I due astronauti Jing Haipeng, 49 anni (già protagonista di altre due esplorazioni nel 2008 e nel 2013), e Chen Dong, 37, rimarranno in orbita un mese, periodo durante il quale condurranno una serie di esperimenti medico-scientifici mantenendo contatti con la terra attraverso l'invio di testi, audio e video attraverso l'agenzia di stampa Xinhua.
Sino ad oggi, Pechino ha già messo in orbita cinque veicoli spaziali e dieci astronauti, coronando un sogno che risale ai tempi tempi del progetto segreto 714, vagheggiato da Mao Zedong alla fine degli anni '60. Nel 2003, il gigante asiatico è diventato il terzo paese a effettuare un volo spaziale umano dopo l'Unione Sovietica e gli Stati Uniti, mentre alla fine del 2013 ha completato il primo allunaggio morbido mai effettuato dal 1976, nell'ambito della missione Chang'e-3. Il prossimo traguardo dovrebbe consistere nell'invio su Marte di lander e rover «made in China» entro il 2020. E se tutto andrà come da copione nel 2036 il primo astronauta cinese potrebbe persino raggiungere la Luna.
Per Pechino è una questione di hard e soft power. Congratulandosi con gli astronauti a mezzo stampa, il presidente Xi Jinping ha infatti dichiarato che la nuova missione «aiuterà ulteriormente la Cina a diventare una potenza spaziale», compiendo un grande balzo in avanti nella realizzazione del «sogno della nazione cinese». Sul versante interno, la lunga marcia verso la Luna permette dunque alla leadership comunista di riscuotere consensi facendo leva sul ben noto patriottismo dei cinesi. Al contempo, in un momento in cui le rivendicazioni nel Mar cinese meridionale mettono in cattiva luce l'assertività di Pechino, sul versante internazionale i successi spaziali permettono alla Cina di impiegare la propria potenza economica in un contesto apparentemente meno minaccioso. Ovvero al fine di accrescere la conoscenza dell'umanità, anziché perseguire esclusivamente i propri interessi nazionali.
Fin dai primi anni 2000, il gigante asiatico ha affiancato Russia ed Europa nello sviluppo di esplorazioni spaziali con l'esperimento Mars-500, volto a simulare le condizioni di un viaggio verso Marte. Ma nel 2011 preoccupazioni sulla sicurezza hanno portato all'allontanamento della Cina dall'International Space Station e dall'aprile di quell'anno una legge approvata dal Congresso americano sbarra l'ingresso di scienziati cinesi presso le strutture della NASA.
A destare preoccupazione è l'ufficiosa valenza militare del programma spaziale cinese, rintracciabile a partire dall'appartenenza degli astronauti all'Esercito popolare di liberazione. A livello pratico, secondo gli esperti, Pechino sta già valutando un modo per espandere la natura dual-use delle sue esplorazioni astronautiche. Per esempio, lo sviluppo di interferometri con atomi ultra-freddi, installabili sulle stazioni spaziali, potrebbe facilitare il rilevamento di sottomarini nucleari attraverso la misurazione di piccole variazioni del campo gravitazionale. Un obiettivo tecnicamente difficile da raggiungere ma a cui la China Academy of Space Technology guarda come a un possibile futuro primato cinese.
Senza bisogno di arrivare a tanto, a giugno il razzo Long March 7 ha messo in orbita un piccolo vettore che - munito di un braccio meccanico - dovrebbe ripulire lo spazio dei detriti artificiali, ma che alcuni dicono potrebbe essere utilizzato da Pechino in tempi di guerra come arma antisatellite. Ogni anno la Cina investe tra i 2 e 3 miliardi di dollari per il suo programma spaziale, con una buona fetta destinata allo sviluppo di tecnologia antisatellite. Un trend che impensierisce non poco Washington il quale affida proprio ai satelliti gran parte del lavoro di intelligence e di comunicazione.
(Pubblicato su China Files)
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