domenica 27 maggio 2012

"La fabbrica del consenso" cinese: quando la propaganda diventa Pr




In poco piu’ di trent’anni la Cina si e’ scrollata di dosso l’epiteto di “Paese del terzo mondo” e, scalzato il Giappone, ha raggiunto il secondo posto in classifica tra le potenze economiche tallonando da vicino gli Stati Uniti primi della classe. “Deus ex machina” indiscusso di questa prodigiosa scalata, il Partito comunista cinese che, a partire dalla fine dell’era maoista, ha dato inizio ad un processo di restayling volto a ridipingere la propria immagine, dismettendo la divisa rivoluzionaria per vestire i panni del “partito di governo”(sistema mono-partitico permettendo). Ha reagito agilmente alle disastrose politiche anni '50-'60 intraprendendo con successo un processo di riadattamento e modernizzazione là dove altri regimi comunisti si sono scontrati contro irreparabili fallimenti e le blasonate democrazie hanno pericolosamente vacillato.

Il segreto del suo successo risiede in una formula vincente nella quale l’ apologetica di regime si miscela con una buona dose di vis persuasoria. Quella che comunemente viene chiamata propaganda  nel Regno di Mezzo si è evoluta nell'arco di quarant'anni da mera esaltazione del Partito a più accurata e sottile manipolazione degli organi d'informazione.

Il Dipartimento Centrale di Propaganda rappresenta da sempre lo zoccolo duro della macchinosa burocrazia cinese. Da principio caratterizzato da forti influssi sovietici e goebbeliani, verso la metà degli anni '80, ha comincia a guardare con maggior interesse al modello americano delle pubbliche relazioni. In particolar modo, il collasso dell'Unione Sovietica (della quale la politica di Pechino è stato per lungo tempo debitrice) e le proteste di piazza Tian'anmen inducono la leadership cinese a rimettere in discussione la propria strategia di perseguimento della longevità. La panacea per i mali del gigante asiatico -negli anni del trionfo del soft power a stelle e strisce- sembra per ovvie ragioni essere custodita sull'altra sponda del Pacifico.

I concetti di “pubblico”e “pubblicità” subscono fortemente l'influenza dei padri della Rivoluzione americana dall'idea di una democrazia basata sul “continuo scambio di idee tra un pubblico istruito e informato”di Jefferson al muck-raking,termine coniato da Roosevelt per indicare il giornalismo d'inchiesta.
Poi dagli anni '20 le pubbliche relazioni diventano uno strumento utilizzato dal governo statunitense per respingere gli attacchi della stampa sfoggiando un'immagine di sé imbellettata a dovere; la così detta “fabbrica del consenso”che tanto piace a Pechino. Ma la moderna propaganda del regime cinese è per lo più debitrice verso  Walter Lippmann e la sua teoria del modellare l'opinone pubblica attraverso i mass media.

Al tempo di Mao, l'ideologia marxista-leninista marchiava le tecniche di propaganda esplicandosi in un “controllo del pensiero” realizzato attraverso campagne di emulazione d'ispirazione anti-borghese, autocritiche, denunce e mobilitazioni di massa.
I tragici eventi del 1989 hanno indotto i piani alti della politica cinese a sostituire l'obsoleto e scomodo termine “propaganda”con una serie di surrogati più alla moda;“pubblicità” e “pubbliche relazioni”negli anni '90 cominciarono ad essere preferebili.

Il tentativo di makeup del Dragone coinvolge anche la politica estera. Una ricerca dal titolo “National Image Building and Chinese Foreign Policy”, pubblicata nel 2003 da Hongying Wang, professore di scienze politiche presso l'Università di Waterloo, mostra come il gigante asiatico abbia rimpiazziato l'immagine di “leader rivoluzionario” di cui si fregiava ai tempi del Grande Timoniere, con quella di “cooperatore internazionale e grande potenza”plasmata da Deng Xioping, padre delle riforme e della politica di apertura anni '80.


