 poverty-ridden residents to work in other parts of the region during the first quarter of the year, in what a Chinese expert on Friday said was a bid to improve social stability and alleviate poverty. (Global Times)

Chinese Investor Disappoints Kazakhstan's National Oil Company
China’s troubled CEFC will pass on a deal to buy a majority stake in KMGI, a subsidiary of Kazakhstan’s Kazmunaigas.China’s CEFC will not buy a majority stake in Kazmunaigas International (KMGI), owned by Kazakhstan’s state-owned oil and gas firm Kazmunaigas, a disappointing development for a deal more than two years in the making. (The Diplomat)


CENTRAL ASIA

Uzbekistan invites Russian ROSATOM to build nuclear power plant on its territory
A series of meetings since late December 2017 between officials from Uzbekistan and ROSATOM, the Russian state nuclear energy corporation, suggests that both sides have reached an agreement to build a two-reactor nuclear power plant (NPP) in this Central Asian republic. According to Bakhrom Ashrafkhanov, Uzbekistan’s ambassador to Russia, “[T]he nuclear power plant will definitely be constructed,” and the two sides are working on a road map. It is expected the final deal will be signed this autumn in Tashkent, during President Vladimir Putin’s visit to Uzbekistan

lunedì 16 luglio 2018

n Cina e Asia



Ombre trumpiane sul vertice Cina-Ue


Maggiore reciprocità, la stesura di un accordo bilaterale sugli investimenti, ma anche i cambiamenti climatici e la denuclearizzazione della penisola coreana. Sono questi i principali temi del vertice annuale Cina-Ue, apertosi questa mattina a Pechino. I venti di guerra che spirano da Washington potrebbero giocare a vantaggio della retorica di Xi Jinping, che vede la Cina ergersi ad alfiere del libero commercio in opposizione alla controffensiva protezionistica di Trump. Durante l’incontro le due parti dovrebbero anche istituire formalmente un gruppo di lavoro incaricato di riformare la World Trade Organisation, che Washington punta a smantellare. Basteranno le comuni preoccupazione per la deriva trumpiana ad appianare le storiche divergenze che negli ultimi due anni hanno impedito la stesura di un comunicato congiunto?! Nonostante il progressivo avvicinamento tra i due partner commerciali, gli esperti sono concordi nel ritenere improbabile uno schieramento dell’Ue al fianco di Pechino in chiave anti americana.D’altronde, vincolato a un termine di due mandati, prima o poi Trump sarà destinato a uscire di scena. Xi Jinping invece — potenzialmente — potrebbe rimanere in carica sine die.

E ora si liberino gli altri

La liberazione di Liu Xia, vedova del premio nobel per la pace Liu Xiaobo morto nel 2017, agli arresti domiciliari dal 2010, riaccende i riflettori sui prigionieri politici ancora in cella nel paese. Una luce cupa giacché a poche ore della liberazione di Liu, un altro dissidente, Qin Yongmin, è stato condannato a 13 anni di prigione per sovversione da una corte della città di Wuhan, la pena più dura assegnata per tale reato in 15 anni. Secondo le stime più recenti si tratterebbe di 1400 persone trattenute reati politici e attentato al regime e di cui si sono ormai perse le tracce. Si tratta di difensori dei diritti delle minoranze (quelle uigura e tibetana in testa) e di intellettuali che hanno preso parte al movimento 709, un movimento di avvocati che chiedeva riforme democratiche e che ha scatenato una repressione da parte delle autorità nel 2015.

