mercoledì 21 giugno 2017

Cina, gli investimenti high tech allarmano la Silicon Valley


Gli investimenti cinesi nell’intelligenza artificiale (AI) e l’apprendimento automatico (machine learning) stanno attirando talenti nella Silicon Valley, rafforzando le preoccupazioni di Washington per la fuga di cervelli e lo spionaggio aziendale. Secondo fonti della Reuters, il governo americano vuole rafforzare le competenze del Committee on Foreign Investment in the United States (CFIUS), un comitato inter-agenzia del governo federale degli Stati Uniti d’America incaricato di analizzare le implicazioni per la sicurezza nazionale degli investimenti stranieri negli Stati Uniti. Quelli cinesi, d’altronde, sono sempre di più: nel 2016 sono stati la prima destinazione degli investimenti diretti esteri cinesi per un totale di 45,6 miliardi di dollari, mentre 22 miliardi è quanto iniettato soltanto tra gennaio e maggio, ovvero un 100% in più su base annua. Molti sono finiti nello sviluppo di tecnologie sensibili, mettendo sul chi va là le autorità americane.

Stando a un rapporto del Pentagono, visionato dall’agenzia di stampa britannica, sinora Pechino è stata in grado di dribblare i controlli del CFIUS lanciandosi in transazioni che non richiedono ancora alcuna revisione da parte dell’agenzia: joint venture, acquisizione di quote di minoranza e investimenti di avvio nelle start up. Senza mezzi termini, un funzionario dell’amministrazione Trump ha dichiarato ai microfoni della Reuters che “stiamo esaminando il CFIUS per valutare la salute e la sicurezza a lungo termine dell’economia statunitense, date le pratiche predatorie della Cina”.

Mentre il CFIUS si avvale della collaborazione trasversale tra il Dipartimento del Tesoro e i vari “ministeri” della Difesa, del Commercio, della Giustizia e della Sicurezza interna, il segretario alla Difesa Jim Mattis non ha mancato recentemente di richiamare l’attenzione del Senato sulle sue limitazioni, definendolo un comitato “obsoleto”. Sotto il governo Obama, il CFIUS è riuscito a bloccare con successo l’acquisto cinese di alcuni produttori americani ed europei di chip high-end, come nel controverso caso della tedesca Aixtron. Ma il futuro è quanto mai incerto.

Alla Casa Bianca aleggia il timore che le tecnologie all’avanguardia sviluppate negli Stati Uniti finiscano per essere utilizzate dal gigante asiatico per rafforzare le proprie capacità militari, permettendole addirittura un sorpasso cinese in termini di hard e soft power. E’ per questo che il senatore repubblicano John Cornyn si sta occupando della stesura di una nuova legislazione mirata a rafforzare il potere decisionale della CFIUS sugli investimenti tecnologici provenienti da paesi ritenuti una “minaccia” per la sicurezza nazionale. Non vi sarà invece alcuna lista precisa delle operazioni da sottoporre a scrutinio. Piuttosto verrà fornito un meccanismo attraverso cui il Pentagono guiderà i lavori di identificazione delle attività da bloccare, con l’ausilio dei Dipartimenti del Commercio e dell’Energia. “L’intelligenza artificiale è una delle tante tecnologie all’avanguardia che la Cina sta cercando e che ha potenziali applicazioni militari“, ha dichiarato, mantenendo l’anonimato, un assistente di Cornyn. Stando alle stime di CG Insight, dal 2012 a oggi sarebbero almeno 29 gli investitori cinesi coinvolti in progetti di AI sull’altra sponda del Pacifico.

Ad accrescere le preoccupazioni di Washington è la rapidità dell’avanzata cinese. Mentre Trump sta tagliando i fondi alla ricerca, la Cina è nel pieno della sua fioritura tecnologica (promossa da Pechino a volano della nuova crescita “medio-alta”) e del suo shopping oltreoceano, spesso puntellato dallo Stato. All’inizio dell’anno la National Development and Reform Commission ha siglato una joint venture con il colosso locale Baidu (il Google “in salsa di soia”) per aprire un laboratorio dedicato all’intelligenza artificiale, definito eloquentemente dal New York Times “public-private”.

Non è un mistero che Pechino faccia grande affidamento sul trasferimento di tecnologia per compiere la propria rivoluzione industriale. Oltre alle acquisizioni, sono centinaia di migliaia gli studenti che dalla Cina vanno a studiare nei rinomati atenei statunitensi, salvo poi rimpatriare dopo la laurea con il sogno nel cassetto di avviare un’attività in proprio. Non a caso tra le proposte citate nel rapporto del Pentagono compare anche la richiesta di una revisione delle politiche sull’immigrazione in modo da consentire ai neolaureati cinesi di rimane negli States anche una volta ottenuto il diploma.

In tipico stile pechinese, il portavoce del ministero degli Esteri ha riposto alle accuse auspicando un trattamento imparziale dei capitali in arrivo da oltre Muraglia. La politica è la politica, il business è il business, ha dichiarato Lu Kang.

La stretta sull’attivismo cinese giunge in concomitanza con i recenti sforzi messi in campo da Washington per utilizzare l’intelligenza artificiale e l’apprendimento automatico nella lotta contro l’Isis. Maven è il nome del progetto con cui il Pentagono sta cercando di sviluppare l’applicazione di intelligenza artificiale e apprendimento automatico nella gestione dei droni da combattimento. È un programma per cui nel 2018 saranno stanziati 30 milioni di dollari e consiste nel sostituire il controllo umano dei droni, attraverso dei monitor, con degli algoritmi in grado di segnalare possibili obiettivi da colpire.

Per parte sua, Pechino detiene già il primato nella produzione di velivoli commerciali, di consumo – la Da-Jiang Innovation di Shenzhen conta addirittura per il 70 per cento del mercato mondiale – e si sta rapidamente facendo strada nella fabbricazione di droni “killer”, come dimostra il recente accordo per la costruzione di un impianto in Arabia Saudita, il primo in Medio Oriente. Insomma, a Washington cominciano a sentire il fiato sul collo.

(Scritto per Il Fatto quotidiano online)

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