Il XXI secolo, nel bene e nel male, viene ritenuto unanimamente il secolo del Dragone e, mentre la lente d'ingrandimento globale scruta minuziosamente tutto ciò che accade al di là della Grande Muraglia, i falchi del Partito hanno imparato a sorridere alle telecamere: l'ex segretario generale Jiang Zemin, Zhu Rongji premier dal 1998 al 2003, e gli attuali presidente e primo ministro Hu Jintao e Wen Jiabao sono stati tutti indottrinati su come trattare con i media. Per non parlare di Bo Xilai, l'ex-capo del partito di Chongqing, rimosso di recente da tutti i suoi incarichi e al centro di uno scandalo che sta facendo tremare il Partito. Fotogenico e sempre impeccabile, Bo ha messo in piedi una delle più colossali impalcature propagandistiche dalle “tinte rosso forti”: coinvolgimento dei cittadini attraverso canzoni rivoluzionarie e sms con citazioni del libretto rosso, pulizia dei palinsesti televisivi e il divieto di trasmettere messaggi pubblicitari imposto alla rete satellitare della municipalità. Una linea populista collegata alla “Nuova Sinistra” che non è mai andata giù alla coppia Hu-Wen tanto che qualcuno la ritiene complice del suo tracollo. Solo pochi giorni dopo il siluramento dell'ex capo di Chongqing, gli spot pubblicitari hanno fatto nuovamente la loro comparsa sul piccolo shermo.

Il fallimento della tattica basata sul “controllo del pensiero”- in aggiunta al ricco corollario di pratiche maoiste sopra citate- ha portato la classe dirigente cinese a virare verso una nuova filosofia a “basso costo”che consiste principalmente nel puntare il dito contro “le forze esterne”, scaricando la colpa di parte dei propri insuccessi sulle potenze straniere.
Questa modalità nazionalista ha raggiunto punti apicali in concomitanza con il Grande Balzo in Avanti, la strage di Tian'anmen e l'imbarazzante inconveniente che ha stoppato la corsa della torcia olimpica a Parigi nel 2008. La colpa è oltremare, hanno fatto sapere da Pechino, mentre sempre più spesso il governo cinese agita il fantasma del complottismo “made in Occidente”. Comodo quando le cose si mettono male, come nel “caso Chen Guangcheng”, il dissidente che con la sua fuga presso l'ambasciata americana a Pechino ha messo a repentaglio le relazioni tra l'Aquila e il Dragone. Secondo le autorità cinesi l'attivista non è altro che una pedina nelle mani degli Usa con il pllino per i diritti umani.
Il modus operandi adottato da Pechino per dirimire la spinosa questione e la scarsa diplomazia dimostrata dai media statali (le sparate del Global Times contro Washington hanno fatto da sottofondo a tutta la vicenda), secondo molti, hanno assestato un duro colpo al soft-power cinese.

Domare l'informazione e il consenso
“Ogni mezzo immaginabile che trasmette informazioni al popolo cinese ricade sotto la competenza del Dipartimento Centrale di Propaganda”scrive Shambaugh, senior fellow al Center for Northeast Asian Policy Studies (CNAPS), in China's Propaganda System: Institutions, Processes and Efficacy. Il CCPPD rimane ancora uno dei dipartimenti governativi meglio finanziati e più influenti dell'ex Impero Celeste ed “è uno strumento proattivo volto a educare e dare forma alla società”. Sebbene il ruolo e i metodi della propaganda ufficiale siano mutati, il Ministero della Verità -come è stato ribattezzato dal web- continua a rappresentare il cuore del sistema, effettuando un controllo a tappeto su ciò che può essere detto e quando può’ essere detto. L'“applicazione selettiva” e “l'autocensura”sono le due modalità attraverso le quali opera l'occhio di Pechino il quale, tuttavia, lascia un certo margine di libertà alla circolazione di critiche e notizie negative prima di calare la scure, come dimostra la censura a singhiozzo degli ultimi mesi targati Bo Xilai.

