venerdì 31 ottobre 2014

Anche l'arte deve 'servire il popolo'


Anche l'arte deve servire il popolo. O meglio, il Partito. Un nuovo dogma va ad arricchire il 'Xi Jinping pensiero': tutte le opere d'arte debbono «incarnare i valori socialisti in modo vivido e brillante», «sostenere lo spirito cinese» e «ridare forza alla Cina». L'industria dell'entertainment deve colorarsi di 'rosso' e il patriottismo diventare il principio ispiratore dei professionisti della cultura. «Le belle opere dovrebbero essere come il sole in un cielo azzurro e una brezza di primavera che ispiri le menti», ha scandito il Presidente. Vietato, invece, «diventare schiavi dell'economia di mercato» e del dio denaro.

Le nuove direttive sono state annunciate da Xi Jinping in occasione di un simposio sulle arti tenutosi due settimane fa a Pechino che ha riunito nella Grande Sala del Popolo firme autorevoli quali il premio nobel per la Letteratura, Mo Yan, il regista di Addio mia concubina, Chen Kaige, e decine di altri decani del panorama artistico d'oltre Muraglia. Dopo un cenno ai maestri francesi Degas e Cézanne, e un elogio ai classici occidentali di Hemingway, Tolstoj e Hugo, l'arringa ha assunto note 'pop'. Xi si è abbandonato ai ricordi di gioventù raccontando quando, ai tempi delle restrizioni imposte sotto la Rivoluzione Culturale, una volta aveva dovuto percorre quasi quindici chilometri per prendere in prestito da un amico il "Faust" di Goethe.

Il messaggio del Presidente cinese arriva a oltre settant'anni dai discorsi sulle arti e la letteratura tenuti da Mao Zedong a Yan'an con l'intento di dettare un modello socialista nelle creazioni letterarie e artistiche. Tra Xi e Mao intercorrono esattamente 72 anni così come 72 erano anche i presenti al forum del 15 ottobre; chi conosce bene la Cina sa che i numeri da queste parti hanno un certo peso. Era il maggio 1942 e il Grande Timoniere incitava 'il fronte culturale' ad affiancare la controparte militare nella battaglia combattuta dal Partito comunista contro i Nazionalisti per il controllo del Paese: alle arti veniva chiesto di «diventare una componente della macchina rivoluzionaria...operare come armi capaci di riunire ed educare il popolo, attaccare e distruggere il nemico». Il destinatario del prodotto artistico era la classe operaia; il suo obiettivo riprodurre il più fedelmente possibile la vita quotidiana per raggiungere le masse.

La Conferenza di Yan'an rientra tra quelle pagine della storia cinese che il potere costituito ama celebrare, tanto che due anni fa 100 artisti e letterati si sono occupati di riscrivere a mano i 'discorsi'. Un lavoro che è costato al su citato Mo Yan -tra i calligrafi incaricati dell'opera- le critiche di quanti lo giudicano uno 'scrittore di regime'.

Con l'avvio delle riforme e dell'apertura fine anni '70 il controllo sulla cultura venne parzialmente allentato. Aderendo alla linea staliniana, Deng Xiaoping riteneva che gli scrittori e gli artisti dovessero porsi come «ingegneri dello spirito umano» attraverso lo studio di Marx, Lenin e Mao. Come scrive Austin Ramzy sul 'New York Times', sebbene nessuno lo abbia fatto con la stessa enfasi di Mao, anche i suoi successivi hanno continuato a cercare di direzionare la cultura nazionale. L'ex Presidente Hu Jintao (2002-2012), ha spianato la strada a Xi Jinping spostando il focus sull'arte come «veicolo di prestigio nazionale» e soft power. Il leader in pensione non si dava pace all'idea che una Cina seconda economia mondiale venisse ancora considerata un «nano culturale». Si devono proprio a lui i primi appelli incalzanti per una riforma del sistema culturale a fronte di un patrimonio valoriale scricchiolante. A seguire, alcuni ritocchi dei palinsesti televisivi per ripulire il piccolo schermo dagli spettacoli 'volgari' e diseducativi a tutto vantaggio di programmi utili al rilancio di un'agenda politica ben precisa. Si pensi all'improvviso entusiasmo per i film anti-giapponesi in concomitanza con il rinfocolare delle belligeranze per le isole Diaoyu, o alla recente miniserie su Deng Xiaoping fatta uscire mentre Xi sta cercando di passare alla storia come un nuovo Piccolo Timoniere promettendo riforme epocali.

Quello che ancora serve al gigante asiatico è il grande salto dall'import dell'entertainement Made in Usa all'export di un Made in China non più low cost ma di qualità. Un concetto di fondo che perdura nell'era Xi Jinping, dove l'arte viene concepita in termini di «competizione culturale». «L'arte cinese raggiungerà un nuovo sviluppo soltanto quando riusciremo a utilizzare le creazioni straniere per servire la Cina», ha affermato Xi. L'obbligo morale del letterato sta nel «diffondere i valori cinesi, incarnare la cultura tradizionale ed esprimere i canoni estetici cinesi». (Segue su L'Indro)

lunedì 27 ottobre 2014

La Cina in Perù è ovunque (Prima Parte)


(Pubblicato su China Files)

Quando nel 1942 il cino-peruviano Erasmo Wong aprì una piccola bottega d'angolo in Avenida Dos de Mayo, nel quartiere residenziale di Lima San Isidro, nessuno si aspettava che quarantuno anni dopo da quel bugigattolo sarebbe nata la catena di supermercati più famosa del Perù. Poi, nel 2007, la Wong si svendette per 500 milioni di dollari ad un gruppo cileno e fu l'inizio di un progressivo declino. Reportage in due puntate dal Perù.
La parabola di Wong affonda le radici in una migrazione antica. Tutto è cominciato con una piccola comunità asiatica presente sul territorio dal XVII secolo, quando il commercio di schiavi scorreva lungo una rotta quadrangolare che partiva dalla colonia portoghese di Macao, passava per mani spagnole a Manila, rimbalzava ad Acapulco per poi finire nel Paese andino. Verso la metà del 1800, mentre in Perù -fresco di liberazione dal giogo spagnolo- la schiavitù diventava illegale, i cinesi venivano ancora spediti nelle piantagioni di zucchero e nelle miniere di guano per sopperire alla mancanza di manodopera locale.

