giovedì 13 ottobre 2016

Duterte e gli angeli della morte


«Non siamo cattive persone. Siamo angeli della morte incaricati di riportare le anime impure in cielo». Protetto dall’anonimato, un alto funzionario della polizia filippina (PNP) confida al Guardian il ruolo svolto dalle forze dell’ordine nella lotta al crimine, responsabile di oltre 3.600 morti dallo scorso 1 luglio, ovvero da quando Rodrigo Duterte ha assunto ufficialmente l’incarico di presidente. Nel retro di un postribolo di Manila, l’uomo, che appartiene a uno dei dieci team speciali (ognuno composto da sedici membri) istituiti recentemente per colpire tossici, trafficanti e criminali, descrive nei minimi dettagli il modus operandi della polizia e il sistema con cui i cadaveri vengono fatti sparire. «Neutralizzare i parassiti» è il termine preferito dagli addetti ai lavori per descrivere la lunga scia di uccisioni.

Non si tratta di uccidere per piacere. Un obiettivo più elevato, non distante dal patriottismo, spinge i funzionari ad eseguire gli ordini. Ordini che vengono da molto in alto, spiega l’uomo responsabile in prima persona di 87 esecuzioni. Mentre insinuazioni sul ruolo svolto da Duterte si sono rincorse per mesi, è la prima volta che a tracciare un nesso tra le migliaia di morti e il governo è un membro delle forze dell’ordine direttamente coinvolto. Ufficialmente, secondo la PNP, delle 3.600 uccisioni portate a termine sinora, 1.375 sarebbero stata eseguite durante operazioni di polizia, 2.233 e più da ignoti vigilantes, ovvero criminali, signori della droga e altri fuorilegge impegnati una resa dei conti trasversale. La fonte del Guardian parla di una tripartizione degli incarichi: oltre alla polizia e agli ignoti «giustizieri», ci sono poi gli «squadroni della morte» altamente addestrati, la categoria più minacciosa, stando ai racconti particolareggiati dell’insider, che ricorda perfettamente il giorno in cui i sui superiori annunciarono l’inizio della una nuova «strategia».

La «neutralizzazione» funziona con un meccanismo a cascata. I leader dei team operativi ricevono una lista di obiettivi comprensivi di foto e dossier sui criminali da identificare. Poi uno o due membri della squadra si recano presso l’abitazione dei sospettati per effettuare accertamenti sul presunto coinvolgimento in attività illegali. «Così li studiamo e decidiamo in caso se portare a compimento la nostra giustizia. Ovviamente è il governo che ci ordina di farlo», spiega la fonte, che aggiunge: «Non ci limitiamo a uccidere per piacere, ma se riteniamo di avere a che fare con un criminale incallito che si guadagna da vivere come un parassita a discapito degli altri, non abbiamo pietà. Gli somministriamo la peggiore delle fini».

Gli angeli della morte operano di notte incappucciati e vestiti completamente di nero. In due-tre minuti identificano il bersaglio e lo freddano sul posto. Veloci, precisi e lontano da occhi indiscreti. Poi si sbarazzano del corpo, abbandonandolo in una città vicina o sotto a un ponte. Talvolta legano attorno alla testa un cartello in modo da identificare il cadavere come «pusher» al fine di disincentivare ulteriori investigazioni giornalistiche. Sebbene il Guardian sia stato in grado di confermare l’identità della fonte, il racconto non trova conferma in alcuna ricostruzione indipendente. Ma basta ad affilare gli strali avvelenati che da tre mesi colpiscono Duterte di pari passo con la moltiplicazioni di immagini splatter apparse sulla stampa locale.

Appena assunto il potere il «Giustiziere» – come è stato ribattezzato il presidente filippino – si è dato sei mesi per debellare il narcotraffico dall’arcipelago del Sudest asiatico. Un obiettivo perseguito attraverso l’estensione a livello nazionale del «modello Davao», il metodo controverso con cui Duterte ha amministrato l’omonima città per diversi anni tra il 1988 e il 2016, e che implica la concessione di ampie libertà alle forze dell’ordine, compresa l’amnistia per i poliziotti finiti «dalla parte sbagliata della legge» per portare a compimento la loro missione.

Già nel 2009, Human Rights Watch aveva espresso la propria preoccupazione per la campagna anticrimine, pubblicando il rapporto You Can Die At Any Time con la speranza di ispirare più approfondite indagini sull’operato dell’ex sindaco. Ma da allora nessun progresso è stato fatto. Al sopraggiungere di una recente testimonianza sulle esecuzioni extragiudiziali presentata davanti al Senato, a settembre il nuovo numero uno della PNP, Ronald dela Rosa, – ex capo della polizia di Davao promosso al nuovo incarico da Duterte stesso – ha categoricamente negato l’esistenza degli «squadroni della morte» e di un’alleanza informale tra vigilantes e forze dell’ordine, bollandoli come «invenzioni dei media». Una versione che finora non è bastata a zittire le condanne della comunità internazionale. Nazioni Unite, Stati Uniti e associazioni per la difesa dei diritti umani hanno reso note le proprie preoccupazioni per «il clima di illegalità» che avviluppa il paese asiatico, già reso instabile dalle annose minacce dei separatisti islamici che scuotono le province meridionali.

Ma, tra un inciampo e l’altro, la difesa della campagna antidroga sta costringendo il neo-presidente filippino a equilibrismi diplomatici di rischiosa esecuzione. Replicando agli ammonimenti di Barack Obama con ingiurie pressoché quotidiane, Duterte parrebbe intenzionato a coltivare rapporti strategici con potenze regionali storicamente meno amiche ma più funzionali in tempi di realpolitik. Anche a costo di «rivedere» la storica alleanza con Washington, Manila comincia a strizzare l’occhio al gigante della porta accanto e secondo partner commerciale, la Cina, al fine di ricucire lo strappo causato dalla precedente amministrazione con la richiesta al Tribunale internazionale dell’Aja di dirimere le questioni sulla sovranità nel Mar cinese meridionale. E poi c’è la Russia, a cui le Filippine guardano – scambi virtuosi a parte – come prezioso fornitore di armi. Accomunati da una certa avversione per le paternali moralistiche di Washington, è improbabile che Pechino e Mosca mettano in discussione le politiche poco ortodosse con cui Duterte mira a fare ordine in casa propria.

Al contrario, prendendo atto del fatto che il narcotraffico rappresenta un problema anche nella Repubblica popolare – principale hub per la produzione e l’esportazione di meth e altre droghe sintetiche nel resto dell’Asia fino in Europa – il regime cinese ha espresso il proprio endorsement al «Giustiziere». Alla fine di settembre il ministero degli Esteri cinese ha dichiarato in un comunicato che «la Cina sostiene (Duterte) ed è pronta a cooperare con le Filippine per formulare un piano congiunto nella lotta alle droghe». E il sostegno non arriva soltanto dal gigante asiatico. Secondo un sondaggio della Pulse Asia Research, Duterte gode ancora dell’approvazione di ben il 91 per cento della popolazione filippina.

(Pubblicato su Il Fatto quotidiano/China Files)

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