venerdì 15 giugno 2012

(Un)welcome to Pyongyang. Reportage dalla Corea del Nord Vol°1


Preso atto dell'effetto urticante che potrebbero causare 10 cartelle word sul lettore italiano medio -normalmente insofferente già dopo le prime 500 battute- ho deciso di pubblicare le mie memorie della Corea del Nord a puntate. Il rischio è di capirci poco e niente, ma quelli sono affari vostri.




Da Dandong a Sinuiju. Primi passi nell'ultima cortina di ferro

Dandong, cittadina cinese della provincia del Liaoning, sorge lungo le sponde del fiume Yalu e rappresenta il punto più agevole per chi vuole arrischiare un viaggio nella Corea del Nord.  Collocata in una posizione strategica, permette di attingere alle ricche risorse naturali concentrate nel nord-est della Cina e costituisce una via privilegiata per accedere alle rotte marittime. Lo era anticamente e continua ad esserlo anche oggi. Non eccelle certo in bellezza, ma ha altre doti. Grazie al ruolo che riveste negli scambi commerciali con il Nord Corea, nel 1992 Pechino ha dato l'ok per renderla “Border economic cooperation zone” al fine di promuovere l'import-export con l'altra sponda alla quale è collegata da un robusto ponte di ferro. Il Ponte dell'amicizia sino-coreana, costruito dagli invasori giapponesi alla fine degli anni '30, è affiancato dall'altro storico attraverso il quale i volontari cinesi accorsero in aiuto della Repubblica popolare democratica di Corea (RPDC) durante l'invasione statunitense agli inizi degli anni '50. Di questo non è rimasto che un moncherino, unico sopravvissuto dei bombardamenti americani e assurto oggi a principale attrazione turistica della città. Forse l'unica.
Un incessante via vai di camion ferrati affolla le strade di Dandong confluendo nello spiaziale della dogana, ultimo traguardo per le merci in arrivo dall'altro versante del Yalu e trampolino di lancio per le esportazioni cinesi nella Corea del Nord. Tra un tetris di conteiner e la cappa di smog uomini caricano e scaricano sacchi di varie dimensioni. Carbone importato dal Nord Corea, cemento e cotone sono alcune delle merci che percorrono giornalmente il ponte di ferro, racconta uno dei camionisti di nazionalità cinese. Per quanto riguarda gli alimenti, quelli “vengono regalati da Pechino a Pyongyang e passano per vie governative”.

Gli affari tra le due sponde vengono gestiti principalmente da cinesi han, cinesi di etnia nordcoreana bilingui e nordcoreani doc; questi ultimi riconoscibili per l'immancabile spilletta del Partito dei lavoratori appuntata al petto. La Cina gestisce circa il 40% delle esportazioni del Nord Corea (1,58 dei 4 miliardi di dollari complessivi) mentre il 70% degli scambi bilaterali tra Pechino e Pyongyang avviene proprio attraverso la città di Dandong, le cui importazioni ammontano a 468 milioni di dollari, come riportato dal ministero del Commercio cinese.

La vivacità laboriosa della metropoli cinese stride contro il silente e spoglio versante nordcoreano, che, eccetto per sporadici capannoni, una ruota panoramica pressocchè in disuso e gru rugginose, prosegue monotono sino all'altezza di Shenyang, capoluogo provinciale del Liaoning e meta prediletta dei rifugiati nordcoreani in fuga dalla fame. Di notte una fitta nebbia si solleva dal corso del fiume inghiottendone completamente gli argini, mentre un bagliore sfuocato segnala la presenza di una città: Sinuiju, Regione amministrativa speciale (SAR) creata nel 2002 come testa di ponte per i primi esperimenti capitalistici, è il primo agglomerato urbano della Repubblica popolare democratica di Corea nel quale ci si imbatte arrivando da Dandong.
Un macchinoso controllo alla dogana attende chiunque in possesso di passaporto straniero: pile di documenti riempiono un tavolino sul quale, riversi, quattro funzionari verificano e annotano nomi e numeri. Metodi antidiluviani per il controllo delle valigie, letteralmente svuotate di ogni contenuto. Un occhio particolarmente attento per i dispositivi digitali: pc, lettori MP3, cellulari sulla carta severamente banditi dal territorio nazionale, in pratica vengono parzialmente tollerati (il blocco dei cellulari, secondo i media internazionali inaspritosi nel 2004, sembrerebbe essere stato decisamente allentato). Ma le insidie maggiori, per Pyongyang, si nascondo nascondersi nella carta stampata. Libri di qualsivoglia genere e lingua vengono requisiti e sfogliati accuratamente dai vocabolari alla narrativa, per non parlare delle guide turistiche, in particolare se edite dall'australiana Lonely Planet.
Il proprio passaporto il visitatore lo rivedrà soltanto alla fine del viaggio, privo di qualsiasi visto o timbro nordcoreano che possano comprovare la propria esperienza entro i confini di quella che viene considerata “l'ultima cortina di ferro”.