Negli anni '30 spuntarono le prime "bodegas" per l'importazione di prodotti dalla Repubblica popolare, accenni di una piccola imprenditoria cino-peruviana. Dieci anni dopo, i discendenti degli schiavi erano ormai talmente integrati che, temendo per la "cinesità" dei propri figli, decisero di aprire le prime scuole per impartire alle nuove generazioni miste un'educazione tradizionale. Oggi i tusan (dal mandarino tu sheng: nati sul posto) parlano spagnolo, il quechua oltre a vari dialetti cinesi; si aggirano sui 5 milioni, contando almeno per il 10 per cento della popolazione locale. Numeri che rendono quella del Perù la comunità cinese più consistente di tutto il Sudamerica. I primi cinesi arrivarono da "coolies", gli ultimi da piccoli imprenditori, ristoratori, magnati degli idrocarburi, saccheggiatori di miniere.

La Cina in Perù è ovunque, basta scovarla. E' nelle strade del centro storico di Arequipa, la "città bianca", dove, tra gli edifici in sillar, piccoli locali espongono l'insegna con su scritto "chifa", termine che ricalca quel "chifan" verbo "mangiare" in mandarino, a cui è caduta la "n". Spesso senza che un solo carattere cinese o una lanterna rossa preannunci agli avventori le origini asiatiche di ciò che si accingono a consumare. Oggi il riso abbonda sulle tavole dei peruviani, più di quanto non faccia la quinoa, "la madre di tutti i semi", come la chiamavano gli Inca. Motivo?

"Il riso costa quasi la metà, 2 soles al chilo (circa 5 centesimi di euro) contro i 3,50 soles della quinoa", ci spiegano al mercato di Arequipa. A introdurlo, insieme alla salsa di soia e allo zenzero, furono gli immigrati cinesi nel XIX secolo, oggi invece viene importato per il 95% dall'Uruguay. La scarna produzione nazionale è tutta concentrata lungo la costa e sul "sopracciglio della foresta", anticamera dell'Amazzonia. Mentre a circa un'ora di macchina dalla cittadina di Cusco, centro nevralgico del turismo internazionale, alcuni anni fa una fattoria per la coltivazione sperimentale della patata è nata dalle ceneri di un mercato di villaggio grazie a capitali cinesi e manodopera peruviana.

Scarsi 300 chilometri di strada collegano la "città bianca" al lago Titicaca, sfiorando la dorsale andina. Quando la scarsità di ossigeno comincia ormai a dare alla testa, un cartello di colore verde segnala il punto più elevato: il passo di Crucero Alto, 4528 metri. La Cina è anche lì. Donne del posto accucciate sul ciglio della strada vendono prodotti locali, maglioni, cuscini, coperte, golf in sedicente lana di alpaca e vigogna. I pezzi migliori "te li spacciano per 'baby alpaca', ma noi li chiamiamo 'maybe alpaca'", ci spiega una guida locale, "molti sono ormai fatti in Cina o a Juliaca, la patria del made in China peruviano. Nel giro di qualche anno, inevitabilmente, i falsi distruggeranno la nostra tradizione tessile."

Juliaca, la "città dei venti", meglio nota tra i locali come "la città più brutta del Perù", è un'accozzaglia di casupole in mattoni mai finite e vicoli polverosi, nel Sud della regione di Puno. Passerebbe facilmente inosservata se non fosse che: 1) è passaggio obbligato per chi vuole raggiungere in macchina Cusco dal lago Titicaca; 2) è il principale snodo del narcotraffico tra Perù e Bolivia; 3) è spesso protagonista delle cronache nazionali per proteste e arresti collegati alle miniere illegali di oro.

Dalle miniere illegali alla responsabilità sociale d'impresa

Il distretto di Puno si estende per quasi tutta la sua interezza 4000 metri sopra il livello del mare, dove l'altitudine raddoppia lo sforzo fisico. Immaginarsi sotto terra. Puno ospita il 17% delle miniere informali del Paese, secondo soltanto alla selvaggia regione di Madre de Dios (70%), al confine con Bolivia e Brasile. Stando a quanto riportava lo scorso dicembre l'International Business Times, i ricavi derivanti dalla estrazione illegale di oro hanno toccato i 3 miliardi di dollari, superando del 15% i profitti derivanti dal traffico di cocaina, di cui il Paese andino è dal 2012 il primo produttore a livello globale. Si stima che la produzione illegale copra ormai il 20% delle esportazioni di oro peruviano con costi ambientali altissimi.

L'uso indiscriminato di mercurio per la fusione dell'oro porta al rilascio nell'ambiente di altissime quantità del metallo tossico allo stato liquido e gassoso, per un totale di 105 tonnellate all'anno, di cui il 70% nel Mid South (General Direction of Environmental Health, 1996). Stando a uno studio pubblicato sulla rivista scientifica PLoS ONE, lo sfruttamento delle foreste per scopi estrattivi, è aumentato annualmente dai 292 ettari del periodo 2003-2006 ai 1915 ettari del periodo 2006-2009. Significativamente, questo è avvenuto in congiunzione con un incremento annuo del 18% del prezzo dell’oro.

Lungo la strada che collega Puno alla cittadina di Cusco, una periferia di catapecchie e tetti in lamiera rompe la continuità del paesaggio bucolico che dal lago Titicaca si estende a perdita d'occhio verso Nord. I campi alle porte di Juliaca sono deserti. "Soltanto alcuni giorni fa qua c'era l'inferno", racconta una guida locale indicando il profilo ondulato di arenaria rossa alle nostre spalle. "I contadini erano di nuovo in sciopero. Ancora le miniere informali".

Le miniere informali/artigianali, una piaga che affligge alcune aree delle regioni centrali e meridionali, sfruttate sin dall'epoca coloniale, ma dove non sono mai stati promossi investimenti su larga scala. A volte invece si tratta di depositi abbandonati da società minerarie per problemi di redditività, o zone in cui le riserve, pur essendo di alta qualità', non sono sufficienti a giustificare gli alti costi necessari al loro sviluppo. Il business delle miniere informali ha raggiunto la sua massima espansione tra gli anni '70 e l'inizio degli anni '90 del secolo scorso, quando il boom industriale lungo la costa e le incursioni terroristiche sferrate sulle montagne dal movimento d'ispirazione maoista "Sendero Luminoso" innescarono flussi migratori sparsi, sradicando i contadini dal loro luogo d'origine.

A quanti si erano lasciati una vita alle spalle lavorare nelle miniere illegali sembrò una buona soluzione per ricominciare da capo. Un abbaglio. I più fortunati hanno ottenuto dei "permessi", ma non la lunga lista di documenti necessari a formalizzare definitivamente l'attività di estrazione. I meno fortunati lavorano in condizione di schiavitù senza ricevere nemmeno un compenso. All'inizio degli anni 2000 lo stipendio di un minatore artigianale si aggirava intorno ai 200 dollari al mese, quasi il doppio del minimo vitale di Lima (117 dollari al mese), ma solo leggermente al di sopra della soglia della povertà stimata intorno ai 170 dollari per una famiglia di 5 persone.

