giovedì 28 giugno 2012

Nuove proteste nella "fabbrica del mondo"



Focolai di rivolta continuano a divampare nel Delta del Fiume delle Perle, culla della "fabbrica del mondo". La provincia meridionale del Guangdong è l'epicentro del nuovo terremoto sociale che da lunedi' sta scuotendo il villaggio di Zuotan, distretto di Foshan, e Zhongashan, sobborgo di Shaxi.
Due episodi distinti che riportano alla luce una serie di problematiche di portata nazionale e mai risolte: la questione della corruzione dei funzionari locali, spesso collegata all'espropriazione forzata delle terre rivendute dalle autorità senza il consenso dei proprietari, e quella dei lavoratori migranti (mingong in cinese), che si riversano nelle grandi città in cerca di un lavoro meglio retribuito.

La sera di lunedi' una trentina di migranti provenienti dalla provincia del Sichuan si sono radunati di fronte alla centrale di polizia di Shaxi per protestare contro l'arresto di un quindicenne venuto alle mani con uno studente locale. L'intervento poco ortodosso delle forze dell'ordine in tenuta antisommossa -secondo i genitori il ragazzo originario di Chongqing sarebbe stato picchiato dalla polizia- ha scatenato l'ira dei migranti, esplicatasi nel rovesciamento e nella distruzione di almeno due veicoli della pubblica sicurezza. Le forze dell'ordine avrebbero tenuto in custodia il ragazzo legandolo e arrecandogli delle ferite al volto. A dare man forte ad amici e familiari del giovane, in tarda serata, circa 300 manifestanti hanno cominciato a lanciare sassi e mattoni contro la polizia.

Le autorita' hanno gettato acqua sul fuoco minimizzando l'accaduto. Mercoledì notte la situazione sembrava essere gia' tornata sotto controllo, secondo quanto riportato da un comunicato ufficiale. "La protesta e' stata essenzialmente dispersa," ha reso noto un portavoce di Shaxi alla Reuters, "non sono rimaste che poche macchine della polizia e alcuni spettatori nei paraggi".
Nel frattempo foto degli scontri sono cominciate a circolare sui principali social media. Tra gli scatti piu' cliccati quello ritraente una donna ferita, a testimoniare come la pubblica sicurezza non si sia astenuta dall'aprire il fuoco, mentre il bilancio delle vittime e degli arresti rimane ancora un'incognita. Sarebbero almeno trenta i morti, secondo Voice of America.

Il malcontento della comunita' migrante insidiatasi nei dintorni di Shaxi si è andata ad aggiungere a quella dei residenti di Zhongshan, tanto che nella giornata di martedi' un migliaio di manifestanti ha messo a ferro e  fuoco il municipio della citta' e la stazione di polizia, costringendo le forze dell'ordine a isolare completamente la zona.

Diverse le motivazioni all'origine dei tafferugli tra popolazione e funzionari di sicurezza pubblica avvenuti nella cittadina di Zuotan. Martedi' mattina la sede del Partito locale e' stata circondato da un gruppo di contadini infuriati contro il segretario locale, colpevole di aver venduto le terre da loro coltivate a importanti gruppi immobiliari, ricavandone lauti guadagni. Anche qui gli scontri con le forze dell'ordine sono sfociati in atti vandalici ai danni delle vetture della polizia. Centinaia le persone malmenate tra le quali un veterano della guerra di Corea.

Sebbene le proteste di Zuotan riportino immediatamente alla mente la rivolta di Wukan dello scorso autunno -anch'essa divampata a causa del land grab e della corruzione dei funzionari locali- tuttavia la provincia del Guangdong vanta un passato burrascoso costellato di casi altrettanto scomodi. Nel giungo 2011 migliaia di mingong (sempre provenienti dal Sichuan) si scontrarono con la polizia a Zengcheng, incendiando automobili e devastando gli edifici governativi. In quell'occasione ad alimentare la rabbia dei lavoratori migranti fu il trattamento violento riservato ad una venditrice ambulante incinta.

Conscio della situazione il segretario provinciale Wang Yang -noto per le sue inclinazioni liberali e in corsa per un seggio al Comitato Permanete del Politburo- ha sottolineato la necessità pressante di raffreddare i bollori dei cittadini scaturiti da un senso di disagio sociale. La panacea volta a guarire i mali del popolo ha il nome evocativo di "Happy Guangdong" e consiste in un modello di sviluppo più equo ed equilibrato.

Secondo le stime stilate dal governo cinese gli "incidenti di massa" -come vengono chiamati in gergo riot e disordini sociali- sono passati dagli 8.700 del 1993 ai circa 90.000 del 2010. Ma sono in molti a credere che il bilancio sia stato snellito artificiosamente dalle autorità, le quali, negli ultimi anni, si sono astenute dal rilasciare i nuovi numeri.

E così le recenti proteste "made in Guangdong" non sono altro che gli ultimi campanelli dall'allarme delle tensioni che covano sotto le ceneri della società cinese. Per quanto riguarda il problema corruzione Pechino si è già messo in moto, intensificando il giro di vite sui quadri locali; oltre mille gli indagati nella sola provincia fucina del manifatturiero cinese, come riportava alcuni giorni fa il South China Morning Post.

Non meno spinosa la questione immigrazione interna. I mingong in arrivo dalle campagne hanno fornito la manodopera a basso costo dalla quale ha tratto nutrimento l'iperbolica crescita economica del gigante asiatico. Al momento più della metà dei 14milioni di residenti della città di Canton sono lavoratori migranti. Attratti da salari più alti e condizioni di vita migliori per i propri figli, i lavoratori si spostano nelle grandi città per poi scontrarsi con una realtà ben diversa, fatta di difficoltà logistiche (derivanti in primis dal rigido sistema di registrazione chiamato hukou) e frustrazioni per il trattamento discriminatorio ricevuto dalla popolazione locale.

E come testimoniano i numeri, la città di Shanghai è una delle mete predilette dai mingong, schizzati dai 9milioni del 2000 ai 23 milioni del 2010, tanto che al momento circa il 60% dei residenti tra i 25 e i 30 anni di età appartiene alla categoria dei lavoratori migranti.

"I disordini causati dai mingong costituiscono un problema enorme che potrebbe condurre ad agitazioni in tutto il Paese," ha commentato Manyan Ng, direttore di International Society for Human Rights (ISHR), "la leadership cinese è seduta su un vulcano."
Ciò che ha permesso a Pechino di incassare il colpo senza eccessivi danni -secondo Ng- è la "natura isolata" delle rivolte, sino ad oggi, mai collegate tra di loro. E se i vari focolai dovessero dare vita ad un unico enorme incendio?

In un'intervista al New York Times il noto avvocato-dissidente Chen Guangcheng -protagonista di un clamoroso caso diplomatico Cina-Usa e al momento nella Grande Mela per effettuare un corso di studi alla New York University- si è pronunciato sulla crescente insofferenza dimostrata dalla popolazione cinese nei confronti delle autorità. "(I funzionari) Sono molto spaventati dalle agitazioni delle campagne. Sanno come la vita nelle zone rurali sia terribile. Sono terrorizzati dai movimenti organizzati dalla popolazione. La situazione nelle campagne al momento è delicata e questo è il motivo che ha portato a tante detenzioni e all'assunzione di altre misure del genere. Nemmeno cercano una giustificazione, lo fanno e basta. E' perché sono spaventati."