"Apartheid in salsa coreana"
Uno dei mezzi più folkloristici -forse non dei più comodi- per raggiungere Pyongyang è il treno. Più di 200 chilometri di ferrovia collegano la città di Sinuiju alla capitale nordcoreana per complessive 6 ore di viaggio. Le misure di sicurezza in prossimità delle stazioni si fanno più serrate così come la presenza di funzionari in divisa. Gli stranieri vengono accopagnati in pulman fin sopra alla banchina, scortati dagli accompagnatori coreani dentro alla stazione attraverso un'entrata secondaria e qui rinchiusi con tanto di lucchetto alle porte senza possibilità di uscita. Divieto categorico per le foto. Come allo zoo una lastra di vetro divide la popolazione locale sul marciapiede in attesa del treno da chi dentro, privato della libertà di prendere una boccata d'aria, non può che rubare con lo sguardo scene di vita quotidiana.
Qualsiasi interazione con i cittadini nordcoreani è fuori discussione. In fondo al treno un'apposita carrozza è stata destinata ai turisti: ventilatori sospesi sul soffitto, l'odore intenso degli interni in legno e due icone dei defunti leader Kim Il-Sung e Kim Jong-Il accolgono i passaggeri d'oltre confine in una dimensione anacronistica che sa di stantio.

Secondo un rigido sistema di “apartheid” scene analoghe si ripetono sulla metro di Pyongyang, in cui l'ultimo vagone è off-limit per la popolazione locale. Operativa dall'inizio degli anni '70, la metropolitana della capitale nordcoreana è la più profonda al mondo (oltre 110 metri sotto terra) ed è stata pensata come rifugio in caso di eventuali bombardamenti aerei. La rete è completamente interrata e consta di due linee che si estendono per una dozzina di chilometri ciscuna. I treni fatiscenti sono un lascito della Repubblica democratica tedesca, mentre il modello di riferimento è la sotterranea di Mosca della quale rievoca design, murales e statue ispirate al realismo socialista. Secondo alcune origliature, il governo si sarebbe assicurato l'utilizzo di alcune linee segrete non accessibili ai comuni passeggeri, tanto che un inviato della BBC, giunto a Pyongyang nel 2000 al seguito del Segretario di Stato americano Madeleine Albright, sollevò diversi dubbi sulla sua funzionalità, avanzando l'ipotesi di una messa in scena per turisti volta a smarcarsi dalle frecciate della comunità internazionale che vorrebbe la Corea del Nord affetta da un serio deficit energetico.
L'impressione a caldo non è quella di una recita di massa, che d'altra parte risulterebbe di difficile attuazione dato il massiccio afflusso di passeggeri in transito. Vero è che gli straniero è concesso viaggiare soltanto tra  tra le stazioni Puhŭng e Yŏngwang sotto la supervisione di una guida locale. Ma nulla di strano: essere controllati a vista in Nord Corea è la prassi tanto sotto terra che in superficie.