Spesso l'occupazione illegale delle terre a scopo estrattivo si rivela controproducente per i minatori stessi; sfocia in una produzione disordinata, costringendo gli "abusivi" a invadere sempre nuovi e più ricchi territori. Può succedere, poi, che le aree illegalmente occupate vengano reclamate dai legittimi proprietari, così che ai minatori artigianali non resta che accettare un accordo (quasi sempre sconveniente) con il detentore della concessione. A farne le spese sono sopratutto i gruppi sociali più deboli come donne e bambini, finiti a lavorare nelle miniere per contribuire al reddito familiare. Non di rado le miniere informali diventano uno specchietto per le allodole, una copertura per la tratta di esseri umani e il traffico di stupefacenti. Statistiche citate dal MMSD (Mining, Minerals and Sustainable Development) nel 2001 calcolavano il coinvolgimento di 20mila-30mila famiglie nel settore estrattivo artigianale, quasi la metà della manodopera impiegata nelle miniere formali.

Oggi si contano 40mila cercatori di oro illegali e 30mila miniere informali soltanto nella provincia di Madre de Dios. Ma il giro d'affari è molto più ampio e coinvolge proprietari delle concessioni, intermediari che comprano e rivendono oro ("acopiadores"), e fornitori di ricevute false per il metallo prodotto illegalmente ("facturadores"). Al vertice della piramide siedono i "gold capos": clan familiari, gangli mafiosi, politici e consorzi stranieri. Sono loro ad accaparrarsi i guadagni a nove zeri accumulati prevalentemente attraverso i lavori forzati e lo sfruttamento minorile, aggirando i regolamenti a suon di mazzette e minacce.

Un'indagine condotta lo scorso anno da Verité, Ong che monitora gli abusi sul lavoro, ha rilevato lo sfruttamento di lavoratori locali (compresi bambini) da parte di gruppi armati russi, sudcoreani, brasiliani e cinesi, spalleggiati da "guardie peruviane con formazione militare". "Molto peggio di quanto ci aspettassimo", questo il commento di Quinn Kepes, autore del rapporto. "Abbiamo fatto ricerche sul lavoro forzato in Bangladesh, Guatemala, Bolivia, Liberia e Stati Uniti, ma personalmente non ho mai visto una cosa del genere". A Quience Mil, nella regione di Cusco, dove generalmente la popolazione è meno vulnerabile ai lavori forzati rispetto a Madre de Dios, Verité ha raccolto testimonianze di lavoratori peruviani ed ecuadoregni schiavizzati da gang criminali cinesi.

Secondo l'identikit emerso dai racconti delle vittime - e confermato dal Ministero del Lavoro - si tratta di immigrati provenienti dalla Repubblica popolare, affiancati da milizie private cinesi e peruviane. Danarosi, ma refrattari all'uso di tecniche avanzate, preferiscono avvalersi di metodi più economici ma estremamente rischiosi, come l'utilizzo di esplosivi da mina per perforare la roccia senza dispositivi di protezione individuale o la supervisione di ingegneri specializzati. Spesso operano di notte per non dare nell'occhio.

Sebbene la legge peruviana non permetta ai privati stranieri di ottenere concessioni minerarie, sembra che questi boss siano riusciti ad aggirare i divieti attraverso deleghe e ad adescare i lavoratori con l'inganno. O semplicemente puntando loro una pistola alla testa. Cinque sono stati catturati durante una spedizione punitiva, ma molti altri sono ancora rintanati sulle montagne di Cusco e nella foresta di Madre de Dios, dove regna l'illegalità e nemmeno la polizia ha il coraggio di addentrarsi. Sono armati fino ai denti, ci raccontano i locali.

Da un paio di anni, attività minerarie illecite con capitali cinesi sono state rilevate anche a Huanuco, nella Riserva comunale El Sira, in seguito al caso di Yi Yanguang e del gruppo Shuanghesheng Mining, accusato di attività estrattive illegali in tre regioni differenti. "Storie di land grabbing da parte di cittadini cinesi se ne sento in diverse parti del Paese, ma non mi risulta che il governo di Pechino sia mai intervenuto per fermare il fenomeno. Inoltre, è bene tenere a mente che il 77% degli investimenti diretti cinesi per il periodo 2005-2013 sono finiti in Amazzonia, di cui la maggior parte in miniere peruviane", ci spiega Kepes, "compagnie cinesi hanno anche acquistato milioni di tonnellate di avorio dal cartello messicano dei Cavalieri Templari".

Agganciato nel mirino delle organizzazioni internazionali, nel 2012 il governo peruviano ha deciso di fare ordine inasprendo le sanzioni e incorporando le attività estrattive informali nel codice penale. Il 19 aprile scorso è entrato in vigore un divieto nazionale sulle estrazioni illegali; soltanto dieci giorni dopo Huepetuhe, fiorente polo minerario fin dagli anni '80, veniva colpito da un raid senza precedenti. Ruspe, generatori e pompe d'acqua sono state fatte saltare in aria dalle forze dell'ordine davanti ai minatori sgomenti, ora "condannati alla fame" o a ripiegare su attività criminali, come avverte Fedemin, federazione che rappresenta i minatori illegali. "Negli ultimi tempi la facoltà mineraria è diventata una delle più frequentate tra i giovani", racconta una guida di Puno."La triste verità è che le miniere informali costituiscono tutt'oggi una delle poche fonti d'occupazione nelle regioni più povere del Paese".

Da parte sua, Pechino sta cercando di abbellire la propria immagine attraverso una sorta di "diplomazia della Corporate Social Responsability". Come ci spiega "Cynthia McClinton, docente di Relazioni internazionali presso la George Washington University ed ex Presidente della Latin American Studies Association, "sembra che il governo cinese stia (letteralmente) tentando di ripulire il proprio business in Perù". Nella sua 'lunga marcia' nel Paese andino -fino ad oggi- il Dragone ha mantenuto un profilo abbastanza basso. Niente a che vedere con i vistosi progetti ferroviari sbandierati in Africa. A quelli in Perù ci pensarono il cittadino inglese Miguel Grace e la Peruvian Corporation alla fine dell'Ottocento, dopodiché poco altro è stato fatto e tutt'oggi i collegamenti su rotaia si riducono a due linee non collegate tra loro per scarsi 2374 chilometri.

