domenica 30 ottobre 2011

"Il miracolo cinese" fa arrossire il capitalismo

La crisi finanziaria del 2008 si è dimostrata un interessante banco di prova per valutare l'efficacia della macchina governativa dei vari Stati. Sebbene presenti evidenti contraddizioni, il sistema politico cinese ha evidenziato notevoli punti di forza grazie ai quali il Regno di Mezzo è riuscito a reagire egregiamente alla recessione mondiale, suscitando lo stupore e l'ammirazione di molti studiosi ed economisti, in Patria e all'estero. Ma quali sono le armi nascoste delle quali si è avvalso il Dragone? Per capirlo, o almeno per tentare di farsi un'idea, qui sotto ripropongo la traduzione integrale di un saggio di Hu Angang, direttore del Centro Studi sulla Cina Qinghua-Cas (Chinese Academy of Science), nonchè docente di economia presso l'Institute of Public Administration del'Università Qinhua di Pechino, apparso in un numero speciale del Renmin Luntan dedicato al "modello Cina". Alcuni estratti dell'articolo sono stati ripresi e analizzati anche nel libro Il Modello Cina.


从政治制度看中国为什么总会成功

尽管中国的政治制度还有许多不尽人意之处,但是它适合于中国的基本国情和发展阶段,也适应于越来越开放的国内外环境,还能够回应来自内外部的各种挑战
如何判断中国政治制度的优势和成功标志
世界上没有最好的政治体制模式,也不可能有唯一的模式,政治体制具有多样化的类型,它们同时并存、相互吸收、相互借鉴,又相互竞争、此消彼长。这是与1945年第二次世界大战之后世界人口和国家格局的重大变化极其相关的。首先,世界人口大幅度增加,从24亿人增加至目前的近70亿人(为68亿人);其次,国家数量也大幅度增加,从45个增加到193个(还有31个地区),一方面战后发展中国家纷纷独立,国家数增加,另一方面从1990年以后因前苏联和南斯拉夫等东欧国家解体,又导致国家数增加;再有,平均每个国家的人口数由5300万人下降至3500万人,相对而言国家治理难度减小,经济更加活跃;最后,世界经济迅速地一体化、区域化和全球化,其结果也导致世界各国竞争日益激烈,不进则退,进慢了也是退。各国的市场竞争和技术竞争本质上也是各国制度的竞争,这已不简单地取决于哪个国家制度的好坏,而取决于该国相对于竞争对手的优劣。
中国总人口则从1945年的5亿人上升至13.4亿人,与此同时也从一个贫穷落后、文盲充斥、东亚病夫、“一盘散沙”的社会成为极富活力、日益繁荣、统一团结的世界第二大强国。那么,中国是如何成功实现国家良治的呢?我们又如何从国际视角来衡量她的成功呢?进而证明她的政治体制是适宜的,也是成功的。
这里我们不能靠主观判断,更不能按着以往的西方价值观来判断,而需要用量化数据说话,用客观事实来证明。这里“成功”与否不是抽象的,而是具体的,并没有统一的标准,只能使用“具体问题具体分析”,“具体案例”和“具体指标”;“成功”与否不是自我的评价而是横向的评价,并可以进行国际比较,而且只能在比较中鉴别。以下我从两个方面作简要讨论:一是从过去三十年(指1978-2008年)的长期发展角度出发,对100多个发展中国家进行国际比较;二是从过去三年(指2008-2010年)的短期发展角度,对G20应对国际金融危机进行国际比较,进而说明中国的发展成绩是最佳的,确实是“这边风景独好”。
无论是历史事实还是国际比较都表明,尽管中国的政治制度还有许多不尽人意之处,但是它适合于中国的基本国情和发展阶段,也适应于越来越开放的国内外环境,还能够回应来自内外部的各种挑战,并在激烈的国际竞争中充分显示出了巨大的发展优势和独有的竞争优势。这也源于过去30多年实现了中国式的政治制度重建与改革:一是领导人新老交替的制度化、规范化和程序化,保证了政治领导集体的稳定性、连续性和继承性;二是领导人坚持了“实事求是、解放思想”的思想路线;三是公共政策决策实现了民主化、科学化和制度化。这是中国为什么总是成功的根本原因。
30年来中国经济高速增长、社会显著进步的秘诀
从国际比较看,中国发展奇迹绝非偶然或仅凭运气,它是有其发展之道的。这个“道”也不是那么复杂、那么莫测,而是相当简明又顺其自然的。我们根据世界银行和联合国计划开发署数据库,选择了世界100多个国家的三类指标进行分析,一是GDP年平均增长率,以反映经济增长绩效;二是GDP年均增长率相对差异系数,以反映宏观经济稳定状况;三是人类发展指数(HDI)提高幅度,以反映社会进步和社会公平发展程度。我们发现,在1978-2008年期间,世界上100多个国家中,经济增长率最快的20个经济体中,都是发展中国家;其中实行五年计划的国家有13个;其中经济增长率最快的前10个经济体中,则有8个实行五年计划的国家。这绝不是历史的“巧合”,也不是国际的“巧合”。诚如邓小平所言,“计划和市场都是经济手段”,既运用五年计划这只“看得见的手”,提供公共服务,促进社会进步,也是运用市场机制这只“看不见的手”,提供良好投资环境,促进经济增长,这是理解中国奇迹的一把钥匙。
对此,许多真正了解中国的国外企业家和学者都给予了充分的肯定。例如,2009年11月,前美中商会主席詹姆斯·麦格雷戈在接受纽约时报采访时认为:我们(指美国)可以向中国学习的一个重要经验就是要设立目标、制定计划,全力推动整个国家向前走。中国人有五年计划,他们时刻牢记这些目标。又如,世界未来学家约翰·奈斯比特最近在其新作《中国大趋势》(China’s Megatrends)一书中将“规划‘森林’,让‘树木’自由成长”作为中国新体制(指不同于西方国家)崛起的八大支柱之一:“国家的长远目标通过自上而下与自下而上的程序形成,政府制定优先政策和优先发展重点,而人民各尽其责,在保持和谐与秩序的同时允许多样性的存在。”
我最近访问了台湾,在一个经济论坛上以制定“十二五”规划作为案例,详细介绍了它如何实现“民主化”?如何实现“科学化”?又如何实现“制度化”?其大体分为11个步骤:历经了两年半时间的研究制定过程,先民主,后集中;再民主,再集中;现在还只是走到第9步,国务院正在就《国家“十二五”规划纲要(草案)》广泛征求各方意见,从而达到集中民智、反映民意、凝聚民心、提振信心的目的,还没完成这一过程。这个过程并不是什么秘密,等于把中国的决策机制公开化,也就是我们说的“把黑箱变成白箱”。第二天《旺报》就有台湾的学者来抨击和反省台湾的决策机制,其中一个核心观点就是“台湾到了向大陆学习的时候了”。
为什么中国能够交出令世人惊奇的答卷
由美国所引发的国际金融危机给全球经济造成了深重的创伤。不少主要经济体仍然深受其害。而中国几乎是一个例外。危机如同一次全球大考,也是各国应对危机体制的一次重大检验。这里我们选用G20国家的四个主要宏观经济指标来比较:一是经济增长率;二是通货膨胀率;三是失业率;四是财政赤字占GDP比重。
从20个国家的考试成绩看,2009年中国在G20国家中主要宏观经济指标最好,其中经济增速居首位,为9.2%,是为数不多的七个避免经济负增长的国家之一。2009年美国的-2.5%,欧盟国家的-3.9%以及日本的-5.3%,中国比经济增速第二的印度高出了2.7个百分点。
十分讽刺的是,2009年1月美国《时代》周刊幸灾乐祸地预言,“中国已经开始经济衰落,也许将比美国经济还要恶化”,“中国难以继续奇迹”,它“只是个身陷囹圄的大国”。3月2日该杂志还公开预言,2009年中国GDP增长率不会超过4%。但是这一预言很快(仅有10个月)就被事实所击碎,中国在这次全球大考中,率先复苏,实现稳定增长,实现了主要宏观经济目标,交出了一份令世人瞩目和惊奇的“答卷”。而真正经济衰落的却是美国自己,同时中国大大缩小了与美国GDP的相对差距,从危机前的4倍缩小为危机后的2.5倍左右。
为什么中国能够比较成功地应对金融危机呢?有哪些深刻的认识和重要的经验呢?首先,党中央加深了对社会主义市场经济规律的认识,加深了对我国社会主义制度政治优势的认识。其次,正确处理好政府和市场的关系,政府主导和引导,市场驱动和投入为主。2009-2010年政府投资4万亿元,但是带动了10倍以上的非政府投资,两年全社会固定资产投资累计达到50.3万亿元,保证了中国经济高增长。
各国的发展能力和国家能力是不同的,应对同一个国际金融危机的表现也是大为不同的。从中国情况来看:第一,全体中国人的集体学习、灵活应变、用于竞争的发展能力;第二,高效率的国家决策能力;第三,强大的政治动员能力;第四,日益增强的国家财政能力;第四,充分发挥了中央和地方的“两个积极性”。
由美国所发生并出口到全世界的国际金融危机本质上是空前的资本主义危机,中国成功地应对国际金融危机引起美国学者的广泛关注,也引起他们对这一资本主义危机的自我反思。其中最引人注目的是美国学者弗兰西斯·福山(Francis Fukuyama)最近发表文章称赞:中国之所以成功地应对金融危机,是基于她的政治体制能力,能够迅速作出重大的、复杂的决策,并有效地实施决策,至少在经济政策领域是如此。相比较而言,美国却不具有应对危机的体制能力,它变得更加刚性。 在事实面前,这是他对20年前发表的历史终结论的部分自我修正或自我否定。
总之,“中国道路”不仅是一条从未有过的新路,还是一条越来越成功的新路。最好的选择就是:走自己的路,让别人说去吧!


Perché, dal punto di vista politico, la Cina avrà un sicuro successo

Sebbene il sistema politico cinese lasci ancora molto a desiderare, tuttavia esso è in accordo con lo sviluppo e le condizioni attuali del Paese. In particolare viene incontro al tentativo di una sempre maggior internazionalizzazione e può rispondere prontamente a qualsiasi sfida proveniente sia dall’interno che dall’esterno.


Quali sono i segni che dimostrano i punti di forza e di successo del sistema politico cinese?