I veri numeri della Belt and Road

A seconda della fonte presa in esame, la Belt and Road si aggirerebbe tra i 900 miliardi e gli 8 trilioni di dollari. Ma in realtà i progetti già in corso a sostenere tali stime sono ancora soltanto una frazione del totale. Secondo un rapporto del Mercator Institute for China Studies, la cosiddetta nuova via della seta potrebbe essere stata sovrastimata sulla base di informazioni parziali e fumose. Spesso infatti quelli che i media riportano come “accordi” sono in realtà soltanto memorandum d’intesa dall’incerta fattibilità o iniziali dimostrazione di interessamento da parte delle singole compagnie cinesi. Questo è vero sopratutto per le iniziative all’interno del blocco 16+1 che comprende ‘Europa centro-orientale. “Secondo il database MERICS BRI, dal 2013 Pechino ha finanziato nella regione progetti infrastrutturali a oggi completati per un importo di appena 715 milioni di dollari. Oltre 3 miliardi di dollari di finanziamento cinese sono collegati a progetti ancora in costruzione, mentre per i progetti ancora sulla carta, la cifra oscilla addirittura tra i meno 7 miliardi di dollari e gli oltre 10 miliardi. Governi dei paesi target, media e funzionari cinesi sono tutti compiacenti nel dare in pasto all’opinione pubblica statistiche gonfiate. Secondo il FT, circa il 14% dei 1.674 progetti promossi dalla Cina sotto il cappello della Belt and Road hanno affrontato problemi quali ritardi, proteste pubbliche, scarsa governance e preoccupazioni relative alla sicurezza nazionale.

mercoledì 11 luglio 2018

In Cina e Asia


Liu Xia è finalmente libera


Dopo oltre sette anni di domiciliari, Liu Xia è libera. Secondo quanto affermato dal fratello Liu Hui, la moglie del premio nobel per la pace (in absentia) Liu Xiaobo ha lasciato la Cina questa mattina diretta verso l’Europa per “cominciare una nuova vita”. Intorno alle 11 la donna, che soffriva da tempo di depressione, è partita alla volta della Germania su un volo Finnair. La notizia giunge in concomitanza con una visita ufficiale del premier Li Keqiang a Berlino e alla vigilia del vertice annuale Cina-Ue. Sulla scia degli appelli della comunità internazionale, voci di un suo imminente rilascio si rincorrevano da mesi. Le condizioni psicologiche della poetessa si erano aggravate dopo la morte del marito per tumore nel 2017.

La Cina e il buco dell’ozono


Secondo un rapporto della Environmental Investigations Agency (EIA),nonostante le proiezioni incoraggianti degli esperti, le emissioni responsabili per il danneggiamento dello strato di ozono che protegge la Terra sono destinate ad aumentare. La ragione sta nell’uso pervasivo in Cina di una sostanza bandita fin dal 2010: il Triclorofluorometano (CFC-11) utilizzato nella produzione di schiuma di poliuretano, un materiale impiegato come isolante termico nelle case per ridurre — in teoria — costi energetici ed emissioni di carbonio. Secondo i ricercatori dell’EIA — che hanno contattato fabbriche in 10 diverse province del paese e parlato con i dirigenti di 18 aziende — la sostanza chimica è utilizzata nella maggior parte degli isolanti venduti in Cina. Circa il 70% secondo un fornitore. Il motivo è piuttosto semplice: il CFC-11 è di qualità migliore e molto più economico rispetto alle alternative presenti sul mercato. Un bel problema se si considera che la Cina conta per circa un terzo della produzione globale di schiuma di poliuretano.

Missionari lungo la Via delle Seta


Non solo strade, e ferrovie. Come il colonialismo occidentale in Asia è stato veicolo di conversioni religiose così anche l’arrivismo cinese in Africa si sta espandendo dal profano al sacro. Secondo una dettagliata analisi di The Diplomat, non solo sono sempre di più le società cinesi ad aggiudicarsi appalti per la costruzione di chiese grazie alle loro capacità logistiche. Ormai tre quarti delle bibbie utilizzate nel continente sono “made in China”, e molte di queste finiscono in mani di expat cinesi più permeabili all’influenza religiosa una volta lontano da casa. Al momento ci sono circa 1.000 i missionari cinesi all’estero, la maggior parte affiliati alle chiese sotterranee, ovvero non riconosciute da Pechino. Numeri che la comunità cristiana della mainland stima saliranno a 20mila. La Nuova Via della Seta si presta perfettamente a questa nuova intrusione di fede “made in China”.