Il divieto sulle foto, categorico lungo la ferrovia Sinuiju-Pyongyang (scatti rubati durante le 6 interminabili ore di treno mi sono state fatte cancellare con commento stizzito della guida riguardo ai turisti che non rispettano le regole del Paese), è stato progressivamente allentato nel corso del tour.
Non vale lo stesso per la libertà di movimento. Il Yanggakdo International Hotel di Pyongyang è la prigione dorata nella quale vengono di fatto relegati visitatori, uomini d'affari e giornalisti sotto false spoglie di turisti contro i quali la nostra ha lanciato più volte saette acuminate.
Dotato di casinò, quattro ristoranti -di cui uno al 47esimo piano con vista a 360° sulla città- deve ostentare una vasta gamma di comodità per dissuadere i suoi ospiti dall'avventurarsi oltre le colonne d'Ercole; come se la collocazione strategica dell'albergo posto al centro di un'isola galleggiante sul fiume Taedong e un check-point a 100 metri dal portone d'ingresso non fossero sufficienti a placare gli spiriti più avventurieri. Un'Alcatraz a cinque stelle dalla quale non è possibile scappare se non forse a nuoto, con il pericolo di finire nel cucchiaio delle navi scavatrici che giorno e notte sollevano e spostano la sabbia dal fondale agli argini del fiume.

Spese (da) folli
E' bene munirsi di scorte per il lungo viaggio: una legge nazionale vieta agli stranieri di maneggiare il won, la moneta locale. Ergo semaforo rosso per gli acquisti al di fuori dei rarissimi negozi autorizzati alla vendita agli stranieri nei quali è possibile utilizzare esclusivamente euro, yuan cinesi e raramente dollari. Ma non è una gran perdita. A parte ginseng declinato in tutte le sue manifestazioni, pesce secco e l'agiografia completa della famiglia Kim, quanto a souvenir la Corea del Nord non può vantare molto altro. I più coraggiosi, però, potranno appagare il proprio desiderio per l'esotico con una bottiglia di liquore di serpente con la quale magari accompagnare un piatto di carne di cane, usanza gastronomica della penisola coreana continuamente bersagliata dalle critiche degli animalisti.

La fame che non si vede
L'interminabile strada ferrata che collega Sinuiju a Pyongyang si snoda tra un mosaico di campi coltivati e risaie a perdita d'occhio. Fiumi e canali nutrono ed irrigano le terre lungo la costa occidentale. Un quadretto bucolico decisamente inaspettato per un Paese soggetto a calamità naturali e carestie, tutto'ggi ai vertici della classifica mondiale per malnutrizione della popolazione. Buoi e ovini al pascolo, contadini lavorano i campi servendosi per lo più di aratri a mano; più uniche che rare le macchine agricole molte delle quali acquistate dal Dragone, come ci ha spiegato un uomo alla dogana di Dandong.
I villaggi, raccolti entro basse cinta di mura, si distinguono per ordine sfoggiando una dignità che spesso manca alle zone rurali della Cina. Donne, uomini, bambini strappano erbacce, riposano sul prato, giocano a carte, agitano la mano al passaggio del treno sbuffante.
Dov'è la fame lamentata dai migliai di profughi nordcoreani in fuga (secondo alcune stime, 30 al giorno quelli che scappano in Cina)?

Le carestie degli anni '90 causarono un numero imprecisato di vittime che va dai 200 milioni ai 3 miliardi di persone. In un report dello scorso febbraio World Food Programme (WFP) ha evidenziato che 3,5 milioni di nordcoreani hanno immediato bisogno di aiuti alimentari. Secondo recenti stime delle Nazioni Unite un terzo dei bambini sotto i cinque anni d'età soffre di malnutrizione, mentre funzionari della sanità hanno evidenziato un aumento tra il 50% e il 100% dei ricoveri nei reparti pediatrici rispetto allo scorso anno.
Ma per qualcuno i numeri non sono una prova sufficiente e c'è il sospetto che Pyongyang stia calcando la mano allo scopo di spremere fino in fondo i benefattori internazionali e strappare qualche sussidio in più. “In passato i politici nordcoreani erano soliti mentire sulle condizioni economiche del Paese, alimentando voci di carestie” -aveva dichiarato alcuni mesi fa in un'intervista a Tempi.it Andrei Lankov, docente di storia dell'Asia presso l'università sudcoreana di Kookmin- “al mercato nero i prezzi del cibo sono stabili e anche i viaggiatori indipendenti che hanno visitato le parti più remote del paese confermano che le persone stanno meglio del solito. Ovviamente, la maggioranza del popolo resta malnutrita, come da decine e decine di anni a questa parte. Soffrono la fame, ma non al punto da morire per questo.”

