martedì 29 novembre 2011

Attacco NATO, Cina: "Il Pakistan non si tocca"

"La Cina continuerà a sostenere gli sforzi del Pakistan per salvaguardare l'indipendenza nazionale, la sovranità e l'integrità territoriale". Un mix di preoccupazione, sdegno e irrequietudine. Questi i toni della conversazione telefonica tra il ministro degli Esteri cinese Yang Jiechi e il suo omologo pakistano Hina Rabbani Khar, a seguito dell'attacco sferrato sabato mattina dalle forze della NATO- di stanza in Afghanistan- in una zona di frontiera, nel nord ovest del Pakistan. Yang ha affermato che Pechino è "rimasto molto scosso dall'incidente"- il quale ha causato la morte di 24 soldati pakistani e il ferimento di altri 13- rimarcando come tutti i paesi e le organizzazioni internazionali dovrebbero rispettare più seriamente il governo di Islamabad.
Secondo quanto dichiarato dall'Alleanza Atlantica l'incidente è stato "tragico e non intenzionale"

Atmosfera tesa anche sull'altra sponda del Pacifico. Le dichiarazioni rilasciate dal dipartimento di Stato USA rivelano grandi preoccupazioni per le ripercussioni che l'episodio potrebbe avere sui rapporti tra Stati Uniti e Pakistan. Il portavoce del dipartimento, Mark Toner, ha invitato Islamabad a non disertare la conferenza di Bonn sul futuro dell'Afghanistan, in agenda per la prossima settimana.

Più articolato e orientato verso gli effetti sociali che potrebbero scaturire dalla mossa del braccio armato delle Nazioni Unite, invece, il commento di Paul Bhatti, Consigliere Speciale del Primo Ministro per gli Affari delle Minoranze e presidente della All Pakistan Minorities Alliance (APMA): "Il raid della NATO è grave perché può compromettere la lotta al terrorismo ma anche l'armonia interreligiosa, il dialogo interculturale, e la pace nel nostro paese. Tocca inoltre la sovranità, l'indipendenza e l'integrità territoriale della nostra patria. Come consigliere del Primo Ministro e come Presidente dell’APMA sono scioccato e, a nome della comunità cristiana, esprimo solidarietà e cordoglio alle famiglie dei soldati, assicurando preghiere per il pronto recupero dei feriti".

La tensione nel paese rimane altissima, mentre manifestazioni antioccidentali agitano gran parte delle città.

Il 17 novembre scorso il People's Daily aveva dato la notizia dell'inizio di una serie di esercitazioni congiunte che avrebbe coinvolto 260 soldati cinesi più i 230 messi a disposizione dall'alleato pakistano. L'addestramento, della durata di due settimane, ha incluso tecniche e procedure atte ad affrontare situazioni di conflitto di bassa intensità, e ha avuto lo scopo di implementare lo scambio reciproco di esperienze e informazioni attraverso un variegato programma di formazione. Si è trattato del quarto episodio di collaborazione militare sino-pakistana volto a combattere le minacce terroristiche.

Da trent'anni a questa parte i rapporti strategici tra Pechino e Islamabad si sono progressivamente rafforzati, alimentati dai numerosi legami economici, commerciali, energetici e militari, nonché dal graduale allontanamento pakistano dagli Stati Uniti. Il deterioramento dei rapporti tra Washington e il Pakistan ha raggiunto l'apice dopo la rivendicazione statunitense dell'uccisione di Osama Bin Laden, alla fine di maggio. Al tempo fu proprio la Cina il primo paese a difendere il rispetto dell'integrità territoriale di Islamabad, ripagata dopo poche settimane dalla visita del Primo Ministro Gilani. Il Pakistan avrebbe inoltre concesso ai militari cinesi di visionare i resti del velivolo statunitense di tecnologia Stealth impiegato da Washington in territorio pakistano.

D'altra parte le relazioni con il Islamabad rappresentano un elemento di vitale importanza per gli interessi statunitensi in Afghanistan, in primis per la posizione strategica dei territori pakistani, unico punto di accesso via mare per le truppe e i rifornimenti militari americani e della NATO, nonché testa di ponte per la penetrazione in Eurasia. Il porto di Karachi è uno snodo fondamentale per l'arrivo e l'invio di truppe che in seguito vengono fatte penetrare all'interno su strada. Ma gli Stati Uniti stanno già vagliando vie d'accesso alternative attraverso l'Asia Centrale, e l'Uzbekistan è uno dei possibili candidati in quanto permetterebbe il passaggio dei rifornimenti militari in arrivo dal porto di Riga, in Lettonia.

Allo stesso tempo Islamabad sta cercando progressivamente di allentare il nodo che lo lega a Washington, puntando a potenziare le sue relazioni con gli altri vicini naturali Russia, Iran e Cina. Forte della sua importanza geopolitica e delle simpatie dimostrate dal Dragone, sta manifestando chiare inclinazioni filo-cinesi, sopratutto alla luce della sospensione degli aiuti economici statunitensi, unitamente all'esaurirsi degli approvvigionamenti bellici a stelle e strisce. I rapporti tra Stati Uniti e Pakistan sono giunti ad un minimo storico.

Dal canto suo Pechino guarda con grande interesse ad Islamabad in quanto ricchissimo serbatoio di risorse energetiche. Importante fornitore di gas naturale e petrolio -il rafforzamento del porto di Gwadar permetterebbe il passaggio degli oleodotti e dei gasdotti provenienti dall'Iran- il Pakistan è anche una meta potenziale di vasti progetti infrastrutturali: assi viari e pipeline lo collegherebbero alla provincia autonoma del Xingjiang.  Ed è già sulla carta la costruzione di una serie di collegamenti stradali e ferroviari tra Kashagar e Abbotabad e tra la città del Xingjiang e Havelian.

A coronare la storia d'amore tra la Cina e Islamabad la comune avversione verso l'India la quale, con il suo recente attivismo nel Mar Cinese Meridionale a fianco del Vietnam, sta infastidendo notevolmente il Dragone. E' dagli anni '80-'90 che Pechino e Pakistan sono legati da un'alleanza militare e nucleare, nata in reazione all'avvio dei primi test atomici condotti da Delhi nel 1974; oggi più del 40% delle esportazioni militari cinesi sono destinati proprio ad Islamabad.

E se il collasso economico degli Stati Uniti ha indotto il Pakistan a scorgere nel Dragone un valido sostituto, tuttavia, l'attività di cellule terroristiche- con base nei campi di addestramento pakistani- nella regione autonoma del Xingjiang rischia di incrinare il rapporto idilliaco tra i due paesi. La sospensione dei bombardamenti americani nell'area nord-occidentale del Pakistan- secondo la Cina- potrebbe aiutare ad ammansire i gruppi collegati all'estremismo islamico, ma i colpi di testa di Islamabad e la corsa al nucleare in chiave anti-indiana cominciano ad irritare seriamente Pechino.

domenica 27 novembre 2011

Donne cambogiane in lotta contro le espropriazioni forzate

Espropriazioni forzate, percosse e reclusioni: le donne cambogiane sono le prime vittime del progresso economico del Paese. Secondo un rapporto pubblicato giovedì scorso dalla sede londinese di Amnesty International, in Cambogia le donne sono in prima linea nella lotta contro gli sfratti; molte hanno assunto la guida della loro comunità per protestare contro il governo a causa della violazione dei propri diritti, e spesso il loro attivismo si è scontrato contro il pugno di ferro delle autorità.

"Gli sgomberi forzati violano i trattati internazionali sulla difesa dei diritti umani e minano la stabilità della famiglia"- ha affermato Donna Guest, vicedirettrice di Amnesty International per la regione Asia-Pacifico -"nei casi in cui l'espropriazione sia inevitabile, il governo dovrebbe dialogare con la popolazione colpita per assicurare compensazioni e abitazioni sostitutive".

Decine di migliaia di cambogiani sono stati sfrattati, sia nelle campagne che nelle città. Nella zona del lago Boeung Kak 20.000 persone hanno dovuto abbandonare le loro abitazioni- o sono in procinto di farlo- da quando nel 2007 una società di sviluppo commerciale ha ottenuto una concessione di novantanove anni sull'area. E nonostante le rassicurazioni del Primo Ministro Hun Sen volte a tranquillizzare gli 800 "superstiti" in possesso di titoli di proprietà, nessuno nella zona dorme più sonni tranquilli.

Vanny, 31 anni, residente nei pressi del lago, è una delle paladine dei diritti delle famiglie cambogiane; a causa del suo attivismo è stata recentemente accusata di diffamazione dalla municipalità di Phnom Penh. Ma nonostante il suo coraggioso intervento, le ruspe non hanno avuto pietà: lo scorso 16 settembre otto case lungo le sponde del Boeung Kak sono state rase al suolo, lasciando i proprietari senza un tetto sotto il quale dormire.

Hoy Mai, madre 48enne della provincia nord-occidentale di Oddar Meanchey, era incinta di cinque mesi quando nel 2009 la sua abitazione fu data alle fiamme per fare spazio ad una nuova azienda; una delle 150 case fagocitate dall'insaziabile voracità dei buldozer. In seguito, dopo essersi recata da Hun Sen per protestare contro lo sfratto, Mai fu messa in manette con l'accusa di aver violato la legge di compensazione forestale. Dopo tre giorni di prigionia, alimentandosi di solo riso avariato, diede alla luce un  figlio che continuò ad allattare dietro le sbarre per due mesi. La donna fu rilasciata nel giugno 2010 dopo aver sottoscritto un accordo per cedere i diritti sulla sua terra in cambio di un'abitazione sostitutiva. Oggi Mai ha otto figli ma nessuna casa di sua proprietà.

Il problema della terra è una piaga che affligge il popolo cambogiano dalla metà degli anni '70, quando il regime dei Khmer Rossi ordinò evacuazioni su vasta scala e trasferimenti di massa. Quest'operazione causò una notevole confusione in materia di diritti fondiari, e quando, dopo dieci anni di guerra civile, i rifugiati fecero ritorno nelle loro terre d'origine, la nascita di comunità di squatter fu inevitabile.

Ogni anno sono 30.000 le persone costrette a lasciare gli ormeggi, lanciandosi in un futuro incerto per far spazio a nuovi progetti minerari e agricoli, o a pianificazioni immobiliari. Gli sgomberi forzati spesso comportano la perdita di beni e mezzi di sussistenza, minacciando il benessere fisico e mentale del nucleo familiare. I soggetti sottoposti a trasferimenti coatti vengono spediti in aree remote, rischiando di perdere l'accesso all'istruzione e ai servizi sanitari. E la situazione è resa ancora più complessa dalla frequente assenza di una figura maschile in casa: gli uomini, lontani per lunghi periodi in cerca di lavoro, lasciano le mogli ad affrontare il problema da sole.