Le alluvioni stagionali colpiscono la capitale cinese dei bitcoin

Le piogge torrenziali che stanno colpendo il Sichuan potrebbero rivelarsi disastrose non solo per l’industria agricola e la popolazione locale. La provincia del sud-ovest della Cina, grazie alle sue abbondanti risorse idroelettriche, è infatti una delle sedi principali del mining di criptovalute. Considerato che la Cina produce oltre il 50% dei bitcoin estratti a livello mondiale, secondo Morgani Stanely le alluvioni del Sichuan interesseranno tra l’8 e il 10% delle attività estrattive a livello mondiale. Alcune statistiche — non da tutti condivise — parlano di un crollo del 30% dell’hash rate, l’unità di misura della potenza di elaborazione della rete bitcoin, mentre immagini circolate sui social mostrano “minatori” intenti a salvare i macchinari necessari all’estrazione. Decine di migliaia sarebbero ormai irreparabili, secondo il sito specializzato Golden Finance.

lunedì 9 luglio 2018

In Cina e Asia



Dying to Survive, la commedia cinese che conquista cuori e botteghino


Niente kung fu né patriottismo. L’ultimo film campione d’incassi al box office cinese è una commedia malinconica dall’eloquente titolo Dying to Survive. La pellicola, che solo nella giornata di sabato ha incassato 383 milioni di yuan, ricalca in maniera romanzata la vera storia di Lu Yong, un commerciante di tessuti della provincia orientale di Jiangsu malato di leucemia, processato per aver importato illegalmente dall’India medicinali contraffatti. Sebbene circa il 95% della Cina continentale sia coperta da un’assicurazione sanitaria di base, questo non vale per molti farmaci o trattamenti antitumorali, ancora off limits per molti cinesi. Si pensa che grazie a Lu circa 1000 persone abbiano avuto accesso alle cure con costi dieci volte inferiori a quelli previsti dal mercato ufficiale. Accertate le buone intenzioni, le accuse contro l’uomo sono state lasciate cadere nel 2015. Non è andata altrettanto bene al protagonista del film, condannato a 5 anni di carcere.

Myanmar: a processo i due giornalisti della Reuters

Dopo sei mesi di udienze preliminari, un tribunale di Yangon quest’oggi ha accusato ufficialmente i due giornalisti della Reuters Wa Lone, 32, and Kyaw Soe Oo, 28, di violazione della legge di epoca coloniale Official Secret Act. I due, che si sono dichiarati innocenti, verranno processate e rischiano un massimo di 14 anni di detenzione. Secondo la sentenza di lunedì, le accuse contro i reporter sono state accolte ai sensi della sezione 3.1(c) della legge per sondare la loro responsabilità nella raccolta e ottenimento di documenti segreti relativi alle forze di sicurezza con l’intenzione di danneggiare la sicurezza nazionale. Ma secondo la difesa i due sono stati arrestati mentre conduceva investigazioni sul massacro dei rohingya da parte dell’esercito regolare sulla base di documenti pubblici. In una deposizione di aprile, il capo della polizia Moe Yan Naing ha ammesso che un alto ufficiale aveva ordinato ai suoi subordinati di passare documenti segreti a Wa Lone apposta per “incastrarlo”.

Dazi e contro dazi: i media cinesi ci vanno cauti

La guerra commerciale con gli Usa non diventerà “una guerra di insulti”. Sono le istruzioni diramate ai media dalle autorità cinesi con l’intento di prevenire un’escalation verbale all’indomani dell’applicazione delle sanzioni americane contro il made in China. Le linee guida sembrano voler soprattutto voler evitare che Trump e il suo entourage diventino l’obiettivo esplicito dei rancori cinesi, dando vita a uno scambio di improperi sul genere messo in atto dai vertici nordcoreani e americani, rischiando di minare il rapporto amichevole instaurato da Xi Jinping e Donald Trump. Qualche giorno fa il Scmp aveva riportato il tentativo di limitare il dibattito pubblico sul piano industriale “made in China 2025”, vero casus belli delle ritorsioni statunitensi e fino a poco tempo fa elogiato dalla stampa d’oltre Muraglia come volano dell’ascesa pacifica cinese sullo scacchiere globale. Negli ultimi tempi, in ambito ufficiale, non sono mancati appelli alla modestia e al riconoscimento che il sorpasso su Washington in termini di egemonia tecnologica è ancora lontano.

venerdì 6 luglio 2018

In Cina e Asia



Pechino si prepara alla “guerra commerciale più grande della storia”


Gli Stati Uniti sono responsabili della “più grande guerra commerciale della storia”, “ in violazione alle regole della WTO”. Non si è fatta attendere la risposta del ministero del Commercio cinese alla decisione di Trump di colpire la Cina con tariffe del 25% su prodotti per 34 miliardi di dollari (e potenzialmente estendibili a un totale di 500 miliardi), diventate effettive a mezzanotte ora americana. Per Pechino — che starebbe preparando non meglio specificate “contromisure necessarie” — i dazi “mettono a rischio la catena del valore e di approvvigionamento globale.”

