martedì 9 luglio 2013

Tian'anmen e le altre


(L'articolo verrà pubblicato sul numero di agosto di Uno sguardo al femminile)

Espropriazioni forzate, corruzione dei funzionari, violazione dei diritti umani, inquinamento allarmante, scandali alimentari, condizioni di lavoro estenuanti e salari troppo bassi. Sono alcune delle gocce che in Cina minacciano costantemente di far traboccare un vaso ormai colmo. Nonostante le restrizioni alla libertà di associazioni e di parola, la Repubblica popolare cinese viene sempre più spesso agitata da proteste e manifestazioni di dissenso contro lo Stato, che nel Celeste Impero coincide con il Partito comunista cinese, dal 1949 forza di governo a capo di un sistema politico autoritario.

E' a partire dai prima anni Novanta che gli "incidenti di massa" hanno registrato una crescita esponenziale, dai circa 8700 del 1993 agli oltre 87mila del 2005. E se le stime dell'Accademia cinese di scienze sociali per il 2006 parlano di di 90mila proteste, nel 2010 il sociologo Sun Liping portava i numeri a 180mila, per una media di 500 disordini al giorno. Un alzare la voce che, secondo molti, rimarrebbe tale a causa della mancanza di un "tessuto connettivo" e della circoscrizione limitata delle rimostranze, andando a speronare i quadri a livello locale, ma lasciando in sella la dirigenza del Partito. Gli "indignati" cinesi sono spesso mossi da interessi personali, come allontanare una fabbrica dal cortile di casa propria senza maturare una vera consapevolezza "verde" (nel caso delle proteste ambientaliste), oppure ottenere un aumento di stipendio a livello di fabbrica, senza d'altra parte mostrare la maturazione di una coscienza di classe che possa cementare le singole richieste in un movimento minaccioso per il regime.

Per molti versi, alle nostre latitudini, i cinesi continuano ad essere dipinti come compagni divenuti improvvisamente consumatori senza mai passare per la fase di cittadini. Ma è veramente così? Secondo il reporter investigativo Liu Jianqiang, le manifestazioni ambientaliste, che vedono in prima linea la giovane classe media cinese, sarebbero a tutti gli effetti un movimento per la democrazia; più cauto rispetto al suo predecessore di piazza Tian'anmen, in quanto scevro da implicazioni politiche, e proprio per questo in grado di fare da ponte tra funzionari, gente comune e alte sfere del Partito. Nonché capace di esercitare un impatto più esteso rispetto alle espropriazioni forzate o alle dispute sul lavoro.

Al "popolo delle formiche", ovvero i laureati cinesi che vivono nei sobborghi urbani con salari minimi, guarda invece con interesse Angela Pascucci, ex capo redattrice esteri del Manifesto ed esperta di "cineserie". Questi ragazzi, stipati nei "villaggi-formicaio" da poche centinaia di yuan al mese per posto letto, rappresentano uno dei gruppi svantaggiati emerso dal processo delle riforme anni '80 e dalla progressiva estensione dell'accesso universitario, a fronte di un mercato del lavoro incapace di assorbire l'improvvisa ondata di neo-laureati. In loro la Pascucci riconosce per certi versi la categoria sociale cinese che più si avvicina alla classe dei giovani manifestanti della Primavera Araba, senza per questo individuarne un reale potenziale esplosivo. Complice, ipotizza, l'effetto disaggregante del controllo delle nascite e le sue ripercussioni a livello psicologico, che - secondo uno studio pubblicato lo scorso inverno su Science- avrebbero dato vita ad una generazione di figli unici meno competitivi, meno sicuri di sé e meno inclini al rischio. Non esattamente le credenziali per dei perfetti ribelli.