E qualcuno ai piani alti se ne deve essere accorto. Proprio questa mattina il China Daily, quotidiano edito dal Partito comunista cinese, titolava "Official eye training to handle mass incidents".
Gli ultimi disordini del Guangdong hanno indotto le autorità a prendere in considerazione l'organizzazione di corsi di formazione per i funzionari locali, in modo da insegnare loro come far fronte correttamente ai "disordini di massa." Il quotidiano in lingua inglese riporta di come nella giornata di lunedì alcuni quadri siano stati rapiti dai rivoltosi di Zuotan, chiusi in un minibus e lasciati senza cibo né acqua, per essere liberati da alcuni colleghi ben nove ore dopo.

Il malcontento dei migranti della prospera provincia al confine con Hong Kong e Macao non desta stupore, ha ammesso Zhu Lijia, professore della Chinese Academy of Governance. La scarsa tutela dei loro diritti rispetto a quella dei residenti permanenti è una delle motivazioni scatenanti, "ma quando avvengono incidenti di massa i dipartimenti governativi dovrebbero cercare di illustrare le leggi e i regolamenti ai mingong, rendendo più trasparente il loro operato al fine di evitare l'acuirsi  di attriti tra lavoratori migranti e popolazione locale."

martedì 26 giugno 2012

Se il Dragone non compra più carbone



Continua la polemica sull'energia del Dragone. Dopo l'inchiesta del New York Times secondo la quale la Cina avrebbe "ritoccato" i numeri del suo dispendio energetico -sino ad oggi tra i pochi valori limpidi rilasciati da Pechino- per mascherare lo stato di salute dell' economia nazionale in vista del ricambio al vertice del prossimo autunno, ieri a puntare il microscopio sulle miniere del Regno di Mezzo è stato il quotidiano economico Financial Times. E i risultati non sono meno allarmanti: le giacenze di carbone del gigante asiatico hanno raggiunto livelli record, complice il netto calo della domanda sulla scia dell'impasse economica degli ultimi mesi.

Questo crea problemi anche oltre oceano. L'onda lunga della crisi dell'Eurozona e il rallentamento della locomotiva Cina hanno provocato forti ripercussioni sui prezzi delle materie prime a livello globale, tanto che la scorsa settimana nel porto australiano di Newcastel il costo del carbone termico ha registrato un trend a ribasso per il secondo anno consecutivo. Solo alcuni giorni fa un'utility company statunitense è stata costretta a risolvere un contratto di carbone utilizzando la clausola di forza maggiore a causa di un allentamento delle richieste. E le prospettive future non sembrano più rosee. Secondo diversi analisti, il Dragone -al momento il maggior consumatore e importatore mondiale di thermal coal- potrebbe smettere di fare shopping all'estero, scegliendo di attingere unicamente alle proprie risorse, ricche ma distanti.

Mentre, infatti, la culla della crescita economica cinese -e pertanto della fame energetica- si concentra lungo le coste orientali e nel sud del Paese, le miniere di carbone si spostano sempre più ad Ovest. Colpa dello sfruttamento forsennato delle regioni centrali ormai a corto di materie prime. Le complicazioni logistiche per il trasporto del carbone per migliaia di kilometri, sino ad oggi, hanno rappresentato uno scoglio impervio per il commercio nazionale. Ma, non lo saranno ancora a lungo; lo dicono gli esperti e lo conferma la corsa agli investimenti intrapresa da Pechino nel settore delle infrastrutture su rotaia.

Per i mercati globali le cose si potrebbero mettere molto male. Venerdì scorso Bernstein Reserch ha espresso la propria opinione sulla questione in una nota. Letteralmente: "Noi crediamo che la Cina abbia un sacco di carbone". "La posta in gioco non potrebbe essere più alta" -scrivono gli analisti- "gli Stati Uniti si sono affiancati ad Australia, Colombia, Indonesia, Mozambico, Mongolia e Sud Africa nella lista degli esportatori di carbone convinti che il consumo cinese e la crescita del suo import si risolvano in un one-way trade. Se questa conclusione è errata, allora dove va a finire tutto quel carbone?"

E sebbene la società di ricerca americana si sia astenuta dal fare previsioni troppo dettagliate circa gli acquisti futuri del Dragone oltre Muraglia, la nota non lascia spazio ai dubbi: la produzione di carbone dell'ex Impero Celeste sta diventando sempre più low-cost.

(Pubblicato su Dazebao)

venerdì 22 giugno 2012

(Un)welcome to Pyongyang. Reportage dalla Corea del Nord Vol. 2

(Un)welcome to Pyongyang. Reportage dalla Corea del Nord Vol.1





Una donna di mezza età se ne stava in attesa del treno presso la stazione di Sinuiju. Viso cotto dal sole, vestiti logori e un'espressione vuota. Forse una contadina. Un particolare, però, strideva vistosamente: come fosse un bastone da passeggio, nella mano destra teneva con estrema naturalezza un fucile alto quanto lei.

E' quanto può accadere di vedere in quello che viene considerato il Paese più militarizzato al mondo. Con oltre un milione di uomini in servizio e più di 4milioni di riserva, la Corea del Nord detiene il primato per rapporto tra personale militare e popolazione: secondo stime del dipartimento di stato statunitense, su mille cittadini 40 servono nell'esercito e circa il 20% degli uomini in età compresa tra i 17 e i 54 anni milita nelle forze armate regolari. Numerose anche le donne in divisa nonostante, spesso, pecchino in marzialità cedendo alla leziosità del tacco.

Sebbene dalla fine della guerra di Corea (1953) i combattimenti tra Pyongyang e Seul siano cessati, formalmente i due Paesi sono ancora in guerra. Un piccolo passo avanti è stato fatto nel 2000 con la "Dichiarazione congiunta Nord-Sud," in base alla quale i due governi si sono impegnati nel raggiungimento della riunificazione, reiterando in più occasioni il principio di non-aggressione reciproca. Poi, il 24 maggio 2010, un controverso "incidente" ha fatto schizzare la colonnina di mercurio delle relazioni bilaterali: una corvetta appartenente alla flotta del sud è stata affondata in acque contese, da tempo teatro di mutue provocazioni. E a poco o a niente sono serviti i tentativi messi in atto dal Nord per smarcarsi dalle accuse.

A distanza di circa un ventennio gli strascichi della Guerra Fredda continuano a lasciare il segno, con gli Stati Uniti al fianco di Seul (37 mila i soldati americani a sud del 38°parallelo nel 2006, oggi scesi a 28 mila) e l'Unione Sovietica rimpiazzata dalla Cina come spalla amica di Pyongyang. Un'alleanza ambigua, quella con il Dragone -fattasi ancora più turbolenta in seguito agli ultimi colpi di testa del governo nordcoreano (leggi: voci su un terzo test nucleare e lancio del missile sopra citato)- della quale non è stata fatta parola durante tutto l'arco del viaggio. Nemmeno in occasione dell'estenuante visita al Museo della liberazione della Madrepatria, che tra pareti tappezzate di ritagli di giornale e foto d'epoca, propone una sala interamente dedicata alle armi catturate degli aggressori imperialisti americani, oltre alla proiezione di un sonnolento documentario sulla guerra di Corea. Un documentario così "dettagliato" da aver tralasciato il fondamentale contributo cinese esplicatosi -sin dal 18 ottobre 1950- nell'invio di oltre 180mila soldati del XIII Gruppo d'Armata e 120mila "volontari" grazie ai quali le truppe dell'ONU furono ricacciate a sud del 38° parallelo. E tra i molti "non detti" compare anche la questione del nucleare, abilmente aggirata in più occasioni o lasciata morire tra imbarazzanti silenzi.

