martedì 8 novembre 2011

La parabola di Li Yang


Pubblicato su Uno sguardo al femminile

Se spesso si dice che in ogni genio si nasconda una piccola dose di follia, nel caso di Li Yang, quest’ultima ha finito per prevalere prepotentemente. Classe 1969, capelli corvini striati da pochi fili argentei;  il signor Li, oltre i confini della Grande Muraglia è poco più che un nome, ma in patria è oggetto di venerazione per essere il padre fondatore di Crazy English, un metodo di apprendimento dell’inglese tutt’altro che ortodosso, che da 18 anni a questa parte ha mandato letteralmente in visibilio il popolo cinese.

Fonte www.newyorker.com
Dimenticatevi lo studio meccanico dei verbi irregolari, l’ascolto di audiocassette e i soggiorni nei college inglesi, in Occidente, prassi consueta per avvicinarsi alla lingua anglosassone. In Cina si fa alla maniera di Li Yang: ci si raduna nelle piazze, nei parchi, nei teatri o nelle sale cinematografiche e si urla a più non posso. “Would – to – take;” grida il maestro al microfono con il braccio destro alzato, mentre la folla, in estasi, gli fa eco gridando a squarciagola le tre parole magiche. E il medesimo metodo si ripete per qualsiasi vocabolo o frase si voglia imparare.

Ora, glissando sulla più o meno professionalità del sistema utilizzato, una cosa è certa: ai cinesi piace, e anche molto! Secondo le stime, sarebbero all’incirca 20 milioni i discepoli di Li; studenti, impiegati, professionisti che da ogni parte del Paese si recano in pellegrinaggio negli “english camp” dell’inusuale insegnante d’inglese. E ce ne è per tutti e a tutti i prezzi: si va dai 44 yuan (poco meno di 7 dollari) per l’acquisto di un semplice kit di Crazy English, composto di libro di testo e gadget, ai 1200 yuan (all’incirca 250 dollari) giornalieri per un ambito biglietto “diamond degree”; un prezzo, questo, che equivale a più di quanto percepisce mensilmente un lavoratore cinese medio.

Ma qual’è il segreto del successo di Li Yang? Non basta certo urlare ad alta voce due o tre parole per imparare una lingua. E, infatti, il patron di Crazy English è andato ben oltre, riuscendo a fare leva sull’orgoglio nazionale che alberga nei cuori degli 1,3 miliardi di abitanti del Regno di Mezzo. Amor patrio, quando non xenofobismo: l’inglese, più che un idioma da imparare, viene presentato come una bestia nera da soggiogare. “Conquistare l’inglese per rendere la Cina più forte; perchè noi abbiamo pietà dello straniero che non sa parlare il mandarino; urlare per dare sfoggio dei vostri muscoli internazionali”, sono solo alcuni dei mantra ripetuti dal guru davanti alla folla dei suoi adepti.

Insomma, Li Yang punta tutto su tecniche di autoconvincimento e sul desiderio di rivalsa nei confronti dell’amico-nemico occidentale, andando così a toccare un nervo ancora sensibile. Definito l’Elvis dell’inglese, con fare da rock star più che da maestro di scuola, Li riesce a suscitare nel pubblico eccitamento e commozione sino alle lacrime. Ragioni, queste, per le quali, nel 2008, a ridosso con i Giochi Olimpici di Pechino, il Partito comunista cinese commissionò al fondatore di Crazy English l’ambizioso incarico di instillare le sue perle di saggezza a niente meno che 300 milioni di persone. Il popolo del Celeste Impero, notoriamente refrattario all’apprendimento dell’idioma anglossassone, non poteva certo farsi trovare impreparato di fronte all’ondata di laowai (stranieri) che si sarebbe riversata, di lì a poco, sul suolo cinese.

Eppure, nonostante il successo ottenuto, nel mondo accademico e non, sono cominciati a serpeggiare i primi dubbi riguardo al metodo-Li Yang. “Revival di un ceppo di populismo maligno, paragonabile a quello in auge ai tempi della Rivoluzione Culturale” secondo il linguista, Kingsley Bolton, o, per dirla con le parole del famoso romanziere nazionale, Wang Shuo, “stregoneria vecchio stampo, in grado di eccitare le folle e trasmettere un senso di potere abbastanza forte da rovesciare una montagna”.

Affetto da un mix di megalomania, egocentrismo e invasamento nazionalista, che il signor Li non fosse propriamente una persona equilibrata lo si era capito da tempo, e tuttavia nessuno era preparato a ciò che, di lì a poco, sarebbe accaduto. Nemmeno lo stesso Yang il quale, in poco giorni, ha visto il suo glorioso impero cominciare a sgretolarsi come un castello di sabbia.

