Considerando che la produzione di un miliardo di scatole di cartone richiede l’abbattimento di quasi due milioni di alberi, l’unico modo per attutire gli effetti dannosi di tale circolo vizioso consiste nel riutilizzare o riciclare le montagne di scarti, almeno quando possibile (le scatole che presentano sulla superficie dello scotch non possono essere riciclate e il nastro da imballaggio contiene materiali plastici che impiegano fino a 100 anni per essere completamente rimossi). I dati tuttavia dimostrano che in Cina il più delle volte i pacchi, una volta scartati, finiscono direttamente nella spazzatura.
Secondo Greenpeace, nel gigante asiatico soltanto il 20 per cento degli imballaggi viene recuperato, contro il 60 per cento rilevato negli Stati Uniti dalla Environmental Protection Agency. La gravità del problema è direttamente proporzionale alle dimensioni del Paese. Dal 2013 la Cina è il primo mercato dell’e-commerce a livello globale. Nel 2014, la Repubblica popolare ha contato per il 34 per cento delle vendite al dettaglio online, con un totale di 14 miliardi di pacchi spediti entro la Grande Muraglia, un 52 per cento in più su base annua. Secondo Greenpeace, il Singles Day – che ormai macina numeri superiori al Black Friday e al Cyber Monday – non fa che incoraggiare le persone «a comprare in maniera irrazionale», a discapito della salute ambientale.
Ritorna il dilemma tra sviluppo economico e rispetto dell’ecosistema, vero cruccio della leadership di Xi Jinping intenta a rivedere quel paradigma di crescita che in trent’anni ha permesso alla Cina di diventare la seconda economia globale in cambio di costi ambientali altissimi. Apparentemente l’e-commerce appaga i requisiti avanzati dal «nuovo normale», il compromesso con cui Pechino si appresta a tollerare una crescita più contenuta a fronte di una maggiore sostenibilità: fa aumentare la domanda interna, rilancia i consumi e crea posti di lavoro. Non sembra, tuttavia, risolvere il problema inquinamento, né va considerato un’alternativa ecofriendly allo shopping tradizionale. Anzi, secondo una ricerca apparsa sull’International Journal of Physical Distribution & Logistics Management svolta su 77 paesi nel periodo 2000-2013, mentre le emissioni di anidride carbonica causate dalle vendite internet nei paesi sviluppati presentano un trend decrescente, nei Paesi emergenti continuano a lievitare.
Da alcuni anni il mondo della ricerca sta tentando di calcolare i pro e i contro degli acquisti in rete, giungendo a conclusioni spesso contrastanti. Se infatti il libro bianco pubblicato lo scorso marzo da Simon Property Group, leader americano del real estate, spezza una lancia in favore del classico shopping buste alla mano, appena tre anni fa un rapporto del MIT Center for Transportation & Logistics sosteneva che le emissioni prodotte dai cybernauti sono quasi due volte inferiori rispetto a quelle attribuibili agli shopper tradizionali. Uno scarto dovuto sopratutto all’ottimizzazione dei processi di consegna da parte di spedizionieri e operatori logistici. Per intenderci, in genere l’acquisto dalla tastiera di un computer o di uno smartphone implica meno spostamenti fisici, veri catalizzatori delle emissioni.
Mentre il dibattito è ancora aperto, paradossalmente c’è chi riscontra un vincolo di causa-effetto «al contrario” tra l’entusiasmo per l’e-commerce e il problema inquinamento, che affligge il paese asiatico con costi pari al 60 per cento del Pil nazionale, ovvero 720 miliardi di dollari nel solo 2016. Secondo uno studio condotto dall’Università della Georgia, è proprio durante le giornate in cui la cappa di smog avvolge le metropoli dell’ex Celeste Impero che i cinesi, costretti a rimanere barricati tra le mura di casa, si danno alle spese pazze semplicemente con un clic.
(Pubblicato su Il Fatto quotidiano/China Files)
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