Questo non vuol dire che le cose non cambieranno in futuro, tanto più che per quanto riguarda gli investimenti in Sudamerica il governo cinese auspica da tempo uno spostamento dei pesi dal tradizionale comparto energetico a settori più innovativi, come l'hi-tech, la finanza e l'agricoltura di precisione. Durante la sua seconda visita in America Latina, a luglio, il Presidente Xi Jinping ha annunciato il raggiunto accordo per la costruzione di una mega-ferrovia che dovrebbe estendersi per 3000 chilometri collegando la East e la West Coast, partendo dal Brasile e finendo in Perù. Si tratta del più grande progetto ferroviario mai lanciato da un leader cinese a margine di una visita di Stato.

Nel cedere lo scettro a Hu Jintao, durante il XVI Congresso del Partito comunista cinese, il Presidente uscente Jiang Zemin aveva dato precise direttive per le amministrazioni future: «Mantenere come obiettivo centrale lo sviluppo economico», non dimenticando tuttavia «risorse e ambiente», così come «la promozione di un progresso sociale a tuttotondo». Nel 2008 Pechino ha rilasciato il primo Policy Paper on Latin America and the Caribbean con il chiaro intento di dissipare le paure dei partner sudamericani davanti all'aggressività imprenditoriale dei businessmen cinesi. Punto numero uno: «favorire il mutuo rispetto, la mutua fiducia ed espandere gli interessi comuni».

(La seconda parte segue la prossima settimana)

mercoledì 22 ottobre 2014

Pechino apre al Dalai Lama?


Quando nel marzo del 2012 Xi Jinping assunse la presidenza della Repubblica popolare cinese, di lui si sapeva ben poco salvo che la sua appartenenza alla cerchia dei 'principini rossi', gli eredi degli eroi della Rivoluzione comunista, potesse essere di buon auspicio. Il padre Xi Zhongxun, ex Vicepremier dalle inclinazioni notoriamente liberali, era infatti legato al Dalai Lama da un'insolita amicizia, tanto che omaggiato da Sua Santità Tenzin Ghiatso di un orologio parecchio costoso, si racconta, abbia continuato a indossarlo per molti anni. In mancanza di dati concreti, l'ipotesi che Xi junior potesse seguire le orme paterne è stata accarezzata dagli esperti di 'cose cinesi' fin dai primi mesi del nuovo Governo. Quello passato, guidato dall'ex Presidente Hu Jintao (2002-2012), non ha certo brillato per rispetto dei diritti umani, macchiato com'è dall'arresto del Premio Nobel per la pace, Liu Xiaobo, e dalle politiche 'neocolonialiste' adottate in Tibet, ripagate con una lunga scia di autoimmolazioni che dal 2009 a oggi ammontano ad oltre 120 morti nel fuoco.

A due anni dal ricambio al vertice, anche i più ottimisti hanno dovuto riconoscere che il percorso seguito dalla Cina di Xi Jinping - almeno per quanto riguarda la tutela della società civile - non prevede alcuna brusca sterzata. Nonostante l'annuncio di riforme mirate ad implementare il sistema giudiziario, nell'ultimo anno il giro di vite ai danni di attivisti e dissidenti si è fatto più stringente. Ma mentre dalle organizzazioni per la difesa dei diritti umani piovono critiche, l'uomo forte di Pechino sembra, tuttavia, essere riuscito a tenersi stretto ancora un ultimo fan. Sarà per il ricordo paterno, ma nonostante la retorica di regime continui a definirlo «un lupo travestito da agnello» con velleità indipendentiste, recentemente il Dalai Lama è tornato a descrivere Xi come "più aperto" rispetto ai suoi predecessori. Complice le buone parole spese dal Presidente nei confronti della religione Buddhista nell'ambito di una campagna di rivalutazione dei culti autoctoni mirata a riempire il vuoto ideologico da cui la società cinese contemporanea è affetta.

Negli ultimi tempi è parso che qualcosa si stesse muovendo tra Pechino e Dharamsala, sede del Governo tibetano in esilio indiano dal 1960. Ufficialmente i rapporti tra autorità cinese e tibetane sono congelati dal 2010, il Dalai Lama non mette piede in Cina dal '59, ma voci su un suo rimpatrio si rincorrono da mesi. Le indiscrezioni sono partite da un'intervista rilasciata a 'The Hindu' da Wu Yingjie, Vicesegretario del Partito della Regione autonoma del Tibet, in cui si parla di colloqui in corso per un suo ritorno in Tibet: «Tutti i tibetani, compreso il Dalai Lama e le persone intorno a lui possono tornare, basta che riconoscano il Tibet e Taiwan come parte della Cina e rinuncino a mettere in atto sforzi separatisti». Ma alla domanda se il dialogo possa essere esteso alle autorità politiche di Dharamsala, Wu ha lasciato intendere che oggetto di discussione è soltanto il futuro del leader spirituale, non lo status del Tibet.

La notizia, ripresa in prima battuta quasi esclusivamente dai media indiani, è balzata all'attenzione della stampa internazionale nel momento in cui, il 17 settembre, un blog anonimo sul sito cinese Sina.com ha ripreso ulteriori rumors riguardo una visita del Dalai Lama al monte sacro Wutai, nella provincia settentrionale dello Shanxi. Lodandola come una situazione "win-win", l'ignoto internauta ha fatto notare come una riappacificazione con Tenzin Ghiatso sottrarrebbe all'Occidente uno degli argomenti branditi più frequentemente contro la Cina e «permetterebbe al Segretario Xi di mettere a segno varie vittorie con una mossa sola»; il soft power del Dragone ne gioverebbe immensamente. (Segue su L'Indro)

giovedì 16 ottobre 2014

#HongKong: Il pressing democratico di Londra e le minacce di Pechino


L'amministratore delegato di Hong Kong, CY Leung, (ri)apre al dialogo con gli studenti in protesta dal 29 settembre per l'ottenimento di elezioni pienamente democratiche. Ma pone dei paletti: il 'suffragio universale' non è contenuto nella Dichiarazione congiunta sino-britannica del 1984, che invece richiede che "il chief executive venga eletto dal Governo centrale sulla base di elezioni o consultazioni tenute a livello locale". L'obiettivo dei colloqui, che si potrebbero tenere la prossima settimana, è quello di raggiungere un accordo su come rendere effettivo il principio 'un uomo, un voto' alle elezioni del 2017, rimanendo entro i limiti imposti dalla Basic Law e dal quadro normativo stabilito da Pechino. Il compromesso potrebbe arrivare soltanto per quanto riguarda la composizione del comitato (fino a oggi fortemente filo-regime) che si occupa di effettuare lo screening dei candidati.