Non si può dire che al mondo esista un modello di sistema politico perfetto, né si può dire esista un unico modello, piuttosto ogni sistema racchiude in sé diverse tipologie le quali coesistendo si compenetrano, traggono aiuto una dall’altra ed, entrando in conflitto tra loro, infine si annullano a vicenda. Ciò è direttamente collegato ai radicali cambiamenti che hanno interessato la popolazione mondiale e la struttura degli Stati dal 1945-data di conclusione della 2° Guerra Mondiale- in poi: la popolazione è aumentata considerevolmente da 2,4 miliardi ai quasi 7 miliardi (6,8 miliardi) dei nostri giorni, mentre il numero delle Nazioni è slittato da 45 a 193. Se inizialmente  la nascita dei nuovi Stati era da attribuirsi al progressivo isolamento innescato dal fenomeno di sviluppo post-bellico, dal 1990 la principale causa è da ricercarsi nel raggiungimento dell’indipendenza da parte dei Paesi dell’Europa dell’Est, un tempo parte dell’ Ex-Unione Sovietica e della Jugoslavia. Mediamente ogni Paese ha registrato un nuovo calo della popolazione da 53milioni a 35milioni di persone, fattore che ha ridotto le difficoltà di governo e ha reso l’economia più dinamica. Gli effetti della rapida integrazione dell’economia mondiale e dei processi di regionalizzazione e globalizzazione hanno inoltre rafforzato la competizione a livello internazionale, e, in questa corsa, chi rimane indietro è perduto. Il sistema statale di un Paese risulta competitivo se lo è anche in termini di mercato e di sviluppo tecnologico, e non dipende semplicemente dall’efficacia o meno delle sue istituzioni, ma dipende anche dai meriti e dai demeriti dei suoi avversari.
Dal 1945 ad oggi, la popolazione totale della Cina è aumentata da 500 milioni a 1,3 miliardi di abitanti. Da uno stato di generale povertà ha raggiunto una notevole prosperità economica; ha risolto il problema dell’alfabetizzazione e della disunità sociale, trasformandosi da “sick man of East Asia”, “disunita come una manciata di sabbia” quale era, a seconda potenza mondiale. A questo punto occorre chiedersi come potrà adottare un sistema politico valido e come saremo in grado di valutarne il successo da un punto di vista internazionale. Facendo un ulteriore passo avanti proveremo anche che il suo sistema è appropriato ed efficace. Ma su questo punto non potremo affidarci a valutazioni soggettivi, né potremo giudicare sulla base del sistema di valore utilizzato, in passato, dall’Occidente, ma piuttosto dovremo basare il nostro discorso sui dati quantitativi, prendendo i fatti oggettivi come prova.
Il successo o meno del sistema non è un concetto astratto, è al contrario un concetto molto concreto. Non vi sono parametri assoluti per poterlo definire, ma occorre utilizzare “l’analisi concreta di problemi concreti”, “casi concreti” e “indicatori specifici.”  E non sarò io a valutare sulla base di parametri personali, ma, attraverso valutazioni orizzontali, sarà possibile effettuare dei confronti a livello internazionale, evidenziando similitudini e differenze . Pertanto qui sotto tratterò brevemente due aspetti: per prima cosa partendo da una prospettiva di sviluppo di lungo termine del trentennio tra il 1978 e il 2008, effettuerò una comparazione a livello internazionale tra i 100 e più Paesi in via di sviluppo. In seguito, analizzando il periodo degli ultimi tre anni (2008-2010), da una prospettiva di sviluppo di breve termine, darò un quadro della situazione mondiale in base alla risposta data dal G20 alla crisi economica internazionale, per poi spiegare come la Cina, conseguendo i migliori risultati. si sia affermata come “la numero uno”.
Non importa se siano i fatti storici o il confronto internazionale ad evidenziarlo: il sistema politico cinese, sebbene con i suoi limiti, si dimostra il più adatto alle condizioni di base del Paese e al suo stato di sviluppo, e si rivela anche molto efficace nel contesto di una sempre maggior apertura della Cina sia in merito alle questioni interne sia in merito alle dinamiche internazionale, rispondendo alle numerose sfide provenienti dall’interno e dall’esterno dei propri confini. Nella feroce concorrenza internazionale ha mostrato una netta superiorità nel processo di crescita che le dà un vantaggio competitivo senza eguali. Tutto ciò, frutto di un processo durato oltre trent’anni che ha permesso la ricostruzione e la riforma del sistema politico in stile cinese, è da attribuirsi fondamentalmente a tre fattori: 1) una stabilità e una continuità nella successione ottenuta dalla leadership politica attraverso la sistematizzazione, la standardizzazione e regolamentazione delle procedure di trasmissione del potere;  2) una linea ideologica basata “sulla ricerca del vero attraverso i fatti concreti” e “sull’emancipazione del pensiero”; 3) una capacità decisionale, evidenziata dalla politica pubblica, che ha portato ad una maggiore democraticizzazione, scientificizzazione e istituzionalizzazione.

Qual'è il segreto cinese di trent’anni di rapida crescita economica e di sviluppo sociale?

Valutando la situazione internazionale, il miracoloso sviluppo ottenuto dalla Cina non è un fenomeno casuale né può essere attribuito semplicemente alla fortuna: è il vero e proprio cammino naturale (è il “dao”) della sua crescita.
E questa strada non è che sia particolarmente complessa né poi così imprevedibile, ma in realtà è semplice e chiara, e procede in accordo con la natura. Sulla base dei dati forniti dalla Banca Mondiale e dai database del Dipartimento di sviluppo delle Nazioni Unite abbiamo selezionato tre classi di indicatori di più di 100 Paesi: il tasso di crescita annuale del prodotto interno lordo (PIL) di un Paese per evidenziare i risultati della relativa espansione economica; il coefficiente di variazione del PIL, per riflettere la stabilità nel settore macroeconomico; l’innalzamento dell’Indice di sviluppo umano (HID) per riflettere il grado del progresso raggiunto dalla società di un Paese. Analizzando questi parametri abbiamo scoperto che nel periodo di tempo tra il 1978 e il 2008, i 20 sistemi economici ad aver registrato il tasso di crescita più alto sono tutti Paesi in via di sviluppo. Tra questi, 13 hanno messo in atto piani quinquennali e, tra i primi dieci per velocità di crescita economica, otto hanno realizzato progetti di pianificazione di cinque anni. Non si tratta di una “coincidenza” storica né di una “coincidenza internazionale”. Parafrasando Deng Xiaoping: “pianificazione e forze di mercato sono entrambi strumenti di controllo dell'attività economica”, poiché utilizzando 'la mano visibile' del Piano quinquennale e quella 'invisibile' dei meccanismi di mercato, è possibile fornire un buon terreno per gli investimenti e la promozione della crescita economica. Questa è una chiave di lettura che permette di comprendere il “miracolo cinese”.
E su questo punto hanno dato piena conferma molti imprenditori e studiosi stranieri che ben conoscono la Cina. Per esempio, queste sono le parole dell’ex-presidente della Camera di Commercio degli USA, James McGregor, pronunciate in un’intervista rilasciata al New York Times nel novembre 2009: “noi (facendo riferimento agli Stati Uniti) possiamo imparare dall’esperienza cinese a porci obiettivi, stabilire dei programmi per promuovere l’intero Paese ad andare avanti. I cinesi stabiliscono dei piani quinquennali e tengono sempre a mente quali sono gli obiettivi. Un altro esempio ci viene dato dal futurologo di fama mondiale Jhon Naisbitt, il quale nella sua recente opera China’s Megatrend, nella quale afferma che per “pianificare una foresta” bisogna lasciar crescere “gli alberi” spontaneamente, considera il nuovo sistema cinese (diversamente dai Paesi occidentali) uno degli otto pilastri emergenti. L’obiettivo di lunga durata di un Paese prende forma attraverso un processo che agisce dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto: il governo stabilisce una tattica politica e dei punti chiave di sviluppo preferenziali, mentre ogni cittadino fa il possibile per adempiere alle proprie responsabilità e, mantenendo l’armonia e l’ordine, permette alle diversità di coesistere.
Recentemente sono stato a Taiwan dove si è tenuto un forum di economia sugli effetti stabilizzanti dei Piani quinquennali, in cui si spiegava dettagliatamente come realizzare il processo di democratizzazione, scientificizazzione, e istituzionalizzazione dello Stato. Il nucleo centrale del programma era articolato in 11 punti: sperimentato un periodo di studio e progettazione della durata di due anni e mezzo, si entra in un processo che prevede per prima la democrazia e in seguito la centralizzazione, poi di nuovo la democrazia e infine ancora la centralizzazione. Al momento ci troviamo soltanto nella nona fase e il Consiglio di Stato sta sottoponendo all’opinione generale la bozza del XII Piano quinquennale, così da raggiungere l’obiettivo di sintetizzare la conoscenza del popolo, riflettere l’opinione pubblica, unire le aspirazioni dei cittadini, aumentandone e stimolandone la fiducia. Questo processo, che tuttavia ancora non si è concluso, non ha nulla di segreto, equivale a pubblicizzare i meccanismi decisionali della politica cinese che è quello che noi diciamo “far diventare una scatola nera una scatola bianca”. Il giorno successivo, sul giornale Wang bao uno studioso taiwanese ha criticato e analizzato approfonditamente il sistema politico di Taiwan; uno dei punti focali del suo attacco consisteva nella convinzione che “ sia arrivato il momento per Taiwan di imparare dalla Cina continentale”


