sabato 28 marzo 2015

Vendere ai cinesi


Che si tratti della sfera popolare o di quella più 'ufficiale', l'Italia - oggi la terza economia dell'Europa - sembra essere diventata il paradiso per i cinesi che vogliono fare affari all'estero. Ultimo caso in ordine di tempo, Pirelli-ChemChina. Un'inchiesta del Shidai Zhoubao, in due puntate.

Il 14 ottobre 2014, in occasione di un colloquio con il primo Ministro cinese Li Keqiang, il Premier italiano Renzi ha dichiarato che "dobbiamo adoperarci affinché in Italia arrivi più Cina e in Cina arrivi più Italia." L'incontro ha fatto da sfondo alla firma per accordi commerciali da 8 miliardi di euro. Ma per Renzi si tratta soltanto di un "antipasto". Non rimane che un'unica speranza: farsi comprare dai cinesi. Nel 2013, il sito Vendereaicinesi.it ha cominciato a crescere silenziosamente e nella mente degli italiani i cinesi sono diventati una preziosa risorsa finanziaria.

Vendereaicinesi.it è nato nel febbraio del 2013, quando una serie di venditori ha cominciato a pubblicare messaggi pubblicitari sul sito. Lo scopo era quello di aiutare gli italiani a trovare degli acquirenti cinesi disposti a comprare immobili, beni e servizi in un momento di grave crisi economica. Un fattore che vale la pena considerare: l'assoluta maggioranza degli utenti cinesi registrati sul sito vive in Italia.

Dieci anni fa, Clotilde Narzisi e Luca Soliman hanno aperto una caffetteria a Milano. Si chiama Caffè Orefici e sorge in una posizione privilegiata a soltanto 60 metri dal duomo. Purtroppo di recente, a causa della cattiva gestione e dell'eccessiva pressione fiscale, sono stati costretti a metterlo in vendita. L'unica speranza è che se lo comprino i cinesi.

"I cinesi sono gli unici acquirenti possibili", spiega Narzisi, 43 anni, in un momento di riposo durante la pausa pranzo.

Caffè Orefici è soltanto uno dei 18mila inserzionisti presenti sul sito Vendereaicinesi.it. Qui è possibile trovare merci di ogni tipo: una gelateria in Toscana, un antico laboratorio di jeans a Cremona, persino una Ferrari 458 Italia. E il pubblico di riferimento è rigorosamente cinese.

"I cinesi comprano di tutto, così anche io ho deciso di mettere su la mia pubblicità per tentare la fortuna", racconta Marina. Nel luglio del 2013, la donna ha venduto il suo parco giochi nella città di Alba a una famiglia di cinesi residenti a Bologna. Non erano passati nemmeno 40 giorni da quando aveva messo l'annuncio sul sito. "Non ho dovuto nemmeno fare sconti, sono riuscita a vendere al prezzo che volevo io", spiega.

Al momento la situazione economica dell'Italia non è per nulla buona. Ogni giorno attività di vario genere e grandezza falliscono. Ad essere più vulnerabili sono le piccole e medie imprese che costituiscono la colonna portante dell'economia nazionale. Il tasso di disoccupazione ha raggiunto un nuovo record del 12,7%, mentre il Pil continua a contrarsi e l'aumento accumulato negli ultimi 14 anni risulta appianato. L'economia italiana è tornata ai livelli del 2000.

Di contro, i 321mila cinesi che vivono in Italia sono diventati la salvezza del paese. La ragione sta nel fatto che per ottenere un finanziamento i cinesi possono comodamente rivolgersi ai canali famigliari piuttosto che passare per le banche. In questo momento di declino le attività commerciali, dalla manifattura ai ristoranti fino a bar e alberghi, i cinesi possono dare nuova vitalità all'Italia. Tra il 2012 e il 2013, le società cinesi sono aumentate del 6,1% a fronte di un calo dell'1,6% registrato dalle imprese italiane.

Stando a quanto dichiarato dagli artigiani italiani e dalla CGIA, l'Associazione Artigiani Piccole Imprese Mestre, in Italia le aziende straniere di nuova apertura hanno superato per numero quelle locali, con i cinesi a quota 66.050, di cui 24.050 sono società commerciali. Seguono aziende manifatturiere, circa 18.200, mentre alberghi, ristoranti e bar contano 13.700 unità.

Il mercato immobiliare italiano ha suscitato grande interesse tra i cinesi.

Una ricerca di Jones Lang LaSalle rivela che, nella prima metà del 2014, gli investimenti cinesi all'estero, finiti nel mattone, sono cresciuti del 17% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, raggiungendo il valore complessivo di 5,4 miliardi di dollari. La fetta più consistente è rivestita dagli investimenti in immobili commerciali, quasi 4 miliardi di dollari, ma a trainare la crescita sono sopratutto gli investimenti nell'edilizia residenziale. Nei primi sei mesi dell'anno, i cinesi hanno investito nell'edilizia residenziale d'oltremare 1,5 miliardi di dollari, l'84% in più rispetto al 2013.

Negli ultimi anni la situazione del real estate italiano non è stata per niente rosea. Secondo i dati rilasciati da Fiaip, Federazione Italiana Agenti Immobiliari Professionali, da quando nel 2008 la crisi del debito ha colpito l'Europa, le case in Italia si sono svalutate del 25%. Lo scorso anno il deprezzamento era ancora intorno al 10%.

Secondo la società di intermediazione immobiliare AsiaBraschi, molti di quelli che possiedono attività a Milano hanno intenzione di cedere i loro immobili o le loro attività ai cinesi. Pensano sia una gran fortuna riuscire a vendere ai cinesi, data la loro vivacità imprenditoriale.

"Gli acquirenti cinesi sono famosi in tutto il mondo, in particolare per quanto riguarda il settore immobiliare. Soltanto di recente ho ricevuto una dozzina di cinesi interessati a investire nel real estate italiano", racconta un agente immobiliare del posto. "Per molti ormai l'unica speranza è che i cinesi vengano [in Italia] a fare affari. Credono sia un modo per rimettere in moto il mercato locale".

"Dallo scorso giugno fino a oggi, le ville unifamiliari che ho venduto, oltre ad alcuni appartamenti, sono state prese tutte dai cinesi", racconta Monica, broker immobiliare di Milano. "Alcuni dei proprietari pretendevano persino che fossi io ad andare a cercare degli imprenditori cinesi perché hanno fama di essere molto 'schietti' quando investono nel mattone".

"Se soltanto l'immobiliare italiano avesse sufficiente potenzialità di crescita, i cinesi sarebbero anche più entusiasti di fare affari", aggiunge Monica.

Alla ricerca dei colossi asiatici

Mentre i piccoli commercianti italiani mettono gli occhi sui cinesi emigrati in Italia, le grandi società sono alla ricerca di investimenti diretti dai colossi asiatici.

I dati di Bloomberg dimostrano che, nel 2014, le fusioni e le acquisizioni transfrontaliere supereranno i 54,3 miliardi di dollari con un incremento del 35%. Secondo le statistiche della Banca Centrale Europea, dal 2006 al 2012, gli IDE dalla Cina sono triplicati e gli investimenti di capitali sono cresciuti del 60%.

Nel 2014 l'Italia è diventata il secondo paese europeo per l'ammontare di investimenti cinesi. "Dai dati raccolti abbiamo rilevato che dallo scorso anno molti clienti hanno mostrato interesse a investire in Italia. Quest'anno sono aumentati del 50%", racconta Sara Marchetta, partner dello Studio legale Chiomenti:

Non molto tempo fa, in occasione del vertice Asem, il Premier Li Keqing ha scritto sul quotidiano italiano di economia il Sole 24 Ore che le relazioni tra Italia e Cina sono entrate in una nuova fase da cui beneficeranno entrambi i paesi. Li ha dichiarato che gli accordi siglati dalle due parti sono il frutto del miglioramento dei rapporti economici e culturali. Ha spiegato che la Cina non vuole conservare un surplus commerciale sull'Italia e che importerà più made in Italy. Inoltre, da un punto di vista strutturale gli ultimi accordi sono molto più orientati nel settore della tecnologia e della finanza; fattore che indica un allontanamento dal semplice scambio di merci e implica il raggiungimento di un livello più sofisticato nelle relazioni bilaterali.