D'altra parte, la sua occasione la Cina l'ha avuta nel febbraio 2011, quando il profumo dei Gelsomini tunisini valicò la Grande Muraglia traducendosi in una rivoluzione abortita sul nascere. Ridotta ad alcuni appelli sulla rete che hanno avuto uno scarso riscontro nella realtà: marce silenziose nelle principali città cinesi dove manifestanti e semplice passanti si sono dispersi in strada come una moltitudine indistinguibile, non dissimile da quella osservabile quotidianamente nelle caotiche metropoli del Paese più popoloso al mondo. La reazione sproporzionata delle forze dell'ordine ha messo a nudo la tensione palpabile nei palazzi del potere, con arresti dei dissidenti più noti e un rafforzamento dell'apparato di sicurezza interna che proprio dal 2011 usufruisce di un budget superiore a quello destinato alla Difesa. Tutt'oggi Pechino guarda con timore ai disordini arabi e bolla "i movimenti di strada" come una sfida per i Paesi emergenti che né Cina né Africa del Nord possono permettersi. Un'occasione in più per riaffermare il bisogno di un equilibrio perfetto tra riforme, sviluppo e stabilità, e diffidare dalla ricetta democratica come panacea per tutti i mali.

La repressione preventiva messa in atto da Pechino nell'anno dei Gelsomini rivela quanto siano ancora fresche le ferite del 1989, anno delle proteste di piazza Tian'anmen soppresse nel sangue da una leadership lacerata al suo interno dall'emergere di fazioni politiche differenti. Al tempo a prevalere fu la linea dura di Deng Xiaoping, che da quel momento in poi ha stroncato in ogni modo la nascita di una società civile vera e propria, lasciando di contro ampia libertà sul versante economico. Risultato: crescita iperbolica del Pil e "stabilità a tutti i costi", marchio di fabbrica della passata amministrazione Hu Jintao-Wen Jiabao messa a dura prova dalle sanguinose rivolte etniche in Tibet (2008) e nello Xinjiang (2009). Ma anche dalle crepe del sistema finanziario, dalla corruzione rampante tra le fila del Partito, dal crescente gap ricchi-poveri e dall'incrinarsi di quel patto sociale, stretto con gli ambienti intellettuali, riassumibile nella formula "stabilità in cambio di benessere". Il prezzo da pagare per quel tacito accordo è oggi la mancata osservanza di quanto stabilito nella Costituzione, emendata nel 2004, che prevede solo sulla carta "libertà di parola, di stampa, di riunione, di associazione, di spostamento e di dimostrazione".

L'impennare delle proteste risale al maggio 2002 (anno in cui Hu Jintao divenne Segretario generale del Pcc), quando migliaia di impiegati nelle fabbriche d'acciaio di Liaoyang manifestarono contro i funzionari corrotti, colpevoli di aver fatto chiudere diversi impianti e di aver privato alcuni operai delle loro pensioni. Non contro il governo centrale, dunque, ma contro i quadri a livello locale, spesso sordi agli ordini emessi dai piani alti pur di accaparrarsi ingenti fortune.

Protestare ma ribadire la propria fedeltà al regime senza metterne in discussione la legittimità: sembra essere questa la caratteristica che accomuna le manifestazioni vincenti e manovra di conseguenza la mano del Partito. E' pugno di ferro in caso di tensioni etniche e attacchi diretti al cuore del sistema; è guanto di velluto quando si tratta di salari più generosi, condizioni lavorative più morbide, stop al land grabbing, tutela ambientale e sicurezza alimentare. In questi ultimi casi spesso le tensioni vengono placate attraverso piccole concessioni e l'arresto dei cattivi funzionari, mentre il Partito salva la faccia continuando a godere tra la popolazione di un tasso di gradimento del 90%.

Tian'anmen, la madre di tutte "le rivolte"

Riformare il sistema dal suo interno e dialogare con il Partito, considerato un inflessibile "capofamiglia" secondo una visione imbevuta di confucianesimo. Nessuno probabilmente si aspettava che quella notte tra il 3 e il 4 giugno 1989 le richieste degli studenti sarebbero state silenziate a colpi d'arma da fuoco. Non avevano nulla a che fare con una democrazia all'Occidentale, né tanto meno nascondevano fini sovversivi. Piuttosto puntavano all'avvio di un processo di istituzionalizzazione all'interno del Pcc che mettesse freno all'eccessivo potere e arbitrio dei leader più anziani, palesatosi, due anni prima, nella rimozione assolutamente arbitraria del Segretario generale riformista Hu Yaobang. Una destituzione che era andata a violare le procedure sino a quel momento seguite dai piani alti del Partito.