La risposta cinese alla crisi che ha sconvolto il mondo

La crisi finanziaria internazionale, scatenata dagli Stati Uniti, ha causato un profondo trauma per l’economia globale. Molte economie mature continuano a mostrare segni di sofferenza: la Cina è quasi l’unica a fare eccezione. La crisi rappresenta una prima prova d’esame a livello mondiale, ma è anche un primo test per verificare come ogni singolo Paese è in grado di reagire. Qui effettueremo un paragone avvalendoci dei quattro principali indicatori macroeconomici assunti dalle nazioni del G20. Il primo è il tasso di crescita economica, il secondo è il tasso di inflazione, il terzo è il tasso di disoccupazione e il quarto è il rapporto deficit/PIL.
Dall'esito dei test effettuati sui 20 Paesi membri, risulta che, nel 2009, la Cina ha ottenuto i migliori risultati nel settore macroeconomico e, oltre ad essere prima in assoluto con una tasso di crescita del PIL del 9,2%, è anche uno tra gli unici sette Paesi ad aver scongiurato la recessione economica. Mentre nel 2009 gli Stati Uniti hanno registrato un calo del –2,5%, gli stati dell’Unone Europea del –3,9%, e il Giappone del –5,3%, la Cina, da parte sua, ha superato di 2,7 punti percentuali l'India, seconda classificata per prodotto interno lordo.
Paradossalmente, proprio nel gennaio del 2009 il settimanale statunitense “The Times” aveva predetto, con malcelata compiacenza, che l’economia cinese si stava avviando verso un processo di declino che avrebbe potuto portarla ad una crisi ben peggiore di quella americana: “Non sarà facile per la Cina portare avanti il miracolo economico. E’soltanto una grande nazione in trappola.” Il 2 marzo altre riviste resero note le loro previsioni, pronosticando che nel 2009 il tasso di crescita dell’economia cinese non avrebbe superato il 4%. Ma questo vaticinio fu presto (in soli dieci mesi) smentito dai fatti. Nell’ “esame” in cui oggigiorno sono coinvolti tutti i Paesi, la Cina è la prima ad intraprendere un percorso di ripresa e ad ottenere un trend di crescita costante. Avendo raggiunto il principale obiettivo macroeconomico, ha dato una risposta che ha attratto l’attenzione generale su di sé, suscitando lo stupore di tutti. Al contrario, il vero declino economico è in realtà quello degli Stati Uniti, infatti la Cina è riuscita anche a ridurre la distanza che la separava dall’America. Mentre nel periodo precedente alla crisi il prodotto interno lordo statunitense era 4 volte quello cinese, ora il vantaggio americano sul PIL cinese è ridotto a circa 2 volte e mezzo.
Ma cos’è che ha permesso alla Cina di reagire con discreto successo alla crisi finanziaria? Di quali profonde conoscenze è in possesso e da quali importanti esperienze ha tratto giovamento? Per prima cosa il Comitato centrale ha approfondito la conoscenza delle regole dell’economia di mercato socialista, maturando una più profonda consapevolezza della superiorità politica del socialismo cinese. In secondo luogo,  gestendo correttamente le relazioni tra politica ed economia di mercato, i leader hanno dato massima importanza alla gestione del mercato e agli investimenti. Nel 2009 il governo ha investito 4mila miliardi di yuan, e ha portato gli investimenti non governativi a più di 10 volte tanto: in due anni il totale dei fixed assets ha raggiunto i 50,3 mila yuan, traguardo, questo, che ha assicurato alla Cina una crescita economica esponenziale. La capacità di sviluppo di ogni Paese e le sue capacità statali non sono la stessa cosa, e anche il comportamento tenuto in risposta alla crisi finanziaria internazionale è molto differente. Per quanto riguarda la Cina queste capacità sono: 1) la capacità della collettività cinese di imparare, di adattarsi facilmente alla situazione contingente, e di utilizzare le proprie abilità di sviluppo competitivo. 2) l’ efficienza della politica nazionale 3) la capacità di mobilitazione politica 4) la capacità di rafforzare sempre più le finanze statali 5) la capacità di valorizzare le due parti attive dell’amministrazione statale, quella centrale e quella locale.
La recessione finanziaria internazionale, originata ed esportata dall’America, in tutto il mondo è sostanzialmente una crisi del sistema capitalistico senza precedenti, pertanto la capacità di reazione dimostrata dalla Cina ha richiamato l’attenzione di molti studiosi americani, spingendoli a rivalutare l’effettiva efficacia del capitalismo stesso. Tra questi esponenti di spicco, quello che più ha destato l’attenzione generale è l’americano Francis Fukuyama, il quale, in un recente articolo pubblicato sul Financial Times dal titolo US democracy has little to teach China, ha così elogiato il nostro Paese: “le ragioni per le quali la Cina ha risposto positivamente alla crisi economica sono da ricercare nell’efficienza del suo sistema politico, nella capacità di varare rapidamente importanti e complesse decisioni politiche, nonché di metterle in atto con successo. E questo è vero se non altro per quanto riguarda la politica economica.”  Volendo fare un paragone, gli Stati Uniti non avendo un sistema in grado di reagire alla recessione globale, finiscono per effettuare cambiamenti peggiorativi. “Questo è un estratto delle conclusioni storiche riguardo all'ultimo ventennio pubblicate da Fukuyama. Ora, in base ai fatti contingenti, a ognuno spetta la libera decisione di apportarvi correzioni o di confutarle.
In conclusione, la strada intrapresa dalla Cina non è soltanto un nuovo sentiero mai battuto, ma è anche un cammino che porta ad un successo sempre crescente. La scelta migliore da farsi è quella di seguire la propria via; gli altri facciano quello che vogliono!
(A.C)

venerdì 28 ottobre 2011

"50milioni di balene in nuoto verso Bangkok"


Cosa hanno a che fare le balene con Bangkok? La domanda è più che lecita, data la distanza che separa la capitale thailandese dalla costa, è piuttosto improbabile che milioni di cetacei stiano risalendo il fiume Chao Praya diretti verso la città. E in effetti non centrano proprio nulla, se non per il fatto che rendono molto bene l'idea dello stato di emergenza in cui si trova l'antico regno del Siam, dallo scorso luglio colpito da devastanti alluvioni: il centro del Paese si è infatti trasformato in un enorme lago la cui massa d'acqua è pari a quella di 50milioni di balene, le quali, defluendo lentamente verso sud, si troveranno inevitabilmente a passare per Bangkok- situata a metà tra la pianura centrale e il mare- che al momento appare come un'isola galleggiante. I quartieri periferici sono già stati raggiunti dall'acqua, mentre il cuore della città è ancora asciutto (leggi approfondimenti su Asia blog), sebbene ci sia una possibilità su due che, nei prossimi giorni, venga anch'esso sommerso.

In Thailandia, quest'anno le piogge torrenziali hanno già causato 370 vittime e le previsioni sono tutt'altro che ottimistiche: secondo l'ufficio dell'Onu per il Coordinamento degli Affari Umanitari, nel weekend 1,2 miliardi di metri cubi d'acqua si riverseranno nella capitale; un volume pari a quello di 480mila piscine olimpiche.
Intanto l'esodo è cominciato ormai da giorni: molti dei 12milioni di residenti stanno lasciando Bangkok nel terrore di rimanere intrappolati, in quanto si ipotizza che la capitale possa rimanere "ostaggio" delle inondazioni per quattro settimane di fila. Ed è già allarme per le scorte d'acqua: alcuni bacini idrici che forniscono acqua potabile sono stati contaminati, mentre risulta sempre più difficoltoso lo smaltimento dei rifiuti, con un possibile rischio di epidemie. Anche il settore industriale ha subito pesanti ripercussioni a causa della scarsa reperibilità di alcuni materiali necessari per il processo produttivo, ed è probabile che questa situazione influenzerà tutto il mercato mondiale, causando notevoli oscillazioni dei prezzi.

Quella di quest'anno è stata la peggiore alluvione degli ultimi 50anni, frutto di una stagione delle piogge che sembra non avere alcuna intenzione di finire.

giovedì 27 ottobre 2011

Chen Guancheng: quando l'amore diventa dissenso

Amare la famiglia, in Cina, può costare molto caro: Chen Guangcheng, 39 anni, originario della provincia dello Shandong, sei anni fa ha sfidato il diktat del governo violando la legge del figlio unico. Il frutto del suo amore, una bambina "clandestina", è stata privata di tutti i diritti civili; quanto a lui, ha già scontato quattro anni e tre mesi di lavori forzati nei laogai (l'accusa ufficiale fu di danneggiamento di immobili e blocco del traffico mentre era a capo di una manifestazione), ma la sua odissea è appena all'inizio: ora il suo nome rientra nella lista nera delle voci scomode che Pechino deve mettere a tacere.

Sebbene cieco dalla nascita, in un Paese in cui la popolazione brancola nel buio sottoposta al bendaggio delle autorità, Chen sembra vederci meglio di tanti altri e, una volta riassaporata la libertà nel settembre 2010, non ha rinunciato a portare avanti la sua battaglia. Sottoposto agli arresti domiciliari insieme alla moglie e alla figlia (il primogenito è stato strappato ai genitori e affidato ai nonni per ordine del giudice tutelare), la famiglia Chen è riuscita a gabbare i controlli governativi e a comunicare con il mondo esterno attraverso un "video-denuncia", diffuso in seguito da China Aid.

La risposta del Partito non si è fatta attendere: lo scorso febbraio dieci funzionari locali, fatta irruzione nella residenza del dissidente, hanno pestato a sangue i due coniugi per due ore di seguito; la donna è svenuta a causa delle percosse subite. Ma non solo. La famiglia Chen è stata in seguito privata dei beni di prima necessità e dei medicinali di cui Guangcheng necessita a causa di alcuni disturbi cronici, mentre l'abitazione è stata trasformata in una prigione: sigillate le finestre, sequestrati oggetti tra i quali computer, televisione, il bastone per ciechi dell'uomo e i giocattoli della figlia. Un impianto di telecamere monitorizza ogni movimento all'interno della casa-prigione per scongiurare ogni pericolo di fuga.

Chen Guangcheng, che nel 2005 aveva denunciato i metodi poco ortodossi per il controllo delle nascite adottati dalle autorità di Linyi - che vanno dalle percosse agli aborti coatti - ha messo in luce un bilancio agghiacciante: nella provincia dello Shandong, in un solo anno, sarebbero state imposte oltre 7mila sterilizzazioni forzate. Oggi, con un totale di 130mila denunce per aborti coatti, il nome del dissidente appare nella classifica dei "100 uomini che hanno dato forma al mondo", stilata dal Time.

Entro i confini della Grande Muraglia, la rete ha dimostrato la sua solidarietà nei confronti dell'attivista, pubblicando online oltre 210 fotoritratti in venti giorni, contraddistinti tutti dagli occhi coperti a simboleggiare quella menomazione fisica che non ha, tuttavia, impedito a Chen di vedere le ingiustizie che lacerano il suo Paese. "Supportiamo Guangcheng, aiutiamo Guangcheng" è il nome della campagna lanciata su internet e che sta diventando il leitmotiv dei microblog in salsa di soia, mentre il polverone mediatico si sposta dal web alla carta stampata, innescando una querelle che vede quotidiani dalle inclinazione più liberali opporsi agli organi di stampa governativi (leggi: Oriental Morning Post VS Global Times).

Anche la comunità internazionale è in grande apprensione per la sorte dell'attivista cinese, da alcuni dato già per morto. Al tam tam degli ultimi tempi, che ha dato vita a quello che viene chiamato sarcasticamente dai netizen " turismo di avventura nello Shandong", ha fatto seguito un'ulteriore stretta della polizia locale: diversi amici e giornalisti stranieri sono stati arrestati o hanno subito minacce per aver tentato di avvicinarsi all'abitazione del dissidente cinese, e chiunque cerchi di entrare nel villaggio di  Dongshigu fa inesorabilmente ritorno a casa con una buona dose di lividi.

Intanto la voce del dissenso arriva al grande pubblico proprio grazie alla mediazione dell'Occidente: Women's Right Without Frontiers, in collaborazione con il CNN e China Aid, ha realizzato un video nel quale è lo stesso Chen Guangcheng ha rilasciare una breve, sebbene pungente, dichiarazione d'intenti: “La cosa che possiamo fare è dominare il terrore e denunciare la loro sfacciataggine che è disumana e priva di coscienza. Dobbiamo esporre ogni loro misfatto nascosto. Per la realizzazione di questo video sono perfettamente pronto, so che possono torturarmi come fecero con Gao Zhisheng (altro dissidente cinese) ma non ho paura”.

Ora, gettato il sasso, non resta che attendere la risposta di Pechino; e dovrà essere una risposta ben ponderata se si vuole evitare che Chen Guangcheng diventi un secondo Liu Xiaobo.

leggi anche:Yao Lifa, i paladini dei diritti umani e il grande bluff di pechino e intervista a Reggie Littlejohn

mercoledì 26 ottobre 2011

Essere donna in Cina, tra violenze ed emancipazione

Se nell'antica società confuciana la donna era sottomessa alla figura maschile attraverso l'osservanza dei "tre principi d'obbedienza" (sottomissione al padre prima del matrimonio, quindi al marito e, in caso di vedovanza, al fratello), i numeri parlano chiaro: oggigiorno la discriminazione femminile continua ad annidarsi tra le mura di casa. Secondo i risultati di un'indagine condotta da All-China Women's Federation pubblicati sul South China Morning Post, in Cina, circa un quarto delle donne sposate ha subito una qualche forma di abuso durante il matrimonio, e per più del 5% le violenze familiari sono ancora una realtà di tutti i giorni. Il 24,7% è stato sottoposto ad umiliazioni verbali, abusi sessuali e restrizioni della propria libertà, perdendo il controllo delle proprie finanze; il 5,5% è vittima di maltrattamenti fisici, con un tasso del 7,9% nelle zone rurale e del 3,1% nelle aree urbane.