"Il distacco dal proprio focolare e dalla comunità d'origine è un'esperienza traumatica per chiunque- ha affermato Donna Guest- "ma le donne, ricoprendo il ruolo di protettrici delle loro case, si trovano ad assumere un onere oltremodo gravoso."

A.C

(Fonte: Radio Free Asia)

sabato 26 novembre 2011

Laogai "by night": dai lavori forzati all'estrazione di "oro virtuale"

Correva l'anno 1906 quando il governo imperiale sancì formalmente l'abolizione del sistema schiavistico- la legge fu resa effettiva il 31 gennaio 1910- ora, a più di un secolo di distanza, in Cina i lavori forzati continuano ad essere una realtà: "i laogai sono la schiavitù del Ventunesimo secolo"- afferma un recente video pubblicato dall'emittente televisiva Al Jazeera- e a braccetto con la pena di morte, rappresentano una delle tante peculiarità della "giustizia con caratteristiche cinesi".

In procinto di crollare nel 2007 sotto le pressioni esercitate dall'Onu, il sistema dei campi di lavoro continua rimanere in piedi sostenuto dai pilastri di una legge consenziente e puntellato su un'opinione pubblica spesso accondiscendente. Jiang Ming'an, professore di giurisprudenza della Peking University, ha definito i laogai "una bottiglia di medicinale, il cui contenuto può essere sostituito mentre la bottiglia rimane sempre la stessa; un'importante mezzo che permette di punire piccoli facinorosi senza dover ricorrere alle Corti".

Un'eredità dell'epoca maoista, quella dei lager cinesi, che facendo molto comodo anche alla Nuova Cina, tarda a scomparire, forte della connivenza delle autorità che nel sistema dei campi di rieducazione hanno trovato una "gallina dalle uova d'oro". Oltre alle note prigioni-aziende produttrici nel settore agroalimentare (link), lo scorso maggio il Guardian aveva portato alla luce nuovi retroscena grazie alla testimonianza di un ex detenuto.

Di giorno impegnato a spaccare rocce e scavare trincee in una miniera del nord-est della Cina, di notte inchiodato davanti ad un computer: Liu Dali (nome fittizio), 56 anni, reduce del "laogai" di Jixi (Heilonjiang), dopo una giornata di lavori forzati veniva costretto ad estrarre "oro virtuale" per più di dodici ore no stop; e come lui altri 300 prigionieri. Al calare del sole i detenuti  si trasformavano in accaniti giocatori di videogiochi multiplayer- World Warcraft in primis- con l'obiettivo di accumulare valuta on-line (armi, crediti, livelli ecc..) rivenduta, in seguito, dalle guardie carcerarie a giocatori incalliti in cambio di moneta sonante. "I boss dei lager hanno guadagnato più attraverso il "gold farming"- questo il termine coniato per indicare l'attività notturna dei reclusi- "che dal lavoro forzato" ha dichiarato Liu al quotidiano britannico. "Ho sentito dire che potevano ottenere dai 5000 ai 6000 yuan (500-650 euro) al giorno. Noi invece non abbiamo visto un soldo."

I computer non venivano mai spenti e qualora la quota assegnata non fosse stata raggiunta, gli inadempienti erano sottoposti a violenze fisiche. Lavoro "virtuale", ma punizioni più che reali. "Se non riuscivo ad accumulare i crediti imposti, mi spedivano nel dormitorio, mi costringevano ad alzare le braccia per poi percuotermi con dei tubi di plastica."

Il business delle valute on-line ormai ha preso piede in ogni angolo della Cina e, valicando la Grande Muraglia, è sfuggito al controllo dei produttori di videogiochi. Un traffico alimentato dalla voracità dei giocatori, disponibili a sborsare denaro tangibile pur di accaparrarsi i tanto agognati crediti. E non solo. C'è anche chi non ha esitato a ricorrere al furto: proprio lo scorso aprile la Corte della provincia centrale del Sichuan ha processato un giocatore che aveva rubato 3000 yuan (355 euro circa) di valute.

Secondo il China Internet Center, nel 2008 nel Regno di Mezzo il commercio incentrato sul "gold farming" ha fruttato più di 1 miliardo di euro, e il numero degli acquirenti è in continuo aumento. Ben l'80% dei produttori di cyber-assets opera in Cina, per un totale di circa 100mila lavoratori.
Nel 2009 il governo centrale tentò di regolamentare la vendita dei crediti virtuali limitandone la liceità alle sole imprese in possesso di apposite licenze, ma Liu è convinto che la pratica del "gold farming" sia tutt'oggi collegata al sistema schiavistico dei laogai.

I numeri non lasciano spazio ai dubbi: da "fabbrica del mondo" a "fabbrica di beni virtuali", la "Cina dei record" ha ottenuto un nuovo, tutt'altro che encomiabile, primato.

A.C

giovedì 24 novembre 2011

Timide spinte riformiste dal Guangdong

L'ex segretario generale del Pcc, Zhao Ziyang, parla con gli studenti, 19 mag.1989

Mentre, in procinto di passare il testimone ai leader della quinta generazione, la cerchia di Hu Jintao ha condotto l'ultima sessione plenaria del diciassettesimo comitato centrale del Pcc all'insegna della chiusura e di un più serrato controllo nei confronti del sistema culturale, dal Guangdong arrivano timidi messaggi di riforma. Il Southern Metropolis News, giornale che ha sede nel polmone industriale della Cina, si fa portavoce delle speranze dell'ala più liberale del Partito riportando le parole di Pan Dongsheng, assistente dell'ex segretario provinciale Ren Zhongyi. Pan, citando il suo maestro, magnifica i successi ottenuti dal Guangdong, attribuendone l'indiscusso merito a Hu Yaobang e Zhao Ziyang, i due ex segretari dell'era Deng Xiaoping che caddero in disgrazia; il primo per non aver saputo fronteggiare agli albori i movimenti democratici, in seguito, sfociati nelle proteste di piazza Tiananmen, il secondo per aver avviato i dialoghi con gli studenti "ribelli".

Agli occhi più attenti, l'articolo del Southern Metropolis News è apparso come un messaggio di speranza indirizzato ai futuri dirigenti del Partito. L'editoriale, infatti, è affiancato da una foto del 1980 nella quale Ren Zhongyi stringe la mano a Xi Zhongxun, anch'egli esponente della corrente riformista, nonché padre del quasi indiscusso futuro Grande Timoniere, Xi Jinping. Tra le righe, dunque, un chiaro invito al figlio perché segua le orme paterne.

Nel fare questa mossa azzardata, la testata del Guangdong- come osservato da Xiao Jian, direttore dello Hunan Daily- deve aver avuto le spalle ben coperte. Qualche indiscrezione sul vento di cambiamento che investirà la linea politica a partire dal congresso del prossimo anno potrebbe aver dato coraggio agli arditi autori.

Fonti: China Files ; Radio Free Asia

lunedì 21 novembre 2011

La nudità è pornografia?

La nudità è pornografia? In Cina, a quanto pare, si, e se ad essere implicato è il famoso artista-dissidente Ai Weiwei, posare nudi può anche diventare un crimine.

Dopo aver pagato gli 8,25 milioni di yuan (961mila euro) necessari ad avviare il processo legale contro l'accusa di evasione fiscale, venerdì scorso l'archistar ha annunciato che il pugno di ferro delle autorità si è ora abbattuto sul suo assistente Zhao Zhao, indagato per aver "diffuso pornografia online". Al centro dell'inchiesta, una foto, scattata l'anno scorso da Zhao, che ritrae Ai insieme a quattro donne, tutti in nudo integrale. "One Tiger, Eight Breasts", questo è il titolo dell'istantanea incriminata, nata durante un servizio fotografico; in quell'occasione "ci siamo chiesti perché non fare delle foto di nudo, tutti hanno acconsentito. Le abbiamo fatte e messe su internet; poi ce ne siamo dimenticati" ha spiegato l'artista.

In realtà l'accusa di pornografia era già stata avanzata prima dell'estate, in seguito all'arresto di Ai, avvenuto in prima battuta senza alcun capo d'accusa. Ma, al tempo, la cosa non fu presa sul serio perché- come sottolineò l'artista- "la nudità non è pornografia".

Secondo quanto dichiarato dall'assistente del dissidente cinese durante un'intervista rilasciata a Gillian Wong di AP, le autorità hanno già preso la loro decisione: l'immagine, ritraente l'archistar e le quattro donne nude, è "oscena". "La polizia ha affermato che la fotografia trasmette messaggi osceni"- ha raccontato Zhao-"allora io ho risposto che a me non pareva affatto. Ma tanto loro ormai ne sono convinti, sebbene non sia stata ancora avanzata nessuna accusa". Al momento l'indagine sembra essere limitata all'assistente dell'artista, ma sono in molti a ritenere che si tratti dell'ennesimo strascico della campagna anti-Ai Weiwei, portata avanti dal governo cinese da sette mesi a questa parte.

"I loro sforzi sino ad oggi sono stati vani, come nel caso delle imposte; pertanto ora stanno cercando di perseguire il loro obiettivo per vie traverse"- ha affermato Zhao- "Stanno risollevando la questione e continueranno a farlo anche in futuro".

Intanto è ancora una volta Internet a prendere le difese dell'artista (link). Se il mese scorso il popolo del web aveva mostrato la propria solidarietà verso il dissidente cieco Chen Guancheng, pubblicando in rete alcune foto con gli occhi coperti (Chen Guancheng: quando l'amore diventa dissenso), questa volta gli internauti si sono mostrati agli obiettivi senza veli. Molti di questi scatti osè, pubblicati sul sito "Listen Chinese Government, Nudity is not Pornography", hanno per protagonisti diversi nomi noti della "Cina irriverente": tra questi, Zuola, il quale ha posato come David di Michelangelo; Tufuwuguan, autore di un'immagine che lo immortala di spalle, mentre guarda le montagne, con le natiche nude in primo piano, e Wen Yunchao, il quale ha pubblicato una sua foto "vestito" soltanto di un'effige di Caonima, a coprire i gioielli di famiglia.

Che sia pornografia o meno, "One Tiger, Eight Breasts" rappresenta, comunque, una provocazione sufficiente a destare l'indignazione di Pechino; a maggior ragione in un momento in cui da Zhongnanhai soffia vento di "riforma culturale". L'ultima sessione plenaria del diciassettesimo comitato centrale del Pcc, svoltasi a metà ottobre, durante la quale ha preso vita un documento dal titolo "Approfondire la riforma del sistema culturale, promuovere il grande sviluppo e la prosperità della cultura socialista", ha decretato l'inizio di una campagna di "ripulitura" degli organi d'informazione con lo scopo di innalzarne i livelli di moralità. Nel mirino, in particolare, Internet e i microblog- piattaforme privilegiate per esprimere il malcontento popolare e accusate dalle autorità di diffondere rumors- nonché i palinsesti televisivi, sottoposti ad un nuovo regolamento, emesso dall'Amministrazione statale per la radio, i film e la televisione (Sarft) e in vigore dal 2012, il quale stabilisce un numero massimo di programmi di intrattenimento trasmissibili per canale.