Alcune settimane fa un comunicato rilasciato dal sito governativo Naenara era stato accolto con gelo palpabile da gran parte della diplomazia estera. "Kim Jong-Il, Presidente della Commissione di Difesa Nazionale, ha trasformato la nostra patria in uno stato invincibile per ideologia politica, uno stato dotato di armi nucleari e una potenza militare indomabile" è quanto si legge nel testo della Costituzione così come rivisto lo scorso 13 aprile da Kim Jong-Un, erede del "Caro leader" e attuale Comandante Supremo dell'Esercito Popolare di Corea.
Essere il capo di stato più giovane al mondo non gli ha impedito di dar fuoco alle polveri, dichiarando per la prima volta nero su bianco che la Corea del Nord è una "potenza nucleare" (termine assente nella precedente carta costituzionale). La risposta di Seul e Washington non si è fatta attendere. I due governi alleati si apprestano ad avviare le più imponenti esercitazioni militari congiunte dalla fine della Guerra di Corea per ricordare il 62esimo dall'inizio del conflitto e, ovviamente, farsi trovare preparati in caso di un nuovo attacco nordcoreano.

La visita del museo, guidata da una gentile ma impassibile soldatessa, è stata scandita con precisione svizzera dalla parola "enemies", termine non troppo political correct utilizzato dalla signorina per riferirsi al popolo americano, di cui, tra l'altro, il nostro gruppo vantava ben quattro esemplari. E non è stato più cortese Lee, la nostra guida, quando chiamato ad esprimersi sui vicini sudcoreani si è limitato a definirli stizzito "rubbish" (spazzatura).
Pensare che nella Zona demilitarizzata (ZDC) , i soldati del Nord e del Sud se ne stanno sull'attenti lungo la linea di demarcazione militare (MDL), a pochi centimetri uno dall'altro, davanti agli obiettivi impazziti dei turisti finalmente liberi di sfoderare le loro macchine fotografiche per immortalare un pezzo raro della storia del '900.
Panmunjon, il villaggio dove venne firmato il documento che mise fine al conflitto, è oggi riconoscibile per i bassi caseggiati blu sbiadito dell’Area di sicurezza congiunta. Una fila di microfoni, posti su un tavolo al centro della sala conferenze, rimarca la linea di confine tra le due Coree.
Almeno su un punto, i due nemici di vecchia data sembrano essersi trovati d'accordo: lucrare su i quella lingua di terra che taglia in due la penisola coreana all'altezza del 38° parallelo, rendendola un'invitante meta per stranieri nostalgici e appassionati di storia. E sembrano esserci riusciti benissimo: alcune stime parlano di oltre 100mila visitatori ogni anno.


In Nord Corea la storia comincia dal XX secolo
Tre check-point separano la capitale dalla ZDC. Lungo la strada un occhio attento puo’ facilmente individuare divise mimetizzate tra la bassa vegetazione e i pendii rocciosi. “Be carefull” e’ stata forse l’espressione piu’ adoperata da Lee per dissuderci durante tutto il traggitto dal fare uso improprio delle nostre digitali.

Poco lontano dalla zona demilitarizzata, la citta’ di Kaesong, area economica speciale e polo industriale noto per ospitare alcune fabbriche sudcoreane, propone alcune tra le poche vestigia precedenti agli anni ’50 che la Corea del Nord può offrire. Un tempo capitale del regno di Koryo, oggi conserva alcune ceramiche sbeccate e armi rugginose esposte con scarsa cura nelle teche del Museo della citta’, ricavato tra le mura dell'ex Accademia confuciana.
E dopo le grigie colate di cemento di Pyongyang, la struttura lignea dell’antica scuola incorniciata da frondosi alberi secolari, riposa la vista e ossigena i polmoni. Peccato solo che a pochi metri lo squallore decadente dell’attuale agglomerato urbano attenda il turista per ritrascinarlo violentemente alla realta’.
Deserti viali polverosi, costeggiati da canali di scolo ed edifici squadrati, tornano a fare da sfondo al tour di quella che viene considerata la citta’ piu’ meridionale del Nord Corea. Doveva essere un salto indietro nel tempo, ma si è rivelato niente più che un pit-stop per mangiare un boccone in uno dei due ristoranti per stranieri che offre Kaesong.

Quanto sia rimasto della tradizione coreana -a parte il ginseng e i vestiti vistosi delle accompagnatrici locali- è difficile da stabilire. Né qualcuna delle nostre guide ha mai dimostrato grande voglia di scavalcare le ultime pagine dolenti della storia nazionale, finendo per arenarsi nel "secolo dell'umiliazione."
Cosa ne e’ stato di quella terra che per secoli ha fatto da ponte tra Sol Levante e Celeste Impero?

Persino i fondamenti ideologici sui quali si fonda il socialismo coreano risultano tratteggiati solo sommariamente, mentre viene costantemente agitato il fantasma dell'imperialismo americano; non solo una minaccia, ma anche vero collante ideologico in grado di tenere unito il popolo sotto l'egidia della dittatura dei Kim.

Nulla di simile ad un annullamento della cultura tradizionale sulla falsariga della Rivoluzione Culturale di Mao Zedong, ma l'impressione è quella di un Paese che, alimentato dall'odio verso l'esterno, rischia di perdere la propria identità rincorrendo un unico sogno: la riunificazione.
Qualora dovesse terminare veramente il conflitto con la Corea del Sud, parte del sostrato teorico sul quale si regge la società nordcoreana potrebbe franare. La dottrina del juche, nata ai tempi della guerriglia giapponese, e la politica songun pongono entrambe l'accento sulla sovranità dell'esercito, traendo giustificazione da una precisa condizione: quella di un Paese oppresso. Ed e’ dalla volonta’ di reagire alle forze imperialiste controrivoluzionarie che nasce il socialismo coreano, imperniato sulla corsa agli armamenti al fine di assicurare alle masse -vere artefici dello sviluppo della Nazione-  l’indipendenza dalle Superpotenze. Qualora venisse meno la minaccia esterna, l'esistenza stessa di un apparato militare -il cui mantenimento rappresenta uno dei capitoli più onerosi del bilancio economico nazionale- rischierebbe di sgretolarsi come un castello di sabbia.

 "Democrazia con caratteristiche coreane"
Imponente e massiccia, la Biblioteca nazionale di Pyongyang troneggia su piazza Kim Il-Sung, il fulcro della capitale. Uno dei fiori all'occhiello del quale il regime nordcoreano si fa bello agli occhi sospettosi degli occidentali. Ed è talmente importante da aver indotto il governo a piazzarci una guida in grado di articolare un discorso in inglese e rispondere diplomaticamente alle domande indiscrete dei turisti. Una tappa obbligata.

Cosa leggono i nordcoreani relegati nella loro dimensione ermeticamente chiusa a qualsiasi informazione proveniente dall'esterno? In realtà di tutto. Come ci mostra soddisfatto l'impiegato della biblioteca, postazioni informatiche al piano terra permettono a chiunque di effettuare una ricerca negli archivi. Compaiono titoli dei classici della letteratura europea oltre, ovviamente, ai testi sacri dei Kim, le cui effigi sono una costante sulle pareti di ogni edificio pubblico.
Tomi in coreano, ma anche in inglese e italiano. Quello che stai cercando non c'è? Nessun problema. E' possibile ordinare dall'estero libri in qualsiasi lingua, spiega compiaciuta la guida.