L'esempio più lampante viene fornito dall'incidente ferroviario di Wenzhou, avvenuto nel luglio 2011 lungo la linea superveloce di recente inaugurazione (avviata con un anno di anticipo sulla tabella di marcia). In seguito a tale episodio l'opinione pubblica si scagliò contro la corruzione dei funzionari e il disprezzo dimostrato dal governo nei confronti della vita dei cittadini rimasti vittime di una modernizzazione incontrollata.
Dopo alcuni giorni di tolleranza, da Zhongnanhai- roccaforte del Pcc- partì l'ordine rivolto a tutti i giornalisti di fare una cernita delle notizie riportando soltanto quelle in grado di mettere in mostra gli aspetti positivi della vicenda.
Secondo le fonti ufficiali ammontarono a 40 i morti e circa 200 i feriti, ma per l’amministrazione Hu-Wen il costo della sciagura e’ stato molto piu’alto. La linea ad alta velocita’, concepita come il fiore all’occhiello del “socialismo con caratteristiche cinesi” si e’ rivelato una rosa piena di spine, mettendo in vetrina tutte le pecche dell’attuale governo cinese a partire dalla corruzione endemica che serpeggia tra i funzionari del Partito. Il ministero delle Ferrovie e’ finito nell’occhio del ciclone, mentre il giro di vite messo in atto dalla leadership non ha concesso sconti distribuendo licenziamenti e sospensioni a tutti i funzionari implicati.

Dopo i primi giorni di semaforo verde, le maglie della censura hanno cominciato a stringersi: il Dipartimento centrale di propaganda ha richiamato agli ordini i giornalisti dando disposizioni su come trattare la notizia. Le direttive obbligavano a rilasciare esclusivamente il bilancio delle vittime secondo la vulgata del Pcc; a dare enfasi ai risvolti piu’ toccanti della vicenda (donazioni di sangue, servizi di taxi gratuiti ecc..);a non indagare sulle cause che hanno portato all’incidente, limitandosi a utilizzare le informazioni fornite dalle autorita’e a evitare commenti e riflessioni. Il tutto all’insegna del principio “di fronte alle tragedie c’e’grande amore”, come insegnano le lacrime versate da “nonno Wen” ad uso e consumo delle telecamere davanti agli sfollati della nevicata record nel sud della Cina del 2008 cosi’ come in molte altre occasioni. Il Partito e’ vicino alle masse anche nelle disgrazie, ma “non fate domande, non indagate, non commentate”.

La strategia rientra a pieno nel motto “incanalare l’opinione pubblica” inaugurato da Hu Jintao nel 2008 quando, abbandonata la strategia della “repressione ad ogni costo” dopo il disastro mediatico delle rivolte tibetane, ordino’ all’ufficio di Propaganda di risparmiare le notizie seppur negative, a patto di renderle vantaggiose per il Partito (link). Un principio che e’stato messo a punto e ripreso sulla rete di internet con l’introduzione dell’esercito dei 50 centesimi, la truppa di internauti prezzolati incaricati di pubblicare commenti favorevoli al governo in cambio appunto di 50 cent a post.

La longa manus del Ministero della Verita’
Il principale organo d’informazione a cui fa riferimento il CCPPD e’ l’agenzia di stampa statale Xinhua, la cui duplice funzione consiste da una parte nel riportare notizie e divulgare messaggi propagandistici tra il pubblico, dall'altra nell’occuparsi della pubblicazione di informazioni non censurate da far circolare attraverso canali interni tra i quadri del Partito, cosi’ da tenere sempre aggiornati i funzionari su quello che accade entro i confini del Paese.

Il dilemma su come “fabbricare il consenso” ha causato una spaccatura tra gli uomini di Pechino, venuta a galla in seguito alla lettera inoltrata nell'ottobre del 2010 da alcuni veterani del Partito al Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo. Gli illustri firmatari -tra i quali compaiono l’ex segretario di Mao, Li Rui, l’ex direttore del Quotidiano del Popolo, Hu Jiwei e l’ex direttore dell’Amministrazione generale della stampa e dell’editoria, Du Daozheng- mettevano in guardia dalle disastrose ripercussioni politiche e sociali che sarebbero scaturite da una governance restrittiva nei confronti della liberta’di parola.
Il messaggio, seppur rimbalzato contro il muro di gomma della realpolitik cinese, rappresenta comunque un primo campanello d’allarme: una frangia del Partito, consapevole dei limiti dimostrati dalla politica del pugno di ferro, protende verso una maggior apertura.