Prima che Li Keqiang visitasse l'Italia, nel corso dell'anno le imprese cinesi avevano già effettuato diverse acquisizioni su larga scala. A maggio, Shanghai Electric Group ha acquistato il 40% della società di Ansaldo Energia. A giungo, Renzi si era recato in Cina accompagnato da una delegazione di imprenditori in rappresentanza di dozzine di aziende italiane per chiedere l'aiuto dei cinesi. Dopo poche settimane, Cassa Depositi e Prestiti ha annunciato di aver venduto a China National Grid, la più grande società elettrica al mondo, il 35% del capitale sociale di CDP Reti al prezzo di 2,101 miliardi di euro, sancendo l'ingresso formale della Cina nel mercato italiano della rete elettrica.

Il 10 agosto, la statale Bright Food, sussidiaria di Shanghai Yimin, ha comprato una quota di maggioranza di Salov, produttore italiano di olio d'oliva di proprietà della famiglia Fontana. La Banca Centrale cinese ha acquisito oltre il 2% di Telecom Italia e Prysmian, mentre la State Administration of Foreign Exchange (SAFE), controllata della Banca centrale, è entrata con una partecipazione simile in Eni ed Enel. Non solo. Stando al Financial Times, a ottobre la SAFE ha acquistato anche una quota di minoranza del 2,001% nella banca d'affari italiana Mediobanca. Secondo alcune stime la SAFE, ha speso rispettivamente 2,5 miliardi di euro per comprare quote attorno al 2% di Fiat-Chrysler, Telecom Italia, Prysmian, Eni ed Enel, cinque tra le più grandi società italiane.

Negli ultimi anni l'entusiasmo delle società cinesi per l'Italia è visibilmente cresciuto. Sun Yanhong, Vice direttore del Centro per gli Studi europei presso l'Accademia cinese delle Scienze Sociali, in un'intervista ha dichiarato che l'Italia si è affermata come un nuovo mercato di sbocco per i cinesi da quando la crisi finanziaria l'ha resa un paese piuttosto economico per gli investitori.

"Funzionari italiani hanno riconosciuto che l'accordo sulle infrastrutture firmato tra Cina e Italia, prima della crisi finanziaria, sarebbe stato impensabile per via della molta reticenza a vendere a investitori stranieri azioni in asset strategici", spiega il Financial Times. Oggi, tuttavia, nonostante le ansie della leadership italiana, le risorse finanziarie sono ben accette indistintamente dalla provenienza, anche se si tratta di economia sommersa.


(Tradotto dal Shidai Zhoubao per Internazionale/China Files)

giovedì 26 marzo 2015

Non solo Istituti Confucio


Per qualcuno sono i cavalli di Troia del soft power cinese nel mondo; per altri un insulto alla libertà accademica delle università ospitanti. Ciò che è certo è che gli Istituti Confucio (IC), araldi della lingua e della cultura d'oltre Muraglia, dovranno abituarsi a ricevere un'accoglienza spesso poco calorosa, almeno dalle nostre parti. Il problema? La loro dipendenza dall’Hanban (l'Ufficio nazionale per l'insegnamento del cinese come lingua straniera appendice del Ministero dell'Istruzione), ovvero dal Governo di Pechino, -secondo molti- comporterebbe troppi rischi per l'integrità ideologica dei partner stranieri. A cui si aggiunge il sospetto di una prezzolata sudditanza all'agenda politica cinese per quanto riguarda dossier sensibili come l'indipendenza di Tibet e Taiwan.

Il dibattito sui Confucio -che a differenza dei consimili Goethe-Institut e Istituto Cervantes operano all'interno di università straniere- è cosa nota. Dal 2004 a oggi gli IC si sono espansi in 465 atenei di 123 Paesi, ma recentemente il processo di go-global ha registrato una pesante battuta d'arresto. Costantemente sotto la lente d'ingrandimento dei detrattori di Pechino, nell'ultimo lustro gli Istituti hanno perso diversi partner, da ultime l'Università di Stoccolma (a dicembre) e quella di Chicago (a settembre); quest'ultima -ufficialmente- non avrebbe rinnovato la collaborazione a causa di alcuni commenti inopportuni rilasciati dal Direttore dell'Hanban, Xu Lin. Non solo la gaffe ricorreva in concomitanza delle celebrazioni per il Decimo anniversario del Confucio, ma si dà anche il caso che Xu fosse giusto reduce da un precedente scivolone. Era il 22 luglio quando alla vigilia della conferenza dell'European Association of Chinese Studies (EACS) di Braga, Portogallo, per volere di Xu il programma dell'evento veniva frettolosamente alleggerito di quattro pagine con l'intento di far sparire ogni riferimento alla taiwanese Chiang Ching-kuo Foundation, sponsor del convegno per i precedenti vent'anni e divenuta ospite non gradito per via delle relazioni tutt'ora problematiche tra la Mailand e l'isola democratica.

Evitando di tornare su una controversia oltremodo ridondante (e approfondita in Italia da Cinaforum), ci limitiamo a sottolineare come i singoli Istituti siano strutturati in modi diversi: "molti hanno due co-direttori (uno locale e uno cinese), mentre alcuni ne hanno solo uno. Alcuni si concentrano sulla sensibilizzazione della comunità cinese all'estero, altri hanno il loro focus sulla formazione linguistica a livello universitario," ci spiega Michael Berry, Direttore dell'East Asia Center della University of California. Fattore che di per sé dovrebbe mettere in guardia da semplicistiche generalizzazioni, suggerendo livelli di trasparenza differenti a seconda dei casi. Punto numero due: mentre il viaggio verso Occidente degli IC si fa via via più tortuoso, frontiere relativamente poco esplorate (come Africa, Medio Oriente, Asia Centrale e America Latina) rappresentano territori di conquista più semplici per il potere morbido cinese. Se, secondo statistiche del Pew Research Centre, la maggior parte dei rispondenti in cinque Paesi africani su sei (Uganda, Kenya, Ghana, Senegal, Nigeria e Sudafrica) conserva una buona opinione della Cina, in America, di contro, i sondaggi tracciano una parabola discendete con solo il 37% di giudizi favorevoli nel 2013 rispetto al 51% di due anni prima.

Proprio i Paesi emergenti sono destinazione favorita di un progetto meno noto alle nostre latitudini, che vede il gigante asiatico esercitare il proprio soft power attraverso organizzazioni estranee ai canali accademici e ben più vecchie degli IC: i centri di cultura cinese (CCC). Al momento ce ne sono venti sparsi per il pianeta, ma l'obiettivo è quello di toccare quota cinquanta entro il 2020. Il Governo di Pechino ha già sborsato 1,3 miliardi di yuan (circa 214 milioni di dollari) per la loro espansione, mentre il budget stabilito per il 2015 ammonta a 360 milioni di yuan, un +181% su base annua. Una cifra in crescita seppur ancora nettamente inferiore al portafoglio degli IC, ai quali nel 2013 sono andati 278 milioni di dollari, grossomodo 100-200 mila dollari all'anno per i principali campus.

In cosa si distinguono?

"Tutti gli IC offrono corsi di lingua e in alcuni casi propongono anche lezioni aggiuntive di cinema, cucina, pittura cinese e altro", spiega a 'L'Indro' David Goodman, Direttore del Centro Studi cinesi presso l'Università di Sydney, "da noi, per esempio, sono molto più protesi verso l'interazione con la comunità locale. I CCC sono più o meno lo stesso. Hanno il compito di diffondere il messaggio della Cina nel mondo." Il modo in cui lo fanno, tuttavia, differisce sostanzialmente. A partire dal fatto che "i CCC fanno capo al Ministero della Cultura, gli Istituti Confucio, o meglio i partner cinesi degli IC (un IC di per sé è un progetto nato dalla cooperazione nel campo dell'istruzione con un'università straniera) dipendono dal Ministero della Pubblica Istruzione. E come sappiamo, la comunicazione orizzontale tra i Ministeri cinesi è scarsa", spiega a L'Indro Carsten Boyer Thøgersen, Direttore del Business Confucius Institute di Copenhagen presso la Copenhagen Business School. "Il vantaggio dei CCC è il distacco dalle università locali di accoglienza; oltre a funzionare indipendentemente, possono rappresentare qualunque linea politica ritengano opportuna" aggiunge Michael Berry. Non sono sottoposti allo screening di un istituto ospitante che - come accade per gli IC - ha il potere di approvare o meno la didattica. Ma non pare godano di maggior indipendenza per quanto riguarda il loro sostentamento economico. Mentre il Chinese Cultural Centre of Greater Toronto nasce da un'iniziativa della diaspora cinese e si definisce «un'organizzazione no-profit e non politica», ovvero slegata dai finanziamenti di Pechino, la maggior parte dei centri 'ufficiali' riconosce esplicitamente la propria affiliazione al Ministero della Cultura cinese.