Eppure, nonostante l'alta percentuale di abusi domestici metta a nudo una società tradizionalmente patriarcale e misogina, i dati statistici dimostrano che, rispetto a dieci anni fa, il numero delle donne in grado di fare resistenza ai soprusi familiari è in netta crescita; oggi denunciano la loro situazione alle autorità e si rivolgono alle associazioni femminili, sdoganando un tabù che per decenni le aveva costrette al silenzio. "Fino a qualche anno fa gli abusi domestici erano considerati 'affari di famiglia' e, in quanto tali, non potevano uscire dalla porta di casa. Ora invece le vittime sono sempre più propense a cercare aiuto nei tribunali e negli organi di giustizia. C'è una maggiore consapevolezza e anche la legge sembra finalmente aver preso una posizione più drastica al fine di combattere questo fenomeno" ha dichiarato Zhen Yan, vice-presidente della All-China Women's Federation.

D'altra parte le violenze domestiche spesso sono ancora ritenute un 'problema di coppia', risolvibile semplicemente attraverso il dialogo tra i coniugi, piuttosto che con il coinvolgimento della Corte. L'avvocato per la difesa dei diritti delle donne, Lu Xiaoquan, ha sottolineato l'importanza di "sensibilizzare l'opinione pubblica e far rispettare le norme vigenti" perché, purtroppo, tutt'oggi la responsabilità, in alcuni casi, va ancora attribuita alla scarsa solerzia delle forze dell'ordine. Ne è esempio lampante la storia di Shanshan Dong, 26enne che, dopo essere stata picchiata e umiliata in pubblico dal marito, sebbene avesse invocato l'aiuto della polizia ben otto volte, è stata abbandonata a sé stessa. Nell'ottobre del 2009 la giovane donna è morta per gravi lesioni agli organi vitali, sotto le percosse del coniuge. Il colpevole se la cavò con sei anni di reclusione per abusi, scampando alla ben più pesante accusa di omicidio colposo. Questa è la giustizia in Cina. "La morte di Shanshan evidenzia le mancanze di un sistema giudiziario che non tiene sufficientemente in considerazione il problema delle violenze domestiche" ha aggiunto Lu.

Le autorità competenti stanno ancora lavorando alla stesura di un progetto di legge autonomo che copra nello specifico questo tipo di crimini, al momento trattati ancora in maniera superficiale dalla legge sul matrimonio. Secondo gli addetti ai lavoro, una normativa contro le violenze familiari sarebbe già comparsa nell'agenda di agosto del Comitato permanente dell'Assemblea nazionale del popolo.

"Eppur qualcosa si muove". Sempre lo stesso sondaggio ha evidenziato che l'85% delle donne si dice soddisfatta della propria situazione familiare e del proprio status sociale: ha un maggior livello di istruzione, conduce uno stile di vita più sano ed esercita un controllo maggiore sulle finanze familiari di quanto non facesse in passato. Tutto questo però ha un prezzo: il riscatto femminile in Cina (ma direi non solo) deve fare i conti con la discriminazione in campo lavorativo. Soltanto il 2,2% delle donne - contro il 4% degli uomini - riveste cariche di primo piano all'interno di aziende, enti statali o uffici governativi, mentre circa l'80% degli incarichi per "talenti di alto livello" sono ancora ricoperti da uomini. Le percentuali non fanno giustizia se si pensa che, secondo le statistiche, le donne si trattengono sul posto di lavoro 37 minuti in più rispetto ai loro omologhi maschili, e hanno all'incirca un'ora in meno per il tempo libero durante i giorni di riposo.

Ma nonostante nelle grandi città l’emancipazione economica femminile sia un fenomeno in costante crescita - secondo le classifiche del Forbes e del Sunday Times dell'ottobre 2010, nella classifica delle donne più ricche del pianeta il primato spetterebbe infatti alla Cina - nelle zone rurali i principali beni della famiglia quali abitazioni, automobili e depositi bancari sono ancora tutti intestati a nome del marito mentre alle donne viene affidato il solo compito di crescere i figli e coltivare i campi.

Insomma sono passati secoli, ma, a quanto pare, l'eredità confuciana continua a dettare legge più di quanto non lo faccia la Corte.


domenica 23 ottobre 2011

Pechino: "addio Gheddafi, buongiorno nuova Libia!"


Gheddafi è morto. La notizia accolta con giubilio dal popolo libico e con sollievo dall'Occidente – il passaggio a miglior vita del Rais sancisce finalmente la fine della missione in Libia dell'Alleanza Atlantica - sembrerebbe aver lasciato Pechino in una tiepida indifferenza. “La Cina rispetta le scelte del popolo libico e l'importante ruolo svolto del Consiglio nazionale di transizione. Ci auguriamo che il Paese possa mettere a punto un processo di transizione politica il prima possibile, al fine di preservare la stabilità e l'unità sociale”. Lo ha dichiarato venerdì Jiang Yu, portavoce del ministero degli Affari Esteri cinese.

Il Dragone non si sbilancia mai; rilascia parole attentamente ponderate, si destreggia nell'intricata rete di relazioni internazionali intessute negli ultimi anni, mantenendo i piatti della bilancia ben in equilibrio. A febbraio Pechino si era astenuto dalla votazione sull'intervento in Libia in sede di Consiglio di Sicurezza ONU, senza nascondere nemmeno un certo disappunto per le operazioni aeree della NATO. Un comportamento certo non dettato dal caso né da un capriccio del momento, quanto piuttosto dalla necessità di difendere il proprio “posto al sole” nell'Africa del nord (....)

Per problemi di copyright e per altre ragioni a me poco chiare continuare a leggere su: Puntodidomanda

giovedì 20 ottobre 2011

I monaci del Dalai Lama: per i fedeli martiri, per Pechino "terroristi"


"Terrorismo mascherato", così il governo cinese ha definito le autoimmolazioni dei monaci tibetani che si sono succedute negli scorsi mesi. E automaticamente, secondo un copione già scritto, la responsabilità è ricaduta sul Dalai Lama, il leader spirituale che con le sue preghiere in favore dei martiri buddhisti continuerebbe- secondo Pechino- ad incitare il popolo tibetano al suicidio come segno di rivolta.

Dal 16 marzo sino ad oggi, sono ben nove i bonzi tibetani che si sono dati alle fiamme in segno di protesta, ma in realtà il totale di coloro che hanno scelto la morte per un Tibet libero è senza dubbio un numero ben più consistente. Proprio ieri Tenzin Wangmo, prima martire donna, ha marciato per otto minuti avviluppata tra le lingue di fuoco, recitando slogan anticinesi e invocando il nome del Dalai Lama. E la risposta di Pechino non si è fatta attendere: nella giornata di ieri il portavoce del ministero degli Affari Esteri, Jiang Yu, ha apertamente puntato il dito contro la "cricca del Dalai Lama" per la moltiplicazione di insurrezioni che nelle ultime settimane hanno investito il sud-ovest del Paese. "Invece che denunciare e criticare le autoimmolazioni, gli indipendentisti tibetani e il loro capo religioso hanno tratto vantaggio da questi episodi per incitare altre persone a seguire lo stesso esempio. Sono in tutto è per tutto atti violenti di natura terroristica", ha affermato Jiang.

Da qualche mese a questa parte il monastero di Kirti, nella provincia del Sichuan, continua ad essere teatro di numerose rivolte; diverse foto mostrano i monaci manifestare contro le autorità e opporsi alle forze dell'ordine. Una situazione disperata che il primo ministro del governo tibetano in esilio non ha dubbi sia da attribuire alla linea dura utilizzata per decenni dal governo comunista cinese: "La propaganda di Pechino maschera bene ciò che nei fatti non è altro che una campagna di distruzione nei confronti del nostro popolo e della nostra cultura, spinta da ambizioni coloniali". Un genocidio al quale il popolo tibetano ha cercato di reagire attraverso dimostrazioni pacifiche, senza tuttavia sortire alcun effetto.

Il 10 settembre scorso l'ufficio di pubblica sicurezza della prefettura di Ngaba ha condannato tre monaci a scontare 3 anni di lavori forzati nei famigerati lager cinesi. La tradizione vuole che ogni anno all'inizio di settembre la comunità religiosa di Kirti celebri 15 giorni di festività, ma fino ad oggi solo pochi membri hanno fatto ritorno al monastero, mentre Pechino ha sguinzagliato nella zona un vasto numero di agenti per procedere con la "campagna di rieducazione patriottica". Ma le autorità cinesi non si fermano davanti a nulla, e non hanno esitato nemmeno a sfoderare l'arma della corruzione: 20mila yuan e un prestito di 50mila è il compenso per coloro che si allontaneranno volontariamente dal monastero per "cominciare una nuova vita".

La questione tibetana rappresenta una ferita ancora aperta per la leadership del Regno di Mezzo dagli accadimenti del 1959, data della grande rivolta anticinese nonché dell'inizio dell'esilio indiano di Tenzin Gyatso. In seguito gli attriti tra Pechino e il popolo del Tibet sono degenerati in un'escalation di eventi culminata nei sanguinosi scontri dell'aprile 2008.

(A.C)

mercoledì 19 ottobre 2011

Il Celeste Impero in 10 minuti

Una storia millenaria, una delle società più complesse al mondo e un sistema economico vincente: questo e molto altro in un video che, in soli 10 minuti, fornisce in maniera sintetica uno spaccato della Cina di ieri e di oggi. Simpatica la trasposizione fumettistica di Mao...di questi tempi, con tutto quello che si sente, un po' di umorismo non fa mai male!

martedì 18 ottobre 2011

La tragedia di Foshan scuote il popolo del web

E' possibile essere investiti da due camion e trascorrere agonizzante sull'asfalto sette lunghissimi minuti senza che nessuno dei passanti presti alcun soccorso? A quanto pare, a Foshan, nota città dell'industrialissima provincia del Guangdong, questo non solo è possibile, ma da giovedì scorso è anche realtà. La vittima, una bambina di due anni, dopo essere stata travolta da un furgone nei vicoli di un locale mercato all'ingrosso, viene totalmente ignorata dai presenti. Ben 18 persone le camminano a fianco senza alzare una mano, chi tirando dritto, chi guardando altrove o evitando il piccolo corpo in fin di vita. Un secondo veicolo le passa sopra, ma ancora nulla: quel fagotto insanguinato pare essere invisibile agli occhi dei passanti. Soltanto una donna, accortasi dell'accaduto, va in aiuto di Yue Yue - questo il nome della bimba - la solleva e la depone sul ciglio della strada. Chiede inutilmente aiuto ad un negoziante nelle vicinanze, poi, gridando, richiama l'attenzione della madre, la quale, impegnata nelle faccende in casa, non si era accorta dell'improvvisa assenza della figlia. Ora la bambina è in stato vegetativo.

L'agghiacciante storia, filmata per intero da una telecamere di sorveglianza, è stata subito denunciata dalla stampa internazionale, e rapidamente il tam tam dalla carta stampata si è riversato sulla rete. Ora il caso Foshan ha suscitato lo sdegno generale, divenendo, con 4,5 milioni di tags, l'argomento più discusso su Sina Weibo, il "Twitter cinese" ormai piattaforma privilegiata dal popolo del Regno di Mezzo per far sentire la propria voce. "Please Stop Apathy" è il nome della campagna  lanciata sul microblog con lo scopo di porre fine al dilagare di una serie di episodi che hanno come comune denominatore la crescente insensibilità della società contemporanea cinese.