A fianco alla Xinhua, la televisione di stato CCTV costituisce l’altro braccio armato del Dipartimento della Propaganda, saldamente controllata dal regime e chiusa agli investimenti esteri.
Lo scorso ottobre la sessione plenaria del comitato centrale del Partito ha dato il via alla “wenhua tizhi gaige”, la riforma del sistema culturale che ha stabilito nuovi e più rigidi regolamenti sui palinsesti televisivi con lo scopo di ricondurre la cultura sulla retta via dei dogmi socialisti. Cosi’ una disposizione della Sarft (State administration for radio, film and television), organismo di controllo su televisione, radio e cinema, ha stabilito l’abolizione di spot pubblicitari dalle commedie a puntate della durata di massimo 45 minuti. Un provvedimento che va ad aggiungersi alla campagna di pulizia messa in atto sulle tv satellitari provinciali al fine di limitare i programmi di intrattenimento, fissando un tetto massimo di trasmissione al di sotto del quale i singoli canali si devono mantenere.
Comunque sia, l’avanzata rampante di internet sta mettendo a repentaglio il ruolo egemone dei media mainstream limitando chiaramente il potere di controllo del Partito, gia’ visibilmente in affanno nel tentativo di stare al passo con lo scambio d’informazioni che quotidianamente affolla le piattaforme di microblogging.

Le PR in Cina, alcuni casi esemplari
L’evoluzione delle pubbliche relazioni in Cina è segnata da due  eventi che evidenziano modalità di gestione differenti in cui per comunicare con i media e con il pubblico è stato fatto ricorso all'ars persuasoria e alla manipolazione delle notizie. Il picco più basso delle Pr cinesi viene solitamente associato alla fallimentare gestione mediatica adottata dal Pcc durante l'epidemia di Sars del 2003, quello piu’ alto, al terremoto del Sichuan del 2008 . Quest'ultimo caso ha segnato un svolta nella comunicazione cinese grazie alla copertura massiccia realizzata dai media nazionali:  dettagli, foto e continui aggiornamenti hanno tenuto la popolazione costantemente informata sullo stato delle zone colpite.
Nell'arco di poco meno di un anno, tre sono gli eventi -incidente di Wenzhou compreso- che meglio rispecchiano le varie strategie adoperate dal Partito per controllare l'opinione pubblica, avvenuti tutti a cavallo tra il luglio e l'agosto del 2011. Ognuno di essi ha attirato, in prima battuta, l'attenzione della rete divenendo virale su Weibo -sorta di Twitter “in salsa di soia”- per poi, solo in seguito, venire ripreso dai media governativi.

Censura selettiva per l'industria petrolchimica di Dalian
Il 14 agosto, secondo quanto riportato dalla Reuters, le autorità del nord-est della Cina ordinarono la chiusura immediata dell'impianto petrolchimico Fujia Group di Dalian in seguito alle proteste inscenate da migliaia di persone per la rilocalizzazione della fabbrica, ritenuta causa di una spaventosa fuoriuscita di sostanze tossiche (link).
In questo caso la censura cinese operò in maniera selettiva: la domenica successiva, il motore di ricerca cinese Baidu offriava una lunga lista di notizie riguardanti il trasferimento della fabbrica a causa della sua pericolosità senza tuttavia fare menzione delle manifestazioni. Quanto a Google, i risultati inerenti alle sollevazioni popolari furono resi inacessibili dalla “Grande Muraglia di fuoco”, il filtro online che blocca le parole ritenute da Pechino sensibili.
Sebbene le autorità abbiano subito provveduto a spostare l'impianto, non fu cosa facile riuscire a mettere la museruola ai 12 mila cyber-manifestanti che infervoravano Weibo.

