domenica 28 luglio 2013

La buona terra


(Aggiornato il 30 luglio)

Mediamente, ogni anno in Cina tre milioni di contadini vengono privati delle loro terre per progetti di sviluppo di vario genere. Secondo alcune stime, dal 1987 al 2001, sono stati espropriati 3,6 milioni di acri di terra. Le aree requisite in nome del "pubblico interesse" servono a costruire strade, circonvallazioni, fabbriche e quartieri residenziali che fanno lievitare il prezzo dei terreni. Tali espropriazioni e demolizioni violente rientrano in un piano nazionale su vasta scala che include lo spostamento di milioni di agricoltori delle zone rurali, dove la terra sta acquistando valore, e delle minoranze etniche che risiedono in zone ricchi di risorse naturali ed energetiche. In alcuni casi, le demolizioni spingono i residenti a lasciare gli ormeggi per cercare fortuna in città. In altri, invece, i contadini sono costretti a sopportare demolizioni multiple, in quanto le aree "bonificate" vengono demolite e ricostruite più volte, per la gioia degli sviluppatori locali.

Dalle poche statistiche emerge che almeno 70milioni di contadini hanno già perso le loro terre e che, nel solo 2006, le autorità locali hanno espropriato circa 200mila ettari per costruire fabbriche ed edifici destinati a uso abitativo o d'ufficio, in cambio di indennizzi irrisori. Formalmente, tutt'oggi, in Cina la terra è di proprietà dello Stato ("o di tutto il popolo") o di organismi collettivi rurali, non ben definibili. Per fini pratici si è preferito sostituire il diritto di proprietà con il diritto d'uso, ragione per la quale quest'ultimo alla fine ha acquisito un'importanza ben maggiore rispetto al primo.

A partire dal 1988, tramite una modifica costituzionale ex post (tipica del sistema cinese in cui prima si modificano le norme operative e, soltanto in seguito, la Costituzione), si dichiarò che la terra rimaneva di proprietà dello Stato o collettiva, ma i diritti d'uso del terreno potevano essere concessi in locazione, compravendita essere permutati o trasmessi in via successoria. E' lo Stato ad assegnare il diritto d'uso delle terre, sotto una speciale forma d'affitto a lungo termine rinnovabile per allocazione o concessione. Un sistema mutuato dal marxismo-leninismo che esige il controllo e a proprietà statale della terra, ma che, allo stesso tempo, permette un compromesso sull'affitto dei terreni e sul trasferimento dei diritti d'uso.

Verso la fine degli anni '70, la maggior parte delle terre era di proprietà pubblica o veniva gestita collettivamente. Un decennio dopo, con le riforme economiche e politiche di Deng Xiaoping, le Comuni popolari furono soppresse. La transizione dal sistema collettivistico delle Comuni popolari ad un sistema di coltivazione familiare, nei primi anni '80, ha creato una situazione di instabilità istituzionale e legale. E più il processo di urbanizzazione si evolveva, più il valore della terra cresceva, più quest'instabilità sfociava in attriti tra i contadini (occupanti de facto del suolo) e i governi locali (proprietari de jure degli appezzamenti). Così, il problema della proprietà della terra è rimasto insoluto fino agli anni 2000.

Oggi la terra è di proprietà delle imprese collettive dei contadini ed amministrata dall'organizzazione collettiva economica del villaggio, come stabilito dalla "Legge sull'Amministrazione della Terra".
Nel 2004 l'Assemblea nazionale del popolo ha approvato e promulgato la quarta serie di modifiche alla Costituzione del 1982, nelle quali rientra un emendamento all'articolo 10 (vedi sotto). Come stabilisce la nuova formulazione: " Lo Stato può, per necessità di pubblico interesse, espropriare il suolo e revocarne il diritto d'uso secondo norma di legge, fornendo un indennizzo. La grande novità sta nella possibilità dei cittadini, vittimi di requisizioni, di poter ricevere una compensazione. D'altra parte, la (voluta) vaghezza legislativa priva il popolo di una reale tutela. In alcuni casi i contadini scelgono di appellarsi alla legge, incappando spesso in una scarsa imparzialità delle corti giudicanti, in altri -complice la limitata consapevolezza dei propri diritti- preferiscono il mezzo della protesta in strada.

E' bene sottolineare, però, che normalmente le sollevazioni popolari sono motivate da un forte risentimento verso la corrotta burocrazia locale, mentre il governo centrale viene ancora visto dalle masse come "un benefattore". E non del tutto a torto. Come stabilisce la "Legge sull'Amministrazione della Terra", se il governo locale si appropria di alcuni terreni, il 30% dei guadagni ottenuti dalla vendita vanno ceduti al governo centrale (dati del 2007). Ragione per la quale spesso e volentieri le amministrazioni locali ricorrono all'appropriazione illegale della terra, in modo da trattenere per sé l'intera somma ricavata dalla vendita. Tanto che, secondo alcune stime, tra il 2000 e il 2004, le espropriazioni pilotate dai funzionari locali avrebbero privato il governo centrale di 2,5 miliardi di dollari di potenziali entrate.

Inoltre, trasformare terre arabili in terre per uso commerciale o industriale permette ai funzionari di attrarre maggiori investimenti, in modo da accrescere le proprie prospettive di carriera, basate -sino ad oggi- su criteri strettamente economici. In molti casi le terre vengono rivendute a investitori privati per un costo medio per acro 40 volte maggiore rispetto alla somma pagata ai contadini.

"Una legge precedente stabilisce che gli agricoltori debbano essere risarciti con una cifra pari a trenta volte il reddito medio annuo guadagnato dalle loro terre, una volta privati di esse" ha dichiarato al South China Morning Post un ricercatore della China Academy of Agricoltural Sciences "Ma ora questo compenso risulta troppo basso. Diverse città necessitano di operare al di fuori di tali standard per proteggere gli interessi dei contadini".

Il problema è spinoso: ne va di mezzo l'armonia sociale. Pare infatti che il 65% dei 180mila "incidenti di massa" che ogni anno scuotono il Paese derivino proprio da rancori per via delle requisizioni forzate dei terreni. E Pechino, che è particolarmente sensibile a quanto metta a rischio la stabilità nazionale, ora vuole correre ai ripari. Durante una recente tappa nello Hubei, il presidente Xi Jinping ha fatto cenno ad una riforma del sistema della terra, volta principalmente a colmarne le lacune e ad assicurare maggiori compensi agli agricoltori che hanno venduto ad altri il loro diritto d'uso del suolo. Il tutto, però, lasciando intatto il principio della proprietà collettiva.

Il dibattito sulla terra è tornato particolarmente in auge da quando la nuova dirigenza al potere ha annunciato un piano d'urbanizzazione che, nell'arco di 12 anni, dovrebbe trascinare nelle città -sopratutto di seconda e terza fascia- 250milioni di persone. Obiettivo conclamato: aiutare il Paese a ricominciare a crescere. Oggi la percentuale della popolazione urbanizzata in Cina si attesterebbe intorno al 51% (contro il 19% del 1979) ma se si considera che soltanto il 40% dei migranti delocalizzati gode di benefit e diritti fondamentali, il tasso reale di cittadini urbani sarebbe del 42%, 10 punti percentuali in meno rispetto ai dati ufficiali.

Secondo proiezioni del ministero degli Alloggi e dello Sviluppo urbano e rurale cinese, la nuova ondata di urbanizzazione dovrebbe creare almeno 1 trilione di yuan in opportunità di investimento annuali nella costruzione di forniture d'acqua, nel trattamento dei rifiuti, nel riscaldamento e altri servizi pubblici. I costi di questo immenso progetto potrebbero essere di circa 650 miliardi di yuan all'anno (quasi 80 miliardi di euro), l'equivalente del 5,5% del gettito fiscale del 2012, ha spiegato l'Accademia cinese di scienze sociali nel suo rapporto annuale.

La questione, di stretta pertinenza degli economisti, ha finito per attrarre anche l'attenzione degli uomini di legge. Sotto riporto la traduzione di un articolo apparso il 17 luglio sul Nanfang Zhoumo, a firma di Qu Xiangfei, professore presso l'Istituto di legge dell'Accademia cinese di scienze sociali.