La loro collocazione geografica evidenzia l'affinità culturale e ideologica che da sempre lega il gigante asiatico ai Paesi in via di sviluppo, anche quelli ostracizzati dalla comunità internazionale. I primi CCC nascono nel 'lontano' 1988 a Mauritius e nella Repubblica del Benin (Africa), mentre quest'anno è prevista l'apertura di nuove sedi in Tanzania, Pakistan, Nepal e Sri Lanka; in un vicino futuro anche in Turchia. Si noti, quasi tutti Paesi interessati dalla nuova Via della Seta, progetto che ha lo scopo conclamato di rilanciare la cooperazione commerciale attraverso l'Eurasia - ufficiosamente di restituire alla Cina il ruolo di Impero di Mezzo. Una colossale cintura economica fondata sulla costruzione di nuove infrastrutture e l'integrazione di risorse tra il gigante asiatico e l'esterno, senza tralasciare gli scambi people-to-people. E' qui che entrano in gioco i centri di cultura. "La maggior parte (non tutti) i CCC sono concentrati nei Paesi emergenti, il che suggerisce potrebbe esserci dietro una strategia ben precisa", spiega a L'Indro Jonathan Sullivan, Professore associato presso la Scuola di Studi cinesi dell'Università di Notthingam. "Sono contraddistinti da grandiose strutture fisiche (superiori a quelle degli IC) e seguono il modello cinese di comportamento messo in atto nel mondo in via di sviluppo, dove vengono tirate su costruzioni enormi e impressionanti che sono semplici simboli dell'abilità, generosità e modernità di Pechino". In una parola: del suo soft power.

(Pubblicato su L'Indro)

venerdì 20 marzo 2015

Una controversa alternativa al carbone


Nelle steppe della Mongolia Interna, nel nord della Cina, si nascondono alcuni dei più grandi giacimenti di carbone del mondo, pari a circa l'11,4 per cento delle riserve complessive del gigante asiatico. Ogni anno, 3,45 milioni di tonnellate di carbon fossile vengono trasportate fino a una grande fabbrica poco fuori Ordos, 150 chilometri a sud di Baotou, la città più grande della regione autonoma, per essere convertite in combustibili liquidi, principalmente gasolio e benzina. Un processo divenuto nell'ultimo decennio sempre più necessario a fronte della crescente fame di carburanti riscontrata nel primo mercato automobilistico al mondo. Secondo l'Agenzia Internazionale per l'Energia, nel 2009 la Cina (154 milioni di vetture di proprietà lo scorso anno) ha consumato circa 250 milioni di tonnellate di benzina, gasolio e kerosene per i trasporti. Oltre la metà (il 59,6 per cento) del petrolio di cui il Dragone necessita per la produzione di tali combustibili arriva da oltremare, e c'è la possibilità che entro il 2020 le importazioni salgano fino al 67%. Ragione per la quale la Cina si sta affrettando a trasformare le sue vaste riserve di carbone - 114,5 miliardi di tonnellate secondo stime del 2012 - per sopperire al fabbisogno nazionale di oro nero e derivati, affrancandosi dalle forniture esterne.

Un utilizzo diversificato del combustibile fossile sembra in parte venire incontro alle direttive lanciate dal Governo per attenuare l'inquinamento rampante che affligge il Paese. Al momento il carbone conta per il 70 per cento del mix energetico di cui si avvale l'industria cinese; Pechino punta a ridurlo al di sotto del 65 per cento entro il 2017, con l'obiettivo di scendere al 50 per cento entro la metà del secolo. Come parte della sua 'strategia verde', negli ultimi tre anni la Cina ha lautamente foraggiato una serie di progetti di gassificazione e liquefazione del carbone in Mongolia Interna, nello Shaanxi, nel Ningxia, nello Xinjiang e nel Liaoning. Ma stando agli esperti, è sopratutto l'erosione dei profitti dell'industria tradizionale a spingere i produttori verso sbocchi alternativi: stando alla China National Coal Association, nel 2014 sette compagnie carbonifere su dieci non sono riuscite a far quadrare i bilanci strette nel gorgo di un rallentamento economico che ha visto la crescita cinese procedere al ritmo più basso degli ultimi 24 anni. «Trasformare il carbone in carburanti liquidi è ormai un must. Forse non lo è per l'Europa o gli Stati Uniti, ma lo è per la Cina», spiega a ClimateWire Sun Qiwen, ex capo ingegnere dell'industria di conversione del carbone presso la sudafricana Sasol e oggi responsabile per il gruppo cinese Yankuang di un progetto in corso d'opera a Yulin, città-prefettura del Guangxi.

Mentre Australia, Indonesia e Stati Uniti continuano a esplorano il settore, fino al 2012 la Cina era ancora l'unico Paese, dopo il Sudafrica, ad aver adottato la liquefazione del carbone su scala commerciale. I numeri parlano chiaro. Secondo quanto riportava a gennaio l'agenzia di stampa Xinhua, lo scorso anno l'impianto di Ordos, (il primo per la conversione diretta da carbone a petrolio ad aver visto la luce in Cina alla fine del 2009), gestito dal colosso Shenhua Group, ha generato 866.000 tonnellate di prodotti liquidi, ovvero 3.000 tonnellate al giorno per un consumo di circa 10.000 tonnellate di carbone. Ma se nel 2012 quello di Shenhua Group era l'unico impianto di conversione presente nella Repubblica popolare, oggi le società coinvolte nella liquefazione del carbone sono salite ad almeno quattro; alla lista si sono aggiunte Yankuang Group, Shanxi Jincheng Anthracite Coal Mining Group (entrambe statali), e la privata Inner Mongolia Yitai Coal Co. Ltd. Sebbene non siano disponibili dati ufficiali sul quantitativo esatto dei progetti attualmente in corso, stando a ClimateWire, in Cina sarebbero perlomeno sedici gli stabilimenti (già ultimati, in costruzione o in fase di progettazione avanzata) per la trasformazione del carbone, pari ad una capacità produttiva complessiva di 22 milioni di tonnellate. Nell'arco di soli tre anni, Yankuang ha sborsato 20 miliardi di yuan (3,2 miliardi di dollari) per realizzare la zona industriale di Yulin. Grande quanto 280 campi da calcio, l'impianto -il cui taglio del nastro è previsto per giugno- dovrebbe produrre all'anno 1 milione di tonnellate di carburante liquido, oltre a convertire scarti industriali in vari sottoprodotti. Il gruppo conta di rientrare di tutte le spese entro otto anni.

Nate nella Germania nazista, le tecniche di liquefazione furono largamente adottate in Sudafrica negli anni '50, quando il Paese si trovò tagliato fuori dalle esportazioni di petrolio sulla scia delle sanzioni Onu in protesta al regime dell'apartheid. Due le categorie in cui ricadono le tecnologie specifiche di conversione: processi di liquefazione diretta e di liquefazione indiretta, dove nel primo caso si intendono quei procedimenti che implicano la gassificazione del carbone in una miscela di monossido di carbonio e idrogeno (syngas) e fanno uso di sistemi come il Fischer-Tropsch per trasformare il composto di syngas in idrocarburi liquidi. I processi di liquefazione diretta, di contro, convertono il carbone direttamente in liquidi, senza passare per la fase gassosa, attraverso l'applicazione di solventi e catalizzatori in un ambiente ad alta pressione e temperatura. Per il momento la maggior parte degli impianti cinesi prevede ancora la liquefazione indiretta, che oltre ad essere più costosa è in grado di raggiungere un'efficienza termica del 40 per cento, contro il 75 per cento ottenibile con il processo diretto.