Ma il pezzo forte della vetusta biblioteca, tra un intrico di corridoi polverosi e mobili intarlati, sono senza dubbio le aule informatiche, dove studenti incurvati davanti ai loro schermi ultrapiatti alzano a malapena il capo all'ingresso dei visitatori stranieri. Solo qualche occhiata di sottecchi e di nuovo sguardo chino.
La domanda mi ronzava per la testa già da un po'. Con internet come la mettiamo? I computer ci sono, ma "la rete web è accessibile?" "Certo!" esclama stupita la guida. La risposta non mi convince e riformulo la domanda: "Nel senso che possono connettersi dai computer della biblioteca?" "Esattamente. Ma solo a livello nazionale" (letteralmente: guonei, mi disse in cinese). In altre parole non è permesso navigare con motori di ricerca stranieri. E Google?
"Google?!" L'espressione fu sufficientemente eloquente per indurmi a capire che l'ultima cortina di ferro è off-limit persino per il colosso di Mountain View, da quelle parti per i più un illustre sconosciuto.
Ci riprovo. "Ma avete i computer anche a casa? Potete navigare sul web anche da casa?" Quasi indispettita per la mia ottusità recalcitrante ribattè offesa: "Ma certo! Solo guonei però."

La risposta non richiedeva altre spiegazioni. Mi girai di nuovo verso la sala dove una cinquantina di persone se ne stavano incollate davanti ai loro schermi. Il ticchettio ritmico dei tasti nel caldo opprimente di una stanza senza finestre. Solo un leggero brusio spezzava un silenzio quasi tombale. Una scena che si ripetette pochi metri più in là, all'interno del laboratorio linguistico dove non più di sette studenti, chiusi nelle loro cuffie, ostentavano una concentrazione decisamente poco credibile.
E che fosse reale o no, sicuramente durò ben poco, rotta come fu dalla musica gracchiante di uno stereo vintage. Incredibile a dirsi, a darci il benvenuto nelle note di American Pie era proprio lei, Madonna, la regina del pop a stelle e strisce. Niente meno che una degli "enemies".

Una miriade di contraddizioni avviluppano un Paese nel quale, dal 2005, spinte di apertura e chiusura si alternano in maniera ondivaga. Una possibilità in più di sbirciare al di là della barricata imposta dal regime viene concessa a chi riesce ad iscriversi alla facoltà di lingue straniere (l'assegnazione del corso di studi spetta al governo, il quale si basa su una serie di preferenze indicate dagli studenti stessi). Operare nel turismo da la possibilità di avere contatti con gli stranieri senza poter tuttavia andare all'estero. Le nostre guide sanno inglese e cinese, lo parlano fluentemente, lo hanno imparato da insegnanti madrelingua, ma non sono mai riuscite a varcare il confine nordcoreano.

"Mio padre è un diplomatico. Nella sua vita è stato in 60 Paesi diversi; anche in Italia" racconta Lee, spiegando come lo abbia potuto seguire solo in Cina perché -dice- "non ci sono i soldi necessari".  Ma lui che ama fare bisboccia la sera e circondarsi di occidentali, non è che una delle poche fortunate mosche bianche in uno sciame di addomesticate mosche nere.

Pyongyang e le ombre della Pechino maoista

Corpi chini sotto il peso di enorme sacchi di tela, donne a piccoli passi camminano lungo i viali spogli della capitale. Si muovono in branchi gli abitanti di Pyongyang, sguardo basso e poche parole, mentre alcuni, accucciati alla fermata del tram, attendono il passaggio delle ferraglie sfornate dalla compagnia ceca Tatra durante l'era socialista; una minoranza nel via vai di biciclette che si riversano nelle strade della capitale. A Pyongyang problema di traffico non ce n'è.
"E' pulita e c'è poca gente" -commenta compiaciuto Wang, cinese 70enne di Xi'an- "mi ricorda molto la Pechino post Mao, subito prima dell'inizio delle riforme." Ma c'è anche chi vi rivede la Cina nel pieno della Rivoluzione Culturale, con la sua ridondante propaganda disseminata in ogni dove. Il sorriso plastificato dei leader defunti, cartelloni dai colori sgargianti ripropongono l'onnipresente binomio popolo-esercito. E' l'apologetica del Partito per immagini, quella stessa che si manifesta in suono nelle canzoni patriottiche trasmesse alla tv e nelle principali piazze della capitale.
Al centro della città una fabbrica sputa spirali di fumo verso il cielo, rievocando paesaggi di orwelliana memoria e tutto sembra sfumare in una nebbiolina di condensa. Tutto sembra sfumare anche quando brilla il sole.


domenica 17 giugno 2012

Tutti (i media) pazzi per Liu Yang


16 giugno 2012, Jiuquan Satellite Launch Center, Mongolia Interna, Cina. Alle 18.37 ora locale è cominciato il viaggio dello shuttle Shenzhou-9, quarta missioni con equipaggio del Dragone che dovrebbe permettere il primo attracco manuale alla piattaforma spaziale Tiangong-1, entro il 2020 sostituita da una stazione permanente. Nell'equipaggio composto da tre "taikonauti" (da "tai kong" spazio in cinese) anche Liu Yang, prima donna cinese ad andare nello spazio e, da alcuni giorni a questa parte, anche indiscussa "prima donna" sulla stampa nazionale.

Maggiore dell'aeronautica militare cinese, pilota modello e dal 2001 membro del Partito, la 33enne di Linzhou, provincia dello Henan, è una figlia unica dal polso fermo: in quattro anni di addestramento ha rifiutato le visite dei genitori perché -ha dichiarato- "le aquile giovani non possono imparare a volare sotto le ali della loro famiglia". E, allora, chi meglio di lei, imbevuta di patriottismo, per amplificare l'eco dei valori del PCC e allontanare almeno per un po' i riflettori da scandali politici e dagli ultimi intoppi della scricchiolante macchina economica cinese?

I media hanno fatto la loro parte, destinando al lancio di Shenzhou-9 una copertura pari a quella riservata alle Olimpiadi di Pechino 2008 e al primo volo in orbita con equipaggio umano avvenuto nel 2003; missione, quest'ultima, grazie alla quale il gigante asiatico è diventato la terza potenza spaziale dopo Russia e Stati Uniti.
Decine, se non centinaia, di quotidiani nazionali e locali della Cina continentale -tra i quali il China Youth Daily e lo Shanxi Daily- hanno riproposto sulle loro pagine il lancio dello shuttle, mentre il Southern Metropolis News, il Guizhou Business News e il City Evening News hanno corredato i loro articoli di sgargianti immagini immortalanti i tre astronauti.

E se a novembre scorso il viaggio di Shenzhou-8 aveva conquistato l'attenzione di circa 300 giornali del Regno di Mezzo, il lancio di ieri l'ha fatta da protagonista su più di 450 testate, come riportato questa mattina dal South China Morning Post.
La televisione di stato CCTV, così come molte emittenti locali, ha accompagnato le ore subito precedenti alla partenza con programmi speciali sull'argomento, mentre centinaia di canali della mainland hanno trasmesso il decollo in diretta.

Impazzita anche la rete internet: quasi 34 milioni di post hanno invaso la piattaforma di Sina Weibo, il Twitter cinese, in concomitanza con il lancio della navicella cinese.
"Ad aver attirato tanta attenzione sull'ultimo viaggio spaziale è stata proprio la presenza di un'astronauta donna. Nei giorni scorsi è diventato un tema caldo di portata nazionale e pertanto coperto ampiamente sia dalla stampa che dai media elettronici" ha affermato Zhang Jiang, professore di comunicazioni presso la Beijing Foreign Studies University.
Dei 34 milioni di messaggi pubblicati su Weibo riguardo al lancio dello shuttle, circa 2,2 milioni contenevano il nome di Liu Yang, mentre alcune ricerche hanno evidenziato per i suoi compagni Liu Wang e Jing Haipeng meno di 100mila visite.