La Cina per migliaia di anni è stata una civiltà sostanzialmente agricola, avverte Yan Zhiyao, direttore della divisione per la protezione delle terre coltivate sotto il ministero della Terra. Ciò implica il fatto che è praticamente impossibile pensare di forzare i contadini a cedere la terra. D'altra parte, egli ha anche ricordato che quando furono avviate le espropriazioni dei terreni, negli anni '80, i contadini fecero a gara perché le proprie terre fossero requisite per prime. Come mai i contadini non amano più i propri terreni? Per il semplice fatto che ottengono benefici superiori cedendo le terre piuttosto che possedendole.

Il governo attuale si propone di sfruttare l'urbanizzazione per rilanciare la crescita economica e, secondo la logica di Yan, poiché l'urbanizzazione certamente presuppone la raccolta delle terre, è necessario che siano tutti d'accordo, è necessario che chi viene sottoposto alle espropriazioni possa godere del diritto allo sviluppo, trascorrendo una vita anche migliore rispetto a quella vissuta quando aveva la terra. Nel processo di urbanizzazione, descritto da Yan in sei punti, la pressione esercitata dal governo sarà molto forte.

Se si cambia il filo del ragionamento, accettando l'urbanizzazione (qua si intende la chengshihua, ovvero l'urbanizzazione delle grandi metropoli, ndt) criticata da Yan, si può evitare di requisire i terreni, che equivale a dire: trasformare il diritto allo sviluppo -che il governo dovrebbe assumersi nei confronti delle persone- in diritto allo sviluppo della terra che i contadini possedevano in origine; trasformare l'urbanizzazione progettata artificialmente dal governo in un'urbanizzazione avviata in maniera spontanea e graduale dai contadini, riducendo, così, le espropriazioni al minimo. Non sarebbero forse più felici tanto il governo che i contadini?

L'articolo 10 della Costituzione, secondo il quale "La terra delle città appartiene allo Stato" (mentre la periferia e i terreni rurali appartengono ad imprese collettive, ndt), costituisce oggi un collo di bottiglia in quanto l'urbanizzazione finisce per privare i contadini del diritto allo sviluppo, mentre aumenta le responsabilità del governo quanto al sopperimento delle necessità quotidiane. E' giunto il momento di risolvere tutti questi problemi, ed è possibile farlo in due modi: modificando la costituzione o reinterpretandola.

Al momento, cambiare la Costituzione è molto difficile per diverse ragioni. Per prima cosa, perché è arduo convincere chi ha degli interessi (legati allo status quo, ndt) a cambiare il corpus normativo; poi bisogna considerare il complesso da cui sono affetti i costituzionalisti: un governo costituzionale deve rispettare la Costituzione, non può facilmente modificarla, poiché essa deve possedere una natura stabile. Al fine di risolvere le questioni (dette sopra) occorre, pertanto, passare per un'interpretazione, non una modifica della carta costituzionale. Considerando, tra l'altro, come sottolineato da Chengxue Yang, che uno studioso della Costituzione che chiede un emendamento del corpo normativo viene praticamente escluso dalla professione legale.

Date le numerose difficoltà, un'interpretazione della Costituzione sembra essere l'unica scelta. Com'è possibile farlo in modo da assicurare ai contadini il diritto allo sviluppo? Due sono i sistemi possibili. Uno è quello della teoria del "si può" sollevata da Cheng Xueyang, efficace, coraggiosa e innovativa; se veramente si riesce a dare un'interpretazione in questo modo si risolverà un bel problema, senza bisogno di mutare gli articoli della Costituzione, né di oltrepassare chissà quanti ostacoli. D'altronde permane una preoccupazione. Se si interpreta l'articolo 10 come "La terra delle città è di proprietà dello Stato, ma può anche non essere dello Stato", questo sistema si potrebbe estendere anche agli altri articoli della Costituzione? Per esempio, nel caso delle nascite, potremmo anche dire che una coppia sposata può avere un solo figlio, ma che ne potrebbe averne anche più di uno? Questa è un po' il mio timore. Certamente è sperabile che, con il corso del tempo, si riesca in qualche modo a far accettare la teoria del "si può".

Il secondo sistema è quello della "teoria del virtuale-materiale" che consiste nel rendere il diritto di proprietà virtuale e il diritto d'uso, invece, materiale. La teoria del "si può" non modifica la struttura o il contenuto dei diritti, ne cambia soltanto il corpo principale. Quest'altro metodo, invece, non modifica il corpo principale del diritto ma cambia la sua struttura, apportando grandi variazioni sia al contenuto del diritto di proprietà che a quello del diritto d'uso. In realtà, entrambi i sistemi tentano di interpretare la Costituzione in maniera "fraudolenta".

La difficoltà nell'attuare la "teoria del virtuale-materiale" è evidente: come si può rendere virtuale il diritto di proprietà? E' piuttosto arduo, sulla base dell'articolo 10 della Costituzione, riuscire a trasformare le terre, che dall'"82 sono collettive, in terre statali. E' necessario passare attraverso un processo di cambiamento. Per esempio, al momento della transizione, la riappropriazione del diritto di proprietà deve essere accompagnata da una compensazione?

Quando si ha il diritto di proprietà è facile espropriare, ma i contadini non detengono la piena proprietà, hanno solo il diritto d'uso. Con il risultato che lo Stato riesce ancora più facilmente a riprendersi le sue terre.

Come studioso della legge, mi auguro che questi ostacoli possano essere superati attraverso un'interpretazione del corpo normativo. Ma è cosa difficile. Come fare? E' necessario tornare a quanto detto prima: modificare la Costituzione, separare la costruzione delle città dal sistema di proprietà delle terre, permettendo ai contadini di costruire anche sui campi coltivabili. Tutto questo ovviamente necessita rigore e di una pianificazione scientifica.

Alcune persone si chiedono: cosa succederà se i contadini si riversassero nelle città come sciami d'api per coltivare? Non ci siamo mai preoccupati per loro, e per questo le loro capacità non si sono mai sviluppate. Questo vuol dire assicurare loro il diritto allo sviluppo?!

(Sulla proprietà della terra in Cina)

mercoledì 24 luglio 2013

C'è immolazione, e immolazione


Sabato scorso due persone si sono immolate in Cina. Uno, un petizionista di nome Ji Zhongxing, ha innescato un ordigno rudimentale nel Terminal 3 dell'aeroporto di Pechino; l'altro un monaco tibetano di nome Konchok Sonam, si è dato fuoco fuori dal monastero Soktsang, nel Tibet orientale, dopo aver cosparso i propri abiti di benzina. Ji è sopravvissuto all'esplosione ma ha perso una mano, Konchok, invece, è morto tra le fiamme. Entrambi gli episodi non hanno implicato il ferimento di altre persone. Entrambi i martiri sono sono stati spinti al gesto estremo da un senso di frustrazione verso le ingiustizie subite: Ji, dieci anni di richieste vane per ottenere un risarcimento dopo essere stato picchiato dalla polizia fino alla paralisi; Konchok una vita sotto il dominio cinese in Tibet portatrice di "troppe sofferenze", come egli stesso avrebbe confidato agli amici.

Eppure, nonostante le numerose analogie, agli occhi della stampa cinese i due casi necessitano una trattazione diametralmente opposta, motivata non tanto dalla gravità o dalle ripercussione su terzi delle azioni commessi, quanto piuttosto dall'etnia di chi le ha commesse. Quella tibetana, nella fattispecie, è stata colpita da un'ondata di ostilità crescente, di pari passo con l'aumento esponenziali delle autoimmolazioni contro Pechino dal 2009 a oggi.

Ed è così, che nonostante la gravità del gesto, il bombarolo disabile trova un minimo di sostegno da parte media, anche di quelli più, per così dire, filo-Partito. "La detonazione di un ordigno esplosivo all'aeroporto di Pechino è un modo estremamente imprudente di difendere i propri diritti. Non è consentito dalla legge, e per questo egli sarà severamente punito" scrive il Chian Youth Daily "Ma questo bombarolo ha sollevato diversi avvertimenti alla società. Ji Zhongxing è stato reso disabile da un incidente stradale o da un pestaggio? Le persone aspettano la verità" avverte il giornale.

Per il Beijing News, le autorità "non possono ignorare le aspirazioni dell'uomo" in cerca di un risarcimento per le botte subite, mentre il Global Times promuove la "ricerca incessante di giustizia e equità" sottolineando l'esigenza di riforme che permettano ai "gruppi vulnerabili" di esprimere le proprie richieste attraverso canali agevoli.

