mercoledì 16 aprile 2014

La rivoluzione robotica può attendere


Costo del lavoro in aumento, crollo della domanda dall'Europa e un tasso di cambio dello yuan sempre più sfavorevole: tempi duri per gli hub della Cina meridionale, la fucina del manifatturiero low cost che per anni ha alimentato l'export cinese. Nella provincia del Zhejiang i salari medi alla catena di montaggio sono quasi triplicati dai 2.425 l'anno del 2005 ai 6.750 dollari del 2012. Tempi duri richiedono misure inventive e il Governo locale ha già trovato la sua: investire 82 miliardi di dollari nell'arco di un quinquennio per aiutare le fabbriche locali ad automatizzare i processi produttivi.

Ma il Zhejiang non è l'unica regione ad aver intrapreso questa direzione. L'amministrazione municipale di Shanghai ha definito la robotica «una delle sue principali industrie», scriveva a novembre il 'China Daily', mentre il Viceministro per le Risorse Umane e la Sicurezza Sociale, Yang Zhiming, ha enfatizzato la necessità di «migliorare l'equipaggiamento e la tecnologia». «La Cina ha bisogno di sovvenzionare le proprie imprese per implementare la produzione di attrezzature e per permettere che le proprie imprese possano competere con la tecnologia straniera» scandisce un impiegato della SIASUN Robot and Automation Company.

Il 30 dicembre 2013 il Ministero dell'Industria e dell'Information Technology ha rilasciato le linee guida per l'espansione della robotica industriale, inserendola nelle strategie di sviluppo nazionale. E la megalopoli del sud-ovest Chongqing, affamata di forza lavoro per puntellare i pilastri della sua economia (l'automotive e l'elettronica), dovrebbe diventare la 'capitale dell'automazione cinese'. Nel mese di giungo il CIGIT (Chongqing Institute of Green and Intelligent Technology) e cinque grandi imprese del settore hanno sottoscritto un accordo per operare congiuntamente nel Liangliang Robot Park, un'area industriale di 2.250 ettari, foraggiata da abbondanti finanziamenti statali, che entro il 2020 dovrebbe ospitare oltre 200 società nel campo della robotica. Si parla di 50 miliardi di yuan (8,27 miliardi di dollari) di produzione annua. (Segue su L'Indro)

martedì 15 aprile 2014

GDF Suez corteggia Taiwan


Alla fine di marzo, la società francese GDF Suez ha reso noto il raggiungimento di un accordo per il trasferimento di LNG (Liquefied Natural Gas) dagli Stati Uniti a Taiwan; un'operazione che rivela la reale portata della rivoluzione energetica americana e la dislocazione geografica delle ambizioni dei colossi internazionali. GDF Suez, rifornita da sei Paesi differenti, è il primo importatore di LNG in Europa, il quarto gruppo mondiale (terzo per capitalizzazione con 86,7 miliardi di euro) nel gas e nell'elettricità tra le utilities quotate in Borsa, nonché la seconda utility del mondo.

L'intesa, siglata con la compagnia di Stato taiwanese CPC, prevede la vendita di 800 milioni di tonnellate di LNG all'anno per vent'anni a partire dal 2018. Il gas, in parte ricavato dallo scisto, fluirà dall'impianto della Cameron LNG, in Louisiana, dove il gigante energetico francese possiede 4 milioni di tonnellate di capacità di esportazione annua. Nei mesi scorsi la 'Reuters' aveva riferito di accordi simili tra GDF Suez e società giapponesi, cinesi e cilene, tuttavia il Vicepresidente della compagnia, Jean-Marie Dauger, ha definito la vendita a CPC «la prima di questo genere», spiegando che «contribuirà all'export di gas naturale -shale gas incluso- dagli Stati Uniti verso il mercato globale, aiutando a diversificare e a rendere più sicuro l'approvvigionamento energetico». Senza troppi giri di parole: «[l'accordo] rivela l'ambizione di GDF Suez di incrementare il proprio ruolo nell'Asia-Pacifico ed espandere la fornitura a lungo termine in una regione dove la domanda di LNG in futuro sarà elevata. Siamo lieti di essere tra i primi a esportare shale gas dagli States, stringendo rapporti di lunga durata con CPC e contribuendo a mantenere sicuri i rifornimenti in Asia». In realtà, come fa notare a 'L'Indro' Matteo Verda, dottore di ricerca dell'Università di Pavia e ricercatore associato dell'ISPI, nonché co-autore del focus trimestrale sulla sicurezza energetica per l'Osservatorio di politica internazionale (Parlamento e MAE), "le quantità sono modeste: parliamo di 1 miliardo di metri cubi all'anno, ossia meno di un quinto di quanto non importi l'Italia di solo GNL e circa il 5% dei consumi annuali di Taiwan".