Il caso della Croce Rossa Cinese imbarazza Pechino
Era l'inizio di luglio quando sul Twitter cinese Guo Meimei, una stravagante ventenne, cominciò ad ostentare le proprie ricchezze  pubblicando foto di macchine sportive e identificandosi come “General Commercial Manager della Croce Rossa cinese (RCSC)”. Quest'ultima, un'organizzazione non-governativa approvata da Pechino, risulta completamente slegata dalla Croce Rossa internazionale ed è pertanto in grado di operare senza dover rispondere a particolari criteri di trasparenza.
Aizzata dai sospetti per un nuovo caso di corruzione, la rete scavò a fondo per verificare l'identità della ragazza che si scoprì essere l'amante di un membro della compagnia partner della RCSC,la Boai Asset Management Ltd.
La storia ha finito per gettare nuove ombre sulla ONG cinese, in passato già al centro di alcuni scandali finanziari e guardata con sospetto per l'opacità con la quale gestisce le donazioni (la Croce Rossa cinese è la prima destinataria dei fondi per la popolazione in caso di tragedie e disatri naturali).
Pechino, che di fatto non era coinvolto direttamente nella faccenda, ha dovuto affrontare grandi difficoltà per tenere sotto controllo la situazione. Il “papy” di Guo, dopo aver ammesso la sua relazione adulterina con la giovane, è stato costretto alle dimissioni, ma la reputazione della RCSC ne è uscita irreparabilmente danneggiata. “La Croce Rossa cinese non è una ONG, è stata fondata dal governo e da esso riceve finanziamenti” dichiarò al tempo Wang Ming, direttore del centro ricerche ONG dell'università Tsinghua.

La parola alla stampa 
La settimana scorsa il Beijing Daily, megafono del partito locale della capitale cinese, si è scagliato contro il concetto di “libertà di parola” pubblicando un editoriale dai toni accesi. Principali destinatari dell'invettiva “alcuni giornali e riviste commerciali”colpevoli di calcare la mano sui problemi politico-  sociali più caldi del momento. In particolare il quotidiano di Pechino si è focalizzato sui recenti scandali alimentari, sulla scarsa qualità dei prodotti nazionali e sulla corruzione dei funzionari locali; questioni, queste, riprese dai media in maniera erronea con lo scopo di confezionare notizie in grado di suscitare inutili allarmismi.

La risposta dei colleghi è giunta a stretto giro di posta innescando un dibattito tra gli addetti ai lavori. Tra i primi a replicare è stato il Xinhua Daily Telegraph -testata che fa capo all'agenzia di stampa statale- uscito a sua volta con un editoriale a tema dal titolo “Expert Opinion Helps Calm Food Panic”.“Affrontare i problemi è un primo passo per tentare di risolverli e il lavoro che fanno gli organi d'informazione, riportando le notizie sulla sicurezza alimentare, è un modo per informare l'opinione pubblica e permettere alla società di monitorare ciò che accade nel Paese. E' una cosa che va incoraggiata”. D'altra parte afferma, Ma Changjun, redattore del Southern Metropolis Daily -una delle roccaforti del giornalismo investigativo cinese- qualora anche queste notizie non fossero diffuse attraverso l'infosfera non per questo i fatti cesserebbero di esistere. Certo non sono una creazione dei media, anzi -aggiunge Ma- sono troppo pochi i giornali disposti a riportare informazioni negative. Le malefatte dei quadri del Partito, l'appropriazione indebita di fondi pubblici da parte delle loro mogli, il giro di tangenti che si nasconde dietro i progetti edilizi, sono questioni che non occorre vengano inventate e che i media portano alla luce del sole soltanto in seguito all'avvio di indagini ufficiali.

“Le malattie epidemiche non si diffondono certo perchè le hanno diagnosticate i medici; si diffondono perchè è nella loro natura.”E' compito degli organi mediatici scendere nei dettagli così da scuotere i lettori, da risvegliare la coscenza dei cittadini. “Sono sicuro che in questo modo -prosegue l'editorialista del quotidiano di Canton- verrà incoraggiata la partecipazione del pubblico alla costruzione di una società migliore.”

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