E' rigoroso silenzio, invece, per quanto riguarda la storia di Konchok. Effettuando un check sul motore di ricerca Panguso, si scopre che, nella Repubblica popolare, le voci "immolazione" o "Dzoege" (la contea dove è avvenuta) non riconducono ad alcuna notizia sul giovane monaco. Più in generale il trattamento riservato dai media cinesi alla questione tibetana si riduce a una severa condanna. "Evidence of the Hands behind the Tragedies," è il titolo di un documentario, apparso lo scorso maggio sulla CCTV, nel quale si sostiene il ruolo svolto dai tibetani in un complotto terroristico che ha nelle autoimmolazioni il proprio cavallo di battaglia. L'unico barlume di simpatia riscontrabile nei media cinesi è da attribuirsi alla presunta manipolazione dei tibetani da parte del Dalai Lama, che -secondo la vulgata di Pechino- istigherebbe i propri fedeli a commettere il gesto estremo con fini separatistici. Sebbene, al contempo, una campagna di diffamazione provi di volta in volta ad attribuire le morti nel fuoco a problemi personali quali alcolismo, povertà o rapporti sessuali inappropriati.

Le reali motivazioni dietro alla lunga scia di fuoco che solca l'altopiano tibetano, spesso confermate per bocca di amici e parenti dei martiri, continuano a rimanere inascoltate. E mentre il mondo del giornalismo cinese si interroga sulle ragioni che hanno spinto Ji a innescare una bomba (tentativo già messo in atto nel 2008 senza successo), entro la Muraglia un dibattito sulle immolazioni dei tibetani (ad oggi almeno 120) rimane ancora proibito. L'infosfera cinese si è dimostrata più comprensiva persino nei confronti dei bombaroli "killer", come nel caso di Qian Mingqi che nel 2011 ha fatto esplodere più ordigni nei palazzi governativi di Fuzhou, nel Jiangxi, causando la morte di almeno tre persone. Il giorno successivo il Global Times riportava le parole di un professore della Renmin che, rimarcando la necessità di scoraggiare l'uso della violenza, finiva però per sottolineare come "le autorità dovrebbero aprire più canali regolari affinché la gente possa presentare i propri reclami, prima che i problemi si trasformino in scontri e così in violenza". Conclusione ovvie ma mai raggiunte nel caso delle autoimmolazioni tibetane, tutt'oggi gestite a suon di restrizioni e arresti.

(Fonte: ICT)






lunedì 22 luglio 2013

Spazi pubblici e spazi commerciali


Saturazione mediatica. Gli spazi pubblici delle principali città ne sono affetti da circa un decennio, con sintomi che vanno dalla proliferazione incontrollata di schermi al LED, come nel caso di Tokyo, al bombardamento audio dei sermoni per le strade del Cairo, sino ai sistemi di sorveglianza invisibili e inudibili che coprono ormai quasi tutta la superficie terrestre. Il rischio è quello di un degrado della comunicazione pubblica "face-to-face", progressivamente rimpiazzata da forme mediate e "commercializzate". L'inaspettato vantaggio, però, potrebbe essere la nascita di nuovi spazi pubblici e la diffusione di innovative modalità di fruizione delle aree condivise.

Public Space, Media Space, di Chris Berry, Janet Harbor e Rachel O. Moore, nasce da un'analisi comparata del fenomeno della "public screen culture" nelle città di Shanghai, Londra e il Cairo. Dopo lo splendore degli anni '90, Shanghai ha progressivamente perso il ruolo di mecca del cinema cinese. Così oggi, mentre l''industria dell'entertainment locale cigola, la New York d'Oriente presta il proprio skyliner a noti blockbuster quali Mission Impossible 3, Looper e l'ultimo Bond, scoprendosi improvvisamente capitale di un altro "grande schermo". Immagini in movimento si fanno promotrici di servizi pubblici e messaggi pubblicitari proiettate da dispaly di ogni dimensione. E sono ovunque: sui taxi, nella metro, in cima ai palazzi, all'ingresso dei complessi residenziali.

Per la maggior parte, sia i contenuti trasmessi che gli schermi stessi -frutto di una tecnologia abbastanza dispendiosa- rientrano in una cultura "neoliberista" e globalizzata, che individua nello spazio pubblico un luogo di piacere individuale nel quale consolidare la propria immagine attraverso il consumo. Quali siano le declinazioni propriamente cinesi della "public screen culture" gli autori del testo cercano di spiegarlo prendendo in esame alcune manifestazioni autoctone come gli zouzi, ovvero i caratteri che scorrono lungo strisce di LED. Ma è sopratutto Wujiaochang (Pentagon Plaza per chi non mastica il cinese) ad aver catturato il loro interesse.

Situata nel distretto di Yangpu, nella parte nord-est di Shanghai, Wujiaochang costituisce una shopping area e un centro di intrattenimento per i residenti della zona. Non vederla è impossibile, anche a chilometri di distanza: un gigantesco schermo sulla cima del centro commerciale Wanda Plaza si unisce all'illuminazione urbana in un concerto di luci che al calare della sera irradia dalla piazza. Proprio qui, d'estate, confluisce la popolazione locale armata di stereo per smaltire la cena appena consumata con un tango, una rumba o lanciandosi in un ballo di gruppo. E improvvisamente tradizione e modernità si fondono dando vita ad una cultura degli spazi pubblici che trascende il principio insidioso del "più spendo più mi diverto"; come se gli abitanti di Shanghai desiderassero qualcosa di diverso da una cultura dei consumi tout court.

Come vanno considerati tali attività ricreative nelle cornici urbane cinesi? Sono la prova di quello che lo scrittore-regista francese Guy-Ernest Debord definisce "spettacolo integrato", ovvero dove si finisce per non prestare più attenzione a ciò che viene trasmesso sullo schermo, ma si diventa parte di questo vivendolo in prima persona? In una Cina ancora animata dai ricordi delle difficoltà economiche del socialismo pre-riforme, quest'attrazione per la "public culture" -realizzata perlopiù in shopping area- potrebbe essere proiezione di un desiderio inconscio verso un consumo ancora maggiore? O è, invece, parte di una strategia d'appropriazione degli spazi commerciali da parte dei cittadini locali; quasi una forma di resistenza messa in atto da chi, rimasto indietro nell'"arricchimento glorioso" degli ultimi trent'anni, non si può permettere di sfruttarli da consumatore?

Nell'imbarazzo di dover dare una risposta conclusiva ad una questione niente affatto semplice, Public Space, Media Space si chiude lasciando insoluti una serie di interrogativi. E in effetti, quando ci si addentra a fondo nella materia, si finisce fin da subito per calpestare terreni scivolosi. Cosa s'intende per spazio pubblico? Come sottolinea Peter G. Goheen, autore di Public Space and the Geography of the Modern City, tra gli addetti ai lavori sono emerse due tendenze contrastanti: una che individua nello spazio pubblico un luogo di dinamismo della sfera sociale, un'altra che ne lamenta la progressiva svalutazione sotto il sistema capitalistico. Nella fattispecie cinese entrambe le definizioni risultano vere.

Il concetto di spazio pubblico ha valicato la Muraglia alla fine dell'Ottocento, in concomitanza con la rivoluzione dei trasporti e l'introduzione di “moderni” modi di produzione. Ma per entrare nel vivo del dibattito teorico bisogna aspettare gli anni '80 del secolo successivo, quando Philip C.C. Huang introdusse l'idea di un "cultural public space" inteso come "spazio intermedio tra Stato e società, nel quale entrambi partecipano".

La presenza nelle antiche città cinesi di alti muri divisori intorno alle abitazioni e ai parchi ha precluso per secoli la fioritura di una "vita di strada", mentre i templi hanno costituito praticamente l'unico luogo di ritrovo. Anche, nell'Ottocento, dopo l'apertura al commercio internazionale dei treaty ports, le città cinesi continuarono a mantenere la loro peculiare divisione interna in spazi racchiusi da recinzioni; una caratteristica, tuttavia, meno marcata nel sud del Paese. E nemmeno dopo il 1949 la pianificazione urbanistica di stampo sovietico, con le sue immense piazze pubbliche e i suoi viali monumentali, riuscì a far crollare i muri secolari del Celeste Impero.

Poi arrivarono le riforme di mercato e con loro standard e modelli internazionali. A piccoli passi prima una progressiva attenzione all'architettura del paesaggio (1978-1991), seguita dalla diffusione di piazze e strade pedonali su gusto occidentale (1992-1999), fino ad approdare alla moda delle aree verdi di inizio secolo. La sublimazione dello spazio urbano di epoca maoista venne riassunta nel principio "più aperto e più pubblico". E se all'epoca del Grande Timoniere la piazza aveva principalmente valenza politica, ospitando dimostrazioni di massa, dagli anni '80 in poi diventa luogo di svago e meta prediletta dei cittadini nelle calde serate estive. Uno spazio multifunzionale che, sulla scia della liberalizzazione economica, comincia ad offrire una vasta gamma di servizi, attività ricreative e di compravendita. Ma non ha nemmeno assaporato il suo nuovo status che potrebbe averlo già perso.