Più sorveglianza online e controllo sulle false notizie; più moralità e buongusto in tv, quindi. E se di questa stretta inferta all'infosfera è rimasta vittima anche la pubblicità scandalo di Benetton-in Cina l'immagine di Hu Jintao che bacia sulla bocca Barack Obama è stata prontamente sottoposta a censura- tanto più il giudizio delle autorità sarà spietato nei confronti delle foto "oscene" dell'irriverente Ai Weiwei.

domenica 20 novembre 2011

Il futuro è il Pacifico

"Per gli Stati Uniti il Ventunesimo secolo è il secolo del Pacifico": parola di Hillary Clinton. Con queste premesse il segretario di Stato Usa ha aperto il summit APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation) tenutosi la scorsa settimana ad Honolulu, vertice conclusosi con il raggiunto accordo tra  i 21 paesi membri di dare vita al TPP (Trans Pacific Partnership), trattato che sancisce l'abbassamento delle tariffe doganali e la nascita della più vasta zona di libero scambio del mondo; un'area che con un bacino di 800 milioni di consumatori, raccoglie il 40 % dell'economia mondiale. Nato nel 2005 come partnership di natura esclusivamente economica tra Brunei, Cile, Nuova Zelanda e Singapore, il TPP è giunto ad una svolta fondamentale nel 2008 con l'ingresso degli Stati Uniti, seguiti a ruota da una serie di altre nazioni della regione. Grande esclusa, invece, la Cina, che sebbene per bocca del presidente Hu Jintao si sia dichiarata favorevole alla promozione degli obiettivi prefissati dal TPP, dall'East Asia Free Tread Area (zona di libero scambio nata dall'accordo tra i leader dell'ASEAN) e dall'East Asia Free Comprehensive Economic Partnership (accordo tra i 16 paesi membri dell'East Asia Summit), d'altra parte non può non sospettare-e come darle torto-che il nuovo accordo rappresenti una manovra a tenaglia volta ad accerchiarla.

Ma il summit APEC è stato solo il primo dei due incontri settimanali che hanno visto protagonisti i paesi asiatici. Proprio ieri, a Bali, si è svolto il sesto vertice dell'ASEAN (l'associazione che riunisce gli Stati del sudest asiatico) al margine del quale, venerdì scorso, si era tenuto un incontro fuori programma tra il presidente americano Barack Obama e il premier cinese Wen Jiabao. Ancora una volta i due leader politici si sono trovati a discutere del contenzioso che agita il Mar Cinese Meridionale, specchio d'acqua sul quale hanno messo gli occhi Brunei, Filippine, Malesia, Taiwan e Vietnam, suscitando così l'ira del Dragone che ne rivendica la totale sovranità. Oggetto della discordia le isole Paracel e Spratley, un pugno di scogli disabitati, ma Eldorado di risorse energetiche. E mentre Obama continuava la sua trasferta asiatica con una tappa australiana, Clinton, in visita nelle Filippine, ribadiva l'appoggio americano in favore di Manila condannando il comportamento intimidatorio adottato dalla Cina ai danni delle imbarcazioni filippine e vietnamite (Il Mar Cinese Meridionale come nuovo nodo geopolitico).

Ma non è tutto. Sempre durante questa settimana di fuoco, gli Stati Uniti hanno ribadito il loro attivismo nel'area Asia-Pacifico, annunciando il dislocamento di una task force marittima in Australia, che si prevede nel 2016 conterà ben 2500 soldati. (Aumento militare Usa nel Pacifico, il gelo di Pechino)

Insomma, gli interessi a stelle e strisce sono tutti proiettati ad est, mentre lo stesso Paese di Mezzo, data la precarietà dei mercati europei, insegue nuove vie del business puntando sempre di più sulla partnership con i vari vicini asiatici.

In altre parole il futuro è nel Pacifico. Ma che cosa ne è del Vecchio Continente ora che il "Secolo Atlantico" sembra essere giunto alla fine? Che ruolo gioca l'Italia in questa partita tutta asiatica?

Roberto Tofani, giornalista residente ad Hanoi, esperto di sudest asiatico e appassionato viaggiatore, ne parla in quello che, a mio parere, è un ottimo articolo.

"Se in Asia si decide il futuro globale, da noi si ritorna all'antico"

"Se 'la Cina sta guardando con interesse e preoccupazione a quanto accade in Italia', come scrive Capozzoli nel suo blog, in sud est Asia l'interesse non sembra essere della stessa portata. Del resto, il ruolo politico-economico dei dieci Paesi dell'Associazione delle Nazioni del sudest asiatico (ASEAN - Brunei, Cambogia, Filippine, Indonesia, Laos, Malaysia, Myanmar, Singapore, Thailandia, Vietnam) non è in alcun modo paragonabile a quello dell'ingombrante vicino. Di Italia, quindi, da queste parti se ne parla veramente poco. E in quelle rare occasioni, lo si fa attraverso agenzie di stampa europee e clique già noti.


Eppure in alcuni paesi come il Vietnam, ad esempio, ancora godiamo di una certa credibilità e fascino, che ci potrebbero garantire rapporti duraturi e privilegiati. Questo se solo avessimo mostrato un interesse istituzionale e non esclusivamente legato a quello di gradi gruppi privati. In sud est Asia il nostro Paese è stato assente per anni. Troppi. Il governo Berlusconi ha platealmente scelto l'asse Mosca-Tripoli, facendo anche le fortune di aziende con partecipazione statale come l'Eni, snobbando totalmente una parte di mondo che già da oltre un decennio è il centro di numerosi interessi, non solo economici. Nonostante tutto, però, il ministro Giulio Tremonti ha provato comunque a bussare alle porte dell'Impero, con il risultato che tutti conosciamo..."

Segue su:Linkiesta

venerdì 18 novembre 2011

Inquinamento allarmante: al governo cinese sfugge la verità


Nonostante la perizia adottata dal governo cinese per occultare ogni prova, nonostante i messaggi volti a tranquillizzare i cittadini e la comunità internazionale, alla fine la verità è emersa in tutta la sua brutalità: il tasso d'inquinamento in Cina ha raggiunto livelli allarmanti, e questa volta a dirlo non sono i dati rilasciati dall'ambasciata statunitense, l'unica a Pechino a twittare quotidianamente aggiornamenti sullo stato di salute dell'aria, ma bensì l'account ufficiale del microblog del Meteo di Nanchino che per la prima volta ha reso noto il PM2,5, sigla che sta a significare tutte quelle particelle sospese in atmosfera con un diametro uguale o inferiore a 2,5 micron (milionesimo di metro), polveri, queste, che oltre a essere inalate, possono raggiungere gli alveoli, provocando disturbi respiratori e circolatori.

Le autorità cinesi sino a questo momento si sono ben guardate dal pubblicizzare i livelli di PM2,5 e anzi, secondo alcuni cablaggi di Wikileaks, hanno anche provveduto a redarguire l'Ambasciata Usa chiedendo di schermare i dati emessi online al fine di renderli visibili ai soli cittadini americani. Al rifiuto statunitense ha fatto seguito il blocco di Twitter.

Ma ecco dove sta la novità: il 14 novembre la città di Nanchino ha postato sul suo account ufficiale di Sina Weibo le consuete previsioni del tempo, questa volta però con tanto di PM2,5. La compromettente rivelazione, probabilmente lasciata trapelare involontariamente, è stata amplificata grazie ad un articolo del Southern Metropolis Day in cui si spiegava, inoltre, che i numeri emessi in un primo momento dal Nanjing Weather, poco dopo, avevano fatto una fugace apparizione anche sull'account del Dipartimento di Propaganda della città per poi essere goffamente fatti sparire. Ancora più goffe le spiegazioni dell' Ufficio Metereologico di Nanchino- gestore del microblog traditore- il quale ha dichiarato di non avere il diritto di rendere noti i dati sul PM2,5.

Secondo i parametri dell'EPA (Environmental Protection Agency) utilizzati dall'Ambasciata americana di Pechino, i valori di PM2,5 di Nanchino, che per quel giorno si attestarono a 75ug / m ^ 3, corrispondono ad un 156 sull'Air Pollution Index- la scala utilizzata nella Cina continentale, ad Hong Kong e in Malesya-livello, questo, considerato "insalubre" e di solito accompagnato da un avviso rivolto ai cittadini affetti da disturbi polmonari e cardiovascolari di evitare attività all'aria aperta.

Prima di finire vittima della censura, comunque, il post incriminante è stato ritwittato dal popolo del web, suscitando le ire del Dipartimento Metereologico della città che per bocca del suo portavoce ha ribadito "l'assoluta segretezza dei dati del PM2,5, utilizzati soltanto ai fini di ricerca". Parole, queste, che fanno presagire minacce di sanzioni per il responsabile della pericolosa rivelazione. "Procederemo ad individuare il colpevole. La pubblicazione dei livelli del PM2,5 sarebbe una buona cosa per i cittadini, ma dal nostro punto di vista si tratta comunque di un'infrazione del regolamento"- ha fatto sapere il portavoce- "in futuro lavoreremo in accordo con l'Ufficio di Protezione Ambientale per rendere noti questi numeri".

D'altra parte l'iniziativa dovrebbe essere presa da Pechino, che, "in quanto capitale forse si mobiliterà più rapidamente" aveva affermato, pochi giorni prima, il vice-capo del Dipartimento ai microfoni di China News.

La scottante storia di Nanchino arriva dopo settimane oltremodo turbolente. Il problema inquinamento affligge il Dragone ormai da anni, ma negli ultimi tempi sembra essersi ulteriormente inasprito: "l'aria con caratteristiche cinesi"- neologismo coniato ad inizio ottobre da un tweet- è ormai al centro di un acceso dibattito tanto in patria quanto all'estero. Secondo le proiezioni di Edgar (Emissions Database for Global Atmospheric Research) le emissioni serra procapite della Repubblica popolare potrebbero superare quelle degli Stati Uniti entro il 2017, mentre, quanto ad emissione totale, la Cina detiene già il primato da ben quattro anni.

Sebbene negli ultimi sei anni il Dragone abbia investito massicciamente nelle energie rinnovabili- settore eolico e solare in primis- tuttavia dal 2008 ad oggi le emissioni di Co2 sono cresciute, alimentate dal pacchetto di stimoli da 400 miliardi di euro varato dal governo cinese per far fronte alla crisi economica globale. Nel 2010 la produzione di energia- in gran parte dal carbone- era già salita dell'11,6%, e con essa il tasso d'inquinamento.

E se il problema ambientale e l'obiettivo di uno sviluppo sostenibile sono stati inseriti in cima alla lista delle priorità del XII Piano quinquennale (2011-2015), tuttavia Pechino non ha mancato di attirare su di sé nuove critiche.