Mentre la misura è mirata a punire il presunto furto di proprietà intellettuale perpetrato dalle aziende cinesi, se la guerra commerciale si dovesse concludere qui, le ripercussioni sulla seconda economia mondiale sarebbero minime: secondo Bloomberg Economics , la Cina rallenterebbe la propria crescita di 0,2 punti nel 2019. Ma se le ritorsioni incrociate dovessero portare a un’escalation, il prezzo da pagare potrebbe salire a mezzo punto percentuale.

I danni non sarebbero limitati alle due superpotenze. Se le esportazioni cinesi diminuissero del 10%, a risentirne sarebbero anche Taiwan, Malesia e Corea del Sud e tutti quei paesi attivi nella produzione di semiconduttori e beni intermedi utilizzati per la produzione di “made in China” destinato al mercato statunitense. Stando al ministero del Commercio, circa 20 dei 34 miliardi di beni cinesi su cui gli Stati Uniti implementeranno le tariffe sono in realtà realizzati da società straniere, aziende americane incluse.

Ombre cinesi sulla Silicon Valley


Mentre gli Stati Uniti innalzano paletti contro le acquisizioni cinesi negli States, la lunga mano di Pechino continua ad estendersi silenziosamente nel cuore dell’innovazione a stelle e strisce. Secondo fonti della Reuters, più di 20 società di venture capital operanti nella Silicon Valley hanno stretti legami con un fondo governativo o un’azienda statale cinese. Segno che il trasferimento di tecnologia che tanto preoccupa Trump avviene in buona parte a livello di start up. La portata del fenomeno è riassunta dal caso di Danhua Capital — supportata dal governativo Zhongguancun Development Group —che ha investimenti in una società di gestione dati vicina alla US Air Force e al Dipartimento dell’Energia. Qualcosa potrebbe cambiare con una nuova legge volta a potenziare il U.S. government’s Committee on Foreign Investment in the United States (CFIUS), il comitato inter-agenzia incaricato di sorvegliare l’ingresso dei capitali esteri nelle società hi-tech e nelle infrastrutture critiche americane.

Mar cinese meridionale: isole disabitate aperte a progetti “patriottici”

Pechino sguinzaglierà i privati a sostegno della sovranità cinese nel Mar Cinese Meridionale. Secondo un documento del Department of Ocean and Fisheries of Hainan Province. la provincia cinese di Hainan, che amministra le acque nel Mar Cinese Meridionale, consentirà alle persone di utilizzare isole disabitate per scopi turistici e progetti di sviluppo per un massimo di 50 anni. Il lasso di tempo per l’utilizzo di un isola disabitata è di 15 anni per l’acquacoltura, 25 anni per fini turistici e di svago, 30 anni per l’industria mineraria e del sale, 40 anni per progetti assistenziali pubblici e 50 anni per porti e cantiere navale. L’utilizzo delle isole avverrà previo pagamento al governo locale. Come spiega sul Global Times Chen Xiangmiao, ricercatore del National Institute for the South China Sea “lo sviluppo delle isole disabitate servirà a mantenere la stabilità del Mar Cinese Meridionale e a dissipare i tentativi di altri paesi per invadere ed occupare la nostra sovranità territoriale”. Chiaro riferimento alle periodiche schermaglie tra Cina e vicini rivieraschi.

Pechino rafforza la sua presenza militare in Africa

Inaugurata nel 2017, la base di Gibuti — la prima di Pechino all’estero — potrebbe presto cedere l’attenzione mediatica a nuovi avamposti africani. Secondo CNBC, i segni evidenti vanno rintracciati nell’apertura di una struttura destinata al training delle forze armate fatta costruire a inizio dell’anno in Tanzania, dove la China Merchants Holdings aspira a mettere le mani sul mega porto di Bagamoyo. L’inaugurazione pochi giorni fa del del primo China-Africa Defense and Security Forum nella capitale cinese conferma una tendenza velocizzata dal disimpegno americano: negli ultimi anni Pechino ha scavalcato Washington quanto alla vendita di forniture militari nel continente.