E', infatti, opinione diffusa in Occidente che la conversione di un luogo al "consumo" ne snaturi la sua caratteristica di spazio pubblico in senso proprio. Tanto che il geografo Jon Goss etichetta gli shopping mall come "pseudospace". Motivo? Sebbene la maggior parte dei consumatori li consideri "pubblici", in realtà questi posti sono sottoposti ad una costante sorveglianza e "fingono di essere spazi civici anche se sono privati e votati al profitto. Offrono un luogo di comunicazione e svago mentre cercano di fare soldi". Tanto per avere un'idea, nel 2008 sei dei venticinque shopping center più grandi al mondo si trovavano proprio in Cina.

Quello stesso anno Pechino si apprestava ad accogliere le Olimpiadi, alle quali si era preparata da tempo perseguendo una campagna dal nome eloquente: "Green Beijing, Green Olympics". Un'operazione di maquillage grazie alla quale la capitale cinese è riuscita a presentarsi ai visitatori stranieri più verde ed ecofriendly. Proprio nei giardini pubblici, in netto aumento dall'avvio delle riforme anni '80, i cinesi tutt'oggi si sbizzariscono in performance che spaziano dalle danze, all'opera, fino alla calligrafia. Attività ricreative nelle quali il passante casuale molto spesso dismette i panni dello spettatore per salire sul palcoscenico, come nel caso degli abituè di Wujiaochang.

"Queste attività vanno analizzate da una prospettiva macroscopica. Tanto per cominciare sono visibili in molte città della Cina, non soltanto a Pechino e Shanghai" ha spiegato a China Files Jiang Fei, researcher presso l'Institute of Journalism and Communication dell'Accademia cinese di scienze sociali, nonché direttore del Center of Global Media & Communication Studies "i partecipanti le considerano un mix di intrattenimento, relax, esercizio fisico ma anche di interazione sociale. Non danno peso al fatto di essere osservati perché si sentono 'salvi', in quanto si trovano già in mezzo alla folla".

Che si sentano più spettatori o attori, per Jiang la sostanza non cambia.
"Il fatto di ballare in pubblico o di venire guardati da altri non entra in conflitto con il fatto di guardare a propria volta o consumare su larga scala. Lo scorso anno, in Cina, il box office complessivo ha raggiunto 17,1 miliardi di renminbi. Non possiamo dire se a queste cifre abbiano contribuito anche quei ballerini di strada, ma non ci sono dubbi che se non altro guardano molta tv".

Nella realtà magmatica di un Paese che ha cambiato volto nell'arco di pochi lustri la necessità di punti fermi è ormai impellente. Una ricerca condotta dall'Istituto di Sociologia dell'Accademia cinese delle scienze sociali -riportata alcuni mesi fa dal Quotidiano del Popolo- rivela che il 70% dei cinesi intervistati non si fida più degli estranei, evidenziando un chiaro senso di diffidenza verso il sistema sociale in cui vive. Una crisi di credibilità generale che la testata di Partito imputa principalmente al processo di urbanizzazione avviato negli anni '80 senza una pianificazione scientifica.

"La Cina si trova ancora in una fase primaria del socialismo" conclude Jiang "la gente conserva ricordi vividi delle carenze economiche del passato, sopratutto gli over 40, ma sanno anche bene cosa voglia dire dover far fronte all'impennata dei prezzi. Ballare nei nuovi spazi urbani è un modo per riprendere fiato, per sentirsi parte 'di un tutto'. E questa routine quotidiana dà loro un grande senso di sicurezza".

(Scritto per China Files e pubblicato su il Manifesto Asia)

venerdì 19 luglio 2013

Xu Zhiyong, un estremista moderato

La lotta alla corruzione di Xi Jinping non convince. Non convincono nemmeno gli incoraggiamenti rivolti ai cittadini dalla stampa governativa a partecipare all'opera di pulizia tra i ranghi del Partito. E il caso Xu Zhiyong non fa che adombrare ulteriormente la credibilità del nuovo presidente. Xu, uno dei principali attivisti del movimento che si batte per la pubblicazione dei redditi dei funzionari, è finito agli arresti pochi giorni fa con l'accusa di "disturbo dell'ordine pubblico". Di nuovo verrebbe da dire. Si perché, dal 2009 a oggi, Xu è stato preso in custodia e messo ai domiciliari a più riprese. Ma "Xu non butta bombe, né dice cose offensive che possano ferire i leader. Lui è l'anima della ragione e del rispetto verso tutti, compresi i suoi aguzzini. Eppure quest'uomo risulta apparentemente intollerabile". Cosa lo rende tanto odioso agli occhi della "giustizia" cinese? Per cercare di trovare una risposta, ritengo possa essere utile soffermarsi sul commento del professor Andrew J. Nathan, ospitato su China File.

"Non sappiamo chi prende decisioni di questo tipo (l'arresto di Xu, ndr), ma io credo che la maggior parte delle volte non siano i generalisti del governo, ma piuttosto i professionisti della sicurezza. Questi hanno il compito di mantenere l'ordine sociale e difendere il regime. Per loro gli antagonisti che suscitano maggiori frustrazioni non sono e rivoltosi o i manifestanti, non sono i terroristi o i sabotatori, né i ladri o gli assassini. Sono piuttosto coloro che operano all'interno della legalità e attraggono maggiore supporto sociale -persone come Liu Xiaobo e Chen Guangcheng. Liu ha inviato un appello eloquente per chiedere al regime di seguire quanto scritto nella costituzione, è riuscito a riunire centinaia di intellettuali e ha anche vinto il Premio Nobel per la pace. Cosa potrebbe essere più offensivo?! Chen si è battuto contro le pressioni esercitate sulle donne cinese dalle autorità per la pianificazione delle nascite, diventando il beniamino della comunità internazionale. Che arrogante assurdità! Sono questi gli antagonisti della sicurezza più esasperanti. 
Xu Zhiyong rientra in questa categoria di persone: combatte per una buona causa senza violare la legge, guadagnando rispetto diffuso e affetto. Agli occhi degli uomini della sicurezza, cosa potrebbe essere più subdolo e perverso? L'assurdità dell'attacco nei suoi confronti manda un messaggio voluto: proprio come Liu è stato accusato di aver mobilitato altri per sovvertire il potere dello stato, proprio come Chen è stato accusato di aver ostacolato il traffico, sebbene fosse cieco e sottoposto ai domiciliari, così Xu Zhiyong, a sua volta ai domiciliari, è stato accusato 'di aver riunito una folla per sovvertire l'ordine pubblico'. Il messaggio sembra dunque essere: 'la legge è per noi, non per voi'".

Stando a a quanto dichiarato dall'avvocato per la difesa dei diritti umani Teng Biao, sarebbero una quarantina gli attivisti del movimento anti-corruzione finiti agli arresti dallo scorso marzo.

mercoledì 17 luglio 2013

Amici-nemici per la pelle


Come una rondine non fa primavera, così un summit non è in grado di forgiare "nuove relazioni" tra superpotenze. Sopratutto se i due giganti in questione sono la prima e la seconda economia mondiale. Lo ha affermato l'ambasciatore cinese negli Stai Uniti, Cui Tiankai, alla viglia del Quinto Dialogo Strategico ed Economico tra Cina e Stati Uniti tenutosi pochi giorni fa a Washington: "Dobbiamo mantenere il sangue freddo circa le relazioni bilaterali, perché il loro sviluppo non procederà liscio dopo soltanto un incontro tra presidenti", scandisce in un editoriale pubblicato sul Quotidiano del Popolo.

Il riferimento è chiaramente al meeting informale che nel mese scorso ha visto Xi Jinping raggiungere il suo omologo Barack Obama in California per trascorrere un weekend all'insegna della sicurezza cibernetica. Questione rifinita inesorabilmente al centro dell'ultimo appuntamento sino-americano, che ha avuto lo scopo di "rafforzare il consenso" raggiunto a giugno dai due capi di Stato. A cementare il legame tra le parti sarà la ripresa dei colloqui sugli investimenti bilaterali. La Cina avrebbe infatti dato la sua disponibilità ad aprire il proprio mercato agli investimenti Usa anche a quei comparti ritenuti sinora off-limits.