Dopo la rivelazione dei mercati biologici in cui possono fare acquisti soltanto i funzonari del Partito, mentre il resto della popolazione continua a mettere a repentaglio la propria salute tra uno scandalo alimentare e l'altro, il 4 novembre scorso è venuta a galla una nuova notizia shock: tra le mura di Zhongnanhai sono già stati presi “provvedimenti anti-inquinamento”, ma non esattamente quelli che ci si aspettava. Almeno duecento depuratori d'aria sono stati installati nei palazzi del potere cinesi, come rivelato dalla Group Board, azienda produttrice di climatizzatori dello Hunan.
“I climatizzatori sono installati ovunque a Zhongnanhai dai salotti alle sale riunioni dalle piscine alle palestre”, ha scritto il South China Morning Post, mentre secondo alcune indiscrezioni i depuratori sarebbero in azione dal dicembre 2008, pochi mesi dopo le Olimpiadi di Pechino.

Comprensibile lo sdegno dei cittadini, i quali hanno cominciato a fare pressione perchè venissero rese note le reali statistiche sull'inquinamento. L'11 novembre è arrivata la risposta delle autorità: Pechino aprirà un Centro di monitoraggio sull'aria della capitale che renderà pubblici i dati rilevati, ha riferito l'agenzia di stampa Xinhua. E se il provvedimento-come affermato da Lei Hua, vice capo del centro di protezione ambientale del governo municipale- “è volto a dissipare i timori del pubblico mostrando come la qualità dell'etere venga costantemente monitorata”, a questo punto c'è da chiedersi quale sarà la risposta dei cittadini all'incidente di Nanchino.

(A.C)

giovedì 17 novembre 2011

Si dà alle fiamme a Piazza Tiananmen


Dopo oltre un ventennio dal movimento pro-democrazia del 1989, piazza Tiananmen è tornata ad essere di nuovo teatro di protesta: il 21 ottobre scorso un uomo si è dato fuoco proprio davanti al celebre ritratto di Mao Zedong che domina sul luogo simbolo della politica cinese. La notizia che è stata resa nota grazie ad un lettore del Daily Telegraph- il quale assistendo alla scena dalla distanza di pochi metri, ha avuto modo di scattare alcune foto e inviarle al giornale britannico- è stata ufficializzata dal Beijing Public Security Bureau (PSB) soltanto il 16 novembre.

Come riferito da Alan Brown, questo il nome del testimone- un ingegnere inglese in pensione il quale si trovava a Pechino per vacanza- le forze dell'ordine hanno prontamente  provveduto a spegnere le fiamme con un estintore. Nel giro di qualche minuto ogni prova era stata occultata: "Dopo che è successo, i netturbini si sono messi a lavoro quasi immediatamente. Se qualcuno fosse arrivato cinque o dieci minuti dopo, non avrebbe visto nulla. Quando abbiamo raggiunto il balcone che si affaccia sulla piazza, non c'era più traccia di quanto accaduto. Tutto era svanito" ha riferito l'uomo, particolarmente stupito dalla solerzia con la quale la polizia ha gestito la situazione.

Il "petitoner" di nome Wang, 42enne della provincia dello Hubei, è stato messo in salvo e al momento non si trova in pericolo di vita. A spingerlo a commettere un gesto tanto estremo, non sarebbero state tuttavia motivazioni politiche- almeno non in senso stretto- quanto piuttosto il malcontento per l'esito a lui sfavorevole di un contenzioso civile portato d'innanzi ad un tribunale locale.

L'episodio, già di per sé sufficientemente tragico, è stato colorito di un'ulteriore sfumatura tetra dalla reazione, o meglio, dalla mancata reazione mostrata dal vasto "pubblico" presente e dagli organi d'informazione nazionali. Nonostante centinaia di cinesi abbiano fatto da spettatori alla macabra tragedia, non vi sono tracce dell'incidente né sui media di Stato né sulla voce-online del popolo, il tanto amato Weibo, sorta di Twitter cinese che spesso porta a galla ciò che il governo cinese tenta di seppellire sotto il tappeto. Soltanto il Global Times, megafono del Partito comunista cinese, ha pubblicato il secco comunicato del Dipartimento di Pubblica Sicurezza: "Circa alle undici del mattino del 21 ottobre un uomo di nome Wang si è avvicinato a Jinshuiqiao e si è dato fuoco; i funzionari di polizia presenti sulla scena hanno estinto l’incendio in pochi secondi e spedito l’uomo in ospedale”.

L'ultimo episodio di autocombustione nella zona risale al 2009, quando, nei pressi di Wangfujing, tre persone si diedero fuoco in una macchina, mentre, il 23 febbraio 2001, proprio a piazza Tiananmen, cinque seguaci del Falun Gong- tra cui una ragazzina di 12 anni- si sono immolate tra le fiamme in atto di ribellione contro la violenta repressione attuata dal governo cinese ai danni del movimento.



mercoledì 16 novembre 2011

Ai Weiwei e la breve storia di Caonima

Ai Weiwei ha pagato il suo riscatto, gli 8,25 yuan (961mila euro) necessari per procedere al ricorso legale contro l'accusa di evasione fiscale, come ordinato dalle autorità (leggi:Ai Weiwei: "ho pagato il mio riscatto"). Eppure, nonostante i trascorsi burrascosi, l'artista-dissidente cinese, durante questa interminabile Odissea, non ha mai accantonato il suo spirito ribelle continuando a lanciare pungenti provocazioni. Ecco un'inedita performance canora dell'artista, dal significato ben più rivoluzionario di quanto non possa sembrare ad una prima occhiata, o meglio, ad un primo ascolto. Il filmato è stato pubblicato su You Tube pochi giorni fa.


Introduzione
Caonima 草泥马 è il nome della canzone, letteralmente tradotto in inglese come "Grass Mud Horse", ma che in realtà si basa su un gioco di assonanze realizzato sulla pronuncia del cinese mandarino: le stesse parole scritte con altri caratteri e pronunciate con toni differenti, suonano piuttosto come un ben poco cortese "fuck your mother" (操你妈). Il termine oggi viene utilizzato dal popolo del web come sfida simbolica contro la censura di Internet messa in atto dal Partito comunista cinese.

La storia
Lo Caonima, che trova le sue origini in un articolo beffa pubblicato su Baidu Baike nel 2009, rientra nella categoria delle 10 creature mitologiche i cui nomi formano parole oscene, ed è diventato un argomento cult dei forum di discussione, sino a richiamare l'attenzione della stampa di tutto il mondo. L'animale in questione, che è stato associato a qualcosa di simile all'alpaca, ha già ispirato cartoni animati e giocattoli per bambini.

Secondo l'articolo di Baidu Baike, quest'essere vivrebbe nel Mhaler Gobi, in cinese Ma Le Ge Bi 马勒戈壁 che ancora una volta è omofono di 马了个屄 ("your mother's fucking cunt"). Nella storiella satirica inventata dagli internauti, lo Caonima è un animale intelligente e tenace, costantemente minacciato dai granchi di fiume (河蟹, héxiè) i quali simboleggiano la cesoia delle autorità, mentre la pronuncia del termine ricalca allo stesso tempo la parola "armonia" (和谐, héxié), facendo riferimento alla "società armoniosa" fortemente sponsorizzata dalla politica del governo cinese. Il granchio inoltre, nell'immaginario popolare, rappresenta "un tiranno che usa la forza per conquistare il potere".

Il successo ottenuto dai video musicali e dai cartoni animati incentrati su questa sfacciata creatura mitologica ha attirato la scure del Partito, con il risultato che, ben presto, molti di questi "prodotti nocivi" sono stati bloccati, divenendo inaccessibili agli utenti di Internet. Intanto l'11 marzo 2009 l'alpaca ribelle conquistava la rete in lingua inglese grazie ad un articolo pubblicato sul New York Times, in cui veniva data ampia eco al fenomeno.

Sempre nello stesso anno, Ai Weiwei pubblicava Caonima Dang Zhongyang (草泥马挡中央), il suo autoritratto nudo come mamma l'ha fatto mentre si copre i genitali con un peluche di alpaca. "Fuck your mother, the Communist party central committee" è il messaggio leggibile a chiare lettere; un atto di sfida, questo, che molti ritengono abbia contribuito al suo arresto avvenuto nell'aprile 2011.

L'epilogo
Il 20 marzo 2009 il New York Times riportò il messaggio di un amministratore di Internet- inoltrato da un collaboratore del Global Voices Online-  in cui si intimava a "non diffondere o pubblicizzare qualsiasi contenuto relativo a Caonima" a causa dell'eccessiva importanza attribuitagli oltremare, dove la questione era stata amplificata e riproposta come uno scontro aperto tra i netizen e il governo cinese.

Dopo soltanto cinque giorni, il ministero degli Esteri confermò ufficialmente ciò che si paventava oramai da tempo: in Cina viene bloccato l'accesso a You Tube, complici i recenti video sulla repressione messa in atto dal governo cinese durante il 50esimo anniversario della Rivolta tibetana del 10 marzo 1959.

Poi, il 30 marzo, una direttiva della State Administration of Radio, Film, and Television (SARFT) mise un ulteriore bavaglio al web, vietando 31 categorie dai contenuti ritenuti inadatti che spaziavano dalla violenza alla pornografia, compreso tutto ciò che potesse "incitare alla discriminazione etnica o minare la stabilità sociale". Caonima è stato una delle prime vittime di questa strage mediatica.


fonte: Wikipedia

martedì 15 novembre 2011

Con il Governo Monti l'acquisto cinese di Bpt è quasi realtà

L'uscita di scena di Berlusconi, sebbene tutt'altro che trionfale, potrebbe finalmente indurre la Cina a guardare con più interesse al mercato dei titoli italiani. Non è un segreto per nessuno che le battute e le gaffe di Silvio fossero mal digerite da Pechino, mentre la prospettiva di un Governo Monti, trasmettendo affidabilità e serietà -data la levatura del personaggio- soddisfa sicuramente di più l'esigenza di sicurezza e solidità all'estero mostrata dal Regno di Mezzo.

La salute dell'Eurozona sta estremamente a cuore al Dragone, che sebbene stia cercando di consolidare il proprio mercato interno, il mese scorso ha registrato un aumento delle importazioni dall'UE del + 28,2% anno su anno, mentre il drastico rallentamento dell'export- 15,9% rispetto allo stesso mese del 2010- sarebbe da attribuirsi proprio all'instabilità dei mercati europei. Un euro forte garantirebbe il flusso delle esportazioni, consentendo di indebolire il ruolo dei biglietti verdi come moneta di riserva. "Pechino comprerà da Roma i Bpt che le servono. Sara' una quantità minore di quella tedesca, per mantenere una posizione politicamente defilata e finanziariamente non troppo esposta. Non mancherà comunque il sostegno, ovviamente non gratuito ma negoziabile con maggiore fiducia" scriveva ieri Alberto Forchielli, presidente di Osservatorio Asia, su Il Sole 24 Ore .

