mercoledì 24 luglio 2013

C'è immolazione, e immolazione


Sabato scorso due persone si sono immolate in Cina. Uno, un petizionista di nome Ji Zhongxing, ha innescato un ordigno rudimentale nel Terminal 3 dell'aeroporto di Pechino; l'altro un monaco tibetano di nome Konchok Sonam, si è dato fuoco fuori dal monastero Soktsang, nel Tibet orientale, dopo aver cosparso i propri abiti di benzina. Ji è sopravvissuto all'esplosione ma ha perso una mano, Konchok, invece, è morto tra le fiamme. Entrambi gli episodi non hanno implicato il ferimento di altre persone. Entrambi i martiri sono sono stati spinti al gesto estremo da un senso di frustrazione verso le ingiustizie subite: Ji, dieci anni di richieste vane per ottenere un risarcimento dopo essere stato picchiato dalla polizia fino alla paralisi; Konchok una vita sotto il dominio cinese in Tibet portatrice di "troppe sofferenze", come egli stesso avrebbe confidato agli amici.

Eppure, nonostante le numerose analogie, agli occhi della stampa cinese i due casi necessitano una trattazione diametralmente opposta, motivata non tanto dalla gravità o dalle ripercussione su terzi delle azioni commessi, quanto piuttosto dall'etnia di chi le ha commesse. Quella tibetana, nella fattispecie, è stata colpita da un'ondata di ostilità crescente, di pari passo con l'aumento esponenziali delle autoimmolazioni contro Pechino dal 2009 a oggi.

Ed è così, che nonostante la gravità del gesto, il bombarolo disabile trova un minimo di sostegno da parte media, anche di quelli più, per così dire, filo-Partito. "La detonazione di un ordigno esplosivo all'aeroporto di Pechino è un modo estremamente imprudente di difendere i propri diritti. Non è consentito dalla legge, e per questo egli sarà severamente punito" scrive il Chian Youth Daily "Ma questo bombarolo ha sollevato diversi avvertimenti alla società. Ji Zhongxing è stato reso disabile da un incidente stradale o da un pestaggio? Le persone aspettano la verità" avverte il giornale.

Per il Beijing News, le autorità "non possono ignorare le aspirazioni dell'uomo" in cerca di un risarcimento per le botte subite, mentre il Global Times promuove la "ricerca incessante di giustizia e equità" sottolineando l'esigenza di riforme che permettano ai "gruppi vulnerabili" di esprimere le proprie richieste attraverso canali agevoli.

E' rigoroso silenzio, invece, per quanto riguarda la storia di Konchok. Effettuando un check sul motore di ricerca Panguso, si scopre che, nella Repubblica popolare, le voci "immolazione" o "Dzoege" (la contea dove è avvenuta) non riconducono ad alcuna notizia sul giovane monaco. Più in generale il trattamento riservato dai media cinesi alla questione tibetana si riduce a una severa condanna. "Evidence of the Hands behind the Tragedies," è il titolo di un documentario, apparso lo scorso maggio sulla CCTV, nel quale si sostiene il ruolo svolto dai tibetani in un complotto terroristico che ha nelle autoimmolazioni il proprio cavallo di battaglia. L'unico barlume di simpatia riscontrabile nei media cinesi è da attribuirsi alla presunta manipolazione dei tibetani da parte del Dalai Lama, che -secondo la vulgata di Pechino- istigherebbe i propri fedeli a commettere il gesto estremo con fini separatistici. Sebbene, al contempo, una campagna di diffamazione provi di volta in volta ad attribuire le morti nel fuoco a problemi personali quali alcolismo, povertà o rapporti sessuali inappropriati.

Le reali motivazioni dietro alla lunga scia di fuoco che solca l'altopiano tibetano, spesso confermate per bocca di amici e parenti dei martiri, continuano a rimanere inascoltate. E mentre il mondo del giornalismo cinese si interroga sulle ragioni che hanno spinto Ji a innescare una bomba (tentativo già messo in atto nel 2008 senza successo), entro la Muraglia un dibattito sulle immolazioni dei tibetani (ad oggi almeno 120) rimane ancora proibito. L'infosfera cinese si è dimostrata più comprensiva persino nei confronti dei bombaroli "killer", come nel caso di Qian Mingqi che nel 2011 ha fatto esplodere più ordigni nei palazzi governativi di Fuzhou, nel Jiangxi, causando la morte di almeno tre persone. Il giorno successivo il Global Times riportava le parole di un professore della Renmin che, rimarcando la necessità di scoraggiare l'uso della violenza, finiva però per sottolineare come "le autorità dovrebbero aprire più canali regolari affinché la gente possa presentare i propri reclami, prima che i problemi si trasformino in scontri e così in violenza". Conclusione ovvie ma mai raggiunte nel caso delle autoimmolazioni tibetane, tutt'oggi gestite a suon di restrizioni e arresti.

(Fonte: ICT)






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