Ma se, per il bene degli scambi virtuosi, la Cina si è detta disposta ad allentare le sue posizioni protezioniste, sul versante geopolitico invece non transige. Ed è ancora una volta Cui Tiankai a mettere le cose in chiaro, puntando il dito contro l'incombente presenza a stelle e strisce nella regione Asia-Pacifico. La minaccia della Corea del Nord -come affermato da Cui in un'intervista alla CNN- non deve diventare un pretesto per una reazione sproporzionata nell'area da parte di Washington. Proprio la denuclearizzazione della penisola nordcoreana aveva fatto da collante tra le parti durante il weekend californiano tra Obama e Xi, mentre tra le due sponde del Pacifico montava il caso Prism, scoperchiando il sistema di sorveglianza messo in piedi dalla National Security Agency americana e le sue molte vittime (Cina compresa). La ambizioni nucleari di Pyongyang rappresentano una questione di sicurezza nazionale per Pechino, ma l'eventualità di un conflitto armato tra le parti metterebbe a rischio la stabilità regionale, ha ammonito il numero uno della diplomazia cinese negli Usa.

Corea del Nord e poi Giappone. Cui si è detto molto diffidente circa le posizioni neutrali sbandierate da Washington nella tenzone che vede Dragone e Sol Levante contendersi una manciata di isole nel Mar cinese orientale. Amministrato da Tokyo con il nome di Senkaku e rivendicato da Pechino come Diaoyu, l'arcipelago rientra infatti nel trattato di sicurezza Usa-Giappone del 1960. Il che vuol dire che in caso di guerra l'Aquila prenderebbe, ovviamente, sotto la propria ala protettiva l'alleato. "Quando gli Stati Uniti parlano con noi dicono una cosa, quando parlano con il Giappone ne dicono un'altra. Quindi qual'è la loro vera posizione? Non resta che aspettare e vedere" conclude Cui.

Quella per le Diaoyu/Senkaku non è l'unica disputa territoriale ad impegnare il Dragone. Sprately, Paracel e Pratas, tutte situate nel Mar cinese meridionale, sono causa di attriti con altri paesi vicini. Nel caso delle Diaoyu, però, le mire di Pechino potrebbero superare di gran lunga le schermaglie con Tokyo, andando a scardinare l'ordine internazionale cesellato da Washington dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi.

Tutto si regge sul Trattato di San Francisco, siglato nel 1951 tra 49 paesi (tra i quali non compaiono però Repubblica popolare e Taiwan) e sul Trattato di reversione delle Okinawa tra Stati Uniti e Giappone, sulla base dei quali le isole furono riconsegnate a Tokyo nel 1972. Tanto le Diaoyu/Senkaku quanto l'arcipelago di Okinawa sono ancora coperte dal Trattato di sicurezza nippo-americano, che garantisce al Giappone protezione in caso di un attacco. Il punto centrale -come si legge su Asia Times- è che nel caso in cui gli Stati Uniti decidessero di mollare il Sol Levante nella disputa con la Cina, l'alleanza verrebbe meno e con essa la posizione di forza di Washington nel Pacifico occidentale. Un'ipotesi che sancirebbe la supremazia incontrastata del Dragone, con la restaurazione di un sistema di vassallaggio tra ex-Celeste Impero e stati limitrofi, in auge prima del collasso dell'ultima dinastia cinese.

Sembra, dunque, che Pechino non voglia soltanto mettere le mani sulle Diaoyu e le risorse naturali delle acque circostanti. Da un punto di vista strategico, smembrare la rete di alleanze che lega Washington a diversi stati dell'Asia Orientale ha come scopo ultimo l'isolamento degli Stati Uniti, al fine di contenerne l'assertività crescente nella regione (Edward N. Luttwak avrebbe molto da argomentare in difesa di una tesi diametralmente opposta. Si consiglia la lettura di Il risveglio del drago; la minaccia di una Cina senza strategia) Peraltro, le rivendicazioni cinesi sono cosa piuttosto recente, dato che un un comunicato del Ministero degli Esteri, datato 15 maggio 1950, aveva riconosciuto la sovranità di Tokyo sulle isole chiamandole con il nome giapponese di Senkaku e collegandole alla catena delle Ryukyu, delle quale anche Okinawa fa parte.

"La crescente forza militare ha incoraggiato Pechino a riattivare vecchie rivendicazioni e a inventarne di nuove" ha commentato Richard C. Thornton sulle colonne di Asia Times. E sicuramente il fatto di avere un portafoglio gonfio aumenta la baldanza cinese. Nel 2010 la Cina è diventata la seconda potenza economica del pianeta superando il Giappone. Negli anni a seguire la sua economia è cresciuta circa quattro volte più velocemente di quella di Stati Uniti e Sol Levante, mentre un rapporto dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) ha pronosticato un sorpasso del Dragone sull'Aquila entro il 2016.

Data l'aperta rivalità -tanto dal punto di vista economico che geopolitico- risulta abbastanza strana la magnanimità con la quale i due avversari per eccellenza continuino ogni anno a devolvere al Gigante asiatico decine di milioni di dollari in aiuti e assistenza. Secondo un rapporto reso noto lo scorso maggio dal Congressional Research Service, nel 2012 Washington ha sborsato 28,3 milioni di dollari in un programma di aiuti e finanziamenti verso la Cina attraverso l'U.S. Agency for International Development (USAID) e il Dipartimento di Stato. Quest'anno le cifre previste sono leggermente inferiori; si parla di 25,5 milioni di dollari, secondo quanto riportato da Foreign Policy.

L'USAID, che amministra circa la metà dei finanziamenti a stelle e strisce, in Cina si concentra principalmente su quattro aree: protezione ambientale, stato di diritto, HIV/AIDS e sviluppo sostenibile delle comunità tibetane. Come spiegare la generosità degli Stati Uniti verso un un paese che rappresenta un temuto concorrente praticamente in tutti i settori? "Penso che il nostro aiuto alla Cina serva a promuovere gli interessi degli Stati Uniti" ha dichiarato in un'intervista telefonica a FP il senatore Ben Cardin, presidente dell'East Asian and Pacific Affair Subcommittee della Commissione Affari Esteri. Peraltro, proprio di aiuti non si tratterebbe. Almeno secondo quanto affermato da un funzionario dell'USAID che ha preferito parlare di "assistenza direzionata" per implementare una "cooperazione tecnica in alcuni settori chiave, in ambiti ristretti e definiti". Aggiungendo che i biglietti verdi non andranno ad accrescere i forzieri del governo cinese, ma a sostentare il popolo, come nel caso del programma Tibet del quale Pechino, tra l'altro, è perfettamente a conoscenza.

Più controverso il ruolo del Giappone, che proprio di recente nel suo Libro bianco della Difesa ha sferrato l'ennesimo affondo, denunciando "azioni pericolose" della Cina sul versante Diaoyu/Senkaku. Nonostante le tensioni, Tokyo sostiene l'incombente vicino di casa con una "quantità enorme di denaro", ha rivelato Kae Yanagisawa, direttore generale dell'East and Central Asia and the Caucasus Department presso la Japan International Cooperation Agency. Secondo le stime dell'Ocse, nel 2011 -ultimo anno per cui sono disponibili i dati- il Giappone ha fornito a Pechino quasi 800 milioni di dollari in assistenza per lo sviluppo. Una cifra considerevole anche se inferiore agli 1,98 miliardi raggiunti nel 2000.

Sebbene -come spiegato da Yanagisawa- il governo nipponico stia cercando di dirottare il proprio sostegno alla Cina in quelle sfere di vantaggio comune (lotta all'inquinamento dell'aria in primis), l'opinione pubblica giapponese non vede di buon occhio questo allungare la mano al nemico. Anche perché non ha un ritorno. Pare infatti che Pechino, oggi a sua volta tra i maggiori donatori internazionali, sia largo di manica con Africa e cugini asiatici, ma ignori il Giappone. Limitandosi a "capitalizzare" i sensi di colpa di Tokyo, sul quale tutt'oggi pesano le atrocità della seconda guerra mondiale, con tanto di stupro di Nanchino a fare da preambolo.











domenica 14 luglio 2013

Yu Keping: una democrazia su misura per il Dragone

Considerato da molti l'astro nascente tra i teorici del Partito comunista cinese,Yu Keping ha per così dire una doppia identità di studioso e funzionario. A lui si deve una formulazione sulla "democrazia con caratteristiche cinesi" che rispecchia posizioni piuttosto liberali, ma che non trova l'appoggio della maggior parte dei membri del Pcc. Il processo democratico, per Yu, deve essere "graduale" e deve tenere conto delle caratteristiche peculiari della Cina, escludendo un occidentalizzazione del sistema così come elezioni multipartitiche e una tripartizione dei poteri. Il suo obiettivo è piuttosto quello di rendere la democrazia non più "pericolosa" agli occhi dei cinesi, sebbene riconosca questa sia meno efficace di un regime autoritario per via delle ripetute negoziazioni, consultazioni e compromessi che ne possono rallentare il processo decisionale. Sul lungo periodo, d'altra parte, si rivelerebbe in grado di assicurare una maggiore stabilità, stabilendo una più salda legittimità politica. 
Sotto segue la traduzione di un articolo del 13 luglio in cui spiega i cinque step attraverso i quali raggiungere una democrazia "ordinata" in Cina. 