Gli stessi nordcoreani ammettono a denti stretti che l'arretratezza delle tecniche di coltivazione e raccolto sono alla base di gran parte dei problemi del Paese. Eppure uno studio del giornale sudcoreano Hankyoreh, pubblicato nel 2007, ha evidenziato negli ultimi anni una crescita stabile della qualità della vita e degli stipendi. Cina e Corea del Sud, che restano i due maggiori contribuenti di aiuti alimentari di Pyongyang, nel 2005 hanno spedito a nord del 38° parallelo 1 milione di tonnellate di alimenti. Pechino, dal canto suo, fornisce tra l'80% e il 90% delle importazioni nordcoreane di petrolio “a prezzi amichevoli”. La politica isolazionista messa in atto da Pyongyang e l'embargo delle nazioni occidentali hanno bloccato il potenziale di crescita del Paese che con giusti incentivi e provvedimenti potrebbe raggiungere il 6-7% annuo, mentre il rubinetto degli aiuti internazionali viene dosato sulla base delle promesse del governo nordcoreano di abbandonare il programma nucleare e sottoscrivere il Trattato di non proliferazione (TNP).

La carenza di cibo è stata considerata uno dei problemi più pressanti durante “l'Ardua Marcia”, periodo che va dal 1995 e il 2000 durante il quale la scomparsa dei principali partner commerciali (Unione Sovietica e Repubblica democratica tedesca in primis) indussero l'allora leader Kim Jong-Il a spronare lo “stato eremita” a rialzarsi in piedi con le sue sole forze, come professato dalla dottrina del Juche. Raggiungere l'autosufficienza nell'agricoltura e nell' industria nazionale, questo il principio cardinale attraverso il quale risollevare le sorti del Paese, prestando attenzione a non cadere nella trappola dell'autarchia e del protezionismo.

Nel 1997 il “Caro leader” (titolo assegnato a Kim Jong-Il) spinse l'Armata Popolare Coreana (KPA) a concentrare i propri sforzi sull'agricoltura. Quell'anno ottenere un buon raccolto non sarebbe stato soltanto un successo economico in grado di alleviare le pene del popolo, ma avrebbe costituito anche una rivincita sugli Stati antisocialisti gravitanti attorno al capitalismo di stampo americano. Il Partito, unitamente al popolo e all'esercito, si doveva dedicare alla coltivazione dei campi assieme alle comunità rurali per raggiungere l'obiettivo dell'autosussitenza al fine di aggirare l'inevitabile rovina che sarebbe scaturita dall'introduzione di capitali stranieri, primo passo verso un tacito assenso all'imperialismo occidentale.
Ma nella ragnatela del paradosso Pyongyang sembra, alla fine, esserci rimasto impigliato, come rivela la spinosa questione degli aiuti alimentari a stelle e strisce barattati a febbraio in cambio di una moratoria sui test missilistici a lungo raggio e sulle attività di arricchimento dell'uranio. Il pacchetto da 250 mila tonnellate e’ stato congelato dopo lo sfoggio di muscoli del governo nordcoreano culminato nel fallimentare lancio del satellite/missile colato a picco nel Mar Giallo poco dopo il decollo lo scorso aprile. Nel 2011 anche l'Unione europea ha allungato la mano alle autorita’ di Pyongyang, inviando circa 10 milioni di euro di sussidi alimentari.

Nulla di questo sembra lontanamente immaginabile osservando la popolazione locale tanto nelle aree rurali quanto nella capitale. Nemmeno l’ombra dei corpi emaciati e degli storpi che affollano il subcontinente indiano o delle raccapriccianti condizioni igeniche di alcuni Paesi del sud-est asiatico.
Qualche dubbio, pero’, sorge constatando la totale mancanza di mercati all’aperto, tipici dell’Estremo Oriente, e il numero esiguo di negozi, per lo piu’ concentrati a Pyongyang e pieni di nulla (chi scrive non ha avvistato nessuno ne’ a Sinuiju ne’ a Kaeson). Per le strade di cibo non ve n’e’ nemmeno l’ombra, solo qualche ghiacciolo stretto come trofeo nelle mani di pochi bambini. Siamo mille miglia lontani dall’opulenza ostentata dalle città della Cina sotto il vessillo del "socialismo con caratteristiche cinesi", ma non manca nemmeno chi puo’ sfoggiare una leggera pancetta.


