domenica 16 ottobre 2011

Qualcosa succede in Cina...

Dal Guandong, al Xingjiang, dal Jiangsu alla Mongolia Interna e poi ancora in Tibet, sino alle metropoli di Pechino e Shanghai; ormai in ogni parte della Cina proteste e movimenti di rivolta si spandono a macchia di leopardo, catalizzate dal malcontento per i bassi salari, per l'inflazione galoppante, per le condizioni di lavoro insostenibili, alimentate dall'indignazione verso la corruzione dilagante, dai sentimenti indipendentistici e dal progressivi allargamento della forbice tra ricchi e poveri. Questi e molti altri fattori hanno trasformato il Paese di Mezzo in una gigantesca polveriera che, secondo molti, non tarderà ad esplodere. E sebbene si possa parzialmente riconoscere l'effettiva influenza esercitata dall'ondata rivoluzionaria che negli ultimi mesi ha coinvolto i paesi arabi, la precarietà degli equilibri sociali in Cina era già evidente da tempo (gli episodi che hanno ripetutamente insanguinato lo Xingjiang e il Tibet sono solo un esempio), così che la rivolta dei gelsomini " Made in China" del febbraio scorso potrebbe essere definita la goccia che ha fatto traboccare un vaso ormai stracolmo.

Nel 2010 le insurrezioni di massa sono state almeno 180.000 e, negli ultimi mesi, la regione industriale del Zhejiang è diventata teatro di nuovi disordini in seguito all'emissione di rifiuti tossici da parte di una fabbrica di pannelli solari della zona. Le autorità hanno risolto la questione arrestando 30 manifestanti e inviandone altri 100 in alcuni, non meglio identificati, centri di "rieducazione legale".

"Dunque, il popolo cinese finalmente si è svegliato?!" La domanda è insidiosa perché, a ben vedere, quella degli scioperi e delle ribellioni continua ad essere una sparuta minoranza, mentre la massa sembrerebbe ancora preferire attenersi alle logiche del compromesso, accettando uno status quo che prende giustificazione dagli incredibili successi ottenuti in campo economico nell'ultimo ventennio. Insomma, "squadra vincente non si cambia" e le tattiche di gioco messe in campo dal Partito - in altre parole il tanto dibattuto "modello Cina" - sino ad oggi hanno ottenuto notevoli vittorie: 200 milioni di contadini sono stati sollevati dalla povertà e la transizione da un'economia pianificata dal governo centrale ad un'economia di mercato è stata finalmente raggiunta.

Ora il punto è: fino a quando la società cinese, inebriata dal crescente benessere - che d'altra parte è un benessere di pochi - potrà continuare a tollerare la dittatura politica e il monolitismo delle strutture governative? Secondo l'opinione di Suisheng Zhao, professore ed executive director presso il Center for China-U.S Cooperation dell'Università di Denver nonché editor del "Journal of Contemporary China", una volta che la crescita economica avrà assicurato la sussistenza, i cittadini cominceranno a rivendicare una maggiore tutela dei loro diritti; l'unica panacea per eliminare le tensioni sociali risiederebbe nella democrazia e nello Stato di diritto, concetti che, attualmente, entro i confini della Grande Muraglia sono ancora tabù.

Eppure, volendo evitare i soliti luoghi comuni e semplificazioni eccessive, dire cosa pensano i cinesi della loro Cina non è poi cosa così semplice. A questo proposito vorrei suggerire la lettura di un articolo pubblicato su Cineresie il 19 maggio, nel quale viene fatto riferimento ad alcune teorie molto interessanti, avanzate rispettivamente da Martin King Whyte in Myth of Social Volcano e da Teresa Wright in Accepting authoritarianism. Penso sia un buono spunto di riflessione, per analizzare la questione da angolazioni differenti; un punto di partenza, ma non certo d'arrivo, per fare chiarezza su una delle società più complesse al mondo.

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