(I primi due step)

La democrazia è una buona cosa, in quanto è in grado di portare benefici al popolo. Tra questi un prerequisito è che fa si l'ordine sociale non vada fuori controllo né dovrebbe portare alle persone sofferenze. Se la democrazia fosse foriera di disordini civili, povertà e corruzione allora chi la vorrebbe più? Eppure i suoi oppositori sventolano questi rischi per spaventare la gente. In realtà, vi sono prove evidenti che promuovere la democrazia non conduce affatto alla confusione sociale. Al contrario, nel tempo, soltanto un governo democratico riesce a mantenere a lungo un Paese in pace e tranquillità. Dunque, sulla base delle circostanza reali in cui verte la Cina di oggi, com'è possibile stabilire una democrazia "ordinata"?

1) Occorre scegliere la giusta direzione
La democrazia non è un problema che può piacere o no, ma è piuttosto una tendenza inarrestabile. Oggi si discute di sogno cinese, inteso come la grande rinascita del popolo cinese. Tale grande rinascita ha molti aspetti, tra questi democrazia e Stato di diritto sono imprescindibili.
La democrazia è una tendenza della società umana, e procedere senza interruzione verso essa è una direzione di sviluppo politico irreversibile. E' così in ogni Paese e nemmeno la Cina fa eccezione. Sun Yat-sen una volta ha detto: "La tendenza mondiale è imponente, chi la asseconda prospererà, chi vi si oppone morirà". La tendenza di cui parlava consiste principalmente nel fatto che la nazione vuole rimanere indipendente, il Paese vuole essere prospero e forte, mentre il popolo vuole la democrazia. Parlando di civiltà politica, i due contenuti principali sono democrazia e Stato di diritto. La democrazia è la vita stessa della nostra Repubblica: il nome "Repubblica popolare di Cina", infatti, contiene in sé il significato di sovranità popolare. Il Sedicesimo Congresso del Partito ha sottolineato che la democrazia intrapartitica è la vita del Partito, il Grande Diciassettesimo invece ha evidenziato come la democrazia del popolo sia la vita del socialismo. Quindi la democrazia non è un problema che può piacere o no, è piuttosto una tendenza inarrestabile. La strada di sviluppo del "socialismo con caratteristiche cinesi" è costituita dall'unione di tre elementi: la leadership del Partito, la sovranità del popolo e lo Stato di diritto. Il nucleo centrale però è rappresentato dalla sovranità popolare, mentre la leadership del Partito e lo Stato di diritto, in definitiva, servono ad assicurare la sovranità del popolo. Il rapporto del Diciottesimo Congresso ha sottolineato che occorre continuare a garantire al popolo un ruolo primario. Promuovere la democrazia e lo Stato di diritto è responsabilità storica del Partito; questa è la corretta direzione che dobbiamo intraprendere.

2) Occorre scegliere il momento giusto
Un ritardo delle riforme politiche o della costruzione della democrazia può portare una serie di problemi. Se alcune delle riforme dei settori chiave non dovessero riuscire ad aprirsi un varco, allora si potrebbe realizzare una situazione ancora più terribile, in cui la corruzione si trasforma in privilegi approvati per legge. La realizzazione della democrazia richiede una serie di condizioni reali, necessita che sia compatibile con i requisiti culturali ed economici della società o comunque con basi realistiche. Qualsiasi dislocazione porterebbe conseguenze disastrose. Procedere troppo di fretta non va bene, ma non va bene nemmeno rimandare. Per quanto riguarda la fretta, abbiamo già avuto una lezione amara  in questi anni di "corsa nel comunismo". Ugualmente, comunque, procrastinare le riforme politiche e la democrazia porterà diversi problemi. Per esempio, più aspettiamo più la tanto detestata corruzione sarà difficile da controllare, ed è tutto direttamente collegato al ritardo nella riforma del sistema. Paragonati alla corruzione, i privilegi dei funzionari sono ancora più terribili perché danneggiano in maniera peggiore e spesso non vengono posti sotto indagine. Inoltre, anche il dilemma della dichiarazione pubblica delle ricchezze dei funzionari e il calo della credibilità del governo sono entrambi collegati alle falle del sistema è alla mancata realizzazione delle riforme. Assicurare circostanze favorevoli per la promozione delle riforme è responsabilità dei politici, e riflette anche le loro capacità. E' necessario che i politici abbiano un alto grado di saggezza e di meriti, ma, tra tutte queste caratteristiche, responsabilità e meriti sono molto più importanti di saggezza e abilità.

(Nel frattempo l'articolo è stato tradotto integralmente in inglese su Sinocism)

中央編譯副局長:推進民主並不必然導致秩序失控
http://news.sina.com   2013年07月12日 14:30   中國新聞網
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  “民主是個好東西”,指的就是民主能夠造福於民。民主要造福於民,其中一個前提就是社會秩序不能失控,不能給人民帶來痛苦。要是民主導致國家動亂,民不聊生,腐敗風行,誰還要民主?反民主的人往往拿這個來嚇人。事實上,更多的事實證明,推進民主並不必然導致秩序失控。相反,從長遠看,惟有民主法治才能使國家長治久安。那麼,如何在中國的現實條件下實現有序的民主?

  1 要選擇正確的方向

  民主不是喜歡不喜歡的問題 而是不可阻擋的潮流

  現在我們談論中國夢,中國夢就是實現中華民族的偉大復興。偉大復興內容很多,其中不可或缺的內容就是高度的民主和法治。

  民主是人類社會的發展潮流,不斷走向民主是不可逆轉的政治發展趨勢,無論對哪個國家都如此,中國也不例外。孫中山先生曾講過:“世界潮流,浩浩蕩蕩,順之者昌,逆之者亡”。他講的世界潮流主要指的就是民族要獨立、國家要富強、人民要民主。我們講政治文明,最主要的兩個內容就是民主和法治。民主也是我們共和國的生命,“中華人民共和國”最主要的意義就是人民當家做主。十六大強調黨內民主是黨的生命,十七大強調人民民主是社會主義的生命。民主已經不是喜歡不喜歡的問題,而是一種不可阻擋的潮流。現在我們談論中國夢,中國夢就是實現中華民族的偉大復興。偉大復興內容很多,其中不可或缺的內容就是高度的民主和法治。中國特色的社會主義政治發展道路其實就是三個統一,即“黨的領導、人民當家做主和依法治國”三者的有機統一。三者之中核心的內容是人民當家做主。“人民當家做主”是主體,“黨的領導”和“依法治國”最終也是為了保障人民的當家做主。十八大報告特彆強調,必須堅持人民的主體地位。不斷推動民主法治,是共産黨人的歷史責任,這是我們的正確方向。

  2 要選擇正確的時機

  重點領域的改革不突破 非法腐敗可能轉化成合法特權

  政治改革或民主建設滯后會帶來一系列問題,如果一些重點領域的改革不突破,那麼更可怕的就是,非法的腐敗有可能轉化成合法的特權。

  民主的實現有現實條件的要求,需要與社會的經濟、文化條件或現實基礎相適應,任何一種錯位都會帶來災難性的后果。超前了不行,滯后了也不行。超前我們有過慘痛的教訓,如當年的“跑步進入共産主義”;政治改革或民主建設滯后同樣會帶來一系列問題,比如我們深惡痛絶的腐敗問題,遲遲得不到有效遏制,跟我們某些體制改革的滯后是直接相關的。如果一些重點領域的改革不突破,那麼更可怕的就是,非法的腐敗有可能轉化成合法的特權。與官員的腐敗相比,其特權更可怕,因為后者的危害更為嚴重,而且通常不被追究。還有,官員財産公開面臨的兩難困境、政府公信力的下降,等等,都與制度漏洞和改革滯后有關。把握合適的機遇推進政治改革,是政治家的責任,也是政治家能力的體現,需要政治家高度的智慧和擔當。其中,擔當和責任比智慧和能力更重要。