Ma a mettere i bastoni tra le ruote del Bel Paese, un'opinione pubblica per nulla incline a vedere i propri risparmi andare a tappare i buchi di quella società occidentale che vive al di sopra dei propri mezzi. I Microblog "in salsa di soia" traboccano di malcontento, dando voce ai sentimenti più nazionalisti del popolo cinese, mentre tra le mura di Zhongnanhai il dibattito da mediatico diventa politico. Il governo cinese, che supervisiona attentamente gli umori della pancia del paese, ha bisogno di garanzia e fiducia; forse Monti è la scelta giusta.

Intanto proprio questa mattina Huanqiu.com- sito del quotidiano cinese Global Times- ha pubblicato un video dal titolo: "Grande rassegna degli scandali dell'ex premier italiano: molestie ad una poliziotta". Il filmato, che mostra Berlusconi dare una pacca sul sedere ad una vigilessa e poi, afferrandola per i fianchi, simulare un rapporto sessuale, è in realtà una clamorosa bufala già circolante su You Tube da tempo. Il video, in cui l'attore protagonista non è Silvio, ma bensì il suo sosia Maurizio Antonini, è rimasto in rete dalle 7:52 fino alle 13:50 circa, quando l'Ambasciata Italiana ha formalmente denunciato il falso presentando le proprie lamentele.

Ora non resta che sperare che il popolo cinese abbia memoria corta, perché sicuramente l'incidente diplomatico di stamattina non ha giovato all'immagine, già oltremodo infangata, dello Stivale.


lunedì 14 novembre 2011

Dopo sette mesi Ai Weiwei rompe il silenzio

"The Voice of Treason", così titolava ieri il Newsweek, dando largo spazio alle recenti dichiarazioni di Ai Weiwei riguardo alla sua misteriosa detenzione.

Fresco di rilascio, il 23 giugno scorso l'artista cinese aveva cercato di ammansire la stampa: "Sto bene. Sono di nuovo a casa. E sono libero”. E’ quello che aveva detto al tabloid tedesco Bild, confermando di essere stato rilasciato. “Non posso parlare però – aveva aggiunto -Vi prego di comprenderlo”. Ma ora, dopo sette mesi dal suo arresto, l'architetto-blogger-dissidente ha rotto il silenzio, gravato da un peso diventato insostenibile, racconta la tortura psicologica (solo psicologica) subita durante gli 81 giorni di detenzione.

In una dimensione a metà tra incubo e realtà, la mente finisce per cedere: "Ho cercato di memorizzare ogni dettaglio della mia prigionia, ma dopo 20 giorni, la mia testa è diventata completamente vuota" ha dichiarato l'archistar, rivelando come, sentendosi tagliato fuori dal mondo, rinchiuso tra quattro mura prive di qualsiasi dettaglio distintivo, la ragione fosse stata alla fine soggiogata dal panico. "Ho capito di avere bisogno di informazioni per poter rimanere in vita; quando non c'è informazione è come essere già morti. E' una prova veramente molto dura, più di qualsiasi punizione corporale".

Alla ricerca di qualche segno di umanità, di una parola amica o nemica che fosse, Ai ha cercato invano di interagire con i suoi carcerieri: "Sedevano davanti a me, guardandomi senza espressione. Erano così giovani, visi puliti e privi di emozioni; sembrava che per loro io non esistessi" ha continuato il dissidente cinese, il quale ha rivelato di aver trascorso gli interminabili giorni di reclusione percorrendo avanti e indietro la sua cella. Diverse centinaia di chilometri di cammino grazie ai quali l'artista ha perso quasi 14 chili. "Ora è più bello di prima" aveva scherzato un amico al momento del rilascio.

A straziarlo sopra ogni altra cosa, una dimensione temporale angosciosamente immobile e la mancanza di relazione con un qualsiasi altro essere vivente. "Tutto ciò che desideravo avere era un dizionario, anche il più semplice; il  tempo non passava mai" - ha affermato Ai- "Sono arrivato a desiderare che qualcuno mi picchiasse pur di poter provare un contatto fisico".

Ma sebbene l'archistar abbia scelto di abbandonarsi ad una confessione liberatoria, tuttavia non si è dilungato nello spiegare come la terribile esperienza esperienza abbia influito sul suo stato interiore o sulla sua produzione artistica. Solo poche parole: "So come ci si sente dentro. E' come un mondo oscuro". Il silenzio d'altra parte rientra nell'accordo stretto con il governo: la liberazione in cambio dell'assoluto riserbo. Il calvario di Ai è top secret. Ragione, questa, per la quale il twittare sul web del famoso attivista cinese è stato accolto dalle autorità con un severo benvenuto. La multa per da 2,4 milioni di dollari inoltrata alla Beijing Fake Cultural Development Ltd. , la società che ha contribuito a produrre la sua arte e sui progetti, è una chiara risposta alla spregiudicata audacia dell'artista; è soltanto un'altro round di un braccio di ferro che va avanti da mesi.

Ma questa volta l'avversario punta sui sentimenti, andando a minacciare ciò che Ai ha di più caro: qualora il debito non sarà saldato, a finire in prigione saranno sua moglie e suoi soci. "Ed è una cosa che sanno bene che non posso tollerare. Questo è il loro gioco...ormai mi conoscono bene"- ha dichiarato il padre dell stadio "Nido d'Uccello" - "Loro ti seguiranno fino a che, privo di forze, non stramazzerai a terra. Ci sono un centinaio di dipartimenti ed è impossibile combattere contro tutti. L'ufficio delle imposte, la Corte e la polizia sono tutte la stessa persone, solo con facce differenti; questo lo si sa fin dall'inizio. E' come giocare una partita a scacchi: quando muovi una o due pedine loro rispondono buttando all'aria l'intera scacchiera".

Ma in questo sporco gioco senza regole Ai Wewei non è solo. Migliaia di sostenitori hanno mostrato la loro dedizione inviando donazioni via internet e assediando l'indirizzo "258 Fake": aeroplanini di carta trasportano in volo banconote oltrepassando i cancelli della sua casa-laboratorio, mentre il bilancio della prima settimana fa ben sperare: l'aiuto dei supporter dell'artista ammonta a più di 1 milione di dollari.

(A.C)

leggi anche: La storia di Ai commuove la comunità di Twitter
Aggiornamenti Ai Weiwei: multa da 2,4 MLN di dollari

venerdì 11 novembre 2011

Siamo "solo" 7 miliardi: la Cina ha falsato i conti


Siamo 7 miliardi, ma saremmo potuti essere molti di più: secondo Zhai Zhenwu, presidente della School of Sociology and Popolation Studies presso la Renmin University di Pechino, senza la politica di pianificazione delle nascite messa in atto dal governo cinese, il 7 miliardesimo cittadino della Terra sarebbe dovuto nascere ben cinque anni fa. "La popolazione della Cina ora ammonterebbe a 1,7 miliardi di abitanti - contro gli attuali 1,3 - mentre il traguardo mondiale dei 7 miliardi sarebbe potuto essere raggiunto nel 2006" ha affermato Zhai, elaborando i dati sulla base di una crescita media annua di 80 milioni di persone. Conti alla mano, in pratica la politica del figlio unico, nel Paese di Mezzo, ha impedito 400 milioni di nascite, falsando un'ipotetica, ben più cospicua, somma totale.

La politica di pianificazione delle nascite è stata introdotta in Cina alla fine degli anni '70 con lo scopo di alleggerire la pressione sull'ambiente e le risorse esercitata da una popolazione in crescita esponenziale. Obiettivo finale, dunque, elevare il livello della qualità della vita dei cittadini; risultato finale, un drastico calo della proporzione tra gli abitanti cinesi e quelli del resto della Terra, che dal 22% di trent'anni fa è scesa all'attuale 19%. "La Cina ha impiegato un trentennio per realizzare una trasformazione del proprio modello di sviluppo; un traguardo, questo, che i Paesi cosiddetti 'evoluti' raggiungono normalmente in un secolo" ha dichiarato Zhai. Nel frattempo, nell'Impero Celeste l'età minima di scolarizzazione è salita a 9 anni, mentre l'aspettativa media della vita ha varcato la soglia dei 73 anni.

Un successo, quello, della "politica del figlio unico" che, oltre ad aver attirato su Pechino gli strali di buona parte delle Associazioni per la tutela dei diritti umani- in ragione dei metodi poco ortodossi utilizzati dal governo cinese per tenere sotto controllo le nascite- rischia di rivelarsi un'ennesima vittoria di Pirro: il crescente squilibrio tra i sessi e l'alto tasso d'invecchiamento della popolazione minacciano di creare una serie di instabilità sociali potenzialmente molto pericolose. E proprio la veneranda età del Dragone si sta rivelando uno degli ostacoli più insidiosi per la crescita economica del Paese; lasciati alle spalle gli strabilianti successi degli ultimi anni, la locomotiva Cina, tra vari intoppi - per citarne alcuni, il problema ambientale, l'allargamento della forbice tra ricchi e poveri e lo sfruttamento energetico intensivo- sta progressivamente rallentando la sua corsa.

(fonte: China Daily)

(A.C)

giovedì 10 novembre 2011

Jiang Yong: "La crisi americana? Tutta colpa del capitalismo"

Il capitalismo americano sta per esalare il suo ultimo respiro. Ad affermarlo non una voce qualunque, ma bensì quella di Jiang Yong, direttore dell'Economic Research Center del China Institute of Contemporary International Relation, e autore di un libro pubblicato proprio il mese scorso dal titolo “I nostri giorni felici sono giunti alla fine?” (Women de hao rizi dao tou le ma); un affresco della Cina di oggi che si discosta nettamente dalla "Cina dei record" alla quale è abituato l'Occidente. Quella di Jiang è piuttosto la Cina dell'inflazione, della corruzione politica, dei problemi ambientali e del malcontento popolare.

Recentemente lo stesso autore è tornato sulla scena dei media nazionali con un articolo che ha conquistato l'attenzione di buona parte dei blog e delle testate online. Questa volta l'argomento centrale delle riflessioni di Jiang Yong è la crisi degli Stati Uniti, interpretata come degenerazione del capitalismo americano del lasser faire.

Ora, la conclusione interessante alla quale si può giungere, leggendo entrambi i lavori dell'economista cinese, è che sia gli Usa che il Regno di Mezzo si trovano invischiati in una serie di problemi sociali innescati proprio dall'assunzione di un "sistema capitalistico senza scrupoli". Dal socialismo maoista, passando per il "socialismo con caratteristiche cinesi" sino ad approdare a null'altro di diverso dal capitalismo proiettato su scala globale; questa sembrerebbe essere la strada, densa di paradossi, ormai intrapresa dal Dragone.