Alla fine del mese di agosto, Kim Lee, moglie americana dell’insegnante d’inglese più famoso di tutta la Cina, ha postato sul suo account Weibo -sorta di Twitter “in salsa di soia”- una serie di foto shock: fronte livida, ginocchia gonfie, orecchio sanguinante. A seguire una frase: “Amo perdere la faccia, amo colpire mia moglie in faccia”. Un chiaro riferimento al messaggio pubblicato sul microblog dal marito: “Amo perdere la faccia! Amo commettere errori! (…) Più erorri fai, più progressi raggiungerai!” Insomma, un’accusa senza mezzi termini, che non lascia molto spazio ai dubbi: Li Yang picchia la moglie. Ma non solo. Kim Lee è andata ben oltre, dichiarando, dopo qualche giorno, che gli episodi di violenza si sono ripetuti più volte e, ciò che è peggio, davanti agli occhi delle loro tre figlie. “Tu mi hai buttata a terra, sedendoti sulla mia schiena, mi hai afferrata per la gola e mi hai sbattuto la testa sul pavimento per dieci volte” ha scritto la donna su Weibo.

Incastrato dall’evidenza delle prove, Li Yang ha ammesso le sue colpe e ha chiesto pubblicamente  perdono alla moglie, promettendo di sottoporsi ad una terapia specifica e di devolvere 1000 yuan (157 dollari) ad un’associazione in favore delle donne maltrattate.

Ma chi stava già pensando ad un lieto fine rimarrà sicuramente deluso. Alle scuse ha, immediatamente, fatto seguito la vendetta: il padre di Crazy English ha, infatti, smesso di sostenere finanziariamente la sua famiglia, lasciando la signore Lee e le figlie in una situazione di grande disagio. E come se non bastasse, a rincarare la dose, una dichiarazione a dir poco imbarazzante, rilasciata da Li al China Daily, il 13 settembre scorso: “Il nostro problema deriva da differenze e incomprensioni culturali. Talvolta picchio mia moglie, ma non avrei mai pensato che lei avrebbe reso pubblica la cosa; in Cina, la tradizione vuole che le questioni familiari non vengano rivelate agli estranei. Comunque la stimo per aver cresciuto da sola le nostre tre figlie e per la passione per i suoi studenti”.

A quanto pare Li Yang sa colpire duro anche a parole. “Mio marito continua a fare del male alla mia famiglia con i suoi commenti e le sue apparizioni televisive” ha scritto Lee in una lettera indirizzata al network contro le violenze domestiche di China Law Society. “Sta strumentalizzando le nostre sofferenze per farsi ulteriore pubblicità, e questo è forse l’aspetto più tragico della vicenda. Se Yang fosse stato veramente pentito di ciò che aveva fatto, si sarebbe sottoposto alle cure consigliate e probabilmente il nostro matrimonio sarebbe potuto essere salvato. Ma ora, per me e le mie bambine, l’unico modo per raggiungere la felicità è andare via di casa”.

Fin troppo comprensiva la moglie del guru dell’inglese, se si pensa che l’uomo ha confessato candidamente di averla sposata non per amore, ma per condurre una sorta di esperimento sui metodi educativi delle famiglie americane, raggiungendo l’apice della disumanità definendo le sue tre figlie mere “cavie da laboratorio”.

Comunque sia, ora la travagliata storia dei coniugi Li sembra essere giunta veramente al capolinea: la scorsa settimana, la signora Lee ha presentato istanza di divorzio alla Corte del distretto di Chaoyang, nella capitale cinese, chiedendo la custodia delle bambine e la divisione paritaria dei beni coniugali. Adesso non resta che attendere il verdetto finale.

Nel frattempo il caso Li Yang ha sollevato un polverone mediatico di proporzioni gigantesche, andando a rigirare il coltello in una ferita che tortura quotidianamente il Dragone. Quella delle violenze domestiche, nel Regno di Mezzo, è una piaga ancora dolente che ha spinto attivisti e avvocati per i diritti delle donne a denunciare un vuoto legislativo inammissibile: le autorità cinesi stanno ancora lavorando ad un progetto di legge che copra nello specifico questo tipo di crimini, al momento, regolamentati solo in maniera parziale dalla legge sul matrimonio. Secondo i dati rilasciati all’inizio del mese scorso da All-China Women’s Federation e dal Dipartimento Nazionale di Statistica, il 25% delle donne cinesi, almeno una volta nella vita, è stata vittima di abusi all’interno del nucleo familiare.

“Anche se non mi sarà concesso di continuare a vivere tranquillamente nella mia casa, mi rimane sempre la possibilità di tornare in America; un lusso, questo, che le donne cinesi non possono permettersi. In Cina, le violenze domestiche sono ritenute un qualcosa di normale e accettabile, come parte integrante della cultura tradizionale. Ma questa è una situzione che non può più essere tollerata, pertanto mi sento onorata e in dovere di fare qualcosa per cambiarla” ha scritto la moglie di Li sul network di China Law Society.

Forse, in questo modo, la sofferenza di Kim Lee non sarà stata del tutto vana

(A.C)

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