  3 要選擇正確的路線

  從黨內民主到社會民主 從基層民主到高層民主

  在政治生活中,理想的狀態是公民對各級政府都信任,但在現實中,民衆是對中央政府高度信任,對基層政府信任度則偏低。

  中國作為一個大國,進行政治改革必須設計一個理性的路線圖。我一直認為有三條路線可供選擇:一是從黨內民主到社會民主。這也是我們黨十六大、十七大、十八大一直堅持的,民主發展要選擇一條成本最小、效益最高的路徑,而黨內民主就是一條這樣的路,黨內民主事實上是從核心向外圍的擴展。二是從基層民主到高層民主。中國的基層民主是可控的,代價小。一方面國家有足夠的力量管控地方民主實踐,另一方面基層民主直接針對老百姓,老百姓可以直接受益。在政治生活中,理想的狀態是公民對各級政府都信任,但在現實中,中國與美國正好相反,美國公民是對聯邦政府信任度很低;我們是對中央政府高度信任,對基層政府信任度則偏低。“基層不牢,地動山搖”,這種現象必須引起高度警惕。三是從更少的競爭到更多的競爭。民主一定要有競爭,沒有競爭怎麼把優秀的人給選出來;我們的民主自然具有中國特色,但縱使最有“中國特色”,民主也離不開選舉和競爭。協商民主當然很重要,但協商不等於排除選舉。

  4 要選擇正確的方式

  自由和平等是民主政治的兩種基本價值

  需要做到六個方面的平衡:既要民主也要法治,既要協商又要選舉,既要自由又要平等,既要效率又要公正,既要參與又要秩序,既要權利又要公益。

  選擇正確的民主發展方式要做到六個方面的平衡:第一,既要民主也要法治。民主和法治是一個硬幣的兩面,是不可分割的,無論哪個政治學家講到民主都離不開法治。無論是西方的經驗,還是我們中國的經驗,無不證明如此;

  第二,既要協商又要選舉。中國的民主在很大程度上確實是協商性的,這有歷史傳統;選舉則是近代以后的産物。但既然是民主,就離不開選舉,二者要結合起來;

  第三,既要自由又要平等。這又是民主政治的兩種基本價值,過去我們偏重於平等,后來搞改革開放對自由的價值更為強調,現在二者又處於高度的張力之中。

  第四,既要效率又要公正,這兩者也是不可或缺的基本價值。改革開放初期,效率問題更加突出,現在公正問題變得更加突出。

  第五,既要參與又要秩序。亨廷頓說,政治現代化最大的挑戰就是處理好公衆參與和政治穩定的關係。這兩者之間的張力,我們也已經明顯地感受到了。現在我們就遇到了這個問題,隨着社會群體利益的多元化,公民的參與需求日益強烈,想阻擋參與是阻擋不了的。這就需要有更多的和更通暢的利益表達和政治參與渠道,如果沒有足夠的合法渠道,那麼公民就勢必會利用非正常的,甚至非法的渠道,那就會帶來社會的動蕩,民主參與就有可能失控。

  第六,既要權利又要公益。權利是個人的,公民的合法權利是憲法所保障的;但我們又要公共利益,因為國家和社會是一個共同體,這兩者之間的關係要處理好,個人權利與公共利益之間要有一個合適的平衡。

  5 要選擇正確的策略

  成功的改革經驗要上升到制度層面

  我們面臨的改革任務很多,應該抓重點,選擇一些能夠“牽一發而動全身”的改革突破口;黨內民主是重點突破的領域之一,比如黨內民主中的權力制約問題。

  首先,要有總體佈局,按照主流政治理論來講,就是要科學發展,即經濟的發展要與政治的發展、社會的發展、文化的發展等結合起來。要做好頂層設計,拿出言之有據的合理方案;要有一個協調各方利益的綜合決策機構,尤其是在中央層面;政府改革應與黨的改革相配套。二是繼續加大試點,以點帶面,也就是“摸着石頭過河”。這是我們改革成功的一個重要經驗,“摸着石頭過河”的關鍵在於,要總結試點地區的成功經驗,將之上升到制度層面加以推廣。我們現在的很多效果很好的改革往往沒有持續性,問題就在於人走政息,沒有上升到制度層面。三是重點突破,整體推進。我們面臨的改革任務很多,應該抓重點,選擇一些能夠“牽一發而動全身”的改革突破口;黨內民主是重點突破的領域之一,比如黨內民主中的權力制約問題,我們現在監督講得多了,制約講得少了,特別是對一把手的制約比較少。

  總而言之,大家都擔心推進民主會使秩序失控,帶來社會動蕩;都希望在推進民主的同時保持社會的穩定。然而,在我看來恰恰只有深化政治體制改革,真正推進民主和法治,才能使國家長治久安,才能使民主造福於人民。

  □俞可平 中央編譯局副局長,教授,哲學、政治學雙學科博士生導師,著有《民主是個好東西》、《敬畏民意》等。

martedì 9 luglio 2013

Tian'anmen e le altre


(L'articolo verrà pubblicato sul numero di agosto di Uno sguardo al femminile)

Espropriazioni forzate, corruzione dei funzionari, violazione dei diritti umani, inquinamento allarmante, scandali alimentari, condizioni di lavoro estenuanti e salari troppo bassi. Sono alcune delle gocce che in Cina minacciano costantemente di far traboccare un vaso ormai colmo. Nonostante le restrizioni alla libertà di associazioni e di parola, la Repubblica popolare cinese viene sempre più spesso agitata da proteste e manifestazioni di dissenso contro lo Stato, che nel Celeste Impero coincide con il Partito comunista cinese, dal 1949 forza di governo a capo di un sistema politico autoritario.

E' a partire dai prima anni Novanta che gli "incidenti di massa" hanno registrato una crescita esponenziale, dai circa 8700 del 1993 agli oltre 87mila del 2005. E se le stime dell'Accademia cinese di scienze sociali per il 2006 parlano di di 90mila proteste, nel 2010 il sociologo Sun Liping portava i numeri a 180mila, per una media di 500 disordini al giorno. Un alzare la voce che, secondo molti, rimarrebbe tale a causa della mancanza di un "tessuto connettivo" e della circoscrizione limitata delle rimostranze, andando a speronare i quadri a livello locale, ma lasciando in sella la dirigenza del Partito. Gli "indignati" cinesi sono spesso mossi da interessi personali, come allontanare una fabbrica dal cortile di casa propria senza maturare una vera consapevolezza "verde" (nel caso delle proteste ambientaliste), oppure ottenere un aumento di stipendio a livello di fabbrica, senza d'altra parte mostrare la maturazione di una coscienza di classe che possa cementare le singole richieste in un movimento minaccioso per il regime.

Per molti versi, alle nostre latitudini, i cinesi continuano ad essere dipinti come compagni divenuti improvvisamente consumatori senza mai passare per la fase di cittadini. Ma è veramente così? Secondo il reporter investigativo Liu Jianqiang, le manifestazioni ambientaliste, che vedono in prima linea la giovane classe media cinese, sarebbero a tutti gli effetti un movimento per la democrazia; più cauto rispetto al suo predecessore di piazza Tian'anmen, in quanto scevro da implicazioni politiche, e proprio per questo in grado di fare da ponte tra funzionari, gente comune e alte sfere del Partito. Nonché capace di esercitare un impatto più esteso rispetto alle espropriazioni forzate o alle dispute sul lavoro.

Al "popolo delle formiche", ovvero i laureati cinesi che vivono nei sobborghi urbani con salari minimi, guarda invece con interesse Angela Pascucci, ex capo redattrice esteri del Manifesto ed esperta di "cineserie". Questi ragazzi, stipati nei "villaggi-formicaio" da poche centinaia di yuan al mese per posto letto, rappresentano uno dei gruppi svantaggiati emerso dal processo delle riforme anni '80 e dalla progressiva estensione dell'accesso universitario, a fronte di un mercato del lavoro incapace di assorbire l'improvvisa ondata di neo-laureati. In loro la Pascucci riconosce per certi versi la categoria sociale cinese che più si avvicina alla classe dei giovani manifestanti della Primavera Araba, senza per questo individuarne un reale potenziale esplosivo. Complice, ipotizza, l'effetto disaggregante del controllo delle nascite e le sue ripercussioni a livello psicologico, che - secondo uno studio pubblicato lo scorso inverno su Science- avrebbero dato vita ad una generazione di figli unici meno competitivi, meno sicuri di sé e meno inclini al rischio. Non esattamente le credenziali per dei perfetti ribelli.