Da Pechino continuano ad arrivare, a mezzo stampa, accuse contro l'Occidente e i suoi tentativi di 'rivoluzioni colorate' finalizzate a speronare la (quasi) prima economia del mondo. Proprio il 29 settembre il People's Daily, organo del Partito comunista cinese, ha pubblicato un editoriale dal titolo "Nessuno ha a cuore il destino di Hong Kong più del popolo cinese" in cui, in sostanza, si ricorda come, in 150 anni di colonizzazione, Londra abbia sempre rifiutato qualsiasi concessione democratica nei confronti di Hong Kong. E' soltanto con il ritorno alla madrepatria che si è cominciato a parlare di 'suffragio universale', puntualizza il quotidiano.
Eppure una serie di documenti 'segreti' rilasciati dal Governo britannico negli ultimi due anni (ripresi da Quartz) attestano il pressing con il quale le autorità cinesi hanno dissuaso Londra dall'assicurare la piena autonomia al Porto Profumato fin dagli anni '50. A partire da una conversazione avvenuta nel 1958 tra il tenente colonnello Kenneth Cantlie e Zhou Enlai in cui il Premier cinese afferma che concedere al popolo hongkonghese il diritto di autogovernarsi verrebbe considerato da Pechino un "atto molto ostile" ripagabile con un'invasione.

Nelle pagine ingiallite della storia compare l'ammissione che la vera ragione per la quale Mao Zedong non si è ripreso con la forza Hong Kong è da ricercare nei "vantaggi economici" derivanti dall'intermediazione del governo britannico con l'esterno. Letteralmente: "Attraverso Hong Kong possiamo commerciare ed entrare in contatto con altri popoli e paesi, ottenendo materiali di cui abbiamo estremamente bisogno. Per questo motivo fino a ora non abbiamo mai chiesto la restituzione di Hong Kong".


Allo stesso tempo, poco prima di riconsegnare la colonia alla mainland, Londra ha cominciato ad avvertire la necessità di proteggere i propri interessi finanziari a Hong Kong dal colpo di coda di un'eventuale crisi politica a Pechino (nell'81 è stata processata la Banda dei quattro), nonché da uno sconfinamento del sistema economico socialista sull'isola. Da qui l'intenzione di accelerare la transizione democratica nel Porto Profumato con il proposito di lasciare alla Cina una Hong Kong il più simile possibile a Singapore o alla Malaysia, ovvero il più possibile indipendente.










mercoledì 15 ottobre 2014

Il Waldorf Astoria diventa cinese


Chi ha paura dei cinesi? Se lo chiedeva un paio di anni fa Michael Barr, docente di Politica internazionale presso l'Università di Newcastle in un libro dal titolo per l'appunto "Who's Afraid of China?". La domanda sembra più che mai attuale ora che, nonostante numerosi 'inciampi' (proteste democratiche a Hong Kong, accuse di cyberspionaggio, presunte violazioni dei diritti umani ecc...) la Cina non sembra intenzionata ad allentare la sua onnipresenza in quella parte di mondo che l'Occidente considera la propria culla culturale e ideologica. Se poi il presenzialismo cinese finisce per raggiungere il centro nevralgico di New York la notizia causerà immancabilmente più che qualche alzata di sopracciglia.

La scorsa settimana, la catena d'alberghi Hilton ha annunciato la vendita dello storico Waldorf Astoria, riaperto nel 1931 in Park Avenue dopo essere stato demolito per far posto all'Empire State Building nel ventennio proibizionista; come ricorda il sito dell'albergo, lì si trasferì Marilyn Monroe nel 1955 - per mille dollari alla settimana- quando l’attrice decise di abbandonare Hollywood. «Un'esibizione di coraggio e fiducia nella nazione intera», lo definì al taglio del nastro il Presidente americano Herbert Hoover. Ebbene, questo pezzo di storia della Grande Mela passa nelle mani dell'Anbang Insurance Group. che l'ha acquistato dalla Hilton Worldwide Holding per 1,95 miliardi di dollari. Sulla base dell'accordo, la gestione rimarrà per 100 anni all'Hilton mentre l'Anbang si impegnerà a coprire i lavori di restauro per riportare l'hotel alla sua «storica grandeur». Il ricavato dalla vendita dovrebbe permettere all'Hilton di aprire altre nove proprietà alberghiere in giro per il mondo, da Bali a Beverly Hills.

La storia è, come si diceva, di quelle da 'allarme rosso' - avevamo già avuto modo di raccontare su queste colonne i diffusi timori per l'alluvione di capitali cinesi nell'immobiliare di Detroit. Considerate le accuse incrociate di spionaggio tra le due sponde del Pacifico, pare che il Governo americano abbia avviato attente indagini su quelle che potrebbero essere le ricadute in termini di sicurezza: il Waldorf Astoria ospita regolarmente Obama e il suo entourage in occasione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, oltre ad essere sede dell'Ambasciatore Usa all'Onu.

Rilassando i toni, il portavoce della rinomata catena alberghiera ha dichiarato ai microfoni di 'Forbes' che «a New York molti hotel di lusso sono di proprietà di stranieri -come il Carlyle, il Mandarin Oriental, Pierre, Plaza e il Peninsula- pertanto non si tratta di nulla di insolito». Peraltro, i cinesi sono attivi nell'immobiliare statunitense da anni con diversi acquisti eccellenti, dalla sede di General Motors al One Chase Manhattan Plaza, grattacielo di 60 piani ceduto lo scorso anno da JPMorgan Chase & Co. a Fosun International Ltd., il più grande conglomerato privato della Cina continentale. Ma nel caso del Waldorf - l'acquisto più ingente mai effettuato da una compagnia assicurativa cinese nel real estate a stelle e strisce- stupisce il basso profilo dell'acquirente. Anbang non è Fosun. Stando a quanto riporta 'Fortune', la società ha appena dieci anni di vita, 30mila impiegati e assets per 114 miliardi di dollari, rappresentando soltanto il 3,6% delle quote di mercato degli assicuratori cinesi, quando il colosso Ping An ne detiene il 14%.

