mercoledì 17 luglio 2013

Amici-nemici per la pelle


Come una rondine non fa primavera, così un summit non è in grado di forgiare "nuove relazioni" tra superpotenze. Sopratutto se i due giganti in questione sono la prima e la seconda economia mondiale. Lo ha affermato l'ambasciatore cinese negli Stai Uniti, Cui Tiankai, alla viglia del Quinto Dialogo Strategico ed Economico tra Cina e Stati Uniti tenutosi pochi giorni fa a Washington: "Dobbiamo mantenere il sangue freddo circa le relazioni bilaterali, perché il loro sviluppo non procederà liscio dopo soltanto un incontro tra presidenti", scandisce in un editoriale pubblicato sul Quotidiano del Popolo.

Il riferimento è chiaramente al meeting informale che nel mese scorso ha visto Xi Jinping raggiungere il suo omologo Barack Obama in California per trascorrere un weekend all'insegna della sicurezza cibernetica. Questione rifinita inesorabilmente al centro dell'ultimo appuntamento sino-americano, che ha avuto lo scopo di "rafforzare il consenso" raggiunto a giugno dai due capi di Stato. A cementare il legame tra le parti sarà la ripresa dei colloqui sugli investimenti bilaterali. La Cina avrebbe infatti dato la sua disponibilità ad aprire il proprio mercato agli investimenti Usa anche a quei comparti ritenuti sinora off-limits.

Ma se, per il bene degli scambi virtuosi, la Cina si è detta disposta ad allentare le sue posizioni protezioniste, sul versante geopolitico invece non transige. Ed è ancora una volta Cui Tiankai a mettere le cose in chiaro, puntando il dito contro l'incombente presenza a stelle e strisce nella regione Asia-Pacifico. La minaccia della Corea del Nord -come affermato da Cui in un'intervista alla CNN- non deve diventare un pretesto per una reazione sproporzionata nell'area da parte di Washington. Proprio la denuclearizzazione della penisola nordcoreana aveva fatto da collante tra le parti durante il weekend californiano tra Obama e Xi, mentre tra le due sponde del Pacifico montava il caso Prism, scoperchiando il sistema di sorveglianza messo in piedi dalla National Security Agency americana e le sue molte vittime (Cina compresa). La ambizioni nucleari di Pyongyang rappresentano una questione di sicurezza nazionale per Pechino, ma l'eventualità di un conflitto armato tra le parti metterebbe a rischio la stabilità regionale, ha ammonito il numero uno della diplomazia cinese negli Usa.

Corea del Nord e poi Giappone. Cui si è detto molto diffidente circa le posizioni neutrali sbandierate da Washington nella tenzone che vede Dragone e Sol Levante contendersi una manciata di isole nel Mar cinese orientale. Amministrato da Tokyo con il nome di Senkaku e rivendicato da Pechino come Diaoyu, l'arcipelago rientra infatti nel trattato di sicurezza Usa-Giappone del 1960. Il che vuol dire che in caso di guerra l'Aquila prenderebbe, ovviamente, sotto la propria ala protettiva l'alleato. "Quando gli Stati Uniti parlano con noi dicono una cosa, quando parlano con il Giappone ne dicono un'altra. Quindi qual'è la loro vera posizione? Non resta che aspettare e vedere" conclude Cui.

Quella per le Diaoyu/Senkaku non è l'unica disputa territoriale ad impegnare il Dragone. Sprately, Paracel e Pratas, tutte situate nel Mar cinese meridionale, sono causa di attriti con altri paesi vicini. Nel caso delle Diaoyu, però, le mire di Pechino potrebbero superare di gran lunga le schermaglie con Tokyo, andando a scardinare l'ordine internazionale cesellato da Washington dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi.

Tutto si regge sul Trattato di San Francisco, siglato nel 1951 tra 49 paesi (tra i quali non compaiono però Repubblica popolare e Taiwan) e sul Trattato di reversione delle Okinawa tra Stati Uniti e Giappone, sulla base dei quali le isole furono riconsegnate a Tokyo nel 1972. Tanto le Diaoyu/Senkaku quanto l'arcipelago di Okinawa sono ancora coperte dal Trattato di sicurezza nippo-americano, che garantisce al Giappone protezione in caso di un attacco. Il punto centrale -come si legge su Asia Times- è che nel caso in cui gli Stati Uniti decidessero di mollare il Sol Levante nella disputa con la Cina, l'alleanza verrebbe meno e con essa la posizione di forza di Washington nel Pacifico occidentale. Un'ipotesi che sancirebbe la supremazia incontrastata del Dragone, con la restaurazione di un sistema di vassallaggio tra ex-Celeste Impero e stati limitrofi, in auge prima del collasso dell'ultima dinastia cinese.