Giappone: Giustiziato il leader del culto Aum Shinrikyo

L’ex leader di Aum Shinrikyo, il culto giapponese “della verità suprema” responsabile dell’attacco con il gas sarin messo a segno nella metropolitana di Tokyo nel 1995, è stato giustiziato questa mattina insieme ad altri sei membri. Chizuo Matsumoto (al secolo Shoko Asahara) era stato nel braccio della morte per oltre un decennio per l’attacco che ha ucciso 13 persone e ne ha ferite oltre 6000. Altri sei membri di Aum Shinrikyo sono stati giustiziati insieme al loro “guru”. Più di 20 anni di processi si sono conclusi nel gennaio 2018, quando la condanna a vita di Katsuya Takahashi è stata confermata dalla Corte Suprema. Tredici membri del culto sono finiti nel braccio della morte.

giovedì 5 luglio 2018

Denuclearizzazione: Kim Jong-un sta bluffando?



Interrogato nel weekend da Fox Business sull’attendibilità della Corea del Nord nel processo di denuclearizzazione, Donald Trump ha risposto di essere convinto della “serietà” di Pyongyang in virtù dell’ “ottima chimica” stabilita con Kim Jong-un durante lo storico vertice di Singapore. Le indiscrezioni trapelate recentemente sulla stampa internazionale, tuttavia, aggiungono una valanga di punti interrogativi al fumoso accordo in quattro step con cui i due leader lo scorso 12 giugno si sono impegnati a perseguire una denuclearizzazione“completa” (ma non “irreversibile e verificabile” come precedentemente richiesto da Washington) della penisola coreana in cambio di rassicurazioni sulla sopravvivenza del regime del Nord.

Negli ultimi giorni, una serie di informazioni riservate e rapporti realizzati da ricercatori indipendenti hanno fatto luce sugli sforzi messi in campo da Pyongyang per aumentare la produzione di materiale fissile e continuare a sviluppare il programma balistico in barba agli impegni presi. Secondo quattro fonti dell’intelligence statunitense ascoltate dal Washington Post, la Corea del Nord non avrebbe alcuna intenzione di cedere interamente le sue scorte nucleari. Piuttosto starebbe valutando alcuni stratagemmi per nascondere il numero di testate in suo possesso e occultare il numero delle strutture utilizzate per l’arricchimento dell’ uranio.

Stando ai servizi segreti americani l’arsenale del Regno eremita al momento vanta tra le 20 e le 60 testate nucleari. Le prove, accumulate dalla Defense Intelligence Agency (DIA) all’indomani del summit tra Kim e Trump grazie al progressivo miglioramento delle tecniche di hackeraggio contro obiettivi nordcoreani, mettono in risalto il ruolo centrale ricoperto dal complesso di Yongbyon (l’unico formalmente riconosciuto dal Nord) e quello di Kangson. Entrambi destinati all’arricchimento dell’uranio, il primo si stima abbia prodotto materiale fissile per la realizzazione di circa una ventina di ordigni il secondo — noto alla DIA fin dal 2010 — potrebbe avere una capacità addirittura pari al doppio. Secondo quanto riportato la scorsa settimana dall’autorevole sito 38 North, “immagini satellitari commerciali del 21 giugno mostrano che i miglioramenti nelle infrastrutture del centro di ricerca scientifica nucleare di Yongbyon stanno procedendo a un ritmo rapido”.

Nel vano tentativo di convincere la comunità internazionale sulle proprie buone intenzioni, lo scorso maggio Pyongyang ha provveduto a smantellare il sito di Punggye-ri — utilizzato per i suoi sei test nucleari. L’irreversibilità dell’operazione è ancora oggetto di dibattito tra gli esperti. Non sembrano esserci progressi nemmeno sul versante missilistico. Immagini satellitari contenute in un rapporto del Middlebury Institute of International Studies — citato dal Wall Street Journal — dimostrano che anche alla vigilia dell’incontro tra Kim e Trump, Pyongyang ha continuato a sviluppare il sito di Hamhung, presso cui vengono prodotti motori per vettori a combustibile solido e altre componenti fondamentali per l’espansione delle ambizioni missilistiche nordcoreane. Non solo. Nei giorni scorsi, riprese satellitari hanno smentito quanto riportato dalla Casa Bianca riguardo all’imminente chiusura di Sohae, il sito utilizzato dal Nord per testare i motori a propellente liquido per i suoi missili balistici a lungo raggio.