Ciononostante, l'allungarsi della lista della spesa del Dragone, impreziosita dall'ultima icona dell'Hilton, aggiunge una freccia alla faretra dei 'sinofobici' riportando alla memoria sgraditi precedenti storici. Forse qualcuno ricorderà quando, tra gli anni '80 e '90, in America si parlava di 'panico giapponese'. All'epoca, l'acquisto del Rockefeller Center da parte della Mitsubishi (1989) fu seguito a stretto giro dall'acquisizione dei campi da golf Pebble Beach finiti nei forzieri del tycoon Minoru Isutani (1992). Per un periodo gli investitori locali rimasero tagliati fuori dal mercato, ma i timori si dissolsero non appena la bolla speculativa che affliggeva il mercato azionario e il real estate nipponico scoppiò gettando il Sol Levante in un interminabile periodo di deflazione. In un rapporto del 2011 sugli investimenti cinesi negli Usa, gli economisti statunitensi Dan Rosen e Thilo Hanneman hanno rilevato un'analoga infondatezza nelle preoccupazioni nutrite dai connazionali verso la Repubblica Popolare. Tanto per cominciare, «i cinesi sono più selettivi e hanno una visione di lungo periodo; non hanno alcuna intenzione di gonfiare i prezzi», spiega a 'Forbes' Susan Wacther, docente di finanza e real estate presso l'Università della Pennsylvania. D'altra parte, sebbene i 2 miliardi rasi sborsati per il Waldorf possano sembrare una spesa folle, in realtà si tratta di una cifra in linea con gli attuali valori di mercato di Midtown. Addirittura, secondo Wacther, il contratto, che -come si diceva- prevede la gestione per 100 anni alla Hilton lasciando le spese di ristrutturazione ai cinesi, «è un caso da studiare per capire come si può trarre vantaggio da un investimento in-and-out».

Ma sopratutto -va ricordato- accordi come quelli stretti tra Anbang e l'Hilton sono un eccezione non la norma. «I capitali cinesi fluiscono in modo diverso da quelli giapponesi», spiega all''International Business Times' Patrick Chovanec, esperto di economia cinese presso Silvercrest Asset Management, «provengono perlopiù da famiglie e privati piuttosto che da società». (Segue su L'Indro)

sabato 11 ottobre 2014

Quando nell'Hong Kong britannica si parlava di 'rule of law'


La Dichiarazione congiunta sino-britannica, sottoscritta dall'allora Primo Ministro cinese Zhao Ziyang e l'omologo britannico Margaret Thatcher nel 1984, ha avviato il lento processo di ritorno di Hong Kong alla madrepatria sotto il motto 'un paese, due sistemi'. Gli accordi prevedevano per l'ex colonia il mantenimento di 'un alto grado di autonomia' lasciando immutato il sistema capitalistico al tempo vigente. E la Basic Law, la minicostituzione di Hong Kong adottata nel '90 su ispirazione del modello britannico (ma, va detto, alquanto suscettibile a svariate interpretazioni), avrebbe dovuto assicurare alla regione amministrativa speciale (dal 1997) la sopravvivenza di istituzioni indipendenti e di piena indipendenza decisionale nelle questioni di ordine economico e giuridico. L'attuale discusso sistema della nomina attraverso preselezione è un retaggio dell’amministrazione coloniale britannica, che si basava su dei consigli di notabili e su un governatore nominato da Londra. Ed è soltanto nel 2007 che il Comitato Permanente del Politburo, il Gotha della politica cinese, si è spinto a concedere il suffragio universale per la nomina del Chief Executive (2017) e del Consiglio Legislativo (2020).

In questi giorni di acese proteste hongkonghesi, qualcuno ha rimarcato come, sotto il dominio inglese, Hong Kong non fosse più democratica di quanto non lo sia stata in questi anni di 'un paese, due sistemi'. Un punto sul quale ritengo meriti menzione lo scambio di opinioni avuto con il giurista e sinologo Fabrizio Franciosi. Questo è quanto Fabrizio mi diceva lamentando la scarsa reattività delle potenze occidentali davanti alle prepotenze di Pechino:

"In termini legali (la Cina ha assunto l'impegno con trattato internazionale di garantire elezioni democratiche) e storici (è vero che gli hongkonghesi non eleggevano il governatore, ma la colonia era retta dalla rule of law.... come si sa, uno stato di diritto può compensare almeno in parte l'assenza di regole totalmente democratiche). Quello che viene troppo spesso omesso è che - sotto i britannici - vigeva un sistema di rule of law che sopperiva alla mancanza di elezioni dirette dei civil servants di rango più elevato. In soldoni: era una democrazia imperfetta, certamente. Ma garantiva i diritti civili.... se un cinese si fosse lamentato dell'illegittimità di un provvedimento dell'amministrazione coloniale, il suo ricorso avrebbe trovato un giudice pronto ad esaminarlo imparzialmente. Diciamo che io vedo questi fatti più sotto l'aspetto "legal-garantista": posso convenire sulla volontà occidentale di mettere a profitto tutte le difficoltà e gli inciampi cinesi, ma occorre anche riconoscere che - avendo la Cina preso determinati impegni con trattato internazionale - è diritto/dovere della controparte (cioè la Gran Bretagna) monitorare costantemente la situazione ed il grado di avanzamento delle riforme pattuite, facendo valere nelle opportune sedi il rispetto dell'accordo del 1984. Ecco, il problema è proprio questo: io non ho sentito nessuno, da Londra, alzare la voce innanzi a ciò che stava accadendo; e, come si sa, chi tace acconsente. Perciò, credo sia difficile sostenere che la Cina sia oggi "sotto schiaffo"; se anche i media criticano Pechino, si tratta di punture di spillo. Paradossalmente, stavolta chi aveva davvero voce in capitolo non ha aperto bocca perché siamo innanzi ad un gioco delle parti..."

Altra questione ampiamente sottovalutata, ma a mio parere decisiva per comprendere perché Pechino si ostini ad alzare un muro davanti alle richieste degli studenti, è quella del termine della Dichiarazione congiunta. Gli accordi tra Zhao Ziyang e la Thatcher coprivano un periodo di 50 anni a partire dal 1997; in teoria dopo il 2046 Hong Kong dovrebbe venire definitivamente reinserita all'interno della Repubblica Popolare cinese, ma è altamente improbabile che questo possa accadere nel caso in cui la regione amministrativa speciale riuscisse nel frattempo a dotarsi di istituzioni pienamente democratiche.

giovedì 9 ottobre 2014

Hong Kong, democratica 'per volere di Dio'


Tra Cristianesimo e Comunismo non è mai corso buon sangue. Figuriamoci se di mezzo ci sono un'incombente Madrepatria 'rossa' e un satellite votato al capitalismo deregolato che ospita 480mila protestanti e 363mila cattolici. Nei giorni scorsi, mentre le marce di Occupy Central immobilizzavano le principali arterie di Hong Kong, fuori dai palazzi governativi di Tamar Park anche la Hong Kong Federation of Catholic Students protestava contro l'interpretazione del suffragio universale 'con caratteristiche cinesi'.