Tutto cominciò nel 2007, quando un'anziana donna di Nanchino, urtata mentre cercava di salire su un autobus, cadde a terra rompendosi il fianco sinistro. Peng Yu, uno dei passeggeri che era sceso dal mezzo, accortosi dell'accaduto soccorse la donna per accertarsi sulle sue condizioni; poi la scortò in ospedale e le diede 200 yuan. Un gesto che è costato molto caro all'uomo, in seguito denunciato dalla parte lesa e condannato dalla Corte a pagare le spese mediche, poiché - secondo la "logica del tribunale" - il suo intervenuto poteva essere stato motivato soltanto dal senso di colpa.

A quanto pare la storia di Peng in Cina se la ricordano un po' tutti, perché, dal giorno dell'incidente di Nanchino, i casi di omissione di soccorso sono ormai il "companatico" dei media nazionali. Il popolo di internet non sembra avere dubbi: se da una parte la società si sta evolvendo sospinta da un'economia in continua crescita, dall'altra l'umanità transita pericolosamente verso uno stato di apatia; i portafogli sono sempre più gonfi mentre i cuori si inaridiscono. "Tutta l'esistenza di una persona ruota intorno al denaro; la gente pensa solo a come arricchirsi, senza prestare attenzione alle esigenze dell'altro. Siamo giunti ad un punto di disumanizzazione" commenta su Weibo un netizen che si firma come Lijieya. Poi ovviamente le critiche vanno a colpire il sistema giudiziario cinese, incapace di tutelare chi agisce spinto da buone intenzioni. Ma gli strali  più avvelenati sono tutti riservati per il Partito, accusato di "servirsi dei successi economici per nascondere la malignità delle proprie azioni".

L'umanità che fu rimane soltanto nel ricordo della solidarietà dimostrata da tutta la nazione verso i terremotati del Sichuan nel 2008. "Chi ha i soldi fugge all'estero. Questo posto non è più vivibile: la mancanza di moralità lo ha reso un inferno" scrive Xudream, un altro degli "cyber-indignati". D'altra parte il caso Foshan non ha fatto altro che gettare ulteriore benzina su un fuoco che arde ormai da mesi, alimentato dai numerosi problemi che attanagliano il Paese di Mezzo, vertiginoso aumento del costo della vita in primis (link). Un ultimo appello dalla rete evidenzia la profonda disperazione che serpeggia tra i cittadini: "Dimenticate il PIL e il boom economico, sono soltanto stronzate. Mi vergogno di essere cinese; mondate le nostre anime corrotte! "

(A.C)

domenica 16 ottobre 2011

Qualcosa succede in Cina...

Dal Guandong, al Xingjiang, dal Jiangsu alla Mongolia Interna e poi ancora in Tibet, sino alle metropoli di Pechino e Shanghai; ormai in ogni parte della Cina proteste e movimenti di rivolta si spandono a macchia di leopardo, catalizzate dal malcontento per i bassi salari, per l'inflazione galoppante, per le condizioni di lavoro insostenibili, alimentate dall'indignazione verso la corruzione dilagante, dai sentimenti indipendentistici e dal progressivi allargamento della forbice tra ricchi e poveri. Questi e molti altri fattori hanno trasformato il Paese di Mezzo in una gigantesca polveriera che, secondo molti, non tarderà ad esplodere. E sebbene si possa parzialmente riconoscere l'effettiva influenza esercitata dall'ondata rivoluzionaria che negli ultimi mesi ha coinvolto i paesi arabi, la precarietà degli equilibri sociali in Cina era già evidente da tempo (gli episodi che hanno ripetutamente insanguinato lo Xingjiang e il Tibet sono solo un esempio), così che la rivolta dei gelsomini " Made in China" del febbraio scorso potrebbe essere definita la goccia che ha fatto traboccare un vaso ormai stracolmo.

Nel 2010 le insurrezioni di massa sono state almeno 180.000 e, negli ultimi mesi, la regione industriale del Zhejiang è diventata teatro di nuovi disordini in seguito all'emissione di rifiuti tossici da parte di una fabbrica di pannelli solari della zona. Le autorità hanno risolto la questione arrestando 30 manifestanti e inviandone altri 100 in alcuni, non meglio identificati, centri di "rieducazione legale".

"Dunque, il popolo cinese finalmente si è svegliato?!" La domanda è insidiosa perché, a ben vedere, quella degli scioperi e delle ribellioni continua ad essere una sparuta minoranza, mentre la massa sembrerebbe ancora preferire attenersi alle logiche del compromesso, accettando uno status quo che prende giustificazione dagli incredibili successi ottenuti in campo economico nell'ultimo ventennio. Insomma, "squadra vincente non si cambia" e le tattiche di gioco messe in campo dal Partito - in altre parole il tanto dibattuto "modello Cina" - sino ad oggi hanno ottenuto notevoli vittorie: 200 milioni di contadini sono stati sollevati dalla povertà e la transizione da un'economia pianificata dal governo centrale ad un'economia di mercato è stata finalmente raggiunta.

Ora il punto è: fino a quando la società cinese, inebriata dal crescente benessere - che d'altra parte è un benessere di pochi - potrà continuare a tollerare la dittatura politica e il monolitismo delle strutture governative? Secondo l'opinione di Suisheng Zhao, professore ed executive director presso il Center for China-U.S Cooperation dell'Università di Denver nonché editor del "Journal of Contemporary China", una volta che la crescita economica avrà assicurato la sussistenza, i cittadini cominceranno a rivendicare una maggiore tutela dei loro diritti; l'unica panacea per eliminare le tensioni sociali risiederebbe nella democrazia e nello Stato di diritto, concetti che, attualmente, entro i confini della Grande Muraglia sono ancora tabù.

Eppure, volendo evitare i soliti luoghi comuni e semplificazioni eccessive, dire cosa pensano i cinesi della loro Cina non è poi cosa così semplice. A questo proposito vorrei suggerire la lettura di un articolo pubblicato su Cineresie il 19 maggio, nel quale viene fatto riferimento ad alcune teorie molto interessanti, avanzate rispettivamente da Martin King Whyte in Myth of Social Volcano e da Teresa Wright in Accepting authoritarianism. Penso sia un buono spunto di riflessione, per analizzare la questione da angolazioni differenti; un punto di partenza, ma non certo d'arrivo, per fare chiarezza su una delle società più complesse al mondo.

venerdì 14 ottobre 2011

Ai Weiwei, la tigre assopita torna a graffiare


Dopo mesi di silenzio Ai Wei Wei torna a far parlare di sé. Lo avevamo lasciato a luglio con l'ipotesi di un possibile "esilio" in Germania - a seguito dell'offerta di una docenza presso l'Università delle Arti di Berlino - ora Ai è ancora agli arresti domiciliari, ma dalla sua casa-prigione si fa beffe delle autorità cinesi e, grazie alla collaborazione con la rivista W e l'utilizzo di Skype, è riuscito a dare vita ad un nuova creazione fotografica che presto diventerà una mostra.

Su uno scenario newyorkese, una storia per immagini prende vita dagli scatti che il fotografo Max Vadukl ha realizzato nella megalopoli americana e che, grazie all'ausilio di internet, sono giunti sino all'abitazione dell'archistar. Le scene ricordano le foto che Ai scattò per testimoniare i disordini di Tompkins Square negli anni '80, quando ancora viveva  a Brooklyn. Le immagini, rispedite dall'artista cinese negli Stati Uniti via web, costituiranno il materiale di una mostra che - come riporta il New York Times - verrà allestita questo novembre nella Grande Mela.

E da New York a Berlino: proprio questa sera è stata inaugurata un'altra esposizione fotografica dell'artista dissidente, ospitata dal Martin-Gropius-Bau, il palazzo-museo per le esposizioni-itineranti nei pressi di Potsdamer Platz. La mostra consiste di 220 istantanee scattate dall'artista-dissidente in persona durante il suo soggiorno americano, quando era ancora sconosciuto nell'East Village, e che sono una sorta di diario fotografico di quei 10 anni trascorsi lontano dalla Cina post-Mao. Ora i negativi di quegli scatti sono tornati alla luce grazie all'aiuto di Rong Rong, altro artista ribelle che si è preso la briga di andare alla ricerca di quella vecchia scatola, fortunatamente custodita tra la cerchia di amici della Grande Mela.

Insomma, seppur dalla sua Factory artistica, a quanto pare, Ai Weiwei potrà continuare ad "esibirsi" .

Ma non è tutto. Proprio ieri la rivista britannica Art Review ha eletto Ai personalità artistica più influente al mondo. Grazie al suo impegno politico, a lui va il merito di aver riproposto l'arte come mezzo di protesta, liberandola dalle mura di gallerie e musei; un'arte che si impone prepotentemente nel mondo reale, raggiungendo un pubblico sempre più vasto.

Una questione quella del legame tra espressione artistica e attivismo politico sulla quale è tornato a parlare l'archistar stesso, lasciando graffianti dichiarazioni. Il sito del South China Morning Post gli ha dedica ampio spazio, proponendo in homepage un articolo dal titolo  "Ai vows his to continue his crusade" ("Ai promette di portare avanti la sua crociata"). "La mia arte è incentrata sulla comunicazione e sulla coscienza. Il mio scopo è quello di tutelare la libertà d'espressione ed ogni diritto essenziale, pertanto, per me, attivismo e arte sono inseparabili", ha dichiarato il dissidente cinese, che dopo 81 giorni di detenzione con l'accusa di "crimini economici", non sembra aver perso il gusto per la provocazione. Poi prosegue: "in realtà non ho ambizioni politiche, il problema è che i diritti che sto difendendo, a quanto pare, hanno assunto un valore molto politico".

Ai, padre dello Stadio Nazionale di Pechino noto come "Nido d'Uccello", è diventato bersaglio del governo cinese a causa delle sua critica serrata contro il Partito, culminata nel 2008 nell'indagine indipendente sul crollo delle scuole durante il terremoto del Sichuan. Ora a distanza di anni, l'artista 56enne rappresenta ancora un nervo sensibile per le autorità governative, sopratutto in ragione del grande appoggio dimostratogli dalla comunità internazionale.
"Sono consapevole della pericolosità del mio attivismo, ma come potrei rinunciarvi?"- ha affermato l'archistar - "Questo è il valore della vita, il valore di un'artista...non è questione di scelte. Oggi è in atto un processo di cambiamento, e non soltanto in Cina, ma anche in nel resto dell'Asia, in Africa, nel mondo arabo...e gli artisti devono avere un ruolo centrale in questo mutamento".

Sebbene ancora sotto sorveglianza e nonostante il divieto di rilasciare dichiarazioni alla stampa riguardo alla sua detenzione, l'attivista cinese è tornato in possesso del suo account di Twitter, il potente mezzo mediatico che gli permette di dare voce ai propri pensieri, purché smussati nelle loro parti più pungenti. Così, mentre tra le mura di Zhongnanhai regna lo sdegno per la nomina attribuita da Art Review, la tigre ferita, dopo mesi di torpore, torna a sfoderare gli artigli.