Sebbene il valore dell'accordo non sia stato reso noto, secondo fonti dell'agenzia di stampa britannica, CPC nel corso del primo anno pagherà alla GDF Suez 12 dollari per milione di Btu; un prezzo scontato rispetto ai 16 dollari che normalmente si trova a sborsare in Asia, che come l'Europa, fissa i prezzi del gas naturale secondo contratti di lungo termine legati al costo del petrolio. Ora la possibilità di accedere al gas naturale intrappolato nelle formazioni rocciose, utilizzando la fratturazione idraulica o la perforazione orizzontale, hanno abbassato i prezzi di LNG americano a una frazione di quelli di altri Paesi. (Segue su L'Indro)

giovedì 10 aprile 2014

Rileggere la Cina con gli occhi di Confucio


Spesso si dice che avvicinarsi alla politica cinese sia come leggere le foglie del tè. Una delicata decodificazione delle alchimie distillate nei palazzi del potere in piazza Tian'anmen. Da quando Xi Jinping ha assunto la direzione del Partito comunista nell'autunno 2012 per poi ricoprire il ruolo di Presidente nel marzo 2013, di lui si è detto tutto e il contrario di tutto. Fervente seguace di Mao, sì, ma anche coraggioso depositario dell'eredità riformista di Deng Xiaoping. Risoluto innovatore in economia, ma conservatore ortodosso in politica. Nazionalista sfegatato, eppure convincente affabulatore ai tavoli internazionali che vedono la Cina ormai sedere da grande potenza. Per stare dietro alla caleidoscopica società cinese si rischia spesso di rincorrere semplificazioni giornalistiche, aggrappandosi a facili stereotipi. Quello che ne esce fuori è una rappresentazione del Dragone fuorviante, quando non del tutto distorta.

Il Regno di Mezzo è uscito dall'ultimo trentennio di 'arricchimento glorioso' lacerato da diseguaglianze sociali tanto profonde che nemmeno il pacchetto di riforme varato dalla leadership in autunno sarà in grado di guarire in tempi brevi; su tutte prevale una distribuzione ineguale delle ricchezze a fronte della corruzione rampante che intacca ogni gradino della gerarchia comunista. Per questo Xi starebbe cercando di curare le piaghe del Paese con una ricetta che attinge a piene mani alla tradizione millenaria cinese. Il processo era già cominciato sotto il suo predecessore Hu Jintao: si tratta di un 'frullato ideologico' a base di maosimo, denghismo e confucianesimo, che non risparmia nemmeno i culti religiosi autoctoni se questi possono servire a fare da collante ideologico, ora che la passione per il Partito -almeno tra le nuove generazioni- si è estinta. Occorre «avanzare assorbendo la cultura occidentale, proseguire dando il massimo rilievo alla cultura cinese», come scrive il noto filosofo Chen Lai

Capita, così, che qualcuno intraveda nel mixer anche un po' di Chiang Kai-shek, nemico giurato del Grande Timoniere durante la guerra civile conclusasi con la vittoria comunista e la fuga del 'generalissimo' a Taiwan, eppure grande patriota e osservatore dei dettami confuciani. Una teoria ardita, giacché rivalutare Chiang vorrebbe dire allungare una mano a Taipei, ma riaprire ferite storiche mai completamente cicatrizzate. Maurizio Scarpari, docente di lingua cinese classica presso l'Università Ca' Foscari dal 1977 al 2011 e autore di diverse pubblicazioni sul pensiero filosofico antico, ci aiuta a fare ordine nel caos ideologico in cui verte la Nuovissima Cina. Perché bisogna ricordare che prima di Mao c'è stato Confucio. «Un cinese, sia esso buddhista, daoista, musulmano, cristiano o persino ateo, difficilmente sarà in grado di svincolarsi dalle proprie radici confuciane». E questo Xi Jinping lo sa bene. (Segue su L'Indro)

martedì 8 aprile 2014

Spiati e contenti


1000 dollari di Singapore (800 USD) per 300mila contatti; 1 centesimo per nome, numero di cellulare, indirizzo di casa, email e shopping history di un ignaro internauta. Anche la Città dei leoni ha il suo Big Data, un mercato grigio in cui le carte d'identità elettroniche degli utenti vengono sottratte dai customer database e rivendute ai data broker a prezzi stracciati. I mandanti sono perlopiù commercianti e proprietari di piattaforme di e-commerce; le vittime privati acquirenti. Si tratta di un lavoro da 007 mirato a tracciare il profilo degli utenti, i loro gusti e desiderata. Una vera manna dal cielo per il mondo della pubblicità online.