«Tamar Park è distante dai punti di ristoro e gli studenti, per non fare troppa strada, finivano semplicemente per saltare i pasti», ha spiegato il Presidente della Federazione Francis Lam. Allora a dare vitto e alloggio temporaneo ai manifestanti ci hanno pensato le parrocchie metodiste, cattoliche e anglicane del Porto Profumato; gruppi di studenti cristiani si sono occupati della distribuzione di snack, mentre nei cortei crocefissi e bibbie hanno affiancato gli striscioni inneggianti alla democrazia. Secondo quanto dichiarato al 'Wall Street Journal' da Wu Chai-wai, pastore della Hong Kong's Christian & Missionary Allience Church, più della metà delle 1400 chiese protestanti presenti nella regione amministrativa speciale ha collaborato alla mobilitazione democratica.

Il perché lo spiega a 'UCA news' il politologo della City University of Hong Kong Joseph Cheng: «I cristiani di Hong Kong si sono resi conto che lo sviluppo economico non ha portato maggiore tolleranza religiosa. Nonostante un miglioramento del tenore di vita e l'apertura verso il mondo esterno, la tolleranza verso la cristianità non ha registrato alcuna svolta positiva, anzi negli ultimi due anni (con il ricambio della leadership cinese, ndr) le persecuzioni sono aumentate». La Cina, che non riconosce l'autorità del Vaticano, gestisce gli affari religiosi attraverso organi statali quali la Chinese Patriotic Catholic Association e il Three-Self Patriotic Movement, referente della Chiesa protestante nel Paese di Mezzo. Di contro il Vescovo di Hong Kong, il Cardinale John Tong, ha ricevuto il proprio incaricato direttamente da Benedetto XVI e mantiene stretti rapporti con la Santa Sede. Per lui ogni cattolico di Hong Kong «ha il diritto e il dovere di farsi coinvolgere» dalla politica.

Così se gli studenti rappresentano, ancora una volta, 'l’avanguardia' della coscienza nazionale per il cambiamento - è già avvenuto per il movimento studentesco del 4 maggio 1919; per la rivoluzione culturale (1966-1976) e le proteste di Piazza Tian'anmen-, tuttavia, la componente religiosa, a Hong Kong, sembra fare da collante tra le varie sigle dietro Occupy. Almeno tre dei leader della mobilitazione sono cristiani, da Benny Tai (autodefinitosi "teologo part-time") al pastore battista Chu Yiu-ming, con tre decadi di battaglie pro-democrazia alle spalle e cofondatore con Tai di Occupy, passando per Joshua Wong, 17 enne, famigerato leader del movimento studentesco Scholarism, nato in una famiglia della middle-class hongkonghina e indottrinato alla carità fin dai primi anni di vita.

Meno 'repressiva' della Repubblica Popolare ma meno 'democratica' di Taiwan, Hong Kong ha vissuto i recenti disordini come in un déjà vu. La memoria ricorre a quel breve interludio storico tra il 1966 e il 1967 agitato dalle proteste della Star Ferry per il rincaro dei biglietti dei traghetti e le violenze della Rivoluzione Culturale sconfinata nell'ex colonia britannica senza troppo successo. Esattamente dieci anni dopo, una sollevazione meno nota travolse la cattolica Precious Blood Golden Jubilee Secondary School. Accuse di corruzione ai danni della Preside costarono agli studenti l'epiteto di 'facinorosi di sinistra', 'simpatizzanti delle Guardie Rosse'. La scuola fu chiusa, i professori licenziati, gli alunni espulsi. Ma i ragazzi ottennero l'appoggio di oltre 10mila persone e le prove evidenti di una capziosa comunione d'intenti tra il Governo e la Chiesa Cattolica. Una nuova organizzazione pastorale evangelica, la Breakthrough Youth Ministries, prese le difese del movimento studentesco facendosi megafono delle lamentele popolari: guidò le proteste contro l'aumento del costo degli autobus e le bollette troppo salate; scoperchiò nuovi casi di corruzione, spiccò severe condanne contro le autorità. Ci si cominciava a chiedere quale ruolo dovesse ricoprire il clero nel processo di transizione che da lì a qualche anno avrebbe visto Hong Kong tornare alla Cina (1997).

Con il massacro di piazza Tian'anmen le parole lasciarono il posto ai fatti. Migliaia di persone scesero in strada per denunciare la repressione del movimento studentesco; una lunga marcia che vide alla sua testa l'attivista Szeto Wah (di lì a poco tra i fondatori del Partito democratico di Hong Kong), affiancato da un movimento ecumenico ampiamente gestito dal reverendo Lo Lung Kwon. La stessa sinergia tra 'sacro e profano' la ritroviamo nel 2003, anno in cui la proposta di una legge anti-sovversione gettò l'ex colonia inglese nella più dirompente ondata di proteste anti-cinesi mai sperimentata dall'ex colonia britannica, almeno fino alla deflagrazione di Occupy Central.

«Questo è il punto. A Hong Kong gli studenti sembrano sempre essere i leader delle proteste. La Chiesa, invece, pare articolare i loro movimenti in una spinta teologica verso la giustizia», scrive sul suo blog Justin K.H. Tse, esperto di Cina e Cristianesimo presso la Jackson School of International Studies dell' Università di Washington, «E' come se queste teologie cercassero di dare legittimazione alle richieste democratiche degli studenti convincendo una società ancora timorosa dopo i disordini del '67». (Segue su L'Indro)

domenica 5 ottobre 2014

Un grande balzo in avanti contro le violenze domestiche


Dal 1 novembre la città di Harbin, capoluogo della provincia settentrionale dello Heilongjiang, si avvarrà di una nuova normativa volta a proteggere le donne dalle violenze domestiche. Si chiama "Harbin Regulations on Women's Rights and Interests Protection", ha ricevuto il placet del braccio locale della governativa ACWF (All-China Women's Federation) e arriva in coda ad iniziative analoghe intraprese nelle città di Guangzhou (Canton), Shenzhen, Changchun, Jinan e Qingdao. Definita dal 'South China Morning Post' «una pietra miliare», il provvedimento andrebbe a coprire nello specifico le molestie sessuali impedendo ai mariti di perseguitare le ex mogli e le loro famiglie dopo la separazione. Maggior tutela verrebbe assicurata anche sul posto di lavoro, sempre più spesso scenario di violenze. Tra il 2007  e il 2012, il Beijing Zhongze Women's Legal Counseling and Service Center ha ricevuto più di 183 richieste di consulenza  in materia di abusi sessuali; dei 47 casi portati avanti , il 34% era legato proprio all'ambiente professionale.