(A.C.)

giovedì 13 ottobre 2011

Myanmar: tra nuove libertà e delusioni


Una rondine non fa primavera, nemmeno se la rondine in questione si chiama Zarganar ed è uno dei prigionieri politici più importanti del Myanmar. Il noto comico birmano, finito agli arresti nel 2008 dopo aver aspramente criticato la gestione del governo birmano al tempo del ciclone Nargis (che spazzò via 140.000 vite), da mercoledì è di nuovo libero, graziato dall'amnistia concessa dal nuovo presidente Thein Sein al potere dallo scorso novembre. Oltre a Zarganar, sono 6.300 i detenuti che hanno beneficiato della clemenza del leader del governo "civile", il quale, alla ricerca di una nuova immagine agli occhi della comunità internazionale, centellina pillole di democrazia.

Una settimana dopo aver assunto la guida del governo, il generale aveva provveduto a scarcerare Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la Pace e leader dell'opposizione democratica, che ha trascorso agli arresti domiciliari 18 degli ultimi 21 anni; una mossa ben posta che, tuttavia, non ha ammaliato le democrazie occidentali ancora sospettose verso il regime di Thein, definito sulla carta "civile", ma nei fatti ancora caratterizzato dal pugno di ferro.

Secondo le stime di Amnesty International ammontano a circa 2.000 i detenuti politici ancora dietro le sbarre; tra questi, probabilmente, Min Ko Naig e Ko Ko Gyi, che nel 1988 avevano guidato una fallimentare rivolta studentesca e U Gambira, uno dei monaci più importanti coinvolti nelle proteste di piazza del 2007. "Se si sperava che il governo avrebbe dato la libertà ad un buon numero di prigionieri, sicuramente la realtà dei fatti è piuttosto deludente", ha dichiarato David Mathieson di Human Rights Watch. Parole di rimpianto ed amarezza anche quelle di Zarganar il quale, subito dopo aver lasciato la prigione di Myitkyina, aveva detto al settimanale locale Weekly Eleven: "Il mio cuore è pesante, sapendo che molte altre persone sono ancora sotto detenzione. Sulla base delle mie esperienze personali, non so dire se finalmente sia in atto un qualche cambiamento, ma di certo le recenti scarcerazione sono state al di sotto delle aspettative". L'Associazione d'assistenza per i prigionieri politici (AAPP), gruppo birmano con sede in Thailandia, ha fatto sapere che i detenuti effettivamente rilasciati sono solo 207, un numero irrisorio rispetto ai 2.000 ancora dietro le sbarre.

D'altra parte, seppur a piccoli passi, il governo civile del Myanmar sta cercando di venire incontro alle richieste del popolo, o almeno così vuole dare a vedere. Proprio alla fine di settembre è stata resa nota la sospensione dei lavori per la diga di Miytsone, un progetto avviato nel 2005 dal presidente birmano e dal suo omologo cinese Hu Jintao sulla base del quale si sarebbero dovuti allargare 766 chilometri quadrati di terre fertili, con conseguente spostamento coatto di migliaia di cittadini residenti. L'opera, che rientrava in un piano generale per la realizzazione di sette dighe "generosamente" finanziate da Pechino, aveva suscitato comprensibili polemiche tra la popolazione, ragione per la quale lo stop ai lavori ha ricevuto il plauso tanto di Aung San Suu Kyi che della comunità internazionale.

Ora, però, il passo falso di mercoledì sembra aver cambiato le carte in tavola. "L'esiguo numero di scarcerazioni  in qualche modo dimostra un rilassamento nel processo di riforma politica" - aveva affermato ieri Benjamin Zawacki, researcher di Amnesty International per la Birmania - "non c'è dubbio che nei mesi scorsi si sia riscontrata una certa apertura, ma ciò che è accaduto oggi rappresenta un brusco arresto."

(A.C.)

mercoledì 12 ottobre 2011

Uomo e natura: istantanee dall'Asia 2

Rajasthan, India

tempio Tanzhesi, Pechino
Pechino
Ngapali beach, Myanmar

tempio Tanzhesi, Pechino
Mandalay, Myanmar
tempio Tanzhesi, Pechino
Guilin, Cina
Guilin (Elephant mountin), Cina
Guilin (Seven stars park), Cina
Bali, Indonesia

lunedì 10 ottobre 2011

Pechino: "stop alle armi nucleari", nel mirino Pyongyang e Teheran

La Cina vuole dire stop all'utilizzo delle armi nucleari. La posizione del Dragone è stata ufficializzata dall'ambasciatore cinese per il disarmo, Wang Qun, durante il primo consiglio della 66° Assemblea generale delle Nazioni Unite, tenutosi venerdì scorso a New York. Wang - come riportato dall'agenzia di stampa cinese Xinhua - ha invitato la comunità internazionale a realizzare un piano a lungo termine articolato in fasi ben definite al fine di assicurare il disarmo nucleare totale, requisito essenziale per la stabilità strategica e la sicurezza globale. Punti particolarmente cruciali per Pechino sono la questione nucleare della penisola coreana e dell'Iran, in ragione delle quali l'amabasciatore cinese ha avanzato la richiesta di riattivare anticipatamente i Colloqui a sei giunti ad una situazione di stallo per ragioni politiche. La Conferenza sul Disarmo dell'ONU si prefigura come forum privilegiato per concludere la negozziazione di un Tratto di Non-Proliferazione Nucleare, attraverso la partecipazione di tutte le parti interessate.

La cooperazione tra Cina, Russia, Stati Uniti, Corea del Nord, Corea del Sud e Giappone vide il suo inizio nel 2003, quando gli Stati membri diedero il via ad una serie di colloqui volti ad arrestare la corsa all'atomica di Pyongyang, in cambio di sussidi economici e investimenti. Poi la ripresa di esperimenti missilistici e nucleari da parte del governo di Kim Jong-Il hanno interrotto le trattative. Ma sebbene la Corea diserti i colloqui dall'aprile 2009, i toni dell'ultima trasferta newyorkese del viceministro degli Esteri nordcoreano - durante la quale Pyongyang ha dato la sua piena disponibilità a migliorare i rapporti bilaterali e a riprendere la cooperazione a sei - fanno ben sperare nell'inizio di una graduale fase di disgelo. Ma gli addetti ai lavori mettono in guardia da facili ottimismi: troppi gli interessi in sospeso e le dinamiche intessute intorno al quadrilatero Cina-USA-Iran-Corea del Nord.

Alcuni documenti rilasciati da Wikileaks, e pubblicati dal New York Times il 24 febbraio dello scorso anno, avevano messo a nudo il timore dell'itelligence americana riguardo all' avveuta acquisizione da parte dell'Iran di testate missilistiche in grado di colpire l'Europa; si sarebbe trattato di 19 missili modello BM-25, dati “in dono” dalla Corea del Nord e in grado di trasportare testate nucleari fino a 3mila chilometri di distanza, minacciando così diverse città europee. D'altra parte in passato Pyongyang aveva già contribuito al potenziamento dell'apparato militare di Teheran attraverso il network del pakistano A.Q Khan, “benefattore” anche di Libia e Siria.

Ed ecco entrare in scena il quarto elemento, Pechino, al quale - secondo alcuni documenti risalenti al 2007 comparsi sul Guardian - gli Stati Uniti avrebbero più volte chiesto di intervenire nella questione iraniana in veste di conciliatore, senza, tuttavia, ottenere una risposta concreta. Nel dettaglio, Washington lamentava spedizioni di missili dalla Corea del Nord, che via Pechino venivano imbarcati sull'Iran Air, per giungere infine in territorio iraniano. Altre fonti del 2008 confermano le inefficaci pressioni esercitate dal governo americano sulla Cina per arrestare lo scambio di tecnologie militari tra Pyongyang e Teheran.

Poi una serie di scambi telegrafici tra Zhongnanhai e la Casa Bianca, avvenuti tra il marzo e il dicembre 2009, testimoniano ancora una volta l'importanza attribuita alla Cina come mediatrice nei rapporti con la repubblica islamica: Wang Jiarui, direttore del dipartimento Affari Internazionali del Partito Comunista Cinese, assicurato che il programma nucleare di Teheran non perseguiva fini militari, sottolineò come il blocco totale dell'arricchimento dell'uranio costituisse per l'Iran un presupposto inaccettabile, mettendo così a repentaglio l'avvio dei negoziati. D'altra parte la cautela adottata dal Dragone nella questione iraniana è tutt'altro che immotivata; Theran infatti rappresenta il terzo fornitore di greggio del Regno di Mezzo dopo Arabia Saudita ed Angola, con una media di 540mila barili al giorno soltanto nei primi sei mesi dell'anno, più del 10% dei 5,1 barili giornalieri importati dalla Cina.

Ugualmente, anche sul versante nordcoreano, Pechino ha rivestito un ruolo centrale nel conciliare le posizioni dei Paesi coinvolti nei six-party talks, in particolare quando nel 2006, in seguito alla realizzazione del primo esperimento atomico di Pyongyang, l'ONU decise di rafforzare le sanzioni economiche e militari ai danni dell'interlocutore coreano. Al tempo fu proprio la diplomazia cinese a salvare i rapporti tra i sei Stati, guadagnandosi il plauso dell'allora presidente americano George W. Bush. Il 30 settembre 2007 la Corea del Nord si impegnò a neutralizzare l'intero arsenale nucleare entro la fine dell'anno, mentre Washington da parte sua ricambiò, cancellando Pyongyang dalla lista degli “Stati canaglia”. Tuttavia, a causa del mancato rispetto delle scadenze previste da parte dello “Stato Eremita” (prima dicembre 2007 e in seconda battuta febbraio 2008), lo smantellamento dell'arsenale nucleare si trova ancora in una fase di stallo. Il Dragone, che in pratica è l'unico alleato di Kim Jong-Il - secondo alcuni cable di Wikileaks - avrebbe consigliato agli USA di impegnarsi formalmente a non rovesciare il regime nordcoreano in modo da ammansire il “caro leader”, rendendolo così meglio disposto a sedere al tavolo delle trattative.

E se negli anni '90 l'attività nucleare della Corea del Nord preoccupava il Regno di Mezzo esclusivamente dal un punto vista della sicurezza nazionale, adesso la questione ha assunto più sfaccettature, andando ad abbracciare anche la sfera geopolitica ed economica. Pericolo numero uno per Pechino, il crollo del regime di Pyongyang, il quale comporterebbe l'afflusso alle frontiere di milioni di profughi nordocreani, con conseguente rischio dell'intervento statunitense, in nome dell'alleanza tra Washington e Seul.

Per quanto riguarda invece il versante economico, basti pensare che un centinaio di industrie minerarie, siderurgiche e portuali cinesi hanno già investito in Corea e che, dal 2005 a questa parte, i due "vicini naturali" sono impeganti in esplorazioni congiunte per verificare la presenza di pozzi petroliferi nel Mar Giallo. Appare piuttosto evidente che in questo contesto la deneuclarizzazione della Corea del Nord diventa un requisito indispensabile per assicurare la pace e la stabilità della regione, obiettivo che la Cina, in qualità di peace maker dell'area, sta cercando di raggiungere mettendo in atto tutta la sua abilità diplomatica.