L'entusiasmo per la nuova missione spaziale è stato veicolato da Pechino al fine di distrarre i cittadini dalla difficile situazione in cui verte il Paese. "Quest'anno per la Cina sono ben poche le buone notizie" -ha proseguito l'accademico- "davanti al rallentamento della crescita economica nazionale le autorità stanno tentando di manovrare questa missione innovativa per fomentare l'opinione pubblica." Ma quanto potrà durare l'effetto inebriante della "Lunga Marcia verso le stelle"? Secondo Zhang, "probabilmente non troppo a lungo."

E così è stato. Mentre parte dell'infosfera si gonfiava di orgoglio patriottico per la nuova avventura spaziale, un'altra metà ricordava la recente storia di Feng Jianmei, costretta lo scorso 2 giugno ad abortire -sebbene al settimo mese di gravidanza- perché non in grado di pagare la multa di 40mila yuan imposta a chi vuole avere un secondo figlio. Una settimana più tardi la foto della donna sul letto d'ospedale con a fianco il feto morto ha fatto il giro della rete, sollevando l'indignazione dei netizen e costando il posto a tre funzionari locali.

Feng e Liu, due donne a confronto, due destini agli antipodi. "Possiamo inviare una taikonauta nello spazio e possiamo anche costringere una donna delle campagne ad abortire al settimo mese di gravidanza," scrive sul Twitter cinese un internauta. "Il netto contrasto tra il destino delle due, la 33enne Liu e la 22enne Feng, è un chiaro esempio dello stato di lacerazione in cui verte il nostro Paese. Gloria e sogni illuminano vergogna e disperazione, tecnologie all'avanguardia coesistono con lo spudorato calpestamento dei cittadini. Missili volano nei cieli mentre la morale sprofonda ai minimi. La nazione si erge verso l'alto mentre il popolo si inginocchia in segno di sottomissione. Questo è il modo in cui i tempi più gloriosi finiscono per collimare con i tempi peggiori."

Solo poco dopo il messaggio sarebbe stato ritwittato dal noto blogger cinese Han Han ai suoi milioni di seguaci, innescando sul web una diatriba di proporzioni virali prima di cadere vittima della cesoia di Pechino.

(Pubblicato su Dazebao)

venerdì 15 giugno 2012

(Un)welcome to Pyongyang. Reportage dalla Corea del Nord Vol°1


Preso atto dell'effetto urticante che potrebbero causare 10 cartelle word sul lettore italiano medio -normalmente insofferente già dopo le prime 500 battute- ho deciso di pubblicare le mie memorie della Corea del Nord a puntate. Il rischio è di capirci poco e niente, ma quelli sono affari vostri.




Da Dandong a Sinuiju. Primi passi nell'ultima cortina di ferro

Dandong, cittadina cinese della provincia del Liaoning, sorge lungo le sponde del fiume Yalu e rappresenta il punto più agevole per chi vuole arrischiare un viaggio nella Corea del Nord.  Collocata in una posizione strategica, permette di attingere alle ricche risorse naturali concentrate nel nord-est della Cina e costituisce una via privilegiata per accedere alle rotte marittime. Lo era anticamente e continua ad esserlo anche oggi. Non eccelle certo in bellezza, ma ha altre doti. Grazie al ruolo che riveste negli scambi commerciali con il Nord Corea, nel 1992 Pechino ha dato l'ok per renderla “Border economic cooperation zone” al fine di promuovere l'import-export con l'altra sponda alla quale è collegata da un robusto ponte di ferro. Il Ponte dell'amicizia sino-coreana, costruito dagli invasori giapponesi alla fine degli anni '30, è affiancato dall'altro storico attraverso il quale i volontari cinesi accorsero in aiuto della Repubblica popolare democratica di Corea (RPDC) durante l'invasione statunitense agli inizi degli anni '50. Di questo non è rimasto che un moncherino, unico sopravvissuto dei bombardamenti americani e assurto oggi a principale attrazione turistica della città. Forse l'unica.
Un incessante via vai di camion ferrati affolla le strade di Dandong confluendo nello spiaziale della dogana, ultimo traguardo per le merci in arrivo dall'altro versante del Yalu e trampolino di lancio per le esportazioni cinesi nella Corea del Nord. Tra un tetris di conteiner e la cappa di smog uomini caricano e scaricano sacchi di varie dimensioni. Carbone importato dal Nord Corea, cemento e cotone sono alcune delle merci che percorrono giornalmente il ponte di ferro, racconta uno dei camionisti di nazionalità cinese. Per quanto riguarda gli alimenti, quelli “vengono regalati da Pechino a Pyongyang e passano per vie governative”.

Gli affari tra le due sponde vengono gestiti principalmente da cinesi han, cinesi di etnia nordcoreana bilingui e nordcoreani doc; questi ultimi riconoscibili per l'immancabile spilletta del Partito dei lavoratori appuntata al petto. La Cina gestisce circa il 40% delle esportazioni del Nord Corea (1,58 dei 4 miliardi di dollari complessivi) mentre il 70% degli scambi bilaterali tra Pechino e Pyongyang avviene proprio attraverso la città di Dandong, le cui importazioni ammontano a 468 milioni di dollari, come riportato dal ministero del Commercio cinese.

La vivacità laboriosa della metropoli cinese stride contro il silente e spoglio versante nordcoreano, che, eccetto per sporadici capannoni, una ruota panoramica pressocchè in disuso e gru rugginose, prosegue monotono sino all'altezza di Shenyang, capoluogo provinciale del Liaoning e meta prediletta dei rifugiati nordcoreani in fuga dalla fame. Di notte una fitta nebbia si solleva dal corso del fiume inghiottendone completamente gli argini, mentre un bagliore sfuocato segnala la presenza di una città: Sinuiju, Regione amministrativa speciale (SAR) creata nel 2002 come testa di ponte per i primi esperimenti capitalistici, è il primo agglomerato urbano della Repubblica popolare democratica di Corea nel quale ci si imbatte arrivando da Dandong.
Un macchinoso controllo alla dogana attende chiunque in possesso di passaporto straniero: pile di documenti riempiono un tavolino sul quale, riversi, quattro funzionari verificano e annotano nomi e numeri. Metodi antidiluviani per il controllo delle valigie, letteralmente svuotate di ogni contenuto. Un occhio particolarmente attento per i dispositivi digitali: pc, lettori MP3, cellulari sulla carta severamente banditi dal territorio nazionale, in pratica vengono parzialmente tollerati (il blocco dei cellulari, secondo i media internazionali inaspritosi nel 2004, sembrerebbe essere stato decisamente allentato). Ma le insidie maggiori, per Pyongyang, si nascondo nascondersi nella carta stampata. Libri di qualsivoglia genere e lingua vengono requisiti e sfogliati accuratamente dai vocabolari alla narrativa, per non parlare delle guide turistiche, in particolare se edite dall'australiana Lonely Planet.
Il proprio passaporto il visitatore lo rivedrà soltanto alla fine del viaggio, privo di qualsiasi visto o timbro nordcoreano che possano comprovare la propria esperienza entro i confini di quella che viene considerata “l'ultima cortina di ferro”.

