Tutto è cominciato quando lo scorso 12 ottobre Yau Wai-ching, 25, e Baggio Leung, 30, hanno alterato la formulazione standard necessaria a formalizzare il loro insediamento nell'organo legislativo - dopo la vittoria alle elezioni di settembre insieme ad altri quattro localisti, definendo Hong Kong «Nazione» e storpiando la pronuncia di Cina in «Chee-na» in modo da rievocare il termine offensivo «Shina» coniato dagli invasori giapponesi negli anni '30. Da allora i due sono stati banditi dalla Camera, nell'attesa che giovedì una revisione giudiziaria dell'Alta Corte di Hong Kong decida se dar loro una seconda possibilità. Una misura a cui Leung e Yau hanno risposto tentando per due settimane di seguito di interrompere i lavori del LegCo, facendo irruzione nell'aula spalleggiati da alcuni nomi noti del fronte democratico, tra cui Nathan Law (il più giovane parlamentare mai eletto), Eddie Chu e lo storico attivista Leung Kwok-hung (meglio noto come «Long Hair»).
Durante l'incursione di mercoledì sei agenti della sicurezza sono rimasti feriti mentre cercavano di sbarrare l'ingresso della Camera. «Si tratta di un assalto violento premeditato ed è per questo che in futuro lasceremo che se ne occupi la polizia», ha commentato il presidente del Consiglio Legislativo, Andrew Leung Kwan-yuen, sottolineando le difficoltà incontrate dalle guardie giurate nell'assicurare il mantenimento dell'ordine.
Tranquilla invece la situazione fuori dal Legislative Council Complex, dove il 26 ottobre oltre 10mila manifestanti filocinesi si erano riuniti per protestare contro l'inclusione nell'organo legislativo dei due giovani ribelli. «No all'indipendenza di Hong Kong», «Via i legislatori indipendentisti» e «Hong Kong appartiene alla Cina» quanto richiesto dai dimostranti, mentre un editoriale pubblicato dal tabloid Global Times ha invitato a squalificare i parlamentari favorevoli a una scissione dell'ex colonia britannica dalla mainland. Letteralmente: chiunque metterà in discussione l'autorità di Pechino su Hong Kong «pagherà un prezzo molto alto».
Stando ad alcune fonti del governo locale, la querelle sul giuramento avrebbe persino trovato spazio nel corso del Sesto Plenum del Comitato Centrale del Partito, andato in scena la scorsa settimana. In barba all'ordine del giorno - che ha avuto come tema centrale la disciplina interna alla leadership comunista - la dirigenza cinese avrebbe espresso la propria indignazione per quanto in corso nel Consiglio Legislativo, auspicando «azioni efficaci» per scongiurare l'indipendenza di Hong Kong e la violazione del motto «un paese due sistemi».
Proprio alla vigilia dell'ultimo «colpo di mano» inscenato dalle nuove forze politiche, diverse voci hanno avvalorato l'ipotesi di una risoluzione dell'impasse attraverso il coinvolgimento del regime cinese. Nella giornata di martedì il leader locale Leung Chun-ying - proteso verso un secondo mandato quinquennale alle elezioni del prossimo anno - ha lasciato intendere che la situazione potrebbe richiedere l'intervento di Pechino. Secondo fonti del South China Morning Post, proprio mercoledì sulla terraferma, l'Assemblea Nazionale del Popolo (il parlamento cinese che si riunisce con cadenza bimestrale) avrebbe aggiunto alla sua agenda l'ipotesi inattesa di una reinterpretazione della Basic Law, la minicostituzione di stampo britannico che regola la regione amministrativa speciale. Un diritto di cui il Comitato permanente dell'Anp si può effettivamente avvalere in virtù dell'Articolo 158, ma che in passato ha già creato un certo scompiglio tra gli addetti ai lavori in altre quattro circostanze.
In questo caso, peraltro, l'organo legislativo cinese si troverebbe per la prima volta a esprimere il proprio giudizio su una questione ancora in attesa di passare il vaglio delle autorità hongkonghesi. Il portale Bastille Post ritiene che «una reintepretazione definirebbe in maniera più specifica in quali situazioni un giuramento può essere respinto», in modo da proteggere la sovranità cinese sulla regione amministrativa autonoma. Ma, secondo gli esperti, è un'eventualità che implicherebbe un'ingerenza diametralmente contraria all'autonomia giudiziaria assicurata (sulla carta) dallo slogan «un paese due sistemi» almeno fino al 2047, ovvero a 50 anni dal ritorno dell'ex colonia britannica alla Cina.
È proprio questa autonomia che fino a oggi ha reso il Porto Profumato la meta privilegiata delle multinazionali interessate al mercato asiatico. Insomma, la posta in gioco non ha soltanto valenza politica, ma anche economica.
(Pubblicato su China Files)
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