Da allora l’arte ha talvolta potenziato le retrovie della denuncia sociale, talvolta ha finito per schierarsi dalla parte dei “cattivi”. Il rallentamento di settori tradizionalmente permeabili alla speculazione e l’intensificarsi dei controlli sulle spese pazze della nomenklatura hanno trasformato l’arte in una sobria forma d’investimento per quei nuovi ricchi poco inclini a sperimentare i rischi dei mercati azionari. Ma anche in uno strumento di «corruzione elegante» (yahui) con cui adulare le frange più depravate del Partito. Dalla pregevole calligrafia allungata al superiore in alternativa alle costose bottiglie di Moutai, fino alle aste truccate in combutta con i cupidi funzionari al fine di gonfiare il valore dei pezzi. E a poco è servito scoperchiare casi eclatanti come quello che ha visto l’ex vicecapo della polizia di Chongqing, Wen Qiang, finire al patibolo per i crimini commessi. Certo, lì c’erano di mezzo corruzione e rese dei conti tra faide politiche nella Ghotam City cinese: ma anche una collezione da oltre 100 reperti non dichiarati, tra cui fini statuette in avorio e la testa di un Buddha in pietra.
Gli introiti delle case d’asta hanno riportato una crescita del 900 per cento rispetto al 2003. Non male per un paese che fino a non molti anni fa condannava il collezionismo come degenerazione borghese.
Secondo l’European Fine Art Market, nel 2011 il mercato cinese dell’arte ha raggiunto la sua massima espansione per un valore pari a 19,5 miliardi di dollari, il 30 per cento del settore a livello mondiale. Gli introiti delle case d’asta hanno riportato una crescita del 900 per cento rispetto al 2003: 8,9 miliardi contro gli 8,1 miliardi degli Stati Uniti. Non male per un paese che fino a non molti anni fa condannava il collezionismo come degenerazione borghese. Nonostante una prima liberalizzazione agli inizi degli anni ’90, è soltanto intorno al 2004, con l’aumento dei redditi e la nascita di una classe media urbana, che il mercato dell’arte ha cominciato a girare a pieno regime. Nel 2013 si contavano 350 case d’asta – di cui le due principali Poly International Auction e China Guardian loscamente prossime all’élite «rossa» – mentre più di 20 programmi televisivi fornivano consigli agli aspiranti collezionisti su come riconoscere gli antichi cimeli dalle patacche. Si moltiplicavano le spedizioni patriottiche dei collezionisti nel Vecchio e Nuovo Continente per riportare le opere cinesi nella mainland, con tanto di furti nei musei.
C’è da giurarci che non era questo che intendeva Xi Jinping quando un paio d’anni fa, in un discorso celebrato in pompa magna dai media statali, auspicava la rinascita di un’arte al servizio del popolo cinese, marxista eppure scevra da eccessive contaminazioni occidentali. Sembra invece andare incontro alle attese del regime la rinnovata reverenza per i maestri del ‘500 e i loro seguaci moderni, declinazione retrò del nazionalismo «rosso» che rimbalza dai comunicati ufficiali ai social network. In un momento in cui la leadership spinge per spostare il baricentro del proprio appeal dalla mera superiorità economica ad una più sofisticata offensiva culturale, per Pechino anche l’arte diventa una questione di soft power. Gli esiti, tuttavia, non sono sempre quelli sperati, e capita spesso che a passare sotto il martelletto del battitore sia un’opera spuria.
L’imitazione dei classici (lin mo) è una pratica consolidata, che ha visto nei secoli tramandare il gusto per la riproduzione fedele di pitture, ceramiche e giade di alta qualità. Secondo uno studio della società Artron ripreso dal New York Times, per appagare l’insaziabile richiesta del mercato interno, oltre 250mila persone in 20 città cinesi sono coinvolte nella produzione e nella vendita di falsi. Tanto che si stima che circa la metà delle creazioni del longevo pittore Qi Baishi finite all’asta siano in realtà copie, così come lo sono l’80 per cento dei lotti battuti presso case d’asta di piccola e media
grandezza.