D'altra parte, che nell'ex-Impero Celeste fosse cambiato qualcosa lo aveva già confermato l'annuncio dell'ingresso del multimiliardario, Liang Wengen, nel comitato centrale del Pcc. Liang verrà eletto membro supplente del Pcc durante il prossimo Congresso del Partito in agenda per l'autunno 2012, scriveva a fine settembre il Global Times. Sarà il primo capitalista di un  grande gruppo privato ad entrare nell'organismo dirigente cinese.

Leggi articolo e traduzione su Puntodidomanda

Sotto segue il testo in cinese che non compare nel mio articolo

美式资本主义面临改良


继“阿拉伯之春”、“欧洲之夏”之后,世界又迎来声势似乎更为浩大的“美国之秋”——“占领华尔街”。有分析认为,这是美国普通民众的普通诉求之普通表达。极端保守派认为是“暴民运动”、“阶级战争”。现在随着运动的拉锯和纽约冬天的临近,“占领华尔街”有进入低谷的趋势。但笔者仍然认为,这是两百多年美式资本主义史中的一场庶民觉醒运动、大众民主运动,抑或是美式资本主义走向终结的社会改良运动。

美国的自由资本主义名义上以自由为先,实际仍以资为本,一个人掌控的资本与财富越多越自由。两百多年来,资本主义适应了各种内外冲击,表现出强大生命力,其关键就在于资本主义的良好自组织机制,著名经济学家熊彼特称之为“创造性破坏”。然而,资本主义在激发巨大生产力的同时,也产生巨大破坏力。

资本主义生产关系调节的结果是,创造性好处由极少数人享有,破坏性代价由大多数人承担。过去,发达国家的少数享有创造性好处,而广大落后地区和国家的人民承担破坏性代价。今天,全球化、金融化与信息化使后进国家觉醒、新兴市场崛起,发达国家越来越难转移破坏性代价,越来越大的破坏性代价由本国大众承担,国内社会矛盾由此也越来越尖锐。

美国的自由资本主义将“创造性破坏”推向了极致,大众分享“自由之名”,而富人独享“自由之实”,成为资本主义体系内矛盾汇集最集中、最多地带,在大危机的冲击下,终于有了今日“占领华尔街”运动之出现。

美国早在19世纪末就超过英国,成为世界最富裕国家,但新老“强盗贵族”在不断增大的蛋糕中始终分得更多、最多,而大众的份额不断减少,如今最弱势一族只能分得一点蛋糕屑而已。有经济学者计算,若以2000年1月100为基数,美国家庭实际收入的中位数今天只有89.4,也就是说,美国中等家庭的收入较十年前减少一成以上。与此同时,1%少数收入则增加18%,占有40%的社会财富。

中位数的计算方法比平均数更加靠谱。假设比尔·盖茨去看望一群无家可归者,依照平均数的算法,那么这群穷光蛋便立即富了起来。但是,若依照中位数衡量,穷光蛋们依旧是穷光蛋。如此,多年来,正是平均收入统计,美国的低层与底层民众硬是被经济学家拉入“被富裕”行列,一直在“分享”着富人财富。

美式资本主义做大蛋糕的结果是绝对富裕的孤岛与相对贫困的汪洋大海的对立。被资本钱力俘虏的政府,在所谓“太大而不能倒”或系统性风险的思想诱导下,劫贫济富,用普通纳税人的钱救助华尔街的无良金融大鳄,使这些纵火犯安享“黄金降落伞”,拿走成千万乃至上亿美元的“补偿”。在经济萧条这一如血残阳的映照下,99%的困顿与1%的逍遥构成鲜明对比。

正是金融危机擦亮了美国大众的眼睛,发觉今天美国早已不是开国元勋们与伟大政治家们所设计、所建设的美国,而是一个“1%所有,1%所治,1%所享”的富贵者的国家,普通大众“美国梦”断。发起“占领华尔街”的加拿大《广告破坏者》杂志发行人拉森认为,现代社会已全部被大公司的广告所洗脑,人的自由已成了一种新的不自由,全球资本主义体系已出现严重问题。这位群众运动家认为,美国摆脱英国的统治,是美国的第一次革命,但是革命成果被华尔街财团及有关富人独享,大多数美国人则愈来愈穷,美国已到了第二次革命的前夕。“占领华尔街”就喊出了“第二次革命”口号。


中国儒家社会伦理把勤劳、节俭当作一种美德,美式自由资本主义则视“贪婪是好”。在贪婪的驱使下,社会的是非、善恶、美丑近乎完全被财富的多寡所覆盖,精英们不择手段、不失一切时机去赚大钱、赚快钱。作为金融资本主义核心的华尔街更是将贪婪推到了极致,所谓的“金融创新”实质与庞氏骗局般骗钱、明火执仗地抢钱无异,甚或就是一场“宁静的屠杀”。而资本主义自组织机制本身固有的“给你多余的,拿走你不足的”之马太效应,也不断强化着贪婪。如此资本无良加剧社会不公,不公自然生变思迁。

人类社会历史主要是周期性因素与趋势性因素契合而成,是“重复之环”与“进步之箭”合力构成的螺旋式上升。资本主义已经历了多个“重复之环”——周期性危机与繁荣,似乎成为“不死的火鸟”。但是现如今,自由经济失灵,民主政治失效,社会道德失落,“创造性破坏”失败,美式资本主义面临全面制度困境,“进步之箭”正超越“重复之环”发挥主导作用,历史在呼唤用一种新的制度来取代美式资本主义制度。(作者江涌是中国现代国际关系研究院研究员,著有《我们的好日子到头了吗》)

martedì 8 novembre 2011

La parabola di Li Yang


Pubblicato su Uno sguardo al femminile

Se spesso si dice che in ogni genio si nasconda una piccola dose di follia, nel caso di Li Yang, quest’ultima ha finito per prevalere prepotentemente. Classe 1969, capelli corvini striati da pochi fili argentei;  il signor Li, oltre i confini della Grande Muraglia è poco più che un nome, ma in patria è oggetto di venerazione per essere il padre fondatore di Crazy English, un metodo di apprendimento dell’inglese tutt’altro che ortodosso, che da 18 anni a questa parte ha mandato letteralmente in visibilio il popolo cinese.

Fonte www.newyorker.com
Dimenticatevi lo studio meccanico dei verbi irregolari, l’ascolto di audiocassette e i soggiorni nei college inglesi, in Occidente, prassi consueta per avvicinarsi alla lingua anglosassone. In Cina si fa alla maniera di Li Yang: ci si raduna nelle piazze, nei parchi, nei teatri o nelle sale cinematografiche e si urla a più non posso. “Would – to – take;” grida il maestro al microfono con il braccio destro alzato, mentre la folla, in estasi, gli fa eco gridando a squarciagola le tre parole magiche. E il medesimo metodo si ripete per qualsiasi vocabolo o frase si voglia imparare.

Ora, glissando sulla più o meno professionalità del sistema utilizzato, una cosa è certa: ai cinesi piace, e anche molto! Secondo le stime, sarebbero all’incirca 20 milioni i discepoli di Li; studenti, impiegati, professionisti che da ogni parte del Paese si recano in pellegrinaggio negli “english camp” dell’inusuale insegnante d’inglese. E ce ne è per tutti e a tutti i prezzi: si va dai 44 yuan (poco meno di 7 dollari) per l’acquisto di un semplice kit di Crazy English, composto di libro di testo e gadget, ai 1200 yuan (all’incirca 250 dollari) giornalieri per un ambito biglietto “diamond degree”; un prezzo, questo, che equivale a più di quanto percepisce mensilmente un lavoratore cinese medio.

Ma qual’è il segreto del successo di Li Yang? Non basta certo urlare ad alta voce due o tre parole per imparare una lingua. E, infatti, il patron di Crazy English è andato ben oltre, riuscendo a fare leva sull’orgoglio nazionale che alberga nei cuori degli 1,3 miliardi di abitanti del Regno di Mezzo. Amor patrio, quando non xenofobismo: l’inglese, più che un idioma da imparare, viene presentato come una bestia nera da soggiogare. “Conquistare l’inglese per rendere la Cina più forte; perchè noi abbiamo pietà dello straniero che non sa parlare il mandarino; urlare per dare sfoggio dei vostri muscoli internazionali”, sono solo alcuni dei mantra ripetuti dal guru davanti alla folla dei suoi adepti.

Insomma, Li Yang punta tutto su tecniche di autoconvincimento e sul desiderio di rivalsa nei confronti dell’amico-nemico occidentale, andando così a toccare un nervo ancora sensibile. Definito l’Elvis dell’inglese, con fare da rock star più che da maestro di scuola, Li riesce a suscitare nel pubblico eccitamento e commozione sino alle lacrime. Ragioni, queste, per le quali, nel 2008, a ridosso con i Giochi Olimpici di Pechino, il Partito comunista cinese commissionò al fondatore di Crazy English l’ambizioso incarico di instillare le sue perle di saggezza a niente meno che 300 milioni di persone. Il popolo del Celeste Impero, notoriamente refrattario all’apprendimento dell’idioma anglossassone, non poteva certo farsi trovare impreparato di fronte all’ondata di laowai (stranieri) che si sarebbe riversata, di lì a poco, sul suolo cinese.

Eppure, nonostante il successo ottenuto, nel mondo accademico e non, sono cominciati a serpeggiare i primi dubbi riguardo al metodo-Li Yang. “Revival di un ceppo di populismo maligno, paragonabile a quello in auge ai tempi della Rivoluzione Culturale” secondo il linguista, Kingsley Bolton, o, per dirla con le parole del famoso romanziere nazionale, Wang Shuo, “stregoneria vecchio stampo, in grado di eccitare le folle e trasmettere un senso di potere abbastanza forte da rovesciare una montagna”.

Affetto da un mix di megalomania, egocentrismo e invasamento nazionalista, che il signor Li non fosse propriamente una persona equilibrata lo si era capito da tempo, e tuttavia nessuno era preparato a ciò che, di lì a poco, sarebbe accaduto. Nemmeno lo stesso Yang il quale, in poco giorni, ha visto il suo glorioso impero cominciare a sgretolarsi come un castello di sabbia.

Alla fine del mese di agosto, Kim Lee, moglie americana dell’insegnante d’inglese più famoso di tutta la Cina, ha postato sul suo account Weibo -sorta di Twitter “in salsa di soia”- una serie di foto shock: fronte livida, ginocchia gonfie, orecchio sanguinante. A seguire una frase: “Amo perdere la faccia, amo colpire mia moglie in faccia”. Un chiaro riferimento al messaggio pubblicato sul microblog dal marito: “Amo perdere la faccia! Amo commettere errori! (…) Più erorri fai, più progressi raggiungerai!” Insomma, un’accusa senza mezzi termini, che non lascia molto spazio ai dubbi: Li Yang picchia la moglie. Ma non solo. Kim Lee è andata ben oltre, dichiarando, dopo qualche giorno, che gli episodi di violenza si sono ripetuti più volte e, ciò che è peggio, davanti agli occhi delle loro tre figlie. “Tu mi hai buttata a terra, sedendoti sulla mia schiena, mi hai afferrata per la gola e mi hai sbattuto la testa sul pavimento per dieci volte” ha scritto la donna su Weibo.