"Apartheid in salsa coreana"
Uno dei mezzi più folkloristici -forse non dei più comodi- per raggiungere Pyongyang è il treno. Più di 200 chilometri di ferrovia collegano la città di Sinuiju alla capitale nordcoreana per complessive 6 ore di viaggio. Le misure di sicurezza in prossimità delle stazioni si fanno più serrate così come la presenza di funzionari in divisa. Gli stranieri vengono accopagnati in pulman fin sopra alla banchina, scortati dagli accompagnatori coreani dentro alla stazione attraverso un'entrata secondaria e qui rinchiusi con tanto di lucchetto alle porte senza possibilità di uscita. Divieto categorico per le foto. Come allo zoo una lastra di vetro divide la popolazione locale sul marciapiede in attesa del treno da chi dentro, privato della libertà di prendere una boccata d'aria, non può che rubare con lo sguardo scene di vita quotidiana.
Qualsiasi interazione con i cittadini nordcoreani è fuori discussione. In fondo al treno un'apposita carrozza è stata destinata ai turisti: ventilatori sospesi sul soffitto, l'odore intenso degli interni in legno e due icone dei defunti leader Kim Il-Sung e Kim Jong-Il accolgono i passaggeri d'oltre confine in una dimensione anacronistica che sa di stantio.

Secondo un rigido sistema di “apartheid” scene analoghe si ripetono sulla metro di Pyongyang, in cui l'ultimo vagone è off-limit per la popolazione locale. Operativa dall'inizio degli anni '70, la metropolitana della capitale nordcoreana è la più profonda al mondo (oltre 110 metri sotto terra) ed è stata pensata come rifugio in caso di eventuali bombardamenti aerei. La rete è completamente interrata e consta di due linee che si estendono per una dozzina di chilometri ciscuna. I treni fatiscenti sono un lascito della Repubblica democratica tedesca, mentre il modello di riferimento è la sotterranea di Mosca della quale rievoca design, murales e statue ispirate al realismo socialista. Secondo alcune origliature, il governo si sarebbe assicurato l'utilizzo di alcune linee segrete non accessibili ai comuni passeggeri, tanto che un inviato della BBC, giunto a Pyongyang nel 2000 al seguito del Segretario di Stato americano Madeleine Albright, sollevò diversi dubbi sulla sua funzionalità, avanzando l'ipotesi di una messa in scena per turisti volta a smarcarsi dalle frecciate della comunità internazionale che vorrebbe la Corea del Nord affetta da un serio deficit energetico.
L'impressione a caldo non è quella di una recita di massa, che d'altra parte risulterebbe di difficile attuazione dato il massiccio afflusso di passeggeri in transito. Vero è che gli straniero è concesso viaggiare soltanto tra  tra le stazioni Puhŭng e Yŏngwang sotto la supervisione di una guida locale. Ma nulla di strano: essere controllati a vista in Nord Corea è la prassi tanto sotto terra che in superficie.


Il divieto sulle foto, categorico lungo la ferrovia Sinuiju-Pyongyang (scatti rubati durante le 6 interminabili ore di treno mi sono state fatte cancellare con commento stizzito della guida riguardo ai turisti che non rispettano le regole del Paese), è stato progressivamente allentato nel corso del tour.
Non vale lo stesso per la libertà di movimento. Il Yanggakdo International Hotel di Pyongyang è la prigione dorata nella quale vengono di fatto relegati visitatori, uomini d'affari e giornalisti sotto false spoglie di turisti contro i quali la nostra ha lanciato più volte saette acuminate.
Dotato di casinò, quattro ristoranti -di cui uno al 47esimo piano con vista a 360° sulla città- deve ostentare una vasta gamma di comodità per dissuadere i suoi ospiti dall'avventurarsi oltre le colonne d'Ercole; come se la collocazione strategica dell'albergo posto al centro di un'isola galleggiante sul fiume Taedong e un check-point a 100 metri dal portone d'ingresso non fossero sufficienti a placare gli spiriti più avventurieri. Un'Alcatraz a cinque stelle dalla quale non è possibile scappare se non forse a nuoto, con il pericolo di finire nel cucchiaio delle navi scavatrici che giorno e notte sollevano e spostano la sabbia dal fondale agli argini del fiume.

Spese (da) folli
E' bene munirsi di scorte per il lungo viaggio: una legge nazionale vieta agli stranieri di maneggiare il won, la moneta locale. Ergo semaforo rosso per gli acquisti al di fuori dei rarissimi negozi autorizzati alla vendita agli stranieri nei quali è possibile utilizzare esclusivamente euro, yuan cinesi e raramente dollari. Ma non è una gran perdita. A parte ginseng declinato in tutte le sue manifestazioni, pesce secco e l'agiografia completa della famiglia Kim, quanto a souvenir la Corea del Nord non può vantare molto altro. I più coraggiosi, però, potranno appagare il proprio desiderio per l'esotico con una bottiglia di liquore di serpente con la quale magari accompagnare un piatto di carne di cane, usanza gastronomica della penisola coreana continuamente bersagliata dalle critiche degli animalisti.

La fame che non si vede
L'interminabile strada ferrata che collega Sinuiju a Pyongyang si snoda tra un mosaico di campi coltivati e risaie a perdita d'occhio. Fiumi e canali nutrono ed irrigano le terre lungo la costa occidentale. Un quadretto bucolico decisamente inaspettato per un Paese soggetto a calamità naturali e carestie, tutto'ggi ai vertici della classifica mondiale per malnutrizione della popolazione. Buoi e ovini al pascolo, contadini lavorano i campi servendosi per lo più di aratri a mano; più uniche che rare le macchine agricole molte delle quali acquistate dal Dragone, come ci ha spiegato un uomo alla dogana di Dandong.
I villaggi, raccolti entro basse cinta di mura, si distinguono per ordine sfoggiando una dignità che spesso manca alle zone rurali della Cina. Donne, uomini, bambini strappano erbacce, riposano sul prato, giocano a carte, agitano la mano al passaggio del treno sbuffante.
Dov'è la fame lamentata dai migliai di profughi nordcoreani in fuga (secondo alcune stime, 30 al giorno quelli che scappano in Cina)?

Le carestie degli anni '90 causarono un numero imprecisato di vittime che va dai 200 milioni ai 3 miliardi di persone. In un report dello scorso febbraio World Food Programme (WFP) ha evidenziato che 3,5 milioni di nordcoreani hanno immediato bisogno di aiuti alimentari. Secondo recenti stime delle Nazioni Unite un terzo dei bambini sotto i cinque anni d'età soffre di malnutrizione, mentre funzionari della sanità hanno evidenziato un aumento tra il 50% e il 100% dei ricoveri nei reparti pediatrici rispetto allo scorso anno.
Ma per qualcuno i numeri non sono una prova sufficiente e c'è il sospetto che Pyongyang stia calcando la mano allo scopo di spremere fino in fondo i benefattori internazionali e strappare qualche sussidio in più. “In passato i politici nordcoreani erano soliti mentire sulle condizioni economiche del Paese, alimentando voci di carestie” -aveva dichiarato alcuni mesi fa in un'intervista a Tempi.it Andrei Lankov, docente di storia dell'Asia presso l'università sudcoreana di Kookmin- “al mercato nero i prezzi del cibo sono stabili e anche i viaggiatori indipendenti che hanno visitato le parti più remote del paese confermano che le persone stanno meglio del solito. Ovviamente, la maggioranza del popolo resta malnutrita, come da decine e decine di anni a questa parte. Soffrono la fame, ma non al punto da morire per questo.”

Gli stessi nordcoreani ammettono a denti stretti che l'arretratezza delle tecniche di coltivazione e raccolto sono alla base di gran parte dei problemi del Paese. Eppure uno studio del giornale sudcoreano Hankyoreh, pubblicato nel 2007, ha evidenziato negli ultimi anni una crescita stabile della qualità della vita e degli stipendi. Cina e Corea del Sud, che restano i due maggiori contribuenti di aiuti alimentari di Pyongyang, nel 2005 hanno spedito a nord del 38° parallelo 1 milione di tonnellate di alimenti. Pechino, dal canto suo, fornisce tra l'80% e il 90% delle importazioni nordcoreane di petrolio “a prezzi amichevoli”. La politica isolazionista messa in atto da Pyongyang e l'embargo delle nazioni occidentali hanno bloccato il potenziale di crescita del Paese che con giusti incentivi e provvedimenti potrebbe raggiungere il 6-7% annuo, mentre il rubinetto degli aiuti internazionali viene dosato sulla base delle promesse del governo nordcoreano di abbandonare il programma nucleare e sottoscrivere il Trattato di non proliferazione (TNP).