Come stabilisce l'Art. 22, il coniuge, una volta interrotta la relazione, non dovrà molestare, insultare, minacciare o usare violenza verso la donna e i suoi parenti. Allo stesso tempo l'Art. 23 obbliga il datore di lavoro o il direttore ad assumere misure adeguate per prevenire o interrompere il verificarsi di comportamenti molesti ai danni delle donne nei luoghi pubblici e nell'ambito delle attività lavorative. Le vittime, da parte loro, sono invitate a contattare la polizia, i propri superiori e le autorità competenti. L'articolo sottolinea la responsabilità della Women's Federation e degli agenti di pubblica sicurezza; troppo spesso casi di violenza vengono gestiti con scarso tempismo. Nel 2009 balzò alle cronache cinesi la storia di una donna che dopo aver chiamato la polizia otto volte invano è stata picchiata dal proprio marito fino a perdere la vita. Fino all'anno prima le violenze domestiche non rientravano nemmeno nei casi ufficialmente di competenza delle forze dell'ordine.

Inaspettatamente, per quanto lungamente attesa, la norma non ha suscitato soltanto commenti positivi. Nell'occhio del ciclone la definizione che ne deriva di 'violenze domestiche': si parla di attacchi fisici, intimidazioni, torture, compresa la privazione del cibo e...«l'interruzione del sostegno finanziario». Concentrandosi sull'ultimo punto, alcuni internauti si sono chiesti cosa accadrebbe nel caso in cui il 'sequestro del portafoglio' fosse giustamente motivato. Si tenga presente che, in Cina, il management economico della famiglia è per tradizione compito femminile. E se la moglie spende troppo? «Se il controllo del budget di casa umilia il marito facendogli perdere la faccia? E' una cosa che capita spesso. Che ne sarà dei diritti dei mariti?», si chiede un utente su Weibo, il Twitter cinese. E se è la donna a lasciare al verde il marito? Molti hanno fatto notare che la legge dovrebbe tutelare tutti i membri della famiglia al di là del sesso. (Segue su L'Indro)

mercoledì 1 ottobre 2014

Cina e Giappone quasi amici?


Se non si può ancora parlare di pace, quello tra Cina e Giappone sembra quantomeno essere un 'armistizio'. L'approssimarsi del summit APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation) ha spianato la strada alla ripresa dei colloqui tra i due rivali asiatici: in cima all'agenda sicurezza nel Mar Cinese Orientale, rapporti commerciali e un primo meeting bilaterale tra il Presidente cinese Xi Jinping e il Premier nipponico Shinzo Abe. Ma andiamo per ordine.

La scorsa settimana, Pechino è tornato a bacchettare Tokyo. Parlando all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il Ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha ricordato che «la storia non deve essere distorta e l'aggressione non deve essere negata (...) Soltanto in Cina l'attacco dei militari giapponesi ha fatto 35 milioni di vittime tra soldati e civili, morti e feriti». Le cifre del massacro perpetrato dal Sol Levante riempiono di quando in quando i comunicati ufficiali; figuriamoci con l'avvicinarsi del primo giorno dei martiri (30 settembre), new entry nel calendario delle festività con le quali Pechino si impegna a ricordare quanti sono morti servendo la Nazione tra le Guerre dell'oppio e la seconda guerra sino-giapponese.

Nell'ultimo anno, un'escalation di eventi ha squassato l'Asia-Pacifico in un botta e risposta che ha visto protagonisti sopratutto Pechino, Tokyo e gli strascichi della Seconda Guerra Mondiale. Lo scorso febbraio, Abe ha ordinato un riesame della dichiarazione Kono del 1993 sulle 'comfort women', come vengono chiamate le donne asiatiche costrette a lavorare nei bordelli dell'esercito imperiale giapponese tra gli anni '30 e '40 del secolo scorso. La mossa ha scatenato le ire di Cina e Corea del Sud, che accusano il Governo nipponico di militarismo a causa della dibattuta revisione dell'Art. 9 della Costituzione Pacifista.

Di pochi mesi prima la visita di Abe al controverso santuario di Yasukuni, dove riposano le spoglie di criminali di Classe A condannati per crimini contro la pace durante la Seconda Guerra Mondiale. L'iniziativa aveva spinto anche Washington ad esprimere una severa condanna, contravvenendo all'abituale predilezione americana per il compromesso al fine di calmare le acque nel Mar Cinese Orientale: gli Stati Uniti sono legati al Giappone da un trattato di cooperazione e mutua sicurezza che «copre tutti i territori sotto amministrazione giapponese, comprese le isole Senkaku», rivendicate da Pechino con il nome di Diaoyu. Vale a dire che, nel caso in cui Pechino e Tokyo passassero dalle frizioni verbali alle armi, Washington si troverebbe costretto a intervenire in favore del vecchio alleato. Un'ipotesi tutt'altro che auspicabile per l'amministrazione Obama, divisa tra la volontà di affermare a propria assertività nell'Asia Orientale e la necessità di mantenere cordiali rapporti con la seconda economia del mondo.

Ma è proprio riguardo le dispute marittime che, a sorpresa, Wang Yi ha adottato una linea più morbida rispetto al suo predecessore. Se nel 2012, l'allora Capo della diplomazia cinese Yang Jiechi si rivolse alle Nazioni Unite bollando la nazionalizzazione giapponese delle isole Diaoyu/Senkaku come un 'furto', stavolta Wang ha invitato al «rispetto della sovranità e dell'integrità territoriale» astenendosi dal citare nello specifico i casi che vedono la Cina fronteggiare alcuni vicini asiatici per difendere i propri diritti nel Mar Cinese Orientale (da Giappone e Taiwan) e in quello Meridionale (sopratutto, da Filippine e Vietnam). Appena un paio di giorni prima, il Ministro degli Esteri cinese aveva avuto un incontro informale con il suo omologo nipponico Fumio Kishida «su espressa richiesta della parte giapponese». Si tratta del secondo faccia a faccia tra i rispettivi dicasteri da quando Abe ha assunto l'incarico di Premier nel dicembre 2012; il primo aveva avuto come sfondo il summit Asean tenutosi quest'estate a Naypyidaw, in Birmania. Il prossimo passo potrebbe essere un meeting ai massimi vertici. (Segue su L'Indro)

Hukou e controllo sociale

Quando nel 2012 mi trasferii a Pechino per lavoro, il più apprezzabile tra i tanti privilegi di expat non era quello di avere l’ufficio ad...