D'altra parte, la sua occasione la Cina l'ha avuta nel febbraio 2011, quando il profumo dei Gelsomini tunisini valicò la Grande Muraglia traducendosi in una rivoluzione abortita sul nascere. Ridotta ad alcuni appelli sulla rete che hanno avuto uno scarso riscontro nella realtà: marce silenziose nelle principali città cinesi dove manifestanti e semplice passanti si sono dispersi in strada come una moltitudine indistinguibile, non dissimile da quella osservabile quotidianamente nelle caotiche metropoli del Paese più popoloso al mondo. La reazione sproporzionata delle forze dell'ordine ha messo a nudo la tensione palpabile nei palazzi del potere, con arresti dei dissidenti più noti e un rafforzamento dell'apparato di sicurezza interna che proprio dal 2011 usufruisce di un budget superiore a quello destinato alla Difesa. Tutt'oggi Pechino guarda con timore ai disordini arabi e bolla "i movimenti di strada" come una sfida per i Paesi emergenti che né Cina né Africa del Nord possono permettersi. Un'occasione in più per riaffermare il bisogno di un equilibrio perfetto tra riforme, sviluppo e stabilità, e diffidare dalla ricetta democratica come panacea per tutti i mali.

La repressione preventiva messa in atto da Pechino nell'anno dei Gelsomini rivela quanto siano ancora fresche le ferite del 1989, anno delle proteste di piazza Tian'anmen soppresse nel sangue da una leadership lacerata al suo interno dall'emergere di fazioni politiche differenti. Al tempo a prevalere fu la linea dura di Deng Xiaoping, che da quel momento in poi ha stroncato in ogni modo la nascita di una società civile vera e propria, lasciando di contro ampia libertà sul versante economico. Risultato: crescita iperbolica del Pil e "stabilità a tutti i costi", marchio di fabbrica della passata amministrazione Hu Jintao-Wen Jiabao messa a dura prova dalle sanguinose rivolte etniche in Tibet (2008) e nello Xinjiang (2009). Ma anche dalle crepe del sistema finanziario, dalla corruzione rampante tra le fila del Partito, dal crescente gap ricchi-poveri e dall'incrinarsi di quel patto sociale, stretto con gli ambienti intellettuali, riassumibile nella formula "stabilità in cambio di benessere". Il prezzo da pagare per quel tacito accordo è oggi la mancata osservanza di quanto stabilito nella Costituzione, emendata nel 2004, che prevede solo sulla carta "libertà di parola, di stampa, di riunione, di associazione, di spostamento e di dimostrazione".

L'impennare delle proteste risale al maggio 2002 (anno in cui Hu Jintao divenne Segretario generale del Pcc), quando migliaia di impiegati nelle fabbriche d'acciaio di Liaoyang manifestarono contro i funzionari corrotti, colpevoli di aver fatto chiudere diversi impianti e di aver privato alcuni operai delle loro pensioni. Non contro il governo centrale, dunque, ma contro i quadri a livello locale, spesso sordi agli ordini emessi dai piani alti pur di accaparrarsi ingenti fortune.

Protestare ma ribadire la propria fedeltà al regime senza metterne in discussione la legittimità: sembra essere questa la caratteristica che accomuna le manifestazioni vincenti e manovra di conseguenza la mano del Partito. E' pugno di ferro in caso di tensioni etniche e attacchi diretti al cuore del sistema; è guanto di velluto quando si tratta di salari più generosi, condizioni lavorative più morbide, stop al land grabbing, tutela ambientale e sicurezza alimentare. In questi ultimi casi spesso le tensioni vengono placate attraverso piccole concessioni e l'arresto dei cattivi funzionari, mentre il Partito salva la faccia continuando a godere tra la popolazione di un tasso di gradimento del 90%.

Tian'anmen, la madre di tutte "le rivolte"

Riformare il sistema dal suo interno e dialogare con il Partito, considerato un inflessibile "capofamiglia" secondo una visione imbevuta di confucianesimo. Nessuno probabilmente si aspettava che quella notte tra il 3 e il 4 giugno 1989 le richieste degli studenti sarebbero state silenziate a colpi d'arma da fuoco. Non avevano nulla a che fare con una democrazia all'Occidentale, né tanto meno nascondevano fini sovversivi. Piuttosto puntavano all'avvio di un processo di istituzionalizzazione all'interno del Pcc che mettesse freno all'eccessivo potere e arbitrio dei leader più anziani, palesatosi, due anni prima, nella rimozione assolutamente arbitraria del Segretario generale riformista Hu Yaobang. Una destituzione che era andata a violare le procedure sino a quel momento seguite dai piani alti del Partito.

Ma deve essere stata la spinta verso una ridefinizione del rapporto società-Stato ad impensierire maggiormente i leader di allora; la messa in discussione del principio ideologico dell'unità degli interessi, mutuato dal marxismo, secondo il quale lo Stato si faceva garante di tutto quanto potesse essere vantaggioso al popolo, rendendo inutile il riconoscimento dei diritti democratici. A metà degli anni '80 tra gli studiosi si era cominciata a ravvisare l'esigenza di dar voce alla diversità, privando così lo Stato del suo controllo pervasivo sulla società e dando maggiore autonomia agli individui. All'indomani del massacro, tutte queste idee eterodosse furono colpite duramente sui media ufficiali, i loro sostenitori perseguitati o messi a tacere (per approfondimenti: Marina Miranda, La democrazia in Cina, Roma, Editrice Orientalia, 2013).

A circa vent'anni dalla Tian'anmen, alla guida del Paese siede adesso Xi Jinping, figlio di un riformista amico del defenestrato Hu Yaobang, che per le riforme politiche non sembra avere tempo, preso com'è dalla sua campagna anti-corruzione. In Cina le proteste dell''89 sono ancora tabù; la loro ricorrenza annuale viene accompagnata da una serrata censura sul web e da nuovi arresti. Ultimo a farne le spese il documentarista indipendente Du Bin, autore di un libro su Tian'anmen, rilasciato su cauzione l'8 luglio dopo 37 giorni di detenzione per atti che avrebbero "turbato l'ordine sociale".

In attesa di capire se Xi seguirà le orme paterne o meno, l'intellighenzia cinese procede con cautela, mentre oggi a tenere banco sull'Internet cinese e nel mondo accademico sono sopratutto Stato di diritto e Costituzionalismo, uno dei "sei concetti fondamentali" presenti nella Charta 08, manifesto sottoscritto il 10 dicembre 2008 da 303 intellettuali e attivisti tra i quali il Premio Nobel per la pace Liu Xiaobo. A causa della sua adesione al movimento, di cui è il primo firmatario, oggi Liu sta ancora scontando la pena di 11 anni di carcere con l'accusa di "incitamento alla sovversione del potere dello Stato".

Eppure, non saranno gli ambienti colti a dare filo da torcere ai "nuovi imperatori" saliti al potere solo pochi mesi fa a seguito di un decennale ricambio al vertice. Almeno non secondo Perry Link, professore emerito di studi sull'Asia Orientale all'Università di Princeton, nonché uno dei traduttori di Tian'anmen Papers, una selezione di controversi documenti segreti del Pcc sulle proteste dell''89.

"Due sono le differenze maggiori che intercorrono tra le proteste del 1989 e quelle di oggi" ha spiegato Link a Uno sguardo al femminile "nel 1989 le manifestazioni erano guidate da studenti universitari e dall'élite intellettuale. Oggi la spinta viene piuttosto dagli strati più bassi della gerarchia sociale, mentre studenti e letterati sono molto spesso alleati del regime. Anche se non tutti ovviamente. Secondo punto da considerare è senza dubbio il ruolo cruciale svolto dalla rete. Ai tempi della Tian'anmen l'unico modo per tenere degli incontri era recarsi di persona, con conseguente intervento della polizia qualora si trattasse di questioni sgradite al Partito. Adesso le  'cyber-assemblee' permettono di prendere parte alle riunioni senza bisogno di incontrarsi in prima persona. Questo rende molto più difficile il controllo da parte della polizia. Sebbene ci provi lo stesso, s'intende".

Hukou e controllo sociale

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