Ed è così che i Colloqui a sei si trasformano da piattaforma multilaterale di dialogo a vera e propria organizzazione regionale, trampolino di lancio per gli interessi economici dell'ex-Impero Celeste. In quest'ottica, dunque, la fretta manifestata dal Dragone durante il forum di venerdì scorso sembrerebbe essere più che giustificata.

A.C

venerdì 7 ottobre 2011

Dietro i cancelli dei "laogai", ovvero la storia di Harry Wu


"Laogai" (traducibile in vari modi tra cui "campi di rieducazione" o "campi di lavoro forzato"), un termine dal sapore un po' "vintage" che sembra trascinarci lontano nello spazio e nel tempo in una Cina anni '50-'60, ma che in definitiva è ancora attualità e ed è molto più vicino a noi di quanto si possa pensare. Secondo uno studio condotto dalla Laogai Research Fondation (LRF) Italia, propaggine della sede di Washington fondata dal dissidente Harry Wu, buona parte dei prodotti destinati all'export provengono proprio dai lager cinesi, dove i reclusi - spesso attivisti e personaggi scomodi al Pcc- sono sottoposti ai lavori forzati, subiscono punizioni corporali e pestaggi da parte della polizia. Dietro ai "laogai" infatti si nasconde un'attività imprenditoriale estremamente fruttuosa che di fatto rende le prigioni aziende commerciali che operano sul mercato attraverso accordi di partnership, esattamente come le società di capitali. Sarebbero 354 le imprese commerciali legate ai campi di rieducazione cinesi, come riportato sugli archivi di Dun & Bradstreet, la banca dati business più grande del mondo; un commercio basato sul lavoro forzato - e quindi illegale -di vastissime proporzioni, che va contro le leggi internazionali e cinesi. Quasi il 21% dei "laogai" produce nel settore agroalimentare, ed esporta oltre la Grande Muraglia, riversando i suoi prodotti sul mercato internazionale e in buona parte su quello europeo. Il 19 novembre del 2010 in Italia è stata avanzata una proposta di legge che cerca di integrare la normativa vigente la quale “sanziona pesantemente coloro che mantengono altre persone in una posizione di soggezione lavorativa – articolo 600 del codice penale – ma non prevede il divieto del commercio di beni prodotti dai lavoratori clandestini e la relativa confisca, come invece accade ad esempio negli Stati Uniti”. La bozza di legge ha quindi lo scopo di impedire l'importazione, la produzione e il commercio in territorio italiano di merci ottenute attraverso il lavoro forzato, cercando di limitare un fenomeno che nel nostro Paese sembra aver già messo radici: la Zhongji Tomato Corporation, catena di produzione di pomodoro che acquista prodotti da diversi "laogai" - secondo la LRF - intrattiene rapporti con un grande gruppo societario campano. (Vedi:AgiChina24)

Ma in cosa consistono esattamente i lager cinesi e qual'è la loro storia? A tal riguardo nessuna voce è più autorevole di quella di Harry Wu, il cui nome ha ormai fatto il giro del mondo grazie alle sue importanti testimonianze. Quello che segue è un articolo scritto dal dissidente e pubblicato sul sito di Indipendent Chinese Pen Center nell'ottobre del 2009.

永远记住劳改

“劳改”是“劳动改造”的简称,其实质意义是对囚犯进行“强迫劳动和改造思想”,所有囚犯都被高强度地、没有安全保障、没有充分食物供应的劳动。这是每个囚犯“改造成社会主义新人”的必须途径。中国共产党指出,每个囚犯必须认罪、服法。劳改单位有权认为某人“不认罪、不服法”“抗拒改造”,即可由劳改单位延长其刑期,毋需法院或任何其它部门介入。

中国共产党要求劳改单位“改造第一、生产第二”,每个劳改单位必须提供二种产品。第一种是“社会主义新人”,第二种是劳动生产商品。因而劳改队有两类人士被关押的期限远长于其他人士,即天主教人士及西藏的喇嘛,因为他们“不认罪”不放弃他们的信仰。

劳改单位一方面大规模地参加中国的“社会主义建设”,如建筑铁路、矿山、公路,修筑水坝、治河修渠、开垦荒地、开挖煤矿、铅洞、石棉等矿产,以及大规模地烧制砖瓦、开采石料,同时又发展了轻工业、纺织业、橡胶工业。生产的产品,除了茶叶、粮食、水果、棉花及畜牧业等传统产品外,还有相当规模的工业产品,不仅供应国内市场而且出口远销世界各国。中共称劳改企业是特殊企业,是一项赢利事业。它是中国国民经济中的不可分割的部份。按照中共的规定每个劳改单位都有二种性质,二个不同的名称,一是镇压统治的工具,劳改单位由公安司法单位管辖,称为监狱或劳改支队;另一个是企业名称,它是一个生产单位,称为XX 农场, XX工厂,XX砖瓦厂,XX工程处。例如云南省第一监狱,又挂牌称为云南省金马柴油机厂。

中共对其劳改单位的双重性质一直非常赞赏的。一方面镇压了犯罪份子,另一方面又生产了许多产品。劳改单位如同其他企业一样需要减低成本,提高质量,推广销路。如果产品达到出口标准,当然毫无疑问立即由政府组织出口。例如六十年代我所在的团河农场大量出口葡萄、草莓、鲜梨至日本。云南省金马柴油机厂生产的农用柴油机在八、九十年代每年出口到美国。

自九十年代起,美国海关根据美国国内法律查禁了中国劳改产品,发表了有几十产品的查禁清单,并有若干宗美国公司被起诉到法院按法处罚。中国政府警觉到这是国际关系中的大问题,也发表了不准劳改产品出口的规定,但迄今为止,大批劳改产品不是直接地由其他贸易公司转销出口。

虽然,近年来中共在劳改生产方面做了一些改进,在时间、强度、安全、食品等方面与过去相比有进步,但是六十年来不知有多少囚犯牺牲了生命。例如,1955-1956年,由国务院总理周恩来直接下令调集江苏、浙江及上海三地劳改犯二百万人参加淮河治理工程,第二年有一半囚犯死亡。再如,1960年甘肃省夹边沟农场集中了三千多名反革命右派分子,第二年仅有四百人存活。

劳改单位有多少?中共从来没有公布过,有多少人被劳改?中共也从来没有公布过。现在,据我们调查了解至少有一千多所劳改单位,约三至五百万的囚犯,近六十年来被关押的囚犯约有五千万人。

西方世界对于劳改的认识正在一步步走过来。1990年美国参议院听取我的证词,我陈述了自己十九年的劳改日程,经历了十二个不同的劳改单位。至于问到全国有多少劳改队?有多少人在内?我不知道,我无法回答。

我终于决定放弃个人的安定生活,调查劳改队的各方面情况。1991年开始,我回中国到各省去查访,谁知1992年我无法再去了,因为中共安全部的一份“四十九人名单”上有我的名字,其中四十八人都是与天安门事件相关的人,唯独我与天安门事件无关而被禁列。1992年中共政府发表了劳改政策的白皮书,大肆吹嘘劳改是如何公正、如何人道。

1994年我入籍美国,有了美国公民身份,获得美国护照。我决定冒着危险再次去中国,这次历时三十八天,从新疆经四川、湖北到浙江、上海再转山东、辽宁等多个省市,不仅调查了劳改队,而且访问调查了中共臭名远扬的死囚器官移植问题。

1995年6月,在新疆入境口岸上中共再次逮捕了我。我早已预料到他们会这样做。他们定我的罪名是“盗窃国家机密”判刑15年。我非常坦率地承认这个“罪行”,就如同有人如要查访苏联的古拉格,纳粹德国的集中营一定会被苏共和纳粹判刑一样。但是今天的世界毕竟很不同,中共的行为引起了轩然大波,成为众矢之的。中共宣布“先执行附加刑:驱逐出境”。我就这样在中国扣押了66天就回美国了。

1993年美国华盛顿邮报记者问我“你的最终目的是什么?”我回答“劳改(Laogai)应该成为一个世界通用的词语,进入各种语言词典,劳改应该结束,不再存在。”

2003年英国牛津词典首先把Laogai写入词典,随后德语、法语、日语、意大利语都纷纷把Laogai列入词典。我十分欣慰,觉得自己也应该退休了,可是有人对我说“Laogai列入世界各种语言的词典,只表明事情的开始,人们要问劳改的真实情况,你怎么能退休呢?”

当今世界形势同当年西方民主国家反对苏联为首的社会主义阵营的冷战时代不太一样。中国共产党经历了文化大革命这样一种黑暗时代,今天亦改变了一些毛泽东的阶级斗争的做法,放弃了支持世界革命的宗旨,不再赞美共产主义的前景,而且积极与西方资本主义国家合作,在国际上许多方面非常迎合西方国家,在国内各方面有明显的退却和放弃。但是,中国直到今天,它还是一个主义,一个政党,一个领袖。政治上沿袭毛泽东的政治格局,没有根本性的改变,经济上虽然放宽了国内外资本主义的成长,但仍然坚持着“社会主义市场经济”。

何况,中共统治中国的历史事实还没有暴露,劳改还在迷雾之中,宗教信仰没有自由,甚至三十年来人们不能自由生育。大家不会忘记去年中共屠杀藏人的暴行,今年又镇压维吾尔族人。这都是在今天世界开放、民主澎湃的浪潮下发生的。

若今天中国已转变成为一个自由和民主的国家,但是,在中国发生的以一个政党之见,以它的“阶级和阶级斗争”为纲的主导下建立起来的劳改的真实面目还要彻底地揭露,树立永久的纪念,永不忘怀,不致于再度发生。

Per non dimenticare

I “laogai” (campi di lavoro) da 60anni a questa parte sono uno strumento utilizzato dal governo dittatoriale del Partito comunista cinese al quale la leadeship non rinuncerà né deciderà mai di cambiere completamente per perseguire qualsivoglia processo di “riforma” o “apertura”.
All'inizio degli anni '50 tra gli esperti che il Partito comunista sovietico e Stalin avevano inviato in Cina vi erano anche degli specialisti dei “gulag” i quali non soltanto lavoravano a Pechino nel settore giudiziario e della pubblica sicurezza, ma davano anche il loro aiuto dirigendo direttamente la costruzione delle unità di lavoro dei laogai. Per esempio l'ufficio di pubblica sicurezza di Pechino che sorgeva nel campo Qinghe, nei pressi di Tianjin Chadian, e dove io stesso sono stato imprigionato per 4 anni, fu costruito proprio da un esperto dei gulag sovietici. Il carcere di Qingcheng, una delle prigioni cinesi più famose al mondo è stata costruita grazie ai fondi e ai disegni di progettazione dell'Unione Sovietica. Fin dall'inizio vi furono detenuti i membri del Guomindang (Partito nazionalista cinese), in seguito si aggiunsero vari prigionieri politici, compresi gli alti quadri del Partito che avevano avuto un ruolo importante durante la Rivoluzione Culturale; le mogli di Mao e Liu Shaoqi, Jiang Qing e Wang Guangmei, nonché i leader studenteschi e i “teppisti” che presero parte ai fatti di piazza Tiananmen del 1989.