Ma deve essere stata la spinta verso una ridefinizione del rapporto società-Stato ad impensierire maggiormente i leader di allora; la messa in discussione del principio ideologico dell'unità degli interessi, mutuato dal marxismo, secondo il quale lo Stato si faceva garante di tutto quanto potesse essere vantaggioso al popolo, rendendo inutile il riconoscimento dei diritti democratici. A metà degli anni '80 tra gli studiosi si era cominciata a ravvisare l'esigenza di dar voce alla diversità, privando così lo Stato del suo controllo pervasivo sulla società e dando maggiore autonomia agli individui. All'indomani del massacro, tutte queste idee eterodosse furono colpite duramente sui media ufficiali, i loro sostenitori perseguitati o messi a tacere (per approfondimenti: Marina Miranda, La democrazia in Cina, Roma, Editrice Orientalia, 2013).

A circa vent'anni dalla Tian'anmen, alla guida del Paese siede adesso Xi Jinping, figlio di un riformista amico del defenestrato Hu Yaobang, che per le riforme politiche non sembra avere tempo, preso com'è dalla sua campagna anti-corruzione. In Cina le proteste dell''89 sono ancora tabù; la loro ricorrenza annuale viene accompagnata da una serrata censura sul web e da nuovi arresti. Ultimo a farne le spese il documentarista indipendente Du Bin, autore di un libro su Tian'anmen, rilasciato su cauzione l'8 luglio dopo 37 giorni di detenzione per atti che avrebbero "turbato l'ordine sociale".

In attesa di capire se Xi seguirà le orme paterne o meno, l'intellighenzia cinese procede con cautela, mentre oggi a tenere banco sull'Internet cinese e nel mondo accademico sono sopratutto Stato di diritto e Costituzionalismo, uno dei "sei concetti fondamentali" presenti nella Charta 08, manifesto sottoscritto il 10 dicembre 2008 da 303 intellettuali e attivisti tra i quali il Premio Nobel per la pace Liu Xiaobo. A causa della sua adesione al movimento, di cui è il primo firmatario, oggi Liu sta ancora scontando la pena di 11 anni di carcere con l'accusa di "incitamento alla sovversione del potere dello Stato".

Eppure, non saranno gli ambienti colti a dare filo da torcere ai "nuovi imperatori" saliti al potere solo pochi mesi fa a seguito di un decennale ricambio al vertice. Almeno non secondo Perry Link, professore emerito di studi sull'Asia Orientale all'Università di Princeton, nonché uno dei traduttori di Tian'anmen Papers, una selezione di controversi documenti segreti del Pcc sulle proteste dell''89.

"Due sono le differenze maggiori che intercorrono tra le proteste del 1989 e quelle di oggi" ha spiegato Link a Uno sguardo al femminile "nel 1989 le manifestazioni erano guidate da studenti universitari e dall'élite intellettuale. Oggi la spinta viene piuttosto dagli strati più bassi della gerarchia sociale, mentre studenti e letterati sono molto spesso alleati del regime. Anche se non tutti ovviamente. Secondo punto da considerare è senza dubbio il ruolo cruciale svolto dalla rete. Ai tempi della Tian'anmen l'unico modo per tenere degli incontri era recarsi di persona, con conseguente intervento della polizia qualora si trattasse di questioni sgradite al Partito. Adesso le  'cyber-assemblee' permettono di prendere parte alle riunioni senza bisogno di incontrarsi in prima persona. Questo rende molto più difficile il controllo da parte della polizia. Sebbene ci provi lo stesso, s'intende".

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