La domanda sorge spontanea: Pyongyang sta bluffando? Non esattamente. Come sottolineato da Bloomberg, mentre durante il vertice intercoreano di aprile e il summit di Singapore Kim Jong-un si è impegnato a interrompere i test nucleari e missilistici, nulla in realtà è stato detto sul disarmo e la produzione di combustibile. Tanto che secondo quanto affermato ai microfoni della BBC da Vipin Narang, esperto di proliferazione nucleare del MIT, nessuna delle operazioni sopra esposte tecnicamente costituisce una violazione degli accordi presi tra i leader nordcoreano e americano. L’inganno piuttosto sta nel linguaggio estremamente flessibile con cui è stato redatto il comunicato congiunto. Un punto su cui insistono da tempo i detrattori di Trump. E l’evidente spaccatura all’interno della leadership a stelle strisce non aiuta.

Le indiscrezioni rimbalzate sulla stampa anglofona coincidono con una serie di affermazioni contrastanti rilasciate dall’amministrazione statunitense sulle tempistiche del disarmo: secondo il consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton, nel migliore dei casi Washington sarebbe in grado di concludere le operazioni in un anno, mentre per il segretario di Stato Mike Pompeo — in procinto di tornare a Pyongyang venerdì prossimo per finalizzare i termini dell’accordo — ne servirebbero circa due. I tempi potrebbero allungarsi non poco nel caso l’amministrazione Trump decidesse di seguire la roadmap proposta David Albright, presidente dell’Institute for Science and International Security, invitato nel panel di esperti a cui la Casa Bianca ha affidato la redazione di un piano di denuclearizzazione. In questo caso si parlerebbe di almeno dieci anni con una fase iniziale destinata alla compilazione di un inventario preciso sui siti, le armi, i materiali e i funzionari coinvolti nel programma nucleare.

[Pubblicato su Il Fatto quotidiano]

In Cina e Asia




Morto il presidente dell’indebitata HNA


Si mettono male le cose per HNA, la conglomerata cinese costretta a disinvestire assets per 15 miliardi di dollari dopo aver speso negli ultimi due anni circa 50 miliardi in acquisizioni estere. Ieri il suo co-presidente Wang Jian è morto in un incidente mentre si trovava in Francia. Secondo il Financial Times, la sua disgraziata uscita di scena complica non poco gli sforzi di deleverage della compagnia, che nel suo portfolio vanta una partecipazione in Deutsche Bank AG. del 3,69%. Mr. Wang ha svolto un ruolo fondamentale nell’ascesa della società, guidando il suo processo di espansione all’estero con l’aiuto del fratello Wang Wei, una figura chiave rimasta dietro le quinte come molti dei suoi misteriosi azionisti.

Cina, il business della sorveglianza sociale

L’attenzione maniacale di Pechino per la stabilità sociale è fonte di polemiche all’estero e di business in patria. Secondo calcoli di Adrian Zenz, esperto dell’ European School of Culture and Theology, la regione autonoma uigura ha visto la spesa per la sicurezza interna lievitare del 100% lo scorso anno,arrivando a superare i 9 miliardi di dollari. Nel solo 2017, la regione ha sborsato per la sorveglianza tanto quanto nei sei anni dal 2007 al 2012 messi insieme. Tra le tecniche utilizzate, spiccano l’utilizzo di telecamere a riconoscimento facciale, scansione dell’iride e altre rilevazioni biometriche. Le aziende cinese ci si sono buttate a capofitto. E’ il caso di Hikvision, con sede a Shenzhen, che ha firmato cinque contratti con il governo locale per un totale di 280 milioni di dollari, in gran parte destinati ad apparecchiature video da disseminare nelle aree rurali e urbane. Solo la contea di Moyu nei primi 10 mesi del 2017, ha speso oltre un miliardo di yuan per la sicurezza pubblica, un aumento del 380% su base annua e più di tre volte le entrate totali del governo nello stesso periodo.