Incastrato dall’evidenza delle prove, Li Yang ha ammesso le sue colpe e ha chiesto pubblicamente  perdono alla moglie, promettendo di sottoporsi ad una terapia specifica e di devolvere 1000 yuan (157 dollari) ad un’associazione in favore delle donne maltrattate.

Ma chi stava già pensando ad un lieto fine rimarrà sicuramente deluso. Alle scuse ha, immediatamente, fatto seguito la vendetta: il padre di Crazy English ha, infatti, smesso di sostenere finanziariamente la sua famiglia, lasciando la signore Lee e le figlie in una situazione di grande disagio. E come se non bastasse, a rincarare la dose, una dichiarazione a dir poco imbarazzante, rilasciata da Li al China Daily, il 13 settembre scorso: “Il nostro problema deriva da differenze e incomprensioni culturali. Talvolta picchio mia moglie, ma non avrei mai pensato che lei avrebbe reso pubblica la cosa; in Cina, la tradizione vuole che le questioni familiari non vengano rivelate agli estranei. Comunque la stimo per aver cresciuto da sola le nostre tre figlie e per la passione per i suoi studenti”.

A quanto pare Li Yang sa colpire duro anche a parole. “Mio marito continua a fare del male alla mia famiglia con i suoi commenti e le sue apparizioni televisive” ha scritto Lee in una lettera indirizzata al network contro le violenze domestiche di China Law Society. “Sta strumentalizzando le nostre sofferenze per farsi ulteriore pubblicità, e questo è forse l’aspetto più tragico della vicenda. Se Yang fosse stato veramente pentito di ciò che aveva fatto, si sarebbe sottoposto alle cure consigliate e probabilmente il nostro matrimonio sarebbe potuto essere salvato. Ma ora, per me e le mie bambine, l’unico modo per raggiungere la felicità è andare via di casa”.

Fin troppo comprensiva la moglie del guru dell’inglese, se si pensa che l’uomo ha confessato candidamente di averla sposata non per amore, ma per condurre una sorta di esperimento sui metodi educativi delle famiglie americane, raggiungendo l’apice della disumanità definendo le sue tre figlie mere “cavie da laboratorio”.

Comunque sia, ora la travagliata storia dei coniugi Li sembra essere giunta veramente al capolinea: la scorsa settimana, la signora Lee ha presentato istanza di divorzio alla Corte del distretto di Chaoyang, nella capitale cinese, chiedendo la custodia delle bambine e la divisione paritaria dei beni coniugali. Adesso non resta che attendere il verdetto finale.

Nel frattempo il caso Li Yang ha sollevato un polverone mediatico di proporzioni gigantesche, andando a rigirare il coltello in una ferita che tortura quotidianamente il Dragone. Quella delle violenze domestiche, nel Regno di Mezzo, è una piaga ancora dolente che ha spinto attivisti e avvocati per i diritti delle donne a denunciare un vuoto legislativo inammissibile: le autorità cinesi stanno ancora lavorando ad un progetto di legge che copra nello specifico questo tipo di crimini, al momento, regolamentati solo in maniera parziale dalla legge sul matrimonio. Secondo i dati rilasciati all’inizio del mese scorso da All-China Women’s Federation e dal Dipartimento Nazionale di Statistica, il 25% delle donne cinesi, almeno una volta nella vita, è stata vittima di abusi all’interno del nucleo familiare.

“Anche se non mi sarà concesso di continuare a vivere tranquillamente nella mia casa, mi rimane sempre la possibilità di tornare in America; un lusso, questo, che le donne cinesi non possono permettersi. In Cina, le violenze domestiche sono ritenute un qualcosa di normale e accettabile, come parte integrante della cultura tradizionale. Ma questa è una situzione che non può più essere tollerata, pertanto mi sento onorata e in dovere di fare qualcosa per cambiarla” ha scritto la moglie di Li sul network di China Law Society.

Forse, in questo modo, la sofferenza di Kim Lee non sarà stata del tutto vana

(A.C)

Il Pentagono vittima dei falsi "made in China"

Il falso "made in China" varca "le cinture" del Pentagono. Secondo un rapporto pubblicato lunedì dalla Commissione Forze Armate del Senato USA, la catena di forniture militari del Paese abbonderebbe di pezzi contraffatti, la maggior parte dei quali provenienti proprio dal Regno di Mezzo. I pezzi incriminati sarebbero stati rilevati su sette aerei aventi sistemi di produzione della Raytheon Co., L-3 Communication Holdings In. e Boing Co.

Il resoconto riporta una breve descrizione del processo di contraffazione, nel quale "parti già precedentemente utilizzate, vengono lavate nell'acqua e lasciate seccare; poi passate nella sabbia e accuratamente levigate in modo da rimuoverne i marchi d'identificazione, per essere infine rivendute su internet".

1800 i casi sospetti, per un totale di oltre un milione di pezzi: questo è il bilancio approssimativo della beffa perpetuata ai danni delle forze armate americane, definita dal Parlamento "come la punta dell'iceberg" di un fenomeno di ben più vasta portata.

Intanto, mentre il governo Usa cerca di mettere una pezza a colori, piovono ferrei regolamenti volti a stringere i controlli su venditori e spedizionieri, con un occhio particolarmente attento a quelli provenienti dall' ex Impero Celeste. L'ala repubblicana del Comitato delle Forze Armate, rappresentata da Levin e dal senatore Jhon McCain, ha dichiarato che farà il possibile per mettere in atto il National Defence Authorization Act 2012, al fine di responsabilizzare maggiormente gli imprenditori, i quali, dovendo pagare di tasca propria i pezzi di ricambio, avranno, così, maggior interesse nell'assicurare la "genuinità" delle merci.

Ma non è tutto. La Corte statunitense è passata alle minacce: se la Cina non adotterà immediatamente misure più rigide per frenare l'afflusso di prodotti contraffatti, gli Usa  chiederanno l'ispezione di tutte le componenti elettroniche in arrivo dal Regno di Mezzo. E se è vero che i costi di tali controlli ricadranno interamente sui fornitori, c'è forse la possibilità che, con una mano sul portafoglio, il Dragone farà più attenzione a non commettere "passi falsi".

lunedì 7 novembre 2011

Qualcosa succede in Cina 2


Non importa che siano contadini, operai delle fabbriche, tassisti, insegnanti o commercianti: un po' in tutta la Cina, i lavoratori, senza distinzione di sorta, stanno incrociando le braccia in segno di protesta. Colpa del costo della vita in costante aumento, trainato dal rincaro dei prezzi degli alimenti e del settore immobiliare, dai salari troppo bassi e da condizioni di lavoro al limite della disumanità (Qualcosa succede in Cina...). Una mappa degli scioperi (bagong), messi in atto dall'inizio del 2011 ad oggi, evidenzia l'estensione a macchia d'olio ormai assunta dal fenomeno.

E' bene ricordare che, nella "fabbrica del mondo", il diritto all'astensione dal lavoro in segno di dissenso, pur non essendo riconosciuto dalla legge cinese, tuttavia, non viene nemmeno esplicitamente negato; la linea ufficiale del Partito in materia rimane ancora estremamente ambigua. Eppure, scavando a fondo, qualcosa di interessante e un minimo "compromettente" lo si riesce a rintracciare.

Un primo assaggio ci viene dato da un documento del 1957, adottato dal Comitato centrale del Pcc, in cui la leadership cinese riprende il celebre discorso di Mao "Sulla corretta risoluzione delle controversie in seno al popolo"; qui il Grande Timoniere afferma "l'inevitabilità" e, anzi, la "necessità" dei movimenti popolari qualora le masse, private dei loro diritti democratici, fossero spinte a mettere in atto misure estreme.

Nel corso degli anni la questione è stata trattata dalle autorità in maniera altalenante, attraverso un atteggiamento di apertura o di chiusura a seconda delle circostanze e degli interessi contingenti. Così, sebbene le Costituzioni del 1975 e 1978, frutto della Rivoluzione Culturale, ammettevano esplicitamente l'esistenza del diritto allo sciopero, quest'ultimo cadde progressivamente nel dimenticatoio, tanto che nella Costituzione del 1982, tuttora in vigore, non ne viene fatta menzione. Stesso copione nel 2008, quando, durante la riforma del diritto del lavoro, l'argomento bagong passò nuovamente in sordina.

Oggi, in Cina, il diritto di sciopero non è proibito né riconosciuto: è semplicemente rimpiazzato da un altro dei tanti vuoti normativi che contraddistinguono il sistema giuridico del Regno di Mezzo; l'ennesima falla di un sistema che, all'occorrenza, preferisce mantenere indefinite zone d'ombra.

sabato 5 novembre 2011

Democrazia "in salsa di soia"

La crisi finanziaria che ha colpito le economie mature ha acuito l'insoddisfazione e  i dubbi verso i sistemi politici occidentali. Gli accadimenti susseguitisi tra la fine della Guerra Fredda e la morte di Gheddafi hanno evidenziato la fragilità dei totalitarismi e la superiorità dei regimi democratici, ma è possibile parlare di democrazia come di un valore universale? Un editoriale pubblicato il 21 ottobre sul Global Times, quotidiano ufficiale del Partito comunista cinese (Pcc), presenta la questione così come viene vista attraverso gli occhi a mandorla, sottolineando l'importanza di adattare e plasmare la democrazia in base alle caratteristiche proprie di ogni singolo Paese, al fine di massimizzare i benefici del sistema stesso. Questo è un po' il principio che sta alla base della "democrazia con caratteristiche cinesi," promossa dal governo cinese; una democrazia che non ha come obiettivo l'occidentalizzazione del sistema, non prevede una competizione elettorale multipartitica né una tripartizione dei poteri, ma che principalmente si basa sul rinnovamento dell'Assemblea nazionale del popolo attraverso l'introduzioni di elezioni dirette e competitive, tra più candidati scelti a livello locale.

L'editoriale del Global prende le mosse dal presupposto che le carenze emerse nel processo di democratizzazione del Medio Oriente rispecchiano i punti deboli del concetto di democrazia “made in Occidente”. Dalle proteste di Wall Street alla primavera araba, la pancia del Paese, un po' in tutto il mondo, sembra dare segni di insofferenza per quanto sta avvenendo tra le mura di casa propria; se non animata, ovunque, dalle stesse motivazioni, diciamo che se non altro presenta sfumature simili. I regimi di Gheddafi e Mubarak sembrano aver intrapreso la stessa direzione, ed ora che i “cattivi” sono stati eliminati sorge il sospetto che i movimenti democratici possano degenerare a loro volta in fondamentalismi. Adesso più che mai gli sviluppi futuri sono sospesi nell'incertezza.