A vederli i combustibili originati dal carbone hanno un aspetto simile a quello dei derivati dal petrolio; quando vengono bruciati liberano la stessa quantità di anidride carbonica ma meno emissioni sulfuree. "Un potenziale vantaggio del processo indiretto (basato sul Fischer-Tropsch) è che questi carburanti sono piuttosto puliti quando vengono impiegati nei trasporti", spiega a L'Indro Eric D. Larson, senior fellow dell'Energy Systems Analysis Group presso la Princeton University. Il vero problema sta nelle tecniche di conversione, che oltre a richiedere abbondante acqua (risorsa di cui la Cina scarseggia sopratutto nelle aree miniere del Nord-Ovest), rilasciano quantità doppie di anidride carbonica rispetto all'estrazione e raffinazione dei combustibili derivati dal petrolio. Fattore non tralasciabile considerato che -in base all'accordo stretto con Barack Obama a margine del summit Apec- il gigante asiatico si è impegnato a raggiungere il picco massimo di emissioni entro il 2030. Larson controbatte dichiarando che, sì, rimangono alcuni nodi da sciogliere. Ma che "se l'anidride carbonica generata come sottoprodotto durante la conversione del carbone viene catturata e immagazzinato sottoterra, allora le emissioni di gas serra diventano più o meno le stesse dei combustibili derivati ​​dal petrolio. Se alcune biomasse prodotte in maniera sostenibile venissero trattate con il carbone per creare combustibili liquidi e il sottoprodotto di anidride carbonica venisse catturato/immagazzinato, questi carburanti sintetici produrrebbero emissioni di gas serra più basse rispetto ai derivati ​​del petrolio. Maggiore è il contenuto in biomassa, minore saranno le emissioni di gas serra." Pechino tentenna. Lo scorso dicembre, all'indomani della conferenza Onu sul clima, la stampa cinese aveva ventilato l'ipotesi di uno stop all'approvazione di nuovi impianti per la trasformazione del carbone in gas e carburanti liquidi. Manovra che risparmierebbe al gigante asiatico 1 miliardo di tonnellate di anidride carbonica l'anno.

Alle incognite ambientali si aggiungono alcune considerazioni di ordine economico. Per gli analisti i derivati dal carbon fossile risultano un'alternativa vantaggioso nel momento in cui i prezzi del petrolio rimangono al di sopra dei 25-40 dollari al barile (50 dollari secondo stime di MRS Bullettin), ma con il movimento a ribasso registrato recentemente dal greggio il processo di conversione potrebbe rivelarsi non solo un ostacolo alla 'green revolution' promossa da Pechino, ma anche molto poco conveniente. Sfruttando i prezzi attorno ai minimi storici, a dicembre la Cina ha acquistato 31 milioni di tonnellate di oro nero segnando un aumento mensile del 10 per cento. Secondo un rapporto pubblicato a gennaio dal colosso statale China National Petroleum Corporation, alla fine del 2013 le riserve strategiche del gigante asiatico ammontavano a 140 milioni di barili. Le autorità prevedono di portarle a 600 milioni di barili entro il 2020.

(Pubblicato su L'Indro)

sabato 14 marzo 2015

Il Dragone fa shopping in Europa


Mentre il crollo dei prezzi energetici e delle commodities mette a rischio la tenuta dei vecchi partner (Russia e Venezuela in primis), i tassi d'interesse nell'area euro vicini allo zero rendono il Vecchio Continente una valida alternativa per la Cina, intenta a diversificare la destinazione dei propri investimenti esteri reincanalati dal tradizionale comparto energetico e delle materie prime verso le infrastrutture e l'hi-tech, dai Paesi in via di sviluppo verso le economie avanzate.

Secondo il gruppo di ricerca Rhodium, citato dal 'Financial Times', lo scorso anno gli investimenti diretti esteri (IDE) cinesi in Europa hanno raggiunto quota 18 miliardi di dollari, il doppio rispetto al 2013. Nei passati quattro anni la regione ha attratto dall'ex Impero Celeste circa 12 miliardi di dollari, ma il rallentamento registrato dalla crescita cinese (scesa ai livelli del 1990) e la necessità di trovare lidi più sicuri parrebbe aver accelerato la virata. Complice l'allentamento delle approvazioni governative necessarie per gli investimenti in uscita, provvedimento mirato ad esportare la capacità produttiva in eccesso e a incoraggiare il processo di 'go out' delle compagnie cinesi sul proscenio internazionali. Se nella decade passata il 70% degli investimenti cinesi è finito nei mercati europei più solidi, da qualche tempo a questa parte sono le aree periferiche indebitate e bisognose di liquidità (Grecia, Italia e Spagna) ad attrarre il Dragone, mentre si fanno strada nuove appetitose opportunità di cooperazione, dall'agroalimentare all'immobiliare. Lo scorso anno la Cina si è addirittura portata a casa un pezzo di Norvegia, primo acquisto di terre in Europa accompagnato da non poche critiche dal momento che ad aggiudicarsi l'affare è stato il miliardario Huang Nubo, membro del Partito comunista cinese nonché ex funzionario del Dipartimento di Propaganda.

Un recente rapporto dell'European Council on Foreign Relations quantifica l'attivismo di attori privati e statali (SOE) attribuendo ai primi maggior peso nell'immobiliare e a i secondi nei trasporti, nelle utilities e nel comparto energetico. Secondo dati rilasciati dal Ministero del Commercio cinese, le imprese statali hanno continuato a veicolare la maggior parte degli investimenti all'estero -contribuendo per il 66,2% del totale degli investimenti diretti esteri (IDE) cinesi approdati in Europa nel 2011-, nonostante la partecipazione del settore privato sia in netto aumento: alla fine del 2013, gli IDE nel settore non finanziario ammontavano a 543,4 miliardi di dollari, di cui il 55,2% attraverso SOE e il 44,8% attraverso società non statali. Sempre più netto il coinvolgimento nelle operazioni di fusione e acquisizione dove -stando alla Deutsche Bank - tra il 2011 e il 2013 l'apporto del privato cinese è salito dal 4 al 30 per cento. Lo scorso anno, in Europa, le compagnie cinesi hanno siglato complessivamente 153 accordi. A piazzarsi in cima alla classifica delle mete favorite è la Gran Bretagna con 5,1 miliardi di dollari di nuovi investimenti, per un totale di 16 miliardi dal 2000 a oggi contro gli 8,4 miliardi della Germania, gli 8 miliardi della Francia (che, per la prima volta, ha permesso l'accesso di capitali cinesi nelle infrastrutture nazionali con la vendita del 49,9% dell'aeroporto di Tolosa), i 6,7 miliardi del Portogallo e i 5,6 miliardi dell'Italia. Oltremanica si sta espandendo anche l'impero di Li Ka-shing, da quando l'uomo più ricco di Hong Kong - con assets che spaziano dalle telecomunicazioni al mattone - ha cominciato ad abbandonare il mercato cinese per cercare nuove opportunità in Europa, presumibilmente incoraggiato dalle recenti frizioni con il Governo di Pechino. Lo scorso anno, l'immobiliare britannico ha beneficiato di 2,6 miliardi di dollari, con tanto di acquisto da parte di China Investment Corporation (il fondo sovrano cinese) di un ampio terreno a Chiswick Park, a Londra. Seconda classificata l'Italia, che nel 2014 ha attratto complessivamente 3,5 miliardi di dollari in investimenti dalla Cina; 2,8 miliardi di dollari è il valore dell'assegno strappato da State Grid Corp, l'utility più grande al mondo, per aggiudicarsi il 35% di Cdp Reti, la controllata della Cassa depositi e prestiti che custodisce il 30% del capitale di Snam e il 29,85% di Terna. A cui si aggiungono altri 2 miliardi di euro investititi in Eni ed Enel dalla State Administration of Foreign Exchange (l'agenzia cinese che gestisce le riserve in valuta estera), e 670 milioni di euro sborsati per quote sparse tra Fiat Chrysler, Telecom Italia, e Prysmian Group. Medaglia di bronzo per l'Olanda, a cui il gigante asiatico -scosso da continui scandali alimentari- guarda con interesse per via del suo invitante settore agroalimentare. Segue il Portogallo, dove China Three Gorges Corporation ha acquisito il 21% di Energias de Portugal e State Grid il 25% di REN, gestore della rete elettrica nazionale. Ma non è soltanto il settore energetico portoghese a fare gola. Nei passati cinque anni, l'immobiliare di Portogallo e Spagna ha acquisito appeal in seguito all'introduzione di un sistema di 'golden visa' che assicura il permesso di residenza a chi spende almeno 500mila euro nel real estate locale. Un euro debole, con conseguente riduzione dei costi d'investimento, ha fatto il resto. Secondo quanto riporta il 'South China Morning Post', l'80% dei 1.775 permessi concessi dalle autorità portoghesi nei due anni trascorsi sono andati a investitori cinesi. Uffici e hotel -che in media assicurano guadagni tra il 5 e l'8 per cento- hanno calamitato la maggior parte degli investimenti.

