sabato 10 ottobre 2015

Meet Rebiya Kadeer


(9 ottobre - sede del Partito Radicale)

Due lunghe trecce argentee ai lati del viso ovale, lievemente schiacciato, sormontato da un cappellino quadrato come i molti visti fino alla nausea nei bazar dell'Asia Centrale. Rebiya Kadeer, la leader del popolo uiguro, ha un corpo minuto e movenze aggraziate. Avanza a piccoli passi nel suo vestito azzurro regalando sorrisi di una dolcezza spiazzante. Una delicatezza che raramente traspare dagli scatti reperibili in rete, e aggiunge luci e ombre ad una delle figure più controverse della lunga lista di detrattori di Pechino.

Per qualcuno Rebiya muove i fili delle forze separatiste del Turkestan Orientale (che Pechino ha ribattezzato Xinjiang nel XIX secolo), alimentate dal processo di sinizzazione della regione portato avanti dal gruppo maggioritario han, e sempre più amalgamate al brodo primordiale dei gruppi terroristici centroasiatici.

"Perché uiguri e han possano vivere insieme ci vuole uguaglianza e giustizia. E' dovere dello Stato incoraggiare l'amicizia tra i popoli". Il sorriso si deforma in uno sguardo corrucciato. La voce è severa, a tratti roca: "il popolo uiguro vive sotto costante minaccia; è come ai tempi della Rivoluzione Culturale. Le nostre richieste di pace incontrano la resistenza della forza bruta e questa situazione ha accresciuto il rancore in una parte della popolazione. La radicalizzazione degli uiguri è frutto di una politica pianificata da Pechino, invisa anche a molti han. La parola terrorismo viene usata dalle autorità come pretesto [per denunciare atti dimostrativi contro l'etnia maggioritaria]."

Non c'è spazio per il dialogo in un'intervista che degenera in un monologo imbevuto di retorica anticinese; un copione già letto, costruito su una serie di falsità ricorrenti, come la presunta imposizione di un'istruzione monolingue nelle scuole dello Xinjiang. La Kadeer, in visita a Roma per la Marcia per la Libertà delle Minoranze e dei Popoli Oppressi, avrebbe potuto sfruttare l'occasione per veicolare un messaggio propositivo, di incoraggiamento alla stabilità di uno Xinjiang pacifico e multietnico. Invece ha optato per la denuncia fine a sé stessa, sterile e incostruttiva. Peccato!

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