Insomma, la crisi globale ha puntato i riflettori sulle crepe del sistema democratico che viene da Ovest e, per tale ragione, l'anonimo autore ritiene opportuno soffermarsi sul concetto stesso di democrazia: “La democrazia è l'opposto dell'autoritarismo individuale, ma tuttavia non si limita soltanto all'attuazione del sistema 'una persona, un voto', sebbene per molto tempo si è creduto fosse la sua unica caratteristica. In molti paesi questo format ha causato uno stato di caos non inferiore a quello suscitato da molti regimi autoritari. La democrazia è qualcosa che deve produrre effetti reali; non deve ostacolare le persone ma facilitare il progresso della società. Non ha nemmeno motivo di interrompere il suo sviluppo e la sua evoluzione in nome delle passate conquiste” Poi l'articolo giunge al nocciolo della questione: “La democrazia ha bisogno di adattarsi alle esigenze di ogni singolo paese, creando nuovi canali di interazione tra il popolo e il potere: le elezioni non sono l'unico mezzo che ci viene messo a disposizione. Un governo va valutato sulla base dei servizi che offre ai propri cittadini, in modo da ottenere la pubblica approvazione. In Medio Oriente, l'era degli uomini dal pugno di ferro è giunta al termine, e presto lo sarà in tutto il mondo.Ogni Paese svilupperà un suo sistema democratico il più possibile consono alle proprie caratteristiche (leggi: “democrazia con caratteristiche cinesi”). Tutto questo potrà introdurre un nuovo capitolo nella storia del genere umano”.

Se non fosse che le parole provengono dall'Impero Celeste, per mezzo di una delle voci più vicine al Ghota cinese, si potrebbe quasi cadere vittima della logica di un ragionamento che sicuramente un certo fascino ce l'ha: l'idea di una “democrazia altra” fa gola un po' a tutti gli “indignati”. Poi però balza agli occhi un'incongruenza. O meglio: nel puzzle di un mondo in protesta, ricostruito dalla penna del “profeta cinese”, manca un tassello; un tassello da 1,3 miliardi di abitanti. In altre parole, l'autore sembrerebbe essersi dimenticato di citare in causa proprio il suo stesso paese. Una svista che insospettisce non poco dato il fermento che, dal febbraio scorso sino ad oggi, sta crescendo a ritmi esponenziali un po' in tutto il Regno di Mezzo. E sebbene possa sembrare strano data la proverbiale mansuetudine del popolo cinese, gli “indignados”, a quanto pare, sono sbarcati anche entro i confini della Grande Muraglia. Il 28 ottobre il South China Morning Post utilizzava proprio il termine “indignati” nel descrivere i riots di Huzhou, città dello Zhejiang e capitale dell'abbigliamento per l'infanzia, che la scorsa settimana hanno visto piccoli lavoratori e imprenditori protestare a braccetto contro l'aumento delle tasse. Un'alleanza dei ceti produttivi contro le autorità che è degenerata in caos e distruzione di strutture pubbliche e simboli del potere politico.

Dal Guandong, al Xingjiang, dal Jiangsu alla Mongolia Interna e poi ancora in Tibet, sino alle metropoli di Pechino e Shanghai; ormai in ogni parte della Cina proteste e movimenti di rivolta si spandono a macchia di leopardo, catalizzate dal malcontento per i bassi salari, per l'inflazione galoppante, per le condizioni di lavoro insostenibili, alimentate dall'indignazione verso la corruzione dilagante, dai sentimenti indipendentistici e dal progressivi allargamento della forbice tra ricchi e poveri. Questi e molti altri fattori hanno trasformato il Paese di Mezzo in una gigantesca polveriera che, secondo molti, non tarderà ad esplodere.

E se i regimi del mondo arabo sono stati sconfitti, nel Celeste Impero, a tenere salde le redini del potere è ancora la dittatura monopartitica, caratterizzata dal monolitismo delle strutture di governo, le quali non lasciano la minima possibilità di dialogo.

Eppure di tutto ciò il giornalista del Global Times non fa parola; preferendo glissare su quanto accade a casa propria, tratta la questione democrazia da una prospettiva super partes, “dimenticando”, forse, che dalle proteste di piazza Tiananmen del 1989, la parola democrazia, proprio in Cina, è diventata ormai un tabù inviolabile.

(A.C)

venerdì 4 novembre 2011

La storia di Ai commuove la comunità di Twitter


Leggi: Aggiornamenti Ai Weiwei: multa da 2,4 MLN di dollari

15 milioni di yuan (2,4 milioni di dollari) in 15 giorni: un'impresa da nababbi, proibitiva per l'artista cinese Ai Weiwei. Ad un giorno di distanza dall'avviso di pagamento inviato a casa Ai dall'ufficio delle imposte di Pechino, la madre e il fratello del dissidente cinese hanno rilasciato una dichiarazione shock: per poter ricavare il denaro necessario al pagamento della multa, la famiglia procederà ad ipotecare l'ex residenza del padre, il famoso poeta cinese Ai Qing. La notizia accolta nello sdegno generale, ha portato l'avvocato per i diritti umani, Li Tiantan, e la femminista, Ai Xiaoming, ad appellarsi alla comunità di Twitter per cercare di aiutare finanziariamente l'archistar. Il risultato della campagna pro-Ai Weiwei è stato strabiliante: 5.232 donatori hanno contribuito alla causa, e in sole 12 ore sono stati raccolti fondi per un totale di 1,1 milioni di yuan (più di 173mila dollari). Le donazioni sono giunte in maggior parte dagli utenti di Aliplay e Paypal, i due account configurati appositamente dai sostenitori del dissidente. Se le offerte continueranno ad arrivare con questi ritmi, Ai sarà in grado di saldare "il suo debito" verso lo Stato entro soltanto una settimana. Tuttavia i suoi benefattori ci tengono a precisare che si tratta solo di "un prestito"; lo stesso archistar ha dichiarato che ripagherà i suoi sostenitori fino all'ultimo centesimo, qualsiasi sarà l'esito finale della sua battaglia.

martedì 1 novembre 2011

Aggiornamenti Ai Weiwei: multa da 2,4 MLN di dollari



Leggi l'antefatto: Ai Weiwei deve pagare 1,2 MLN di tasse

Quella di Ai Weiwei sembra ormai essere una storia infinita. Proprio questa mattina l'artista cinese ha diffuso sul web uno di quei tweet che il governo cinese non avrebbe mai voluto leggere: "Mi è arrivata una comunicazione dell'ufficio delle imposte. Poichè sono considerato il "controllore reale" dell'azienda (si riferisce alla Beijing Fake  Cultural Developer Ltd., la società per cui lavora e della quale è proprietaria la moglie, Lu Qing), dovrò pagare 15 milioni di yuan (2,4 milioni di dollari); l'equivalente di quanto incassano in un anno le ferrovie cinesi".

Ai racconta alla Reuters il losco modus operandi con il quale le autorità stanno trattando la questione: "Io non sono un manager, né un direttore; sono un semplice progettista. So bene che dietro vi sono motivazioni politiche e che sono rivolte contro di me". E la convinzione dell'archistar non è stata indebolita nemmeno dalle rassicurazioni dei funzionari, secondo i quali la multa sarebbe diretta all'azienda e non a lui personalmente. "Ho domandato perchè sul comunicato del ministero degli Affari Esteri ci fosse il mio nome"- ha continuato il dissidente cinese- "ma in tutta risposta mi è stato ripetuto che la cosa non ha nulla a che fare con me". L'irragionevolezza della questione è accentuata dal fatto che sino ad oggi la Fake non ha ricevuto nessun documento che provi un'effettiva evasione fiscale. "Se lo Stato dice che hai eluso le tasse, allora vuol dire che lo hai fatto e basta. Come si può avere ancora qualche speranza? Questo Paese non cambierà mai", hanno replicato dagli uffici.

Intanto la richiesta avanzata dal Beijing Local Taxation Bureau è salatissima: 5,3 milioni di yuan di tasse arretrate (circa 800mila dollari), ai quali si vanno a sommare 6,8 milioni di multa (poco più di 1milione di dollari) e circa 3 milioni di pagamenti arretrati (472mila dollari). La somma dovrà essere versata entro 15 giorni e, in caso di inadempienza, non è da escludersi che l'artista possa nuovamente finire agli arresti. "Se realmente esiste un problema di tipo fiscale sarò io a pagare, ma se le accuse sono false, non tirerò fuori una lira. Tutto ciò è ridicolo" ha continuato l'archistar.

Dopo il suo rilascio nel mese di giugno, il padre dello stadio Nido d'uccello è rimasto sotto inchiesta con l'accusa di reati economici, senza tuttavia ricevere alcuna comunicazione ufficiale che spiegasse, nello specifico, la natura dei crimini commessi. Poi a luglio il governo di Pechino ha tenuto un'udienza a porte chiuse, alla quale ad Ai fu vietato di prendere parte; una prassi, questa, definita "illegale" dal suo avvocato. E adesso i fatti sembrano proprio dare ragione ai più sospettosi. Tra gli attivisti per i diritti umani l'ipotesi più accreditata è quella che vede dietro i falsi pretesti del governo un unico obiettivo: mettere a tacere un personaggio troppo scomodo.


"Luci cinesi 1981/2011"


Ecco alcuni tra i 100 scatti realizzati dal giornalista Enrico Rondoni per ripercorrere i cambiamenti affrontati dalla Cina nell'arco di tempo che va dal 1981 al 2011; il trentennio del "secondo grande balzo", questa volta quello economico. «Tornare nella Repubblica Popolare Cinese dopo 30 anni è stata la fonte ispiratrice di questa mostra» - spiega Rondoni - «Il paese che avevo visto e fotografato nel 1981 e nel 1983 si rivelava, nel 2010, un altro mondo. Erano passati solo tre decenni, ma sembrava fosse trascorso un secolo. Quando sono arrivato a Shanghai nel 2010 per l’Expò Universale, con in mente le giunche dalle vele rosse nel porto e i palazzi sul Bund che ricordavano una New York degli anni ’30, lo stupore è stato superiore alle aspettative». Mentre il giornalista era impegnato a girare un reportage per il TG5, ha ripreso a fotografare - con la stessa macchina usata allora, in pellicola - gli stessi luoghi di trent’anni prima. Ora "Luci cinesi 1981/2011" è un excursus per immagini della storia cinese dalle riforme di Deng Xiaoping sino ai nostri giorni, e rientra nel calendario di appuntamenti della Biennale Internazionale di Cultura Vie della Seta che si terrà nella Città Eterna sino al febbraio 2012.


Hukou e controllo sociale

Quando nel 2012 mi trasferii a Pechino per lavoro, il più apprezzabile tra i tanti privilegi di expat non era quello di avere l’ufficio ad...