Il 2014 ha visto, inoltre, consolidarsi gli interessi cinesi nel porto del Pireo con un'intesa da 3,2 miliardi di dollari finanziata da China Development Bank per la costruzione di almeno dieci navi di proprietà greca nei cantieri cinesi. Nonostante il parziale raffreddamento seguito all'insediamento del Governo Tsipras, quella con Atene è una liaison che Pechino non può permettersi di perdere. Nella grande visione della nuova Via della seta la penisola balcanica dovrebbe servire come porta d'accesso marittima per le merci cinesi in Europa e viceversa. E' in quest'ottica che il Dragone sta provvedendo a cementare 'relazioni win-win' con i Paesi dell'Europa centrale e orientale (CEE), ravvivate dal summit 16+1 tenutosi a Belgrado nel mese di dicembre. Il vertice era stato coronato dall'annuncio di una ferrovia Belgrado-Budapest (che dovrebbe vedere la luce entro il 2017 grazie ai finanziamenti di Pechino, andando ad agganciare il Pireo alla capitale ungherese attraverso un corridoio economico) e dall'istituzione di un fondo d'investimento da 3 miliardi di dollari per «incoraggiare le compagnie e le istituzioni finanziarie cinesi a partecipare ad una cooperazione pubblico-privato e al processo di privatizzazione dei Paesi CEE». Mentre il gigante asiatico è già coinvolto nella costruzione di reattori nucleari in Romania, nell'industria chimica ungherese, così come nei porti di Croazia e Bulgaria, il processo di privatizzazione delle infrastrutture slovene potrebbe presto fornire nuove opportunità di cooperazione dal momento che alcune compagnie cinesi hanno messo gli occhi sull'aeroporto di Lubiana e lo scalo marittimo di Capodistria.

Va da sé che la varietà e vastità degli interessi cinesi nel Vecchio Continente rende sempre più urgente il raggiungimento di un meccanismo di controllo che assicuri pari opportunità alle società europee che vogliono operare oltre Muraglia. Tutto sta nel riuscire a procedere con le trattative per un trattato bilaterale per gli investimenti (BIT) Cina-Unione Europea, al fine di assicurare alle società europee protezione e un accesso paritario al mercato cinese. Stando alla definizione che ne dà l'ECFR, il BIT «è un accordo che stabilisce i termini e le condizioni di investimento, compreso il livello di protezione (per esempio da esproprio senza un pieno indennizzo) e le garanzie (come il trasferimento gratuito del capitale o un trattamento equo e non discriminatorio). Specifica le procedure e opportunità per gli investitori in caso di conflitto con lo Stato ospitante, compreso il potenziale ricorso agli arbitrati internazionali in un processo noto come investor-state dispute settlement (ISDS)». Ad oggi tutti gli Stati UE - eccetto l'Irlanda-  hanno stretto BIT con il gigante asiatico, ma la disparità di condizioni tra i vari accordi vanifica gli sforzi portati avanti dall'Unione per presentarsi come un interlocutore coeso in grado di condurre politiche d'investimento centralizzate. La Cina, da parte sua, ha sempre considerato il trattato 'superfluo' (dato l'alto grado di apertura del mercato europeo), facendo pressione piuttosto per l'implementazione di un Free Trade Agreement (FTA) che eliminerebbe il rischio di un'azione di anti-dumping in caso di 'sussidi sleali'. Tuttavia, con il progressivo delinearsi di mega-progetti da cui la Cina è esclusa (leggi: Trans-Pacific Partnership, Transatlantic Trade and Investment Partnership e il FTA Giappone-EU), Pechino sembra aver cominciato ad avvertire un certo vuoto intorno a sé. Ne è prova l'avvio delle negoziazioni per il BIT, cominciate nel novembre 2013 quando il trattato è stato inserito tra le iniziative chiave dell'EU-China 2020 Strategic Agenda for Cooperation.

(Pubblicato su L'Indro)

mercoledì 11 marzo 2015

Un'altra idea di mobilità sociale


Una delle questioni più dibattute, in Cina, è come la crescente stratificazione sociale e la mancanza di canali che facilitino la mobilità verso l'alto comportino un infiacchimento della vitalità sociale. C'è ancora speranza di ascesa sociale? O meglio, esistono altri mezzi per raggiungerla?

L'arrivo dei giovani migranti.

Era la Festa di Primavera del 2014 [capodanno cinese ndt], quando un post catturò l'attenzione di moltissimi giovani divenendo argomento di accese discussioni. Si trattava di una articolo pubblicato da un utente di nome Wang Yuancheng, sulla nota piattaforma internet Zhihu.com intitolato "Perché lasciare la propria casa per andare a sgobbare a Beijing, Shanghai e Guangzhou?".

Un tempo Wang Yuancheng lavorava come product manager per una società internet di Shanghai. Proveniva dalla "città di terza fascia" Urumqi, secondo quanto si desume dalle informazioni personali riportate. Nel 2008, "si era laureato in un'università privata di Xi'an" ed era andato a a Shanghai con soli 2000 yuan in tasca. Aveva trovato lavoro in una società informatica e c'era rimasto per cinque anni, fino a quando la malattia della madre non lo aveva costretto a fare ritorno a casa. Qui, grazie ai contatti della famiglia, era riuscito subito a inserirsi nel personale di un ufficio statale.

Ma il ricordo di Shanghai lo tormentava. Gli anni trascorsi in città erano stati l'esperienza più importante della sua vita e si era ripromesso di tornaci. Il post di Wang collezionò molti "like" e fu ripreso anche su Weibo e sui principali siti d'informazione. La maggior parte degli utenti di Zhihu.com lodarono la sua decisione [di tornare]. Erano giovani netizen con un buon livello di istruzione e lavoravano quasi tutti a Pechino, Shanghai, Guangzhou e nelle altre città di prima fascia.
L'esperienza di Wang è simile a quella di milioni di coetanei che decidono di tornare nel villaggio d'origine.

Nel rapido processo di urbanizzazione che ha investito il Paese, le città di seconda e terza fascia hanno registrato uno sviluppo piuttosto repentino. La strategia di attrarre investimenti e talenti ha ormai cominciato ad acquisire potere attrattivo. _Allo stesso tempo i prezzi delle case nelle città di prima fascia è schizzato alle stelle: le speranze dei giovani venuti da fuori e desiderosi di stabilirsi in maniera permanente nei grandi centri è infranta. I ragazzi sembrano essere più pragmatici rispetto ad alcuni anni fa, quando la 'tribù delle formiche' si illudeva di riuscire un giorno ad amalgamarsi alle popolazione di Pechino, Shanghai o Guangzhou. Tra le città di seconda e terza fascia e un futuro nelle megalopoli, i giovani cominciano a preferire l'ipotesi di un ritorno a casa.

Questi ragazzi sono chiamati "huiyou qingnian" (giovani migranti). Il termine deriva dal fatto che migrano come branchi di pesci e, dopo una fase specifica in cui crescono in un ambiente estraneo, decidono di tornare al loro paese o di spostarsi nelle città di seconda e terza fascia per vivere e lavorare. Prendiamo in prestito dalla biologia il concetto di "migrazione" per descrivere il processo di crescita e maturazione dei giovani provenienti dalle piccole e medie città nel contesto dell'urbanizzazione.

Proprio come per gli immigrati e gli studenti formatisi all'estero, ciò che contraddistingue gli “huiyou qingnian” è il fattore "mobilità" ovvero il nesso che li lega al fenomeno dell'urbanizzazione. Allo stesso tempo, questi migranti hanno manifestato delle caratteristiche proprie. L'urbanizzazione agisce in modo differente quando si parla nello specifico dei più giovani.

Uno spazio per loro
Dal punto di vista della nostra ricerca, il ritorno a casa dei giovani si traduce nel ritorno verso le piccole e medie città di un prezioso bagaglio di conoscenza tecnica e capacità gestionale: una ventata di vitalità per i villaggi d'origine. Per i ragazzi, d'altra parte, si tratta soltanto di reintegrarsi in una società a loro familiare dove possono riuscire con più facilità a sfruttare risorse locali, a contribuire allo sviluppo economico e a influenzare profondamente l'organizzazione sociale e le usanze culturali del posto.