A squarciare il velo che ammanta il settore è stato il sito 'Tech in Asia', contattato da un acchiappa dati che asserisce di possedere nel suo tesoretto 650mila dati sottratti da Deal.com.sg, 440mila da Reebonz e 400mila da Zalora. Groupon, Lazada e lo store online del lusso CloutShoppe rientrano tra gli spiati. E tutto ciò soltanto per quanto riguarda Singapore. Stando alla documentazione fornita da John Lee, questo il nome della' talpa', tra i presunti compratori di dati compaiono ChicKissLove, il sito di prodotti di bellezza Hermo e altre società pressoché sconosciuti alle nostre latitudini, ma molto in voga tra i frequentatori asiatici delle piattaforme di e-commerce.

"Le nostre vendite sono cresciute sensibilmente. La prossima volta vorremmo comprare il doppio dei dati" scrive via mail uno degli acquirenti che avrebbe siglato con Lee un accordo per l'acquisto di 900mila profili, circa un sesto della popolazione della Città-stato. (Segue su L'Indro)

mercoledì 2 aprile 2014

Wukan due anni dopo


A distanza di due anni dalle storiche elezioni democratiche, Wukan è tornata alle urne in una giornata di pioggia torrenziale, dopo settimane di timori e tintinnio di manette per i leader che nel 2012 avevano trainato il villaggio verso la democrazia. A frenare l'affluenza ai seggi, in calo rispetto alla scorsa volta, sembra non esserci stato soltanto il maltempo. Riconfermati Lin Zulian, il leader della sollevazione democratica, e quattro dei sette membri della giunta, molti dubbi offuscano la reputazione della nuova amministrazione cittadina. E c'è anche chi parla di brogli (link).

Nel settembre 2011 Wukan, villaggio di 20mila anime situato nell'industriosa provincia meridionale del Guangdong, era sceso in strada per protestare contro le requisizioni forzate dei terreni rivenduti agli sviluppatori locali dal Governo di allora. Per dieci giorni gli abitanti si erano barricati dentro dopo aver fronteggiato le forze dell'ordine in un braccio di ferro terminato soltanto quattro mesi dopo con la promessa delle autorità di approfondire il caso.(link)

L'insurrezione era poi rientrata grazie all'intervento del Segretario del partito provinciale, Wang Yang che oggi veste i panni di Vicepremier dopo -si dice- essere stato escluso dalla corsa verso il Comitato Permanente del Politburo (la stanza dei bottoni della politica cinese) proprio a causa della sua linea eccessivamente liberale.

In base all'accordo stretto tra rivoltosi e Governo locale, l'anno successivo l'80% dei votanti qualificati ha espresso la propria preferenza nelle prime elezioni veramente 'libere' della storia cinese, a scrutinio segreto e monitorate da comuni cittadini. Infatti se da decenni i cittadini vengono regolarmente chiamati alle urne per scegliere i propri rappresentanti di villaggio, tuttavia la maggior parte delle volte l'ingerenza dei funzionari finisce per inficiare il risultato finale delle votazioni (link). Nella Cina del regime a Partito unico, quella di Wukan era sembrata una rara virata in senso democratico e per giunta avvallata da Pechino. L'esperimento ebbe tanto successo da far scuola anche nelle vicinanze (link), spingendo qualcuno a parlare di un vero e proprio 'modello Wukan' replicabile in altre aree del Paese.

Tutto bene fino a quando il rimpasto al vertice sancito dal Diciottesimo Congresso del Partito non ha finito per ridisegnare la geometria del potere. Via Wang Yang dal Guangdong, dentro Hu Chunhua (link), pupillo del Presidente in pensione Hu Jintao e dato già come possibile successore di Xi Jinping. Pare che da quando la gestione è passata sotto Hu le cose per il piccolo villaggio di pescatori si siano messe male. Stando a quanto riportato dal 'Nanfang Daily', lo scorso novembre Hu avrebbe ufficialmente auspicato un maggior coinvolgimento del Partito «nella democrazia grass-roots di Wukan» attraverso l'elezioni di funzionari provinciali nel comitato di villaggio. Una prospettiva che ha subito messo in allarme i cittadini preoccupati per la sopravvivenza della loro indipendenza. (Segue su L'Indro)

Hukou e controllo sociale

Quando nel 2012 mi trasferii a Pechino per lavoro, il più apprezzabile tra i tanti privilegi di expat non era quello di avere l’ufficio ad...