La carenza di cibo è stata considerata uno dei problemi più pressanti durante “l'Ardua Marcia”, periodo che va dal 1995 e il 2000 durante il quale la scomparsa dei principali partner commerciali (Unione Sovietica e Repubblica democratica tedesca in primis) indussero l'allora leader Kim Jong-Il a spronare lo “stato eremita” a rialzarsi in piedi con le sue sole forze, come professato dalla dottrina del Juche. Raggiungere l'autosufficienza nell'agricoltura e nell' industria nazionale, questo il principio cardinale attraverso il quale risollevare le sorti del Paese, prestando attenzione a non cadere nella trappola dell'autarchia e del protezionismo.

Nel 1997 il “Caro leader” (titolo assegnato a Kim Jong-Il) spinse l'Armata Popolare Coreana (KPA) a concentrare i propri sforzi sull'agricoltura. Quell'anno ottenere un buon raccolto non sarebbe stato soltanto un successo economico in grado di alleviare le pene del popolo, ma avrebbe costituito anche una rivincita sugli Stati antisocialisti gravitanti attorno al capitalismo di stampo americano. Il Partito, unitamente al popolo e all'esercito, si doveva dedicare alla coltivazione dei campi assieme alle comunità rurali per raggiungere l'obiettivo dell'autosussitenza al fine di aggirare l'inevitabile rovina che sarebbe scaturita dall'introduzione di capitali stranieri, primo passo verso un tacito assenso all'imperialismo occidentale.
Ma nella ragnatela del paradosso Pyongyang sembra, alla fine, esserci rimasto impigliato, come rivela la spinosa questione degli aiuti alimentari a stelle e strisce barattati a febbraio in cambio di una moratoria sui test missilistici a lungo raggio e sulle attività di arricchimento dell'uranio. Il pacchetto da 250 mila tonnellate e’ stato congelato dopo lo sfoggio di muscoli del governo nordcoreano culminato nel fallimentare lancio del satellite/missile colato a picco nel Mar Giallo poco dopo il decollo lo scorso aprile. Nel 2011 anche l'Unione europea ha allungato la mano alle autorita’ di Pyongyang, inviando circa 10 milioni di euro di sussidi alimentari.

Nulla di questo sembra lontanamente immaginabile osservando la popolazione locale tanto nelle aree rurali quanto nella capitale. Nemmeno l’ombra dei corpi emaciati e degli storpi che affollano il subcontinente indiano o delle raccapriccianti condizioni igeniche di alcuni Paesi del sud-est asiatico.
Qualche dubbio, pero’, sorge constatando la totale mancanza di mercati all’aperto, tipici dell’Estremo Oriente, e il numero esiguo di negozi, per lo piu’ concentrati a Pyongyang e pieni di nulla (chi scrive non ha avvistato nessuno ne’ a Sinuiju ne’ a Kaeson). Per le strade di cibo non ve n’e’ nemmeno l’ombra, solo qualche ghiacciolo stretto come trofeo nelle mani di pochi bambini. Siamo mille miglia lontani dall’opulenza ostentata dalle città della Cina sotto il vessillo del "socialismo con caratteristiche cinesi", ma non manca nemmeno chi puo’ sfoggiare una leggera pancetta.


Gli Arirang show e “l'età dell'innocenza”
"Kim Il-Sung" e "Kim Jong-Il" sono le uniche parole che riuscii a distinguere. Sul palco del Mangyongdae Schoolchildren's Palace di Pyongyang, una bambina alta poco più di un metro, impugnando un microfono recitava con enfasi il discorso di apertura del “children's show”. Il Mangyondae è il più grande dei numerosi palazzi dei bambini di cui è costellata la Corea del Nord; strutture pubbliche dedicate a corsi extra-scolatici (tra le principali attività lezioni di musica, lingue straniere e danza) ed esibizioni di massa. Un'attrazione per i turisti che, in netta maggioranza sui locali, occupano buoni tre quarti della platea. Fu da subito chiaro che quella che ci attendeva non era la solita recita alla quale siamo abituati dalle nostre parti. Una cosa più di ogni altra mi gelò il sangue. La retorica sciorinata da quel bambinetta ricordava in tutto e per tutto il discorso concitato con il quale la presentatrice della tv di Stato, in un bagno di lacrime, annunciò al mondo la scomparsa del “Caro leader” lo scorso 19 dicembre.

Si apre il sipario e parte la musica. Accompagnato da motivetti patriottici -alcuni dei tanti che vengono trasmessi nelle principali piazze della città 24 ore su 24- uno stuolo di bambini tra i sei e i quattordici anni si esibisce in canti scanditi a passo di marcia, balli acrobatici e vere e proprie simulazioni di guerra. Un carro armato di cartone sullo sfondo; i piccoli attori imbracciano fucili di plastica e sparano contro una bandiera sudcoreana, giocando inconsapevoli con una delle ferite più dolorose della storia nazionale: la guerra di Corea.
La commozione sincera di quei bambini - "i re della nazione", come ci ha ripetuto più volte la nostra guida- dovrebbe far riflettere tutti coloro che associano la famiglia dei Kim unicamente al “pallino per il nucleare” e ad un grottesco culto della personalità. Una sottile campagna ideologica forgia fin dall'infanzia cuori patriottici fedeli ai loro leader. La sola costrizione imposta da un regime dittatoriale riuscirebbe a tenere unito un popolo da anni ridotto alla fame?

“Ditelo ai vostri amici che quello che raccontano i media internazionali sul nostro Paese non è vero” -ci ha ripetutamente ammonito durante il soggiorno Lee, la nostra guida nordcoreana- “così come la storia dei diritti umani. Ogni paese ha dei propri standard, non è possibile darne una definizione universale”.

Ma gli Arirang show (questo il nome degli spettacoli infarciti della propaganda nazionale e avviati nel 2000 per celebrare il 90esimo della nascita Kim Il-Sung, "Presidente Eterno" e fondatore della Repubblica democratica popolare di Corea) negli ultimi anni sono finiti al centro di accese critiche. Gli stessi abitanti della capitale hanno mostrato un certo disgusto per quella che viene considerata un'esibizione confezionata a misura di turista, volta a mettere in vetrina i valori socialisti del regime nordcoreano attraverso l'inutile mobilitazione di centinaia di migliaia di cittadini. Nel maggio dell'anno scorso la notizia di un prolungamento delle performance sino al 2015 ha lasciato molti a bocca aperta, increduli di come si possa continuare a tenere in piedi degli spettacoli che in realtà non guarda nessuno.
Ma c'è dell'altro. Secondo quanto riportato da Radio Free Asia, dietro le quinte delle esibizioni si anniderebbero focolai di corruzione. I figli degli alti funzionari del Partito sarebbero esonerati dalle estenuati prove per gli show, mentre gli altri bambini vengono sottoposti a faticose esercitazioni nella calura estiva. Il Partito ha ascoltato. “Gli Arirang Mass Games del 2012 saranno gli ultimi” ha rivelato l'11 giugno l'agenzia di stampa sudcoreana Yonhap.