Geng Xiaoke è una giovane amante dell'arte e delle letteratura. Si è laureata a Pechino alla facoltà di lettere e scienze teatrali in una delle università coinvolte nel progetto 211, un programma di sviluppo dell'istruzione universitaria in Cina lanciato dal Ministero dell'istruzione nel 1996. Quell'anno aveva passato con il massimo dei voti l'esame per entrare a Pechino. Ha scritto sceneggiature e testi pubblicitari, ha fatto da segretaria e curatrice di vari progetti. Ha vissuto a Pechino, Hangzhou e Shenzhen ma, nel 2012 cinque anni dopo ha deciso di tornare a casa, a Changchun.

"La motivazione è molto semplice: non volevo continuare a pagare un affitto", racconta. Una volta per trovare un posto sicuro dove vivere aveva saldato al sublocatore l'affitto di un anno in un'unica tranche. Non molto tempo dopo si era presentato il proprietario lamentandosi del fatto che da parecchio tempo il sublocatore era sparito e non pagava. Fu costretta a traslocare. Si ritrovò in piena notte da sola a trascinare le valige per le strade di Pechino in un bagno di lacrime.

Ma tornata a casa, Geng è diventata editor per una rivista di moda. "A Pechino non avevo possibilità. Avevo provato a mandare il curriculum a due riviste. Quando mi sono presentata non hanno fatto che guardarmi con disprezzo. Invece nella mia città natale avevo ancora delle opportunità. Mi sono resa conto che Pechino non poteva darmi nulla".

Anche Sun Niang è una giovane esperta di arte e letteratura. Quando studiava sociologia all'università di Shanghai, il suo sogno era entrare alla facoltà di lettere della Beida [Beijing University ndt]. Non avendo passato l'esame per cambiare indirizzo, si era trasferita a Pechino. Qui aveva preso un appartamento in affitto con tre compagni di studi, vicino all'ingresso ovest dell'università. Ma alla terza bocciatura ha deciso di ritornare nella sua città d'origine, Ningbo. "Nella vita di una persona ci sono molte altre cose di cui prendersi carico," dice. Una volta tornata a casa, aveva superato con il punteggio più alto la prova scritta per un concorso pubblico come funzionario civile. Erano bastati pochi minuti per realizzare il suo sogno.

Storie di questo tipo sono frequenti nella nostra ricerca che ha analizzato 22 contee lungo la linea Aihui - Tengchong che collega la regione dello Heilojiang, nel nord-est della Cina, e il paese Tengchong situato nel Sud-ovest della nazione nella regione dello Yunnan. Abbiamo distribuito centinaia di questionari e, su oltre mille campioni presi in esame, abbiamo scoperto che - sebbene il livello economico e il salario medio nelle varie contee sia molto differente - ovunque i giovani migranti percepiscono uno stipendio più alto della media locale una volta tornati nel luogo d'origine.

Se nelle piccole e medie città cinesi il salario mensile si aggira sui 3000 yuan, nella contea di Qinghe lo stipendio di un ragazzo che lavora nell'industria locale del cashmere -aperta tempo fa proprio da un migrante- raggiunge i 4500 yuan. A sua volta, la produzione del cashmere ha incentivato il comparto della logistica e dell'imballaggio, settori sussidiari all'industria del cashmere, e ha giocato un ruolo considerevole nell'aumento degli stipendi per i ragazzi del posto.

L'esperienza maturata lontano da casa ha aiutato i giovani migranti ad ampliare le proprie vedute. Hanno capito che non importa se si tratta di un impiego governativo, un posto in un'azienda o di un'attività in proprio, le "esperienze sbagliate" hanno costi piuttosto bassi ma aiutano a raggiungere successo e soddisfazioni personali. Il costo della vita abbordabile e il salario abbastanza buono fanno sì che i giovani migranti di ritorno siano mediamente più felici dei loro coetanei e abbiano anche tendenze politiche più moderate.

Fattore ancora più importante: il continuo cambiamento del contesto abitativo e lavorativo contribuisce anche ad accelerare il processo di urbanizzazione. Il flusso che rientra nelle città d'origine promuove lo scambio culturale e l'integrazione tra le varie aree, oltre a implicare l'arrivo di conoscenze tecniche e menti aperte.

Xiao Xiao viene dalla contea di Zhangbei, nella regione dello Hebei. Nel 2010, una volta laureato, partecipò all'esame di ammissione per accedere al servizio civile e ad alcune posizioni nelle istituzioni pubbliche. Non avendolo passato, decise di cercare lavoro a Pechino. Per due anni e mezzo lavorò per Amazon. Poi, nel 2013, è tornato a Zhangbei, dove lavora in un ente pubblico come responsabile per la propaganda.

Da Amazon, Xiao doveva vedersela ogni giorno con decine di migliaia di caratteri. Un lavoro che l'ha aiutato ad acquisire una grande abilità nella battitura. Anche l'esperienza accumulata nel lavoro di editing e archiviazione gli è tornata molto utile per la sua attuale professione. Sebbene abbia ormai da tempo lasciato la capitale, il periodo trascorso a Pechino continua ad esercitare un'influenza duratura sulla sua personalità.

"Ogni persona è diversa", racconta Xiao, "il lavoro rappresenta solo un aspetto della vita anche se è indispensabile per il sostentamento della propria famiglia. Per valutare se una persona è veramente realizzata o meno, bisogna vedere cosa fa nel tempo libero."

Tian Wangfu è originario di Huaihua, città dello Hunan. Nel 2010 si è laureato in Arte e Design ambientale alla Beijing Forestry University, dopodiché ha trovato lavoro in una società di progettazione vicino a Guomao, il quartiere business di Pechino. "Avevo soltanto un giorno di riposo alla settimana: la domenica. Lavoravo tutti i giorni dalle 9.00 di mattina alle 11.00 della sera con una sola ora di pausa per pranzo", racconta Tian. Per due anni ha tenuto questi ritmi: il suo stipendio è lievitato da di 2500 a 8000 yuan.
Per comodità aveva affittato un appartamento vicino a Dawang Lu. Ogni giornoimpiegava mezz'ora di bici per andare e per tornare. Spartiva con sette persone un appartamento formato da tre camere da letto, un salone, una cucina e un bagno. Tian si era aggiudicato la cucina per 950 yuan al mese; ma la cucina non si poteva chiudere a chiave ed era impossibile trovare un po' di privacy.
Soltanto il pensiero del suo lauto stipendio lo aiutava a stringere i denti.

Non molto tempo dopo, la sua ragazza lasciò lo Hunan per trasferìrsi a Pechino e lavorare duro al suo fianco. Tian aveva cominciato a pensare di mettere su famiglia, ma il costo delle case lo aveva spaventato: "I prezzi di Pechino sono talmente alti che non possiamo nemmeno permetterci di prenderli in considerazione. A Pechino non si può più stare", racconta.
Nel luglio 2013, Tian decise di ritornare a Huaihua. "L'esperienza pechinese certamente non era stata una perdita di tempo. E' stata molto fruttuosa dal punto di vista delle relazioni personali, della conoscenza accumulata e ha positivamente influenzato il mio modo di pensare” spiega. “Se non li avessi visti a Pechino, non sarei riuscito ad immaginare alcuni progetti nemmeno nell'arco di una vita intera".

Dopo essere tornato a casa, Tian ha lavorato per sei mesi in uno studio di progettazione di Huaihua. Questo gli ha permesso di comprendere a fondo le esigenze del mercato locale. Poi lo scorso giugno ha inaugurato ufficialmente uno studio di design tutto suo. Al momento fattura 500mila yuan all'anno. Il suo obiettivo è quella di ampliare la propria attività per assumere alcuni di quegli amici ancora sparsi per la Cina. "Huaihua è ancora piuttosto arretrata, non c'è un gran gusto per il design. Molti dei clienti spendono per i materiali ma non si curano di investire nella progettazione. Spesso non riesco a comprare tutto il materiale di cui avrei bisogno per realizzare il progetto che ho in mente. Ma tutte queste carenze lasciano ampio spazio a uno sviluppo del settore. Il mercato nelle località più piccole sta lentamente crescendo, le opportunità sono molte".

Mobilità "orizzontale" a livello geografico e "mobilità verticale" tra le varie classi sociali
Analizzare il ritorno a casa dei "giovani migranti" ci permette di comprendere meglio la questione della mobilità sociale in Cina. Negli ultimi anni, è stato ampiamente rilevato, da una parte, un certo svilimento della conoscenza, dall'altra, un andamento lento, addirittura stagnate e frammentario, della mobilità sociale "verticale". Ma osservando il fenomeno dei "giovani migranti" scopriamo che la regola secondo la quale "la conoscenza può cambiare il destino" si conferma tutt'oggi valida; "conoscenza" e "mobilità" sono due concetti correlati. La formazione scolastica costituisce un capitale culturale determinante per l'ascesa sociale dei giovani.