Sembra, dunque, che Pechino non voglia soltanto mettere le mani sulle Diaoyu e le risorse naturali delle acque circostanti. Da un punto di vista strategico, smembrare la rete di alleanze che lega Washington a diversi stati dell'Asia Orientale ha come scopo ultimo l'isolamento degli Stati Uniti, al fine di contenerne l'assertività crescente nella regione (Edward N. Luttwak avrebbe molto da argomentare in difesa di una tesi diametralmente opposta. Si consiglia la lettura di Il risveglio del drago; la minaccia di una Cina senza strategia) Peraltro, le rivendicazioni cinesi sono cosa piuttosto recente, dato che un un comunicato del Ministero degli Esteri, datato 15 maggio 1950, aveva riconosciuto la sovranità di Tokyo sulle isole chiamandole con il nome giapponese di Senkaku e collegandole alla catena delle Ryukyu, delle quale anche Okinawa fa parte.

"La crescente forza militare ha incoraggiato Pechino a riattivare vecchie rivendicazioni e a inventarne di nuove" ha commentato Richard C. Thornton sulle colonne di Asia Times. E sicuramente il fatto di avere un portafoglio gonfio aumenta la baldanza cinese. Nel 2010 la Cina è diventata la seconda potenza economica del pianeta superando il Giappone. Negli anni a seguire la sua economia è cresciuta circa quattro volte più velocemente di quella di Stati Uniti e Sol Levante, mentre un rapporto dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) ha pronosticato un sorpasso del Dragone sull'Aquila entro il 2016.

Data l'aperta rivalità -tanto dal punto di vista economico che geopolitico- risulta abbastanza strana la magnanimità con la quale i due avversari per eccellenza continuino ogni anno a devolvere al Gigante asiatico decine di milioni di dollari in aiuti e assistenza. Secondo un rapporto reso noto lo scorso maggio dal Congressional Research Service, nel 2012 Washington ha sborsato 28,3 milioni di dollari in un programma di aiuti e finanziamenti verso la Cina attraverso l'U.S. Agency for International Development (USAID) e il Dipartimento di Stato. Quest'anno le cifre previste sono leggermente inferiori; si parla di 25,5 milioni di dollari, secondo quanto riportato da Foreign Policy.

L'USAID, che amministra circa la metà dei finanziamenti a stelle e strisce, in Cina si concentra principalmente su quattro aree: protezione ambientale, stato di diritto, HIV/AIDS e sviluppo sostenibile delle comunità tibetane. Come spiegare la generosità degli Stati Uniti verso un un paese che rappresenta un temuto concorrente praticamente in tutti i settori? "Penso che il nostro aiuto alla Cina serva a promuovere gli interessi degli Stati Uniti" ha dichiarato in un'intervista telefonica a FP il senatore Ben Cardin, presidente dell'East Asian and Pacific Affair Subcommittee della Commissione Affari Esteri. Peraltro, proprio di aiuti non si tratterebbe. Almeno secondo quanto affermato da un funzionario dell'USAID che ha preferito parlare di "assistenza direzionata" per implementare una "cooperazione tecnica in alcuni settori chiave, in ambiti ristretti e definiti". Aggiungendo che i biglietti verdi non andranno ad accrescere i forzieri del governo cinese, ma a sostentare il popolo, come nel caso del programma Tibet del quale Pechino, tra l'altro, è perfettamente a conoscenza.

Più controverso il ruolo del Giappone, che proprio di recente nel suo Libro bianco della Difesa ha sferrato l'ennesimo affondo, denunciando "azioni pericolose" della Cina sul versante Diaoyu/Senkaku. Nonostante le tensioni, Tokyo sostiene l'incombente vicino di casa con una "quantità enorme di denaro", ha rivelato Kae Yanagisawa, direttore generale dell'East and Central Asia and the Caucasus Department presso la Japan International Cooperation Agency. Secondo le stime dell'Ocse, nel 2011 -ultimo anno per cui sono disponibili i dati- il Giappone ha fornito a Pechino quasi 800 milioni di dollari in assistenza per lo sviluppo. Una cifra considerevole anche se inferiore agli 1,98 miliardi raggiunti nel 2000.

Sebbene -come spiegato da Yanagisawa- il governo nipponico stia cercando di dirottare il proprio sostegno alla Cina in quelle sfere di vantaggio comune (lotta all'inquinamento dell'aria in primis), l'opinione pubblica giapponese non vede di buon occhio questo allungare la mano al nemico. Anche perché non ha un ritorno. Pare infatti che Pechino, oggi a sua volta tra i maggiori donatori internazionali, sia largo di manica con Africa e cugini asiatici, ma ignori il Giappone. Limitandosi a "capitalizzare" i sensi di colpa di Tokyo, sul quale tutt'oggi pesano le atrocità della seconda guerra mondiale, con tanto di stupro di Nanchino a fare da preambolo.











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