Inchiodati alla poltrona per un'ora buona, i turisti si lasciano sfuggire qualche risatina e commento sarcastico. Poi si accendono le luci e cala il sipario, mentre l'età dell'innocenza se ne va tra uno scroscio di applausi.


((Un)welcome to Pyongyang. Reportage dalla Corea del Nord Vol.2)


domenica 10 giugno 2012

venerdì 1 giugno 2012

Corruzione e scandali ai vertici del Pcc. Ecco come interviene la legge



Come se il caso Bo Xilai non fosse bastato, a riaccendere i riflettori su sistema legislativo cinese ci ha pensato Liu Zhijun, l’ex ministro delle Ferrovie espulso dal Partito il 28 maggio. Indagato per corruzione 15 mesi fa e finito in una spirale scandalistica dopo l'incidente di Wenzhou, si sarebbe macchiato di “gravi violazioni disciplinari e abuso di potere”, come sentenziato dalla Commissione Centrale per l'Ispezione della Disciplina (CDI).

La decisione dell’organo di controllo del Pcc, ratificata dal Comitato Centrale, e’ stata inoltrata alle autorita’ giudiziarie. Una prassi ormai consolidata in Cina, dove le ipotesi di reato vengono sottoposte al vaglio di due sistemi paralleli. Quando, infatti, il sospettato e’ un funzionario, la questione viene risolta in prima battuta tra le mura di Zhongnanhai –il Cremlino cinese- per poi solo in seguito varcare le aule delle Corti di giustizia.

Ma cio’ che e’ scritto sulla carta raramente viene messo in pratica, e se in teoria i membri del Pcc, dopo il verdetto della CDI, dovrebbero essere consegnati alle autorita’ di polizia e ai tribunali per per venire sottoposti ad un’accusa penale, cio’, di fatto, succede solo di rado, mentre il piu’ delle volte la situazione si estingue all’interno dei palazzi del potere.

Nel suo recente libro “Sovereign Power and Law in China”, Flora Sapio, giurista della Chinese University of Hong Kong, spiega come le regole del Pcc in materia di disciplina “replichino” il diritto penale dello Stato e le altre normative sulla violazione della sicurezza pubblica. Ma con toni meno severi. I reati vengono derubricati a “errori” o “infrazioni minori” che, di conseguenza, non comportano una responsabilità penale. Quando un caso viene girato alla procura o alle forze dell'ordine, il tribunale riceve un “parere formale scritto” che pone le basi per un'azione penale; quasi sempre la sentenza finale stabilisce una sanzione minore o una condanna senza limitazioni della liberta’. Di fatto “gli organi di Partito possono virtualmente eliminare ogni tentativo di giudizio indipendente,” scrive la Sapio.

Per conservare l'integrità del monolite cinese, ai piani alti si preferisce consegnare ai tribunali solo una piccola percentuale dei quadri sottoposti a pene interne. Lo confermano i numeri. Nel 2009 degli oltre 1.300.000 rapporti riguardanti casi di corruzione di funzionari, inoltrati alla Commissione per la Disciplina, solo 140 mila sono stati realmente sottoposti ad indagine, di cui oltre 100 mila risolti con sanzioni interne. Mancano, invece, i dati sulle questioni presentate alle procure, anche se le statistiche per gli anni precedenti evidenziano cifre irrisorie a confronto.

Ma Li Zhijun non è che l'ultimo di una serie di alti membri del Partito, il cui procedimento penale giunge solo a seguito del verdetto rilasciato dagli organi interni. Storie come quella dell'ex ministro delle Ferrovie riempiono di scheletri gli armadi di Zhongnanhai. Nel 2005 il ministro della terra e delle Risorse, Tian Fengshan -deposto dal suo incarico ed espulso dal Pcc un anno prima- è stato condannato all'ergastolo con l'accusa di aver accettato tangenti per il valore di oltre 4 milioni di yuan (più di 500 mila euro) al tempo in cui era governatore della provincia dell'Heilongjiang. Tre anni dopo, nel 2008, è stata la volta di Cheng Liangyu, capo del partito di Shanghai nonché membro del Polituro, rimosso dalla sua posizione e in seguito condannato dalla Corte a 18 anni di reclusione per complicità nel sifonamento di centinaia di milioni di dollari dal fondo pensione della città e per essersi intascato ingenti somme attraverso loschi affari finanziari.

Negli ultimi mesi il caso Bo Xilai ha nuovamente direzionato il microscopio internazionale sul sistema giuridico cinese. Finito nell'occhio del ciclone a causa di uno scandalo multiplo (reati finanziari, spionaggio ai vertici del Partito e un morto in circostanza sospette addensano nubi funeste sulla famiglia Bo), il 10 aprile scorso l'ex leader di Chongqing è stato rimosso dal Comitato Centrale e dal Politburo. Un'indagine per “gravi violazioni della disciplina” è ancora in corso, mentre sono in molti a chiedersi se anche Bo verrà accusato formalmente e processato.

“I coniugi Bo verranno sottoposti ad un processo, ritenuti colpevoli e puniti severamente” aveva affermato tempo fa la giurista della Chinese University of Hong Kong. Qualora il verdetto riserverà per i due la pena capitale, il caso – hanno dichiarato i media statali- testimonierà il fatto che nessuno è al di sopra della giustizia. “La legge e il Partito non tollerano alcuna violazione” scriveva tempo fa l'agenzia di stampa Xinhua.

Jerome Cohen, co-direttore del Us-Asia Law Institute presso l'Università di New York, ritiene che il caso dell'alto funzionario di Chongqing caduto in disgrazia dimostri come “anche le figure politiche più potenti, solitamente al riparo dalle conseguenze della loro cattiva condotta, possano essere perseguiti dalla legge se il loro comportamento è uscito allo scoperto e se i leader più in alto hanno interesse a porre fine alla loro carriera.”

In Cina il Partito trionfa sullo Stato. Il sistema extra-giudiziale -sulla base del quale un sospettato puo’ essere tenuto in isolamento fino a 6 mesi senza poter ricorrere al sostegno di un legale- ha la precedenza assoluta su qualsiasi indagine delle autorità giudiziarie. “Denaro, potere, guanxi (conoscenze personali), non ti possono salvare perchè c'è qualcosa al di sopra di te”- ha affermato la Sapio- “se vai a toccare questo potere, non conta quali siano il tuo status e i tuoi natali, o quanti soldi tu abbia. Sei esattamente come un dissidente politico o il piu’ insignificante tra i comuni criminali. In questo senso tutti sono veramente uguali: ma non davanti alla legge, davanti ad un potere”

La creazione di un sistema legislativo socialista con “caratteristiche cinesi” e’ stata definita da Wu Banguo, presidente del Comitato permanente dell’Assemblea Nazionale del Popolo, la “pietra miliare” dello sviluppo di un corpus giuridico nazionale. Eppure, nonostante la proclamazione dello Stato di diritto, come stabilito dalla Costituzione, le istituzioni giuridiche continuano a rimanere soggette al controllo del Partito. Un concetto reiterato da Zhongnanhai lo scorso marzo, al fine di stemperare le crescenti tensioni causte dalla caduta di Bo Xilai, attraverso l’introduzione di un giuramento forzato al quale ogni avvocato dovrà sottoporsi: “lealta’ al Partito e sostegno del socialismo con caratteristiche cinesi” e’ quanto richiesto da Pechino a chiunque voglia praticare la professione forense nella Repubblica Popolare cinese.

Hukou e controllo sociale

Quando nel 2012 mi trasferii a Pechino per lavoro, il più apprezzabile tra i tanti privilegi di expat non era quello di avere l’ufficio ad...