Quelli che lasciano il proprio paese per studiare o cercare lavoro altrove finiscono per arricchire il proprio bagaglio cognitivo. Un'istruzione di buon livello, così come l'esperienza accumulata come lavoratori migranti, dà maggiori possibilità di riscatto sociale e permette di arricchire non solo il valore del singolo individuo, ma anche quello della società in cui vive. L'indagine rivela che, nonostante i genitori dei "giovani migranti" siano impegnati nella produzione agricola, molti dei ragazzi, anche una volta tornati a casa, rimangono a lavorare in un ambito tecnico, ricoprono incarichi gestionali all'interno di aziende o entrano negli uffici amministrativi come impiegati. Chiaramente tutto questo contribuisce anche all'ascesa professionale del resto della famiglia.

Partendo dallo studio della "tribù delle formiche" possiamo cercare di capire se, in un contesto urbanizzato, la conoscenza ha perso effettivamente valore. Nelle grandi città, infatti, i giovani con un buon livello d'istruzione non ce la fanno a riscattarsi socialmente né a ottenere un lavoro più remunerativo. Gran parte della "tribù delle formiche" non riesce a godere dei frutti derivanti dallo sviluppo delle metropoli. Ma studiando le città di seconda e terza fascia comprese nella linea Aihui- Tengchong scopriamo che il valore della conoscenza non soltanto dipende dalla sua quantità e dal suo orientamento, ma anche da fattori geografici. Il valore e la forza della conoscenza emergono quando la conoscenza viene applicata sul campo. E' necessario che la conoscenza si adatti alle caratteristiche locali in un dato momento. Una conoscenza che si adegua alle circostanze è già di per sé un fattore di forza, una conoscenza che non si adatta e non si armonizza al contesto risulta una conoscenza priva di valore

Negli ultimi anni, il mondo è stato scosso da una serie di movimenti sociali: le rivolte arabe, i disordini nel Regno Unito e Occupy Wall Street negli Stati Uniti, solo per citarne alcuni. Aggregazioni giovanili hanno fatto da apripista diventando la forza propulsiva delle proteste. Chiedono "un lavoro dignitoso e una vita rispettabile". La loro voce ha superato i confini territoriali, le barriere sociali e religiose; si sono serviti dei new media per comunicare tra loro e far conoscere le proprie idee. Le contraddizioni sociali e le forme di resistenza scatenate dagli studenti rappresentano un'enorme sfida per la stabilità dei vari paesi.

Eppure, sebbene la società cinese sia interessata da movimenti di protesta simili a quelli visti in Medio Oriente, Europa e America, tuttavia, nel complesso la stabilità e l'ordine politico non sembrano risentirne. Come ce lo possiamo spiegare? Stando a quanto emerso dal nostro studio, a parte le ovvie differenze culturali e politiche, a influire sono in larga parte le immense proporzioni geografiche del paese e la frequenza con la quale la popolazione si sposta da un luogo a un altro. In una certa misura, è proprio questa mobilità "orizzontale" che riesce a mitigare i rischi derivanti da una sempre più consolidata mobilitazione "verticale" all'interno della scala sociale; ne rallenta efficacemente l'impatto sulla stabilità politica e la struttura della società.

Dopo gli insuccessi della vita urbana, i giovani beneducati della "tribù delle formiche" possono raccogliere una seconda sfida puntando sulla "mobilità orizzontale" e trasferendosi nelle città di seconda e terza fascia. D'altra parte, le piccole e medie città, ancora arretrate e bisognose di "conoscenza", lasciano più spazio per una mobilità verso l'alto, contrastando il radicalizzarsi di sentimenti antisociali e di "deprivazione relativa".

Le grandi città sono come delle pompe per l'acqua: "risucchiano" la manovalanza in arrivo da villaggi e nuclei urbani di piccole dimensioni, "sputano fuori" le giovani élite delle zone rurali. Grazie al flusso di ritorno di questi ragazzi istruiti, le città di seconda e terza fascia avranno maggiori opportunità di sviluppo. Dal 2013, la crescita dell'economia cinese subisce una pressione al basso. Secondo i piani del governo, le piccole e medie città diventeranno il canale attraverso cui implementare le riforme economiche e promuovere il rapido sviluppo delle aree rurali, che rappresentano la fetta più consistente del Paese. I giovani migranti delle piccole e medie città costituiscono proprio la principale forza lavoro attraverso cui realizzare le riforme economiche. Possono promuovere la libera circolazione e l'allocazione ottimale dei fattori produttivi, aiutando le città di seconda e terza fascia a diventare il nuovo polo della crescita cinese. E' per questo che nutriamo grandi aspettative verso il loro futuro.

(Tradotto per Internazionale/China  Files)

giovedì 5 marzo 2015

China Goes Global


Quando nel 2010 Bill Gates e Warren Buffet visitarono la Cina per promuovere il progetto Giving Pledge al loro arrivo trovarono un uditorio striminzito. Ad oggi, la campagna ha ottenuto il sostegno di 122 miliardari in giro per il mondo ma la Repubblica popolare -con i suoi 358 paperoni- continua a spiccare come la grande assente. Nel 2012, il numero delle fondazioni benefiche registrate oltre Muraglia ammontava a 2.961, meno del 4% del totale degli Stati Uniti. L'anno successivo, mentre Mark Zuckerberg e moglie donavano oltre 970 milioni di dollari, i 100 filantropi cinesi più noti non arrivavano ad accumulare che 890 milioni di dollari. Questo non vuol dire che in caso di bisogno non si riesca a fare di più: quando nel 2008 la provincia sud-occidentale del Sichuan fu colpita da un devastante terremoto, le donazioni registrarono un aumento del 380% toccando quota 100 miliardi di yuan. Semplicemente, come spiega sul blog Asia Unbound Yanzhong Huang, Senior Fellow for Global Health presso il Council on Foreign Relations, «un reattivo, cosciente e spontaneo sforzo per il bene pubblico non rientra nella natura cinese». Non almeno quanto il gioco d'azzardo, passione per la quale i nuovi ricchi sono stati disposti ad 'investire' 74 miliardi di dollari durante i loro viaggi all'estero soltanto nei primi undici mesi dello scorso anno.

E' sopratutto nel mondo della politica che la filantropia stenta a decollare. Lo stipendio piuttosto basso di cui godono i funzionari pubblici (il Presidente Xi Jinping prende l'equivalente di 1.580 euro al mese) fa sì che solo pochi alti ufficiali scelgano di dedicarsi alle opere caritatevoli. Complice il timore di finire nel mirino dell'anti-corruzione. Tra le eccezioni spicca l'ex Premier Zhu Rongji, per il secondo anno di fila nella China's 100 Outstandg Donors List largamente dominata da personalità legate al mondo degli affari. Tra il 2013 e il 2014, Zhu ha devoluto 40 milioni di yuan (6,5 milioni di dollari) -accumulati con le vendite dei suoi libri- ad una fondazione che si occupa di promuovere l'istruzione nelle aree rurali più povere del Paese. Se nella Repubblica popolare le royalties continuano ad attestarsi come la principale fonte di donazioni, così l'educazione rimane il settore privilegiato dai filantropi cinesi, fin da quando nel 2004 i parenti di Deng Xiaoping decisero di versare 1 milione di yuan guadagnati con le pubblicazioni del defunto leader per supportare l'innovazione scientifica e tecnologica tra i giovani.

Il vero disincentivo pare essere sopratutto l'opacità per la quale sono note le attività filantropiche in Cina. Stando ad un rapporto ufficiale, soltanto il 30% delle organizzazioni benefiche regolarmente registrate rispetta gli standard internazionali informativi e di trasparenza. Un fattore che concorre a minare la fiducia dei donatori nei confronti degli enti benefici, già colpiti negli ultimi anni da una serie di scandali ben noti alle cronache locali. Non aiutano nemmeno le politiche poco incoraggianti con cui Pechino punta a controllare lo sviluppo della società civile, considerata una potenziale minaccia alla stabilità. Per potersi registrare come organizzazione non profit (NPO) una ONG è obbligata a riconoscere la propria affiliazione ad un'agenzia governativa, perdendo di fatto l'autonomia nella gestione dei fondi; chi non ci riesce è costretto a registrasi come organizzazione for-profit finendo per pagare una salata imposta sul reddito delle società. Così qualcuno opta per non registrarsi proprio, con problemi che riguardano non solo l'aspetto legale ma si estendono anche alla raccolta dei fondi necessari allo svolgimento del lavoro ed al riconoscimento sociale: la popolazione guarda con molto più interesse a realtà vicine al governo, o almeno ufficialmente riconosciute, per non incorrere in problemi di ordine politico.