Gli Arirang show e “l'età dell'innocenza”
"Kim Il-Sung" e "Kim Jong-Il" sono le uniche parole che riuscii a distinguere. Sul palco del Mangyongdae Schoolchildren's Palace di Pyongyang, una bambina alta poco più di un metro, impugnando un microfono recitava con enfasi il discorso di apertura del “children's show”. Il Mangyondae è il più grande dei numerosi palazzi dei bambini di cui è costellata la Corea del Nord; strutture pubbliche dedicate a corsi extra-scolatici (tra le principali attività lezioni di musica, lingue straniere e danza) ed esibizioni di massa. Un'attrazione per i turisti che, in netta maggioranza sui locali, occupano buoni tre quarti della platea. Fu da subito chiaro che quella che ci attendeva non era la solita recita alla quale siamo abituati dalle nostre parti. Una cosa più di ogni altra mi gelò il sangue. La retorica sciorinata da quel bambinetta ricordava in tutto e per tutto il discorso concitato con il quale la presentatrice della tv di Stato, in un bagno di lacrime, annunciò al mondo la scomparsa del “Caro leader” lo scorso 19 dicembre.

Si apre il sipario e parte la musica. Accompagnato da motivetti patriottici -alcuni dei tanti che vengono trasmessi nelle principali piazze della città 24 ore su 24- uno stuolo di bambini tra i sei e i quattordici anni si esibisce in canti scanditi a passo di marcia, balli acrobatici e vere e proprie simulazioni di guerra. Un carro armato di cartone sullo sfondo; i piccoli attori imbracciano fucili di plastica e sparano contro una bandiera sudcoreana, giocando inconsapevoli con una delle ferite più dolorose della storia nazionale: la guerra di Corea.
La commozione sincera di quei bambini - "i re della nazione", come ci ha ripetuto più volte la nostra guida- dovrebbe far riflettere tutti coloro che associano la famiglia dei Kim unicamente al “pallino per il nucleare” e ad un grottesco culto della personalità. Una sottile campagna ideologica forgia fin dall'infanzia cuori patriottici fedeli ai loro leader. La sola costrizione imposta da un regime dittatoriale riuscirebbe a tenere unito un popolo da anni ridotto alla fame?

“Ditelo ai vostri amici che quello che raccontano i media internazionali sul nostro Paese non è vero” -ci ha ripetutamente ammonito durante il soggiorno Lee, la nostra guida nordcoreana- “così come la storia dei diritti umani. Ogni paese ha dei propri standard, non è possibile darne una definizione universale”.

Ma gli Arirang show (questo il nome degli spettacoli infarciti della propaganda nazionale e avviati nel 2000 per celebrare il 90esimo della nascita Kim Il-Sung, "Presidente Eterno" e fondatore della Repubblica democratica popolare di Corea) negli ultimi anni sono finiti al centro di accese critiche. Gli stessi abitanti della capitale hanno mostrato un certo disgusto per quella che viene considerata un'esibizione confezionata a misura di turista, volta a mettere in vetrina i valori socialisti del regime nordcoreano attraverso l'inutile mobilitazione di centinaia di migliaia di cittadini. Nel maggio dell'anno scorso la notizia di un prolungamento delle performance sino al 2015 ha lasciato molti a bocca aperta, increduli di come si possa continuare a tenere in piedi degli spettacoli che in realtà non guarda nessuno.
Ma c'è dell'altro. Secondo quanto riportato da Radio Free Asia, dietro le quinte delle esibizioni si anniderebbero focolai di corruzione. I figli degli alti funzionari del Partito sarebbero esonerati dalle estenuati prove per gli show, mentre gli altri bambini vengono sottoposti a faticose esercitazioni nella calura estiva. Il Partito ha ascoltato. “Gli Arirang Mass Games del 2012 saranno gli ultimi” ha rivelato l'11 giugno l'agenzia di stampa sudcoreana Yonhap.

Inchiodati alla poltrona per un'ora buona, i turisti si lasciano sfuggire qualche risatina e commento sarcastico. Poi si accendono le luci e cala il sipario, mentre l'età dell'innocenza se ne va tra uno scroscio di applausi.


((Un)welcome to Pyongyang. Reportage dalla Corea del Nord Vol.2)


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