Tokyo sfida la comunità internazionale sulla caccia alle balene


La passione del Giappone per la caccia alle balene rischia di tramutarsi in un fattore di rischio per le relazioni diplomatica tra Tokyo e la comunità internazionale. Secondo quanto riportato dal Guardian, il Sol Levante potrebbe riprendere la criticata pratica con fini commerciali già entro la fine di quest’anno. Ovvero dopo che la delegazione nipponica sfrutterà il vertice dell’International Whaling Commission (IWC) che si terrà a settembre in Brasile per modificare le regole di voto sulla ripresa della caccia per scopo di lucro. Funzionari giapponesi hanno riferito che la proposta sarà limitata solo alle specie non più a rischio ed è giustificata dall’aumento del numero di alcuni esemplari come le megattere e minke. Una motivazione non sufficiente a placare le critiche. “Cercare di sovvertire il modo in cui l’IWC prende le proprie decisioni non cambierà il fatto che per decenni la maggioranza dei membri non ha avuto alcun appetito per un ritorno all’era passata della caccia commerciale”, ha dichiarato Nicola Beynon, responsabile delle campagne dell’australiana Humane Society International.

La Corea del Sud in protesta contro l’upskirting

Mentre il Regno Unito si prepara a introdurre una legislazione che vieta esplicitamente il cosiddetto “upskirting”, in Corea del Sud è polemica sulla diffusione virale di filmati di natura sessuale, una pratica conosciuta localmente come molka. Secondo la polizia, il numero di arresti per molka è salito dai 1.110 del 2010 ai più di 6.600 del 2014, anche se si ritiene che il numero reale di casi sia di molte volte superiore. Delle 16.201 persone arrestate tra il 2012 e il 2017 con l’accusa di aver effettuato registrazioni illegali, il 98% erano uomini a fronte dell’84% delle 26.000 vittime di sesso femminile. Più di 400.000 persone hanno recentemente firmato una petizione per chiedere alla Casa Blu di costringere la polizia a indagare adeguatamente su tutte le accuse di molka. Il mese scorso, circa 22.000 donne sono scese nelle strade di Seul in quello che i media locali hanno definito la più grande manifestazione per i diritti delle donne nella storia della Corea del Sud.

In Cina e Asia



Pechino alla conquista dei Balcani


Le preoccupazioni manifestate recentemente dall’Ue nei confronti dell’attivismo cinese nei Balcani e nell’Europa orientale non sembrano aver distolto Pechino dai suoi obbiettivi. Il prossimo meeting regionale 16 + 1 — in programma a Sofia per questa settimana — anticipa di pochi giorni l’annuale summit Cina-Ue e segue di soli 7 mesi il precedente vertice. Secondo il Center for Strategic and International Studies (CSIS), il target degli investimenti cinesi nel quadrante evidenzia una certa predilezione per quei paesi in procinto di entrare nell’Ue. Contratti per circa 4,9 miliardi di dollari, ovvero più della metà dei 9,4 miliardi totali siglati con il blocco 16 + 1 tra il 2016 e il 2017, hanno visto coinvolti cinque membri extra Ue ma intenzionati a diventarne parte: Albania, Bosnia-Erzegovina, Macedonia, Montenegro e Serbia. Un dato che accresce i timori di quanti mettono in guardia dalla strategia con cui la cina starebbe cercando di indebolire il mercato unico secondo il principio del “divide et impera”.

La bolla del cinema cinese

L’industria cinematografica cinese è a rischio bolla. Dopo la crescita iperbolica degli ultimi 10 anni (35%), il settore non solo si è assestato su ritmi più contenuti, ma ha persino cominciato ad evidenziare segni di affaticamento. Al momento ci sono 20mila aziende operanti nel settore televisivo e cinematografico, ma solo poche sono realmente produttive. Segno che l’euforia per un settore inizialmente incoraggiato dal governo al fine di puntellare il soft power cinese nel mondo sta lentamente scemando. Nel 2015 solo la metà dei 686 film prodotti localmente ha raggiunto le sale, mentre le quote sulle pellicole straniere sono lievitate. Come in altri settori, secondo gli esperti, probabilmente anche l’entertainment sarà presto interessato da un’inusuale ondata di procedure fallimentari necessaria a rendere l’industria più efficiente. Questo nonostante nei primi sei mesi dell’anno il box office abbia raggiunto quota 32 miliardi di yuan, di cui il 60% incassato da produzioni cinesi, primo sorpasso degli studios locali su Hollywood.