Dal 2005 la Cina sta pensando a una nuova 'Charity Law', in grado di esercitare un impatto significativo sul modo in cui gli enti benefici e le ONG straniere operano nel Paese. Presentato lo scorso dicembre all'Assemblea Nazionale del Popolo (il 'Parlamento' cinese), «un nuovo disegno di legge riflette un approccio più pragmatico per la definizione dello status delle organizzazioni caritative da parte dello Stato cinese», si legge su China Briefing, sito d'informazione sul business cinese. Dovrebbe anche allargare la definizione di 'organizzazione benefica' per includere la maggior parte delle attività di 'pubblica utilità'; «chiarire il processo di registrazione e lo status giuridico effettivo delle ONG nonché il processo di 'certificazione degli enti benefici'».

In attesa che la proposta venga vagliata, le numerose restrizioni e la mancanza di agevolazioni fiscali (i donatori individuali devono ancora pagare l'imposta sul reddito per le donazioni che superano il 30% delle loro entrate annue), fanno sì che spesso le donazioni vengano dall'estero e altrettanto spesso all'estero vadano a finire. Lo scorso anno, l'80% delle donazioni cinesi è stato destinato a istituzioni benefiche straniere; vale a dire che, su complessivi 30,4 miliardi devoluti, 24,2 miliardi di yuan sono finiti a Hong Kong, Macao e oltre i confini della Greater China. E' la prima volta dal 2011 -anno in cui il China Philanthropy Reserach Institute ha cominciato a stilare la sua 'classifica dei 100 più caritatevoli'- che istituzioni al di fuori della Mainland si sono aggiudicate più fondi. In cima alla lista compaiono Jack Ma, fondatore del colosso dell'e-commerce Alibaba, e un gradino sotto il numero due Joseph Tsai; i due hanno ceduto quote per un valore di 16,9 miliardi di yuan e 7,24 miliardi a SymAsia Foundation Ltd, organizzazione non-profit di Singapore. Un assaggio in previsione dell'apertura di un fondo benefico pari al 2% del patrimonio aziendale di Alibaba, come annunciato da Ma lo scorso aprile.

Anche oltre Muraglia le istituzioni educative continuano a confermarsi come principali beneficiarie della generosità cinese. Pan Shiyi e Zhang Xin, la coppia che 'ha dato alla luce' la nota società del real estate SOHO, hanno devoluto 15 milioni di dollari alla Harvard University, nell'ambito di un progetto da 100 milioni pensato per aiutare gli studenti cinesi meno abbienti (ma più talentuosi) ad andare all'estero. Nonostante i coniugi siano attivi anche in patria, il gesto ha alzato un polverone mediatico sulla scia di critiche e dietrologismi. Non è insolito che ricchi cinesi decidano di ricompensare gli atenei in cui si sono formati. Sempre ad Harvard è andata una donazione da 350 milioni di dollari -la più consistente mai incassata dall'istituto- elargita dalla Morningside Foundation, organizzazione benefica con base a Hong Kong fondata dall'ex alunno e uomo d'affari, Gerald Chan e dal fratello Ronnie. Nel 2010, il finanziere Zhang Lei ha donato 8,8 milioni di dollari a Yale per avergli «cambiato la vita» snobbando la Renmin University di Pechino, sua alma mater. Per le università si tratta di un colpo grosso: il numero degli studenti cinesi all'estero è più che triplicato nell'ultima decade ed è destinato a salire. Il supporto economico di personalità di spicco rafforza naturalmente questa tendenza. Quando però lo sponsor è troppo vicino al Governo di Pechino, si affaccia il rischio -già sperimentato con gli Istituti Confucio- che un'eccessiva presenza di capitali cinesi possa intaccare l'integrità accademica dei prestigiosi istituti.

Lo scorso anno un'inchiesta del 'Telegraph' ha definitivamente fatto luce su una controversa donazione da 6,3 milioni di dollari (3,7 milioni di sterline) destinata all'istituzione di una cattedra di studi cinesi presso la Cambridge University. L'identità oscura del donatore, una misteriosa Chong Hua Foundation registrata alle Bermuda, aveva fin da subito aizzato alcuni sospetti -insabbiati dalle autorità universitarie- circa il possibile coinvolgimento di mecenati cinesi politicamente influenti. Fino a quando si è accertato che alla direzione della fondazione siede Wen Ruchun, la figlia dell'ex Premier Wen Jiabao, e che il nuovo corso sarebbe stato gestito da Peter Nolan, ex professore di Ms Wen nonché autore del libro 'Is China Buying the World?', critica alle tendenze sinofobiche diffuse tra i Paesi occidentali. Nolan è già direttore del China Executive Leadership Program, progetto -sponsorizzato dal Partito comunista- che ogni anno attrae a Cambridge senior executive delle compagnie statali cinesi per un periodo di training.

Negli ultimi anni, l'affermazione della Cina come seconda potenza economica non ha trovato un riscontro egualmente brillante sul versante culturale. Sebbene i 'rapporti people-to-people' siano diventati ormai un caposaldo della diplomazia cinese, quando si esce dalla galassia sinocentrica l'appeal esercitato dalla millenaria civiltà sorta lungo il Fiume Giallo appare flebile. Il gigante asiatico continua a sentirsi culturalmente sottovalutato, mentre dall'esterno l'aggressività dei finanziamenti cinesi (destinati alla moltiplicazione di istituti e organi d'informazione) viene osservata con sospetto. Così è stato anche quando, lo scorso anno, il folkloristico filantropo Chen Guangbiao ha minacciato di comprarsi il il 'New York Times', prima, e il 'Wall Street Journal', poi, lamentando la «scarsa oggettività» con cui l'America racconta la Cina. Si dà il caso che Chen oltre ad essere noto per i suoi completi verde mela, per la vendita di lattine d'aria fresca e la distribuzione di contanti ai terremotati del Sichuan, lo sia altrettanto per le sue posizioni nazionalistiche sfoggiate sulle colonne del quotidiano della Grande Mela, quando nel 2012 acquistò uno spazio appositamente per sostenere la 'cinesità' delle isole Diaoyu/Senkaku contese col Giappone -più di recente per dissuadere il Premier nipponico Shinzo Abe dal visitare il santuario di Yasukuni presso cui riposano le spoglie di alcuni criminali di guerra 'di classe A'. Fattore che certo non mette in buona luce 'la lunga marcia' della filantropia cinese sul proscenio internazionale, alimentando le ricorrenti perplessità che travolgono il soft power cinese nel mondo.

"Mi sembra che la questione [internazionalizzazione] evidenzi soltanto le difficoltà incontrate nella creazione di fondazioni filantropiche nella Repubblica popolare,» ci spiega Yanzhong Huang, "Jack Ma ha dichiarato che il suo fondo ha contribuito a fare la parte del leone nelle donazioni cinesi d'oltremare, ma ha anche detto che ha dovuto registralo all'estero per smarcarsi dalla burocrazia cinese. La maggior parte del fondo, comunque, dovrebbe in definitiva essere incanalato nuovamente verso la Cina. Ricordo che la Morningside Foundation ha denunciato problemi simili per giustificare la scelta di finanziare Harvard piuttosto che un'università cinese. In altre circostanze (come nel caso della donazione di Pan Shiyi a Harvard), la decisione potrebbe essere dettata da un mix di fattori, ma dubito che le donazioni abbiano molto a che fare con il soft power della Cina. E' vero che le attività benefiche di Chen Guangbiao all'estero potrebbero essere motivate da uno spirito egocentrico e dalla voglia di proiettare oltre confine il potere morbido della Cina. Ma dato che il soft power dipende dalla credibilità, non credo che le sue donazioni faranno la differenza. Le istituzioni più serie sono ben consapevoli dei rischio a cui vanno incontro accettando donazioni cinesi con collegamenti ufficiali."

(Pubblicato su L'Indro)

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