Le conseguenze più evidenti spaziano da scandali di alto profilo (spicca la chiusura, nel 2013, di un
Tra il 2008 e il 2011, il governo ha revocato o sospeso la licenza a 150 grossisti a causa di una serie di irregolarità tra cui proprio la vendita di falsi. Tutta colpa dell’inadeguatezza del corpo normativo, dicono gli esperti. L’attuale legge che disciplina il settore risale al 1997 e non tiene conto, tra le altre cose, del proliferare di piattaforme online operanti senza supervisione e che, in barba alla Cultural Relics Protection Law, mettono in vendita persino oggetti sottoposti a restrizione.
Nell’ambito di un tentativo di regolamentazione, lo scorso anno la britannica Sotheby’s è diventata la prima compagnia straniera a ricevere il placet della China Auctioneers Association e del Department of Circulation Industry Development, facente capo al ministero del Commercio. Un privilegio accolto con l’eloquente commento “saremo più che contenti di vedere in Cina un mercato delle aste più aperto, trasparente, regolamentato e diversificato, dove la competizione avviene nell’ambito di regole giuste e imparziali». Sotheby’s, che ha avviato la sua prima causa per un mancato pagamento nel 2006, nel mese di luglio ha ceduto il 13,5 per cento delle proprie azioni a Taikang Life, uno delle principali compagnie assicurative della Repubblica popolare, istituita nientemeno che dal nipote acquisito di Mao Zedong, Cheng Dongshen che, guarda un po’, è anche fondatore di China Guardian.
Negli ultimi dieci anni, i procedimenti giudiziari innescati da irregolarità durante le aste sono aumentati esponenzialmente, tanto nella Cina continentale quanto a Hong Kong. Ma a raffreddare il mercato cinese non sono soltanto gli inciampi legali e la circolazione di falsi. Secondo l’ultimo rapporto rilasciato dall’European Fine Art Fair lo scorso marzo, l’ex Impero Celeste ha ceduto il secondo posto alla Gran Bretagna dopo aver riportato un crollo delle vendite del 23 per cento nel 2015. Gli Stati Uniti, di contro, continuano a fare la parte del leone contando per il 43 per cento del mercato globale. Le cause del sorpasso britannico – come sintetizza ai microfoni del South China Morning Post Clare McAndrew di Art Economics – sono sostanzialmente quattro: crescita economica ai minimi da 25 anni, volatilità delle borse, incessante guerra alle stravaganze nel Partito e un’erosione della disponibilità di opere di alta qualità.
È dello stesso parere Oscar Ho, critico d’arte e professore associato presso la Chinese University of Hong Kong, che mi conferma la traiettoria discendente del settore, tra tangenti e riciclaggio di denaro sporco: «Stime esatte non ne abbiamo, sono pratiche ben note ma portate avanti sotto banco. C’è chi ritiene rappresentino la maggior parte delle transazioni. Alcuni atteggiamenti dubbi avvengono allo scoperto, come l’usanza da parte dei curatori di prendere una commissione o addirittura una percentuale sul numero dei pezzi come ricompensa per il loro lavoro. Altre sono accuratamente nascoste. Regalare a qualcuno un’opera d’arte che non vale nulla e poi metterla all’asta per pagarla un prezzo elevato è una forma di corruzione molto comune. Quindi, sì, indubbiamente il giro di vite sulle mazzette è alla base del rallentamento del mercato cinese. La campagna aniticorruzione ha macchiato la reputazione del collezionismo d’arte inibendo l’accesso al mercato da parte della middle class più giovane».
Risultato: sempre più amatori optano per acquistare sull’altra sponda del Pacifico. Ed ecco che le vendite negli States continuano a lievitare.
(Pubblicato su China Files/The Towner)
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