Le donne cinesi della Nuova Era

Mentre in giro per la Cina continuano a nascere istituti di ricerca e corsi dedicati allo studio del pensiero di Xi Jinping, nel sud del paese il Zhen­jiang College e la the All-China Women’s Federation hanno avviato un programma di studio con un obbiettivo alquanto particolare: insegnare alle ragazze cinesi come diventare una donna modello nella “new era” lanciata dal presidente cinese. Un corso di buone maniere piuttosto che una lezione politica. Alla “New Era Women’s School” si impara come vestirsi, versare il tè o stare sedute. Lo scopo è quello di rendere le studentesse donne “sagge”, “solari” e “perfette” attraverso lo studio della storia e della cultura cinese. Da quando Xi ha assunto la presidenza, la Cina è stata investita da un revival neoconfuciano. Non solo. Secondo l’indice sulla parità di genere dell World Economic Forum la seconda economia mondiale è passata dalla 69esima posizione del 2013 alla 100esima dello scorso anno.

Denuclearizzazione: Pyongyang sta bluffando?
Secondo fonti interne dell’intelligence statunitense — riprese dal Washington Post— la Corea del Nord non ha nessuna intenzione di cedere interamente le sue scorte nucleari. Piuttosto starebbe valutando alcuni stratagemmi per nascondere il numero di testate nucleari in suo possesso nonché le strutture segrete utilizzate per l’arricchimento dell’ uranio. Alcuni funzionari dei servizi segreti stimano il numero delle testate intorno alla cinquantina. Al contempo un rapporto del Middlebury Institute of International Studies — avvalorato da immagini satellitari — dimostra che anche alla vigilia dell’incontro tra Kim e Trump, Pyongyang ha continuato a sviluppare il sito di Hamhung presso cui vengono prodotti motori per missili a combustibile solido e altre componenti fondamentali per il programma balistico nordcoreano. Le indiscrezioni trapelate sulla stampa internazionale coincidono con una serie di affermazioni contrastanti rilasciate dall’amministrazione americana sulle tempistiche del disarmo: secondo il consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton, Washington sarebbe in grado di concludere le operazioni in un anno, mentre secondo Mike Pompeo — in procinto di tornare a Pyongyang — servirebbero almeno due.

Seul interverrà contro i rifugiati yemeniti

Seul prenderà provvedimenti per dirimere la questione dei rifugiati yemeniti fuggiti sull’isola sudcoreana di Jeju. Lo ha annunciato venerdì il ministero della Giustizia, secondo il quale le autorità provvederanno a emendare il Refugee Act così come ad aumentare il numero dei funzionari per “rivedere rapidamente e verificare accuratamente l’identità [dei migranti] in modo da rivedere meticolosamente il potenziale per problemi quali terrorismo e crimini violenti”. Negli ultimi giorni una petizione indirizzata alla Casa Blu — che ha raggiunto più di 220mila firme — ha avanzato la richiesta di deportazione per gli sfollati in fuga dalla nazione lacerata dalla guerra tra Sunniti e Sciiti. Si tratta di cittadini yemeniti fuggiti in prima battuta in Malaysia — dove non è richiesto il visto — e una volta scaduto il permesso di soggiorno costretti a partire alla volta di Jeju, collegata a Kuala Lumpur da voli low cost e caratterizzata a sua volta — fino al 1 giugno — da un regime d’immigrazione particolarmente tollerante. Dei 561 yemeniti giunti quest’anno 519 hanno richiesto lo status di rifugiato. Ma l’intolleranza verso i cittadini di religione musulmana mixata al proliferare sui social della teoria che vedrebbe i nuovi arrivati come una minaccia per il mercato del lavoro non qualificato ha aizzato il risentimento dei sudcoreani.

Hukou e controllo sociale

Quando nel 2012 mi trasferii a Pechino per lavoro, il più apprezzabile tra i tanti privilegi di expat non era quello di avere l’ufficio ad...