Prima del 1990 i campi di lavoro all'interno della Grande Muraglia godevano di grande considerazione, non soltanto per l'alto numero di personaggi pubblici - considerati “elementi controrivoluzionari animati da “principi di lotta di classe” - che vi erano rinchiusi allo scopo di venire “riformati attraverso il lavoro”, ma anche perchè al loro interno non vi era nessuna legge, e men che meno nessun avvocato: tutto veniva deciso e regolamentato dal Partito. Così il termine “laogai” ha rimpiazzato altre parole di uso più comune come “zuolao” e “dun jianyu” - entrambi traducibili come “essere imprigionato”.
“Laogai” è l'abbreviazione di “laodong gaizao”, “riformare attraverso il lavoro”, ma il suo significato reale è “lavoro forzato e trasformazione del pensiero”: tutti i prigionieri sono sottoposti ad un lavoro massacrante, senza salvaguardia della propria sicurezza e senza razioni di cibo sufficienti. Questa è una strada obbligata per poter trasformare i detenuti in “nuovi socialisti”. Il Pcc ha sottolineato che ogni prigioniero deve “dichiararsi colpevole, sottomettendosi alla legge”; le unità di lavoro dei “laogai” hanno il potere di ritenere che una persona abbia fatto resistenza alla sua “trasformazione” non ammettendo le proprie colpe o rifiutando di sottomettersi alla legge, con il risultato che potrà prolungare il periodo di detenzione del prigioniero, senza che ci sia il bisogno dell'intervento della Corte di giustizia o di altri dipartimenti. Secondo quanto richiesto dal Partito il detenuto, oltre a sottoporsi ad una trasformazione che lo renderà un “nuovo socialista”, deve anche contribuire al processo di produzione, mettendo a disposizione la sua manodopera, secondo il principio “gaizao di yi, shengchan di er” (“prima la trasformazione, poi la produzione”). Pertanto nelle squadre di lavoro vi sono due tipi di detenuti il cui termine di detenzione viene prolungato rispetto a quello di altri: questi sono i cattolici e i lama tibetani, i quali, per non rinnegare la loro fede, non si “dichiarano colpevoli e non si sottomettono alla legge”.

Le unità di lavoro da una parte partecipavano in larga scala alle grandi “opere socialiste”, costruendo ferrovie, miniere, strade, dighe, riparando canali, prendendo parte ad opere di bonifica e lavorando nelle miniere nell'estrazione del carbone, del piombo ecc.. allo stesso tempo contribuivano allo sviluppo dell'industria leggera, della gomma e del settore tessile. Oltre ai prodotti tradizionali quali tè, cereali, frutta, cotone e bestiame, si occupavano anche in buona parte alla produzione su scala industriale di beni destinati non solo a circolare nel mercato interno, ma anche ad essere esportati in tutto il mondo. Quella che il Pcc chiama “l'industria dei laogai” è un business molto particolare, estremamente redditizio, ed è parte integrante ed inseparabile dell'economia nazionale cinese.
Secondo le direttive del Pcc, ogni unità lavorativa possiede due nature differenti, due nomi distinti: il primo è il nome che viene assegnato alla prigione, sotto la giurisdizione delle autorità giudiziarie; l'altra è la denominazione che viene attribuita in quanto unità produttiva secondo la dicitura “azienda agricola XXX”, “fabbrica XXX” ecc... Per esempio la prigione No.1 della regione dello Yunnan è anche una nota fabbrica di motori, la Jinma Diesel Engine Works.

Il Partito ha sempre rivolto grandi apprezzamentii verso il duplice sistema in cui sono incanalate le unità di lavoro dei “laogai”; da una parte perchè elimina gli elementi criminali, dall'altra perchè dà un notevole contributo alla produzione. Alle unità di lavoro dei “laogai”, come d'altra parte accade in tutte le imprese, viene richiesto un taglio dei costi, una sempre migliore qualità dei prodotti e diffusione sul mercato. Se il prodotto poi soddisfa gli standard richiesti, le autorità governative provvedono immediatamente a permetterne l'esportazione. Quando negli anni '60 mi trovavo nell'azienda agricola Tuanhe, grandi quantità di uva, fragole e pere prendevano la via verso il Giappone. La fabbrica di motori diesel Jima ha continuato ad esportare verso gli Stati Uniti per tutti gli anni '80 e '90, poi la dogana statunitense, sulla base di alcune normative interne, ha cominciato a proibire i prodotti provenienti dai “laogai” cinesi e ha pubblicato una lista dettagliata che riportava una decina di prodotti vietati. Così molte società americana sono state processate e punite dalla Corte. Il governo cinese resosi conto che la questione stava mettendo a rischio le relazioni internazionali, emanò una serie di norme approssimative sull'esportazione dei prodotti provenienti dai lager, le quali d'altra parte non hanno risolto la situazione.

Sebbene negli ultimi anni il Pcc sia riuscito a migliorare la condizione dei “laogai”, sopratutto per quanto riguarda le ore e l'intensità del lavoro, la sicurezza fornita e le razioni di cibo assicurato, tuttavia non si è ancora in grado di quantificare il numero dei detenuti che, schiavi di questo sistema, negli ultimi 60 anni hanno sacrificato la loro vita. Nel 1955-56 il presidente del Consiglio di Stato Zhou Enlai ordinò di riunire i prigionieri-lavoratori di Jiangsu, Zhejiang e Shanghai, per un totale di 2milioni di persone, al fine di farli partecipare al progetto per il controllo delle acque del fiume Huai; la metà morì il secondo anno di lavoro. Altro caso è quello della provincia del Gansu, dove nel 1960 più di 3000 elementi controrivoluzionari di destra furono mandati nell'azienda Jiabiangou; dopo un anno ne erano sopravvissuti solo 400.

Ma quanti sono in tutto i “laogai”? Il Partito non ha mai rilasciato i dati ufficiali come non ha mai reso noto quanti sono stati i prigionieri “riformati”. Oggi, grazie alle ricerche condotte, sappiamo che ci sono più di 1.000 campi di rieducazione nei quali sono detenute tra i 3 e i 5 milioni di persone.
I Paesi occidentali stanno progressivamente prenedendo consapevolezza di questo fenomeno. Nel 1960 il senato americano ha ascoltato la mia testimonianza nella quale ho potuto fornire un resoconto dei diciannove anni trascorsi nei lager cinesi, durante i quali ho sperimentato dodici unità di lavoro differenti. Ma quando mi è stato chiesto di dichiarare in tutta la Cina quanti fossero i campi e a quanto ammontassero i prigionieri, non ho potuto rispondere perchè non ne avevo idea.
Alla fine ho deciso di abbondonare la mia vita tranquilla per investigare sui “laogai”, analizzandone ogni aspetto. Cominciai nel 1991, quando tornai in Cina con l'intento di recarmi in ogni provincia del Paese per condurre le mie ricerche. Chi sapeva che l'anno seguente sarei dovuto andare via di nuovo?! Il mio nome comparve su di una lista stilata dal ministero della Pubblica Sicurezza del Pcc: tra le 49 persone citate, 48 avevano a che fare con i fatti di piazza Tiananmen. Io ero l'unica eccezione. Nel 1992 il governo pubblicò il Libro Bianco sulla politica dei “laogai”, in cui millantava la totale imparzialità e umanità del sistema.

Due anni dopo fui naturalizzato americano; avendo così cittadinanza e passaporto americano decisi di rischiare e tornai di nuovo in Cina. Questa volta il mio viaggio durò 38 giorni. Dallo Xingjiang mi recai nel Sichuan, poi nello Hubei, passai per il Zhejiang, per Shanghai, mi trasferii nello Shandong, nel Liaoning ecc..non soltanto portai avanti le mie investigazioni sui “laogai”, ma condussi delle interviste e feci domande sul noto problema del trapianto d'organi dei condannati a morte. Nel giugno 1995 fui arrestato mentre ero nello Xingjiang; avevo già preventivato che ci sarebbero riusciti. Fui condannato a 15 anni con l'accusa di “aver rubato segreti di stato”. Candidamente ammisi di aver commesso il crimine, e subito fui condannato come accadde a chi aveva tentato di fare luce sui gulag sovietici e sui campi di concentramento nazisti. Ma d'altra parte il mondo d'oggi è molto diverso: la decisione presa dal Pcc sollevò un polverone che si trasformò ben presto in aperte critiche. Il Partito annunciò che avrebbe eseguito la pena accessoria; così fui detenuto in Cina per 66 giorni, poi tornai negli USA.

Nel 1993 un giornalista del Washington Post mi domandò “qual'è il tuo obiettivo finale?”, io risposi: “Voglio che 'laogai' diventi un'espressione di uso comune in tutto il mondo, deve comparire in ogni dizionario, mentre spero che i campi di lavoro smettano di esistere.”
Nel 2003 la parola “laogai”comparve per la prima volta nel dizionario inglese della Oxford, in seguito fu introdotta anche nei vocabolari di tedesco, francese, giapponese e italiano. Fui veramente contento e pensai di dovermi finalmente ritirare, ma poi alcune persone mi dissero: “il fatto che il termine "laogai" sia stato accolto in ogni lingua è solo un primo passo, ora ci sarà tanta gente che vorrà sapere la vera storia dei campi di lavoro cinesi. Come puoi ritirarti?”
Oggi la situazione mondiale è diversa da quella che regnava ai tempi della Guerra Fredda, quando i Paesi democratici occidentali osteggiavano la socialista Unione Sovietica. Il Partito comunista cinese ha sperimentato il periodo buio della Rivoluzione Culturale, e anche gli ideali della lotta di classe sostenuti da Mao Zedong non sono più quelli di un tempo, hanno perso il valore che gli derivava dallo scopo ultimo del perseguimento di una rivoluzione mondiale. La prospettiva comunista non gode più dell'antico consenso, piuttosto si comincia a collaborare attivamente con i Paesi occidentali capitalisti. Nelle dinamiche delle relazioni internazionali poi, molti aspetti che sono accolti positivamente in Occidente, all'interno dei nostri confini sono chiaramente rifiutati e abbandonati. Ma fino ad oggi la Cina ha ancora un suo “ismo”, un partito politico e dei leader. In politica si continua a sostenere la struttura ideata da Mao, senza particolari cambiamenti, mentre in economia, sebbene si siano allentate le restrizioni imposte contro la maturazione del capitalismo, tuttavia si continua ad appoggiare un'economia di mercato di stampo socialista.

Il Partito è riluttante a far luce su buona parte dei fatti storici del nostro Paese cosicchè sui “laogai” incombe ancora una nebbia confusa. In Cina non vi è libertà di religione, e negli ultimi 30anni le persone non hanno avuto la libertà di dare alla luce i loro figli. Nessuno può dimenticare l'atrocità del massacro attuato l'anno scorso dal Pcc in Tibet, né la recente repressione dell'etnia uigura; avvenimenti questi che non sono altro che il prodotto delle spinte riformiste e democratiche della società di oggi.
Se adesso la Cina divenisse un Paese libero e democratico la vera identità dei “laogai”, emanazione stessa dell'ideologia del Partito e della “lotta di classe”, potrebbe finalmente essere resa manifesta, e come un simulacro, mantenendo vivo il ricordo, impedirebbe il ripetersi degli stessi tragici